Misunderstanding Comics #9

Iniziamo questa nuova puntata dell’usuale ma aperiodica rubrica di segnalazioni varie con Steam Clean, un volumetto brossurato di 84 pagine a firma Laura Ķeniņš, cartoonist metà lettone e metà canadese di cui avevo già segnalato l’ottimo mini-kuš! #42 Alien Beings. Con questa nuova uscita, stavolta targata Retrofit Comics, la Ķeniņš conferma quanto di buono fatto vedere in precedenza, trasformando una situazione apparentemente ordinaria come una sauna tra donne in una meditazione sull’identità di genere, la sessualità, i rapporti interpersonali, il conflitto tra tradizione e modernità.

La rappresentazione tutta colori pastello dell’ambiente nordico e la regolarità quasi schematica delle vignette restituiscono un’atmosfera rilassata, in cui sembra di percepire con le nostre orecchie il silenzio di sottofondo. E neanche i dialoghi fitti rompono questa sensazione di pace, inalterata persino quando si esplicitano tensioni nascoste ed emerge un’aura di sovrannaturale mistero, con un’apparizione divina e spiriti dai contorni naif che aleggiano tra i fumi del vapore. La Ķeniņš propone ancora una volta un cartooning consapevole, rigoroso e maturo, capace come pochi di raccontare personaggi in una fase di transizione. E anche di farci sentire lassù, in quella sauna tra i boschi.

Se il volumetto della Ķeniņš sembra ricordare i film del norvegese Bent Hamer, il secondo numero dell’antologia-libro Mirror Mirror edita da 2d Cloud guarda a tutt’altro immaginario cinematografico, come la presenza di alcuni contributi a firma Clive Barker lascia intuire. Sotto la cura congiunta di Sean T. Collins e Julia Gfrorer, il volume mette in fila 230 pagine di fumetti e illustrazioni incentrate su un’idea di orrore legata al quotidiano, al corpo e infine alla pornografia. Eccellenti premesse dunque anche se l’antologia è appunto… un’antologia, con i suoi alti e i suoi bassi, e una buona metà dei lavori che risultano piuttosto ordinari, per niente disturbanti né trasgressivi come lascerebbe intendere il progetto, nel complesso troppo pretenzioso rispetto a quanto proposto. Nonostante ciò, di cose buone qui dentro ce ne sono eccome, per esempio il solito subdolo horror delle meschinità umane a firma Josh Simmons – particolarmente a suo agio con i campi lunghi, quasi a sottolineare anche graficamente l’abituale distanza emotiva – oppure Black Flame, un racconto in cui ritroviamo la Megg di Simon Hanselmann alle prese con il suo “lato oscuro” e che è l’occasione per vedere l’autore australiano confrontarsi al tempo stesso con testi altrui (Sean T. Collins) e con un bianco e nero massimalista fatto di pennellate ben più corpose del solito. Al Columbia (con i suoi Pim & Francie), Uno Moralez, Noel Freibert e Dame Darcy danno a loro volta un notevole contributo, pur attingendo ispirazione al loro rispettivo e usuale canone.

E veniamo a una nostra vecchia conoscenza, cioè Noah Van Sciver, che è tornato di recente al suo personaggio Fante Bukowski pubblicando per Fantagraphics il secondo capitolo delle sue avventure, séguito del debutto del 2015 tradotto in Italia da Coconino. Come lascia intendere lo pseudonimo che si è scelto, il protagonista è uno “scrittore” che vive nelle camere di hotel e usa ancora la matita o al massimo la macchina da scrivere, va con le prostitute e beve solo per darsi un tono. Fante non ha nessuna voglia di scrivere e soprattutto non ha talento: la sua missione è raggiungere lo status di artista, essere amato e invidiato dagli altri come lui invidia i “colleghi” che ce l’hanno fatta. Se la prima uscita originale ricalcava il formato romanzo tascabile, la seconda amplia i centimetri e sceglie una grafica retrò in odore di anni ’60, mutuata dall’edizione Black Sparrow Press di Factotum.

Ma soprattutto se nella prima parte si sorrideva, in questa si ride di gusto, e a me è sembrato di non divertirmi così tanto dai tempi dell’Hate di Peter Bagge, pietra miliare dei comics anni ’90 uscita sempre per Fantagraphics. Vi anticipo solo qualche gag iniziale per non rovinarvi troppo la lettura, come quella in cui Fante rompe una matita in due perché è “troppo gialla” e non riesce a concentrarsi sulla scrittura. E il capitolo in cui decide di pubblicarsi una fanzine di poesia (“Sì, sarò l’editor! Sarò il boss! Accetterò tutte le mie proposte!”) è esilarante. Il trasferimento del protagonista da Denver a Columbus sembra anche autobiografico, ma poi a un certo punto ecco spuntare l’autore in carne e ossa, vittima di una divertentissima auto-parodia, nonché rivale in amore di Fante. Sullo sfondo, e neanche troppo, si muovono riflessioni sulla scrittura, il successo, l’ambizione e la vanità che non lasciano affatto il tempo che trovano, rendendo questo Fante Bukowski Two una delle migliori prove a firma Van Sciver.

Quando viveva a Denver, Van Sciver lavorava da Kilgore Books, negozio di libri e fumetti che è anche una small press dedita alla stampa di mini-comics e non solo. Prodotto di punta è il Kilgore Quarterly, antologia tutt’altro che quadrimestrale uscita di recente con un settimo numero molto più ricco del solito, nascosto dietro a una bella copertina di Jason (rilettura di Le Mal du Pays di Magritte) e come sempre a cura del padrone di casa Dan Stafford.

Il volumetto, che propone in parte storie già pubblicate altrove o di prossima pubblicazione, si apre con Dappled Light di Summer Pierre, una storia di 5 pagine leggera e al tempo stesso malinconica, ritratto autobiografico di una bambina che grazie al fumetto può finalmente rifugiarsi, in senso letterale, nel mondo dei vecchi telefilm. Si prosegue con la solita intervista scritta a mano (vezzo di Stafford da sempre, come testimonia la raccolta I Hope This Finds You Well con interviste a Crumb, Tomine, Bagge ma anche a Ian MacKaye, Doug Martsch, Dan Fante e altri) al cover artist Jason e si raggiunge l’apice con Steve McQueen Has Vanished, storia “vera” della sparizione dell’attore raccontata con il solito dettagliatissimo stile da Tim Lane, anticipazione del prossimo lavoro dell’autore di Happy Hour in America e The Lonesome Go. Dopo una inaspettata quanto sintetica chiacchierata con Grace Slick, si passa a un più canonico ma validissimo pezzo underground di Joseph Remnant, tra sfighe quotidiane e ricerca dell’amor perduto, dunque ecco Sam Spina con quattro divertentissime pagine metanarrative che vedono il suo alter-ego pesce alle prese con app e sesso occasionale, e infine la riproposizione di un fumetto di Leslie Stein, The Desk, già uscito in formato mini per Oily Comics e forse il contributo meno significativo del lotto. La terza di copertina è dedicata a qualche nota autobiografica nel solco della più piacevole tradizione del self-publishing a stelle e strisce, a ricordarci che di antologie così curate e con un feeling do it yourself ne vorremmo ancora e ancora.