Dopo aver gettato le basi del suo universo negli anni ’60, la Marvel esplorò nel decennio successivo nuovi territori, affidando le proprie testate ad autori che facevano della creatività e dell’innovazione i loro punti di forza. E’ stato probabilmente Jim Steranko alla fine dei ’60 a mostrare cosa si potesse fare con un fumetto di “supereroi” o simili, raccontando le avventure della superspia Nick Fury sospesa in una realtà incredibilmente sexy, fatta di film di James Bond, pop-art e sfondi optical. Da quel momento l’universo Marvel non è stato più lo stesso e ha cominciato a descrivere foreste dai colori irreali, trip cosmici, santuari buddisti, fughe on the road, paperi fuori di testa. Serie come Jungle Action di McGregor, Captain Marvel e Warlock di Jim Starlin, Shang-Chi del duo Moench-Gulacy, Howard The Duck di Steve Gerber hanno fatto la storia dei comics e oggi sono fonte di ispirazione più per fumettisti di provenienza indie che per i nuovi scrittori di casa Marvel. Per questo ho deciso di occuparmi di tanto in tanto di questo materiale, ampliando il mio usuale raggio d’azione. La mia opinione è che in certi fumetti di 40 o più anni fa si trovino elementi molto più rivoluzionari di quelli che si vedono oggi in tanti prodotti apparentemente alternativi ma in realtà pieni di stereotipi e manierismi. Quindi non storcete il naso se leggete su un sito che si chiama “Just Indie Comics” recensioni di fumetti Marvel d’annata. Anche perché il pallone è mio e decido io.
Dopo questa doverosa premessa, veniamo dunque al volume Pantera Nera (352 pagg. a colori, 29.90 euro) uscito di recente per Panini Comics e che ristampa le storie scritte da Don McGregor per la serie Jungle Action, dal numero 6 (settembre 1973) fino al 24 (novembre 1976), con disegni prima di Rich Buckler e poi di Billy Graham, con una breve parentesi a firma Gil Kane. Piatto forte del volume è la maxi-saga Panther’s Rage (La rabbia della pantera), 13 episodi in cui McGregor rompe più di un tabù dei fumetti Marvel dell’epoca. Come racconta Sean Howe in Marvel Comics – The Untold Story (in Italia sempre per Panini con il titolo Marvel Comics – Una storia di eroi e supereroi), in quel periodo parecchi scrittori erano anche correttori di bozze. Lo stesso McGregor era entrato alla Marvel come redattore e poteva avvalersi di un tacito accordo con altri colleghi: tu non tocchi le mie storie, io non tocco le tue. In più Jungle Action era un titolo poco considerato, che prima dell’avvento di McGregor ristampava brevi storie degli anni ’50 ambientate nella giungla e anche piuttosto razziste. Ecco dunque che prendendone le redini, il nuovo scrittore poteva farne più o meno ciò che voleva. E ciò significava ambientare tutta l’azione nello stato africano ma tecnologicamente avanzato del Wakanda, scrivere interminabili didascalie in cui non mancavano contenuti politici, avvalersi di un cast di soli neri (ad eccezione di Venomm, uno dei nemici con cui se la deve vedere il protagonista), creare una velata gay story interraziale, raccontare la crisi del suo matrimonio attraverso i problemi familiari di W’Kabi – uno dei consiglieri del re – e la moglie Chandra.
La serie si presenta rivoluzionaria sin dall’incipit, in cui il re/eroe è messo duramente in discussione dai suoi sudditi, che lo accusano di averli abbandonati per trasferirsi a New York e unirsi ai Vendicatori. Anche la donna che T’Challa porta con sé come sua compagna, la cantante Monica Lynne, è osteggiata dagli abitanti del Wakanda come esponente di una cultura diversa e nemica. Le matite dinamiche di Rich Buckler, impreziosite dal sempre efficace lavoro di Klaus Janson alle chine, portano subito Pantera Nera al centro dell’azione, impegnato a combattere Killmonger, l’arcinemico che costituirà la nemesi del protagonista per tutti e tredici gli episodi della saga. Ma prima dello scontro definitivo con lo stesso Killmonger, T’Challa dovrà vedersela con i suoi tirapiedi, oltre che con una natura selvaggia e ribelle che gli causerà più di un problema. E per fare questo, non potrà contare sull’aiuto di altri eroi, ma soltanto su quello dei suoi sudditi e compagni, neri e africani come lui.
Nonostante le pressioni di alcuni influenti membri del Marvel Bullpen, McGregor si rifiutò infatti di coinvolgere altri personaggi dell’universo Marvel. “In sostanza – scrive l’autore nella lunga postfazione al volume – volendo ambientare le storie nel Wakanda, tutti i personaggi principali avrebbero dovuto essere wakandiani. E questo significava che tutti i personaggi, tranne uno, sarebbero stati neri. Fu una decisione sofferta, durante la stesura di La rabbia della pantera. Un cast interamente nero in un fumetto di un’importante società, proprio in quel periodo? Impossibile. Credetemi: nessuno, nelle sacre sale della redazione, approvava quell’approccio. Anzi, non ricordo nemmeno una parola di incoraggiamento da parte della redazione durante tutto il ciclo. (…) Numero dopo numero, la redazione voleva sapere dove fossero i bianchi in quelle storie. Mi chiedevano sempre: “Dove sono i bianchi?”. E la mia risposta era: “Questa è una nazione africana segreta e tecnologicamente avanzata. Cosa c’entrano i bianchi?”. Volevano dei Vendicatori. Volevano che i bianchi aiutassero i neri. Di sicuro pensavano che, con degli ospiti d’onore bianchi, le vendite sarebbero schizzate in alto. Non so se fosse vero o meno. Forse sì. Forse no. Ma il punto è che stavamo facendo qualcosa senza precedenti nei fumetti e quelle testate tiravano avanti anziché chiudere come era stato previsto. E forse, soltanto forse, a qualcuno, da qualche parte, stavamo dando qualcosa in più. Avevo la sensazione che quello che facevamo fosse importante. Era una mia decisione. Non volevo che l’eroe nero dovesse affidarsi agli eroi bianchi per salvarsi. Restai saldo sulla mia posizione allora, e lo resto tuttora”.
Al di là dell’assenza di altri eroi Marvel e del cast “all black”, la struttura di queste storie risulta fortemente innovativa. Più che ricalcare le impostazioni dei fumetti dell’epoca, McGregor inscena un viaggio catartico della Pantera Nera nel Wakanda e dentro se stesso, che ricorda non tanto i fumetti di supereroi quanto le più classiche saghe fantasy. Al tempo stesso, con il susseguirsi di pittoreschi nemici con cui il protagonista deve confrontarsi prima di arrivare alla resa dei conti finale con Killmonger, McGregor anticipa i meccanismi dei giochi di ruolo e dei videogame, linguaggi incorporati vent’anni più tardi dal fumetto statunitense grazie alla scuola underground di Fort Thunder. Episodio dopo episodio T’Challa si trova di fronte il viscido Venomm, la sensuale Malice, lo scheletrico Barone Macabro, il mostruoso Re Cadavere (“E’ una vista spaventosa, un ammasso di carne rigonfio, un volto osceno, con ghiandole simili a sacche!”), il minaccioso Lord Karnaj, l’ultraterreno Sombre, il deforme Salamander K’Ruel, oltre a una vasta schiera di lupi, gorilla bianchi, coccodrilli, dinosauri, pterodattili. Superate queste prove potrà finalmente regolare i conti con Killmonger, colui che vuole spodestarlo dal trono per instaurare un regime del terrore su tutto il Wakanda. Ci si aspetterebbe una gloriosa vittoria del protagonista, una distruzione totale del nemico, ma nelle ultime pagine della saga la Pantera è messo a dura prova e sembra sul punto di soccombere. Sarà un bambino, il piccolo Kantu, a salvarlo dalla morte e a sancire la fine di Killmonger, determinando in questo modo il trionfo di tutta una nazione e non dell’unico “superuomo”. La rabbia della pantera è la storia di un uomo alla ricerca di se stesso e delle prove che deve superare per ritrovare la sua identità pubblica e privata, ma senza tutto il cast di comprimari, senza i suoi sudditi, Re T’Challa non sarebbe niente.
La prosa di McGregor è densa di raffinati aggettivi, dettagliate descrizioni, momenti poetici. Prendiamo ad esempio And All Our Past Decades Have Seen Revolutions! (Tutti i decenni del passato hanno conosciuto rivoluzioni!), disegnato da Billy Graham. Le prime cinque pagine sono tutte dedicate all’idillio tra T’Challa e Monica. L’eroe è tornato a pezzi da un viaggio al centro del Wakanda, in cui ha dovuto affrontare nemici e prove di ogni tipo. Ora si può concedere un momento di relax insieme all’amata Monica. Lei è in un costume color giallo, lui nella divisa nera d’ordinanza. Nella prima pagina il titolo scolpito sui monti del Wakanda va a cadere in acqua, mentre i due cavalcano tartarughe marine. In alto un sole rosso infuocato, in basso il mare blu e poi verde smeraldo. “Certi amanti abbisognano di rivoluzioni! Certi amanti forgiano il proprio impegno reciproco con lo stesso fervore compulsivo che mettono nel raggiungimento dei propri obiettivi. I cori e gli slogan sono le loro canzoni d’amore. La Pantera Nera e Monica Lynne sentono l’acqua calda chiudersi sopra le loro teste, mentre le maestose tartarughe scendono in profondità, ignare della presenza di quei bizzarri cavalieri. La corrente vortica in allettanti tesori turchesi dalle striature scarlatte. E’ una scena da cartolina, di idilliaca purezza, combinata alla realizzazione di fantasie romantiche”. A pag. 2 Graham realizza una tavola unica che raffigura i due protagonisti tornare in superficie trainati dalle tartarughe marine, mentre bolle d’acqua mostrano i particolari dei loro corpi e dei loro volti. Usciti dall’acqua, a pag. 3, T’Challa e Monica iniziano a parlare, seduti su uno scoglio, mentre si asciugano al sole. E’ il prologo del bacio che occupa le pagg. 4 e 5, su uno sfondo bianco in cui sono mostrate prima le silhouette dei due, poi in alternanza i particolari dei loro volti e una natura sconosciuta all’uomo occidentale. “Il Wakanda diventa uno sfondo palpabile – scrive McGregor – una tela che segna il percorso di un sole color rame, una mappa per uno zaffiro di mezzogiorno che flirta con gli alberi. Si tengono per mano, come a confermare l’esistenza concreta dell’altro”. Seguono pulsioni sessuali neanche troppo nascoste, corpi umidi, desiderio.
Graficamente la coppia Buckler-Janson unisce a una grande resa delle scene d’azione e delle anatomie dei personaggi soluzioni grafiche di grande impatto, come il titolo a doppia pagina dell’episodio Malice by Crimson Moonlight (Crudeltà sotto una luna cremisi), ispirato chiaramente alle trovate di Steranko su Nick Fury (e ovviamente anche ai titoli dello Spirit di Will Eisner). Ma anche Billy Graham è autore di pagine mai banali, dal tratteggio più sporco ma spesso costruite su layout fantasiosi e di grande impatto visivo, che raggiungono il culmine in Of Shadows and Rages (Ombre e furie). Sui colori il lavoro di Glynis Wein è eccezionale, perché riesce sia a rappresentare le meraviglie selvagge del Wakanda che a creare delle atmosfere irreali, spesso con l’uso di toni sul rosso/rosa/cremisi che costituiscono il contraltare del verde di alberi e foreste. Un plauso anche alla Marvel che ristampando queste storie in volume non ha manipolato i colori con effetti che ne avrebbero fatto perdere il fascino retrò.
Non ho ancora parlato della seconda storyline inclusa nel volume, in cui la Pantera se la deve vedere direttamente con il Ku Klux Klan, finendo addirittura crocifisso. Ambientata in Virginia, La Pantera contro il Klan vede T’Challa tornare negli Stati Uniti per indagare sulla morte della sorella di Monica, il cui apparente suicidio nasconde in realtà un legame con lo stesso Klan e con un’altra misteriosa setta di incappucciati, il Cerchio del Drago. Gli scenari naturali del Wakanda lasciano spazio a un’ambientazione urbana ma comunque lontana dalla Manhattan degli altri supereroi Marvel. Ora Pantera Nera non deve più affrontare esseri mutanti e deformi da cartoon ma le vere minacce dell’America del tempo. Come sottolinea Grant Morrison nel suo per molti versi discutibile Supergods, il realismo di questa nuova saga raggiunge il suo culmine nella scena del supermarket di Jungle Action 20 (intitolato They Told Me a Myth I Wanted to Believe), nella quale Pantera Nera viene ferito alla testa con una scatoletta di cibo per gatti da una vecchietta bianca. “Era una sequenza impressionante – scrive Morrison – dopo anni trascorsi ad assistere a scontri tra pianeti, il realistico e terribile taglio di cinque centimetri sul cranio di Pantera aveva un impatto così viscerale che i fragorosi e fin troppo familiari pugni spaccamontagne di Kirby non potevano più reggere il confronto”.
McGregor non ebbe però la possibilità di andare oltre il quinto episodio di La Pantera contro il Klan, lasciando la storia incompiuta. Jungle Action fu infatti cancellato per lasciare spazio a una nuova testata di Pantera Nera realizzata da Jack Kirby e in cui veniva spazzato via tutto il lavoro di McGregor sul personaggio. Poco incline a scendere a compromessi e tormentato dai tanti problemi personali (in primis la crisi del suo matrimonio), lo scrittore non ebbe la possibilità di opporsi a questa decisione, motivata sia dalle scarse vendite che dalle pieghe che stavano prendendo le storie: alla Marvel non vedevano di buon occhio l’introduzione del Ku Klux Klan in un loro fumetto, che andava a toccare temi considerati delicati e inopportuni. A poco servirono i disperati appelli alla libertà di espressione del giornalista Kevin Trublood, personaggio introdotto proprio in queste pagine come alter ego dello stesso McGregor: Jungle Action chiuse con il numero 24 del novembre 1976. Più di dieci anni dopo, McGregor tornò a lavorare sul personaggio per altre due saghe, Panther’s Quest e Panther’s Prey, in cui poté sviluppare con maggiore libertà alcune delle idee che era stato costretto a mettere da parte in precedenza. Ma questa, appunto, è un’altra storia.