“Sono un pavido nella vita vera”: un pomeriggio con Andrea De Franco

Meglio tardi che mai, come si suol dire. Sono passati mesi dalla terza edizione del Just Indie Comics Fest ma soltanto adesso riesco a trascrivere e quindi pubblicare la lunga chiacchierata con Andrea De Franco di sabato 19 ottobre 2019, che ha accompagnato la mostra organizzata a Roma presso Studio Co-Co. Per fortuna l’intervista non è invecchiata nel frattempo, anche perché si tratta di temi universali come il rapporto tra scrittura e disegno, il lettering, l’autoproduzione, la musica, la pre-logica, i funghi allucinogeni e la caffeina. E anche le anticipazioni sul fumetto di Andrea che uscirà prossimamente per Eris Edizioni sono rimaste tali, dato che la pubblicazione prevista inizialmente nei primi mesi del 2020 è stata rimandata a settembre e potrebbe subire un ulteriore rinvio vista l’emergenza sanitaria in corso. Prima di lasciarvi alla lettura, vi segnalo che per altre informazioni sul Just Indie Comics Fest 3 potete vedere questo post, mentre se siete interessati ad approfondire il lavoro di De Franco potete dare un’occhiata al suo sito, al webshop di De Press e alla sua recente uscita da musicista sotto lo pseudonimo Fera. Le foto migliori sono di Vittorio Antonacci, che ringrazio per la collaborazione, mentre mi scuso per la qualità delle altre, scattate di fretta con un cellulare da quattro soldi.

Gabriele Di Fazio: Allora, avevo pensato di iniziare con la tua biografia ma lascio perdere perché quella che hai scritto tu per la mostra, lì dietro sul muro, è insuperabile, come il tonno… Quindi vi invito a leggere quella, che poi è un’autobiografia in realtà, visto che l’hai scritta da solo…

Andrea De Franco: No, non l’ho scritta io… L’ha scritta la matita.

GDF: Beh beh, grande umorismo… Comunque, preparando questo incontro non mi sono limitato all’inutile sforzo di ricomporre una tua biografia ma sono anche andato indietro nel tempo cercando quello che ci eravamo scritti su Facebook quando ci eravamo conosciuti, anche se in realtà ci eravamo già conosciuti di persona ma non lo sapevamo, o forse non lo sapevo io. Ho ritrovato anche la prima cosa che hai fatto e che ti sei pubblicato da solo con il marchio De Press, che si chiama Scusa, una raccolta più che altro di disegni… Che c’è, non ti fa piacere rivederla?

ADF: No no, è che ho notato che qui c’è il primissimo logo di De Press, e quindi questa è una delle prime dieci copie che avevo fatto…

GDF: Ah, quindi è rarissimo…

ADF: Sì, vale 7 euro ma è rarissimo…

GDF: E poi c’è anche la dedica che mi hai fatto, e me lo hai anche regalato oltretutto, quindi insomma, un trionfo per me… Dicevamo appunto che in realtà ci eravamo conosciuti di persona al Ratatà del 2016 quando avevi comprato da me Safe Space #1 di Alessandro Galatola e un libro di DeForge, A Body Beneath se non sbaglio. Infatti poi su questo messaggio che ci siamo scambiati su Facebook dicevi: “Anche se penso che Alessandro sia molto più bravo di me mi sento nel suo campionato, giovani irruenti amanti del Canada peggiore”.

ADF: Davvero ho scritto questa cosa?

GDF: Sì esatto, ma non ti imbarazzare dai… Comunque con “Canada peggiore” intendevi sicuramente DeForge, Jesse Jacobs, Patrick Kyle, tutte influenze che hanno a che vedere con Scusa. Io ti rispondevo, e poi rileggendo questa risposta mi sono sentito davvero uno stronzo, “Hey Andrea, ho letto e visto tutto, la roba che fai mi piace e secondo me sei sulla buona strada per sviluppare uno stile tutto tuo e personale perché se devo trovare un difetto – che poi non so che necessità avevo di trovare un difetto ma vabbè – le tue cose sono ancora un po’ derivative”. Insomma, non so se mi hai odiato all’epoca, comunque ho usato il termine “derivativo” perché questa era ancora una prima raccolta di disegni, anche se comunque sequenziali, influenzati da artisti poi citati nelle note, come Tara Booth, Jesse Jacobs, Michael DeForge, Patrick Kyle, Olivier Schrauwen, Brecht Vandenbroucke ecc. Tra l’altro nelle note ci sono tantissimi altri riferimenti, non solo di fumettisti ma anche di artisti, musicisti, ecc. Al di là di tutto ciò, adesso vorrei capire come sei arrivato a questa prima pubblicazione, e forse mi viene da pensare che c’entra qualcosa un’altra tua biografia, che ho letto da qualche parte on line, in cui si diceva che “Andrea De Franco si costringe a disegnare ogni giorno e dal 22 giugno del 2015 non ne ha saltato nemmeno uno”. Quindi ti volevo chiedere se magari quello che è successo il 22 giugno del 2015 ha a che fare con la pubblicazione di Scusa

ADF: Dunque, non mi ricordo dove ho scritto quella roba però è un po’ acerba, perché “si costringe a disegnare” è veramente brutto, a me piace disegnare ogni giorno in realtà, forse non mi piaceva allora, o forse facevo soltanto il tormentato… Il 22 giugno del 2015 ho intervistato Manuele Fior a Londra per un articolo che doveva uscire su un blog di una libreria pugliese, di proprietà del mio migliore amico, e lui mi disse delle cose alla Manuele Fior appunto, a proposito del disegno, dell’abitudine a disegnare sempre, del fatto che quello di disegnare è un esercizio come quello musicale. E la cosa mi ha fatto fare un clic, nel senso che ho pensato che magari disegnare ogni giorno potesse essere utile. Non a caso tutto quello che ho fatto fino al 2015 faceva schifo, perché io avevo tentato sin dal 2009, quando avevo vent’anni, di fare qualcosa che potesse essere assimilabile al fumetto, ma senza successo. Quello che cercavo di fare all’inizio era una roba alla Gipi, poi alla Chris Ware, comunque il graphic novel, anche se in realtà da ragazzino avevo letto soprattutto manga in fumetteria, e PK, tantissimi PK. Però mi piaceva l’idea altezzosa di fare questi fumetti con una scrittura “miao” e questi disegni belli, come appunto quelli di Fior, che per me è proprio l’esempio di uno che sa superdisegnare. Finché ho tentato di scimmiottare questo approccio ho fatto soltanto cose che sono finite nel cestino, e quando ho smesso ho fatto Scusa, perché venivo da Londra dove avevo intervistato appunto Manuele Fior che mi aveva ispirato con le sue parole. E questa cosa è successa all’Elcaf, un festival di Londra che per me è stato fondamentale. Io l’ho scoperto nel 2015 grazie a un docente dell’Isia di Urbino, Steven Guarnaccia – bravissimo, con cui ho fatto un corso di una settimana per me molto importante – che appunto ci disse di andare lì perché era un festival fico e lui ci faceva una mostra. Ma avevamo gli esami una settimana dopo e quindi io fui l’unico ad andare della mia classe – perché tanto ‘sti cazzi degli esami e della scuola – così mi ritrovai lì senza sapere niente, perché all’epoca mi piaceva Manuele Fior, mi piaceva Watchmen, mi piacevano cose un po’ generiche insomma, e invece lì beccai Michael DeForge, Brecht Vandenbroucke, Jillian Tamaki, la Breakdown Press, tutte cose che non sapevo minimamente esistessero, perché ero molto ignorante – e sono ancora ignorante su un sacco di cose – però andai lì e dissi proprio il classico “ah che bello, lo faccio anch’io”. Così tornai a casa e feci Scusa, che sarebbe in sostanza composto da tre storie molto labili e poi disegni disegni disegni, e avevo già pensato questa cosa arrogante – siccome Londra mi era piaciuta e mi sembrava che Londra fosse fica e l’Italia no – di farlo senza parole per portarlo poi a Londra, appunto. E infatti il primo festival che ho fatto è stato l’Elcaf dell’anno dopo, perché io i festival in Italia non volevo farli. Poi invece ho deciso di farli tutti, perché le cose che faccio e che dico non sono coerenti. E mi serviva un nome da mettere sotto, perché solo il nome dell’autore, il titolo e nient’altro sei un poveraccio, mentre nome autore, titolo, edizione di questo e quello, wow, hai un editore, e siccome mi chiamo Andrea De Franco fare De Press era troppo bello per essere vero – e mi sembrava assurdo che nessuno l’avesse fatto prima – così dissi “lo devo fare prima che lo faccia qualcun altro”. E così è nata De Press, in cui ho pian piano cominciato a coinvolgere degli amici, per un po’ è stato quasi un collettivo, poi ha cambiato varie forme, a breve farò un’altra trasformazione e la farò diventare un micro-editore, nel senso che sarò io De Press e basta. Cioè, sono ancora amico dei miei amici eh, però io faccio De Press e gli altri zitti, compratevi i fumetti e basta. E che altro, credo di aver detto tutto…

GDF: Sì sì, hai risposto sicuramente alla mia domanda direi… Comunque, riprendendo il discorso, dopo che in quel famoso messaggio ti dicevo delle cose derivative eccetera eccetera, aggiungevo: “però i fumetti sono fichi – usando proprio questo linguaggio dei giovani – e secondo me hai una voce originale in mezzo alla solita roba italiana”. E insomma vorrei sottolineare questo discorso, cioè che pur essendo una prima prova, derivativa eccetera eccetera, era comunque qualcosa di originale sulla scena italiana. E secondo me hai mantenuto questa originalità anche nei fumetti successivi, anzi l’hai aumentata e migliorata. Ciò che vedo soprattutto nel tuo fumetto è che lavori tantissimo sul disegno, che è fondamentale e non in senso virtuoso, ma in quanto unito strettamente alla narrazione. E questo succede sempre nelle tue cose, perché scrittura e disegno sono inscindibili nel tuo lavoro. A questo proposito avevo preparato all’inizio un’analisi cronologica delle cose che hai fatto ma poi in questi giorni ho visto quest’albetto qui, Giro intorno al sole, e mi sembra l’esempio perfetto per farti capire quello che intendo. Si tratta di un fumetto che hai disegnato il 23 settembre scorso da Modo Infoshop, c’è scritto proprio qui, dalle 20.21 alle 21.07, in 46 minuti. E in questo fumetto è molto importante l’elemento comico – come in molte altre tue cose – ma persino la comicità è legata al disegno, nel senso che la risata non arriva attraverso la scrittura mentre il disegno è soltanto funzionale a essa, ma avviene anche e soprattutto attraverso il disegno stesso. Di solito i fumetti che fanno ridere lo fanno con la scrittura, che ne so, se penso a Tom Gauld, che è uno che fa ridere – o almeno fa ridere me – mi rendo conto che rido quasi sempre per quello che c’è scritto, i disegni descrivono e basta, accompagnano. Invece tu hai questa dimensione grafica del fumetto – direi artistica, se mi passi il termine – che non abbandoni mai, nemmeno quando vuoi far ridere il lettore. Ed è una dimensione che non è mai una posa, non è mai fine a se stessa, anzi è molto spontanea, automatica, selvaggia. E a questo proposito vorrei capire quanto c’è di ricercato o no in queste situazioni, che tipo di mediazione fai – per esempio quando lavori a una cosa del genere in 46 minuti – tra quello che pensi e quello che disegni, quanto c’è di deciso prima e quanto quello che ottieni è invece realizzato attraverso un flusso di coscienza espresso attraverso il disegno.

ADF: Allora, il flusso di coscienza… Dunque, intanto tu fai sempre queste analisi, sei tipo una delle tre persone che capiscono veramente tutto sui fumetti…

GDF: Vabbè non esageriamo…

ADF: No no, ma è così… Comunque, questa dimensione calligrafica della mia opera… grafica, scusate il gioco di parole, c’è, è vero. Ho fatto anche delle cose con il lettering inserito successivamente, digitale, e lì sul banchetto c’è una cosa che ho solo scritto, DOGGKGKK, e per una volta – dato che non lo avevo disegnato io ma Chiara Polverini – quando lei ha finito di disegnarlo ho eliminato il testo che avevo scritto a mano e l’ho sostituito con un font, intanto perché così veniva un po’ punk e mi piaceva, e poi perché lì non c’era il mio disegno, non c’era il mio tratto ed era un’altra questione, forse si poteva fare. Invece quando lo faccio io c’è sempre questa coincidenza tra disegno e lettering, tra parola e immagine, perché nei miei 7 anni di vuoto, quando volevo essere un “graphic novelist” e non ce la facevo, la cosa che riuscivo a fare – oltre al gruppo metal, la camera oscura, le fotografie erotiche, il recensore musicale – era il calligrafo giapponese. Ho fatto un sacco di calligrafia e pensavo che sarei diventato Luca Barcellona, però più bravo… A casa ho anche un pennello comprato dalla Cina lungo 1 metro e 20. E questa cosa dell’atto della scrittura mi è rimasta, perché anche se io leggo i fumetti a caso e delle cose che mi piacciono devo sapere anche il gruppo sanguigno dell’autore, poi magari ho dei buchi enormi su altre cose interessantissime, e questo mi distingue da chi ha studiato fumetto, perché io ho studiato altro e non ho la checklist “ok, hai letto questo questo questo questo questo”. Pompeo di Pazienza per esempio l’ho letto tardissimo, ho visto il film quand’ero ragazzino e poi ai fumetti ci sono arrivato quando mi ero già trasferito a Bologna. Ero più influenzato da altro, per esempio da artisti visivi che lavoravano sul concetto che la scrittura e la creazione di immagini sono la stessa cosa, come Cy Twombly, che è il mio pittore preferito. E dunque questa relazione tra arte e scrittura è una cosa che mi porto dietro da tempo e che ho voluto mettere nelle mie cose. Io in generale sono un po’ contrario alla distinzione rigida tra fumetti commerciali e fumetti “artistici”, se così vogliamo chiamarli, perché secondo me è brutto avere un’impostazione mentale che i fumetti da fumetteria, come PK che citavo prima, fanno schifo mentre quelli che leggiamo noi che andiamo al BilBOlbul e al Just Indie Comics sono belli. Però è anche vero che i fumetti da fumetteria hanno delle meccaniche diverse, come la distinzione tra scrittore, disegnatore e letterista. E a volte il lettering lì è addirittura digitale, una cosa che mi fa quasi sempre soffrire, o è così brutto che diventa bello prendendo una sua espressività, oppure per me non ha senso guardare una cosa che ha un testo proveniente da tutt’altro ambito. Mi ricordo per esempio questo libro Marvel assurdo su Loki che sconfigge Thor, fatto da questo disegnatore famoso perché fa i dipinti a olio…

GDF: Ah, Ribić forse…

ADF: Mmm non ricordo, però era un libro (Thor & Loki Blood Brothers di Robert Rodi ed Esad Ribić, ndr) completamente dipinto con queste tavole bellissime, anatomie incredibili eccetera, e per i testi avevano usato un font di Photoshop che imita il lettering dei fumetti, con i caratteri tutti della stessa dimensione messi al centro delle vignette… E tu mi hai distrutto la vita, editore che hai deciso di fare questa cosa qua. Il caso diametralmente opposto è Pompei di Frank Santoro tradotto in italiano, con Silvia Rocchi che ha fatto il lettering, e ovviamente è una cosa che ha bisogno di un certo tipo di risorse e qualità, perché altrimenti è quasi impossibile entrare graficamente con il testo in un disegno di un altro autore. Io ho pensato di risolvere il problema alla radice usando la stessa penna per disegnare e per scrivere e quindi a volte sento il bisogno di cominciare dai testi, così faccio queste vignette vuote, con tante lettere in giro che dovrebbero essere i dialoghi e le parole, e poi da lì vedo cosa bisogna disegnare. Altre volte disegno tavole su tavole su tavole e poi ci metto il testo, perché quando ho fatto Scusa ho scoperto che se non c’è il testo dentro la gente non capisce bene che è un fumetto e io vendo metà delle copie, e invece se fai una cosa con tanto testo la gente pensa “ah, è proprio un fumetto” e lo compra. E quindi siccome io ho un’ambizione commerciale, perché la mia roba è progettata per rivolgersi al pubblico più ampio possibile e fare soldi… No vabbè, voi ridete, ma anche questa questione delle autoproduzioni sperimentali, di fare questi libri completamente come li voglio fare, senza che qualcuno possa rompermi le scatole, comprende comunque un obiettivo commerciale, per così dire. Io non voglio andare ai festival e perdere soldi, non voglio pagare il banchetto, pagare il treno, offrire la cena all’amico che mi ha ospitato e poi tornare a casa che ho speso 20 euro per vendere le mie cose. Io voglio una forma di capitalismo individuale, che considero buono, almeno quando riguarda me… In realtà è un micro-capitalismo, però secondo me ha senso, perché se tutti spendono soldi per bere, divertirsi, mangiare, eccetera non capisco perché gli autori devono essere gli unici a fare questo sacrificio di andare in perdita, sempre. Capisco che il mondo dell’editoria italiano ha questa cosa tipo “Andrete in perdita, sempre” scritto sulla porta, che tu sia Mondadori, De Press o chiunque, sanno tutti che è una situazione insostenibile economicamente. Ok, adesso questa diventa una presentazione sul realismo capitalista, però ecco, ci tengo a dirlo che bisogna venderli questi fumetti. Per esempio in questo ambito micro-capitalista funzionano bene le cose piccole che faccio, tipo Giro intorno al sole. Quando l’ho disegnato ero nel laboratorio di Modo Infoshop a Bologna, vicino alla stampante laser che stava stampando altre cose mie. E sapevo di avere poco tempo, per quello ci ho messo 40 minuti. Appena l’ho finito ne ho fatte un po’ di copie e quando sono uscito da Modo c’era una serata che coinvolgeva molti giovani fumettisti… E così ho venduto 15 copie semplicemente dicendo agli amici “Hey, ho appena fatto questo”. Avrò fatto circa 15 euro e con quei soldi ho bevuto qualcosa oppure ho preso un libro in libreria – ora non mi ricordo – e ok, i soldi sono finiti subito, ma comunque ho creato qualcosa dal nulla. E questo è il lato bello dei soldi, che si trasformano in cose. Quindi l’obiettivo, alla fine della fiera, è cercare di fare ciò che voglio fare, divertirmi, vendere e spendere subito tutti i soldi che faccio.

GDF: Bene, abbiamo dunque scoperto che in qualche modo questi sono fumetti commerciali…

ADF: Forse potremmo dire commerciabili…

GDF: Ok, commerciabili… Poi ne hai fatti veramente tanti, qui ne ho un po’ da far vedere, ma non sono neanche tutti. Questo è un altro dei primissimi, il secondo che hai fatto credo, Errata corrige, poi hai fatto questo Immaterial Issues per l’Elcaf, una specie di albo illustrato con testi stampati e in inglese, quest’altro è una chicca che non si trova più con foto fatte con un cellulare con la fotocamera rotta e insomma tantissime cose e tantissime idee, in poco se non pochissimo tempo. Mi ricordo una volta che ci siamo visti a Treviso e ho comprato un fumetto e mi hai detto “questo l’ho fatto stanotte”. Comunque, andando avanti, volevo parlare un po’ di questo albo qui, La meraviglia carnosa che ho perduto nel bosco, penso che sia il primo in cui hai raccolto in maniera organica il lavoro che avevi fatto fino a quel momento. Ed è anche un fumetto un po’ atipico nella tua produzione, perché è quasi poesia, forse anche senza quasi. Se fossi negli Stati Uniti rientrerebbe nella corrente Comics as Poetry, in cui i fumettisti illustrano le poesie che scrivono. E’ un amore che è vissuto nel bosco, un amore anche con il bosco…

ADF: Per il bosco!

GDF: Esatto! E’ una roba quasi dannunziana… Però quello che mi interessava è come sei arrivato a questa dimensione poetica e a fare il passaggio da tutti i vari frammenti che abbiamo visto prima a qualcosa di più organico, a un fumetto lungo vero e proprio.

ADF: Beh, c’entra anche con il discorso di prima… Io poi ho un po’ svicolato, parlando di soldi – ed è sempre brutto parlare di soldi – e non mi sono più soffermato sulla scrittura. Tu dicevi che la mia è una scrittura che parte dal disegno e che c’entra sempre con il disegno, che nei miei fumetti ci sono scrittura e disegno allo stesso livello… E per me è verissimo e anzi è proprio un complimento, perché non è automatico che un bravo disegnatore sia anche un buon scrittore. Oddio, ora non mi voglio dire da solo che sono un bravo scrittore, però almeno posso dire di non aver mai fatto un errore di punteggiatura in un libro. E sono molto fiero di questo. E poi sì, compro e leggo tanti fumetti, ma non sono così vorace con i fumetti come lo sono con i libri, cioè nel senso di libri senza disegni e quindi saggistica, narrativa, poesia. Scrivo da più tempo di quanto disegno, perché sono tre/quattro anni scarsi che riesco a disegnare in un modo che trovo soddisfacente, come dicevo prima ho avuto sette anni di vuoto in cui non raggiungevo risultati dignitosi. Invece ho scritto per un sacco di anni i testi dei gruppi in cui suonavo, ho fatto le recensioni musicali e altre cose da giornalista culturale come articoli, interviste e via dicendo. E poi ho portato avanti anche esperienze di scrittura autonome da tutto, racconti, mini-saggi eccetera, cose che ho fatto e poi ho bruciato subito, infatti non esistono più. E la scrittura mi richiede un esercizio diverso da quello del disegno, perché disegnare ogni giorno lo faccio, i disegni me li lancio dietro, non mi ricordo quanti ne ho fatti, ho riempito quaderni su quaderni,  e invece nei quaderni non scrivo tantissimo, a volte ci sono dei testi ma magari vengono fuori dal fatto che sto facendo piccoli fumetti. Ma non mi metto a scrivere la poesia sul quaderno…

GDF: Anche se ne leggevo prima una a tema anale in uno sketchbook.

ADF: Sì, c’è l’elenco anale… Però mi tengo oliato su questa cosa, è una pratica che richiede un certo esercizio, ci ho messo un po’ ad arrivare a scrivere una cosa come La meraviglia carnosa. All’inizio ho fatto direttamente dei fumetti senza parole, perché mi sembrava che i testi non fossero validi quanto i disegni – non che i disegni fossero inarrivabili – ma comunque i testi erano nettamente peggiori. Errata corrige è stata la prima cosa che ha funzionato come testo, è stato il primo fumetto istantaneo che ho fatto, mi sono seduto perché avevo un’idea e di lì a qualche ora ho finito, mettendoci anche dei testi perché avevo bisogno di una voce. E ne La meraviglia carnosa ho continuato con questa questione della voce, però una voce singola, infatti il fumetto non ha balloon, il testo è un po’ sospeso e ci sono una serie di ambiguità per cui la storia d’amore con il bosco, per il bosco che abbiamo detto ha tutta una serie di letture. Certo, c’è la chiave di lettura realistica, e io so quello che succede veramente se così vogliamo dire, ma comunque non mi interessa raccontarlo a nessuno, perché non è quello il punto. Come i due famosi episodi finali di Evangelion che sono tutti nella testa di Shinji ma poi hanno fatto il film in cui si vede quello che succede veramente mentre lui ha questi trip mentali…

GDF: Mmm no, non so di che parli…

ADF: Questa serie che potremmo definire di robot e problemi personali si conclude con due episodi completamente dentro al cervello del personaggio perché erano finiti i soldi e quindi non potevano disegnare mille robottoni che si schiantavano sulla terra. Però quando la serie è diventata famosa, i fan hanno chiesto a gran voce di sapere cosa fosse successo davvero perché non gliene fregava niente di quello che vedeva il tizio nella sua testa. E il film che ne è venuto fuori è comunque bello, però questa cosa di dover dire le cose come stanno mi sembra un po’ un fallimento, perché è come ammettere che la dimensione completamente mentale non esiste, come se i viaggi mentali di Shinji non fossero così veri come i robottoni che si schiantano. E invece per me tutto è super-reale, sempre. E’ come il fatto che dal fumetto ci si aspetta per forza – soprattutto con la tradizione molto forte di fumetto popolare che c’è in Italia – che sia una sorta di storyboard, che abbia un’impostazione cinematrografica, con una storia, i dialoghi, gli ambienti, i personaggi che provano delle emozioni e compiono delle azioni, agendo in un paesaggio che viene ripreso con certe tecniche e certi espedienti formali. Io ho cercato subito di non chiudermi in quella roba lì, perché prima facevo fotografia e allora a questo punto avrei fatto i fotoromanzi, i cortometraggi, il cinema. E il fumetto è fumetto, non è cinema disegnato, non è letteratura disegnata… Il fumetto è fumetto, stacce. Quindi, che cos’è, come funziona, quali cose si possono fare? Una cosa che si può fare con il fumetto è una specie di voce fuori campo, o anche una voce dentro il campo, che si stende nelle pagine facendo da collante tra i disegni. La meraviglia carnosa è venuto fuori da queste riflessioni, perché tra l’altro oltre ad averci messo più tempo del solito è anche un fumetto che ho disegnato in maniera completamente disordinata e l’ordine tra testo, parole, sequenze e tavole è avvenuto tutto impaginando. Quindi è una storia disegnata a penna ma in realtà fatta con Adobe InDesign. E infatti non sembra ma ci sono dei disegni che si ripetono, dei disegni che si ricompongono, dei disegni che si incorniciano uno nell’altro e c’è questo testo che ha necessitato di più tempo rispetto ai disegni, perché è difficile scrivere i testi. E quella roba dei fumetti disegnati bene con il testo così così perché sei meno bravo succede, ma secondo me è una cosa schizofrenica che secondo me non aggiunge niente. E quindi è molto più interessante cercare la propria strada, intestardirsi sul fatto che nessuno ha deciso una gerarchia che riguarda i testi e le immagini nel fumetto, perché ci sono delle tradizioni, ci sono delle scuole, ci sono delle abitudini ma tutto è trasgredibile. E a me piace molto trasgredire… nei fumetti, perché poi sono un pavido nella vita vera.

GDF: Agganciandomi a questo discorso, se invece devo trovare un fumetto più “fumetto” nel senso classico, o comunque quello più classico tra i tuoi – in cui come dicevi ci sono i personaggi, una storia, un’ambientazione – è Intonarumori, che hai scritto direttamente in inglese per poterlo proporre sul mercato internazionale. Però per arrivare a Intonarumori partirei da un passaggio di Piccolo niente, un altro tuo albetto che forse non parla di niente, anzi parla del niente, tanto che viene ripetuta la parola “niente” non so quante volte…

ADF: Forse troppe…

GDF: E qui c’è questa tavola in cui si legge: “Dicevo di diventare sensibile ai rumori / (quando non faccio niente) sono un fruscìo / acqua sottoterra / le urla lontane / due fidanzati arrabbiati giù in strada? / cos’è un “fidanzato”?”. Questa secondo me è una tavola chiave per capire quello che fai tu, alla fine c’è questa domanda “cos’è un “fidanzato”?” con la parola “fidanzato” tra virgolette. Siamo a un livello in cui alcune cose che vengono date per scontate da tutti – anche dei termini semplicissimi – non sono poi così scontate. E anche in Intonarumori ci sono una logica, una sequenzialità e uno sviluppo ma non sono quelli della narrazione classica a cui siamo abituati. E’ una logica tutta tua, che anzi potremmo definire una pre-logica. Provando a riassumere la trama, il fumetto è basato su una continua metamorfosi del protagonista, un personaggio che all’inizio sembra un uomo, poi diventa una specie di cavallo, quindi si scompone in una serie di forme astratte e poi torna a una dimensione antropomorfa. E non è finita qui, perché si trasforma in un ramoscello, finisce dentro a un vaso, viene usato per fare un tè e si scinde quindi in due diverse entità, una delle quali è una pozzanghera. E così abbiamo la parte finale del fumetto in cui il protagonista è una pozzanghera. Ci sono anche delle situazioni classiche, come una sorta di contrapposizione tra due personaggi nella prima parte, o una storia d’amore nella seconda, anche se molto sui generis perché riguarda la pozzanghera di cui dicevo prima. Ma al di là dei dettagli è stupefacente come in tutta questa assurdità ci sia una logica e tutto funzioni. Nelle pagine iniziali ha un ruolo centrale una scatoletta, che è appunto un intonarumori, da cui questo gioco di trasformazioni si sviluppa grazie alla musica. E non a caso tu sei anche musicista, infatti. La suggestione musicale è preponderante in una serie di sequenze che sembrano astratte ma che in realtà rappresentano la trasformazione del protagonista. E quindi sono astratte fino a un certo punto, anche perché come hai scritto lì nella tua autobiografia il tuo lavoro viene “bollato superficialmente come astratto”. La mia principale curiosità adesso è capire da dove sei partito per tutto ciò, se sei partito dalla musica – perché ci sono dei movimenti che sono proprio musicali in questo fumetto – dall’idea della trasformazione del protagonista – e dunque dalla provocazione di raccontare una storia che avesse un formato graphic novel ma con un personaggio che apparisse in una forma diversa ogni tot pagine – oppure dal disegno puro e semplice, visto che ci sono dei passaggi in cui il disegno non è gratuito ma sicuramente ti prende un po’ la mano…

ADF: Con Intonarumori volevo fare una cosa lunga, il graphic novel se vogliamo chiamarlo così, e volevo fare un fumetto con i personaggi che parlano in un ambiente. Mi piaceva e mi piace ancora molto il lirismo però sentivo di aver già ottenuto dei risultati a quel livello – per quanto discutibili – e così mi sono detto “ok, proviamo quest’altra cosa”. D’altronde perché diventare bravi in una cosa sola se puoi essere scarso in tutte? Piccolo niente è stato un po’ il banco di prova per Intonarumori, una sorta di ponte tra le due cose. In Intonarumori volevo lavorare su più personaggi e situazioni, è vero che il fumetto è ancorato a questo protagonista ma in realtà tutti parlano, ci sono dei prati che parlano, il sole che parla, le foglie di tè che parlano. E la questione musicale è andata di pari passo, perché mentre sto cercando di ottenere dei risultati con il fumetto sto cercando di ottenerli anche con la musica, anche perché la musica è meglio dei fumetti nella gerarchia delle arti: per me c’è la musica e poi sotto ci sono tutte le altre arti, che la musica guarda dall’alto in basso. La riprova è che tutti i fumettisti o sono anche dei bravi musicisti o comunque hanno la chitarra a casa. Musica e fumetto si sono alimentati a vicenda nel mio caso, anche con la musica parto spesso dal grado zero, dalla pre-logica come hai detto tu, che è una cosa molto vera… Anzi l’hai capito meglio di me questo tentativo di cercare di rimuovere l’eccesso di assunti iniziali e vedere cosa succede costruendo tutto con delle regole che si definiscono nel mentre. Io a 13 anni ero un ragazzino un po’ metal-fantasy-fantascienza-Tolkien e mi sono fatto dei giri gravi con Tolkien, Asimov e altri autori così. E poi ho capito che non sono belli i romanzi o le storie ma questa cosa di costruire un mondo, delle lingue, delle leggende, delle tradizioni. Il Signore degli Anelli è ovviamente quello che è, ma per me è Il Silmarillion quello veramente figo, perché sono tutte le leggende di quel mondo. Questa cosa che riesci a essere così dissociato dalla realtà che hai attorno, così fuori di testa da decidere che te la devi fare tu una realtà, per me è bellissima. Io sogno un mondo in cui la devianza mentale è abbracciata come un dato naturale di tutte le persone, per cui se le strade sono piene di pazzi che dicono di essere Napoleone è pieno di Napoleoni in giro… Non è che sono tutti pazzi, sono tutti Napoleone. La musica mi ha aiutato molto da questo punto di vista, soprattutto quella fatta da musicisti che si creano le loro regole mentre suonano. E alla fine escono fuori le robe più inascoltabili, antipatiche, snob, da critico musicale, che però per me sono bellissime e addirittura divertentissime. Per esempio c’è questo quartetto norvegese di musicisti tutti molto bravi e molto spocchiosi che normalmente fanno jazz, folk, dark ambient ma che insieme hanno un progetto in cui suonano senza parlarsi mai: non hanno nessun altro tipo di comunicazione al di fuori della musica. E’ una band fondata sul fatto che l’unica comunicazione possibile tra i membri della band è quella che avviene suonando. Quindi ogni loro disco in realtà è un live, e quando vanno in studio è un concerto. Questa band si chiama Supersilent, sono molto insopportabili se non ti interessa questo tipo di discorso ma per me sono stati molto importanti per questo concetto di… pre-logica, ora lo userò sempre, o anche grado zero, come dicevo prima di oggi. Anche prima di cominciare queste cose sono andato in palla con l’OuLiPo, i francesi come Perec e Queneau, e con quel saggio di Roland Barthes sul grado zero della scrittura in cui manipolando completamente le intenzioni degli autori evidenzia che questo tipo di ricerca sulla scrittura non è un discorso di rottura o di primitivismo, ma è un discorso di calcolo in un certo senso, di voler veramente cercare un foglio bianco.

GDF: Anche nel fumetto qualcuno ha provato a riportare i concetti dell’OuLiPo, penso ad autori francesi come Trondheim, o anche a Matt Madden, che è americano ma ha fatto molti fumetti basandosi su delle regole auto-imposte. Poi tornando alla musica ci sono tantissime citazioni nei tuoi fumetti, basti pensare a In quel posto che è stato realizzato tutto ascoltando un disco di Tim Hecker, Konoyo.

ADF: Sì, anche quello era molto veloce, non ai livelli di Giro intorno al sole, ma comunque l’ho fatto al volo, di notte, mentre stampavo il fumetto di Dario Sostegni…

GDF: Ah, era quello il fumetto che avevi fatto prima di Treviso, che dicevamo prima… Ok, senti, visto che siamo stretti con i tempi ti faccio scegliere tra due domande. O ti faccio un’altra domanda “filosofica” che prende spunto da una sequenza di Parallel Lives di Olivier Schrauwen, oppure parliamo dei classici “progetti per il futuro” così ci anticipi qualcosa del tuo fumetto che uscirà nel 2020 per Eris Edizioni…

ADF: Ok, facciamo quella sul libro nuovo così poi la gente se lo ricorda e lo compra. Allora, quella con Eris è una storia lunga, perché Scusa lo avevo fatto anche per farlo vedere a Eris a Treviso nel settembre del 2016. E già allora pensavo di non aver altra scelta in Italia oltre a Eris, che magari non è neanche vero ma poi mi sono affezionato, da lì è partito tutto un rapporto di amore viscerale con Fabio Tonetto, un casino… Insomma, gli ho portato Scusa e loro tra sé e sé avranno detto “ecco qui un altro ragazzino che si è visto DeForge”. Poi gli ho portato altre cose ad altri festival, e ho fatto anche diverse figure di merda con loro, per cui se hanno deciso di fare un libro con me o sono loro dei grandi o io un idiota molto fortunato. Una volta sono andato da loro e gli ho portato 5 quaderni pieni di disegni fronte retro, tutti disegnati come un fumetto ma senza nessun testo, e ho cercato di dirgli “ho disegnato questa cosa di 300 pagine, non si capisce niente perché non c’è il testo ma io farei dei testi per far finta che ci sia una storia e se vi piace, visto che i disegni sono belli, lo pubblicherei”… Poi gliel’ho spiegato anche peggio di così, tanto che Sonny di Eris mi ha detto in maniera pacata “metti ordine nella tua vita e vieni a dirci qualcosa di sensato”. Così gli ho portato Intonarumori e loro avevano quasi deciso di pubblicarlo in italiano ma poi abbiamo optato per fare una cosa nuova ed effettivamente ha senso, anche perché io faccio i disegni, le storie eccetera, il libro lo fa l’editore. E per questo nuovo fumetto ho pensato di prendere quello che avevo cercato di fare con Intonarumori ma di farlo meglio, anche perché Intonarumori l’ho disegnato in meno di 2 mesi, con l’aiuto dei funghi…

GDF: Non champignon…

ADF: Ehm no, psilocibina… Mai esagerato perché dovevo disegnare, ma comunque Intonarumori è un fumetto con la droga, anche se non sulla droga. E invece questo fumetto lo sto facendo senza i funghi, anche se parla comunque di intossicazione, questa volta da caffeina. La scorsa estate ho fatto una residenza di una settimana a Berlino per partecipare a Clubhouse #10 di Colorama, in cui c’è un mio racconto breve fatto in una settimana con protagonista una tazzina di caffè cosciente, con corpo, braccia e gambe. Da allora ho cominciato a disegnare delle cose stupide sui quaderni, delle situazioni da cinema muto alla Buster Keaton. Il personaggio aveva qualcosa da dire, e la caffeina è una droga valida proprio a livello di effetto psicoattivo, se te ne bevi quanta me ne bevo io. E quindi l’idea che ho proposto a Eris era fare una roba tipo Intonarumori ma con questa tazzina antropomorfa, che vive un sacco di disavventure e che soprattutto è piena di caffè, quindi chi è che fa camminare questo corpo, la tazzina o il caffè, o sono due cose diverse. E c’è tutta questa finta psicanalisi, tutte questioni che riguardano la natura della volontà dell’uomo, da dove vengono l’esperienza, la memoria, le emozioni. E’ una roba che io chiamo il problema di Ghost in the Shell, nel senso del film del ’95, in cui c’è questo personaggio artificiale che chiede a un altro robot “chi lo sa che cos’è il mio cervello, ma tu ti sei mai guardato”. Però io non lo faccio con i robot ma con la tazzina di caffè, perché… fa ridere. Fa ridere una tazzina di caffè gigante che barcolla perché è piena di caffè, poi inciampa per terra e cade, cerca di rialzarsi e rischia di cadere dall’altra parte… C’è del comico, che io non so gestire bene perché non sono un autore comico. Mi stanno venendo fuori più di 300 pagine, vediamo quante me ne tagliano perché mi sto dilungando troppo ma insomma speriamo bene…

Una serata con Chris Reynolds

Pubblico di seguito la trascrizione dell’incontro con Chris Reynolds che si è tenuto lo scorso 3 dicembre a Roma da Risma Bookshop, in occasione del tour italiano dell’autore britannico. Ad accompagnare il testo, oltre a un paio di foto scattate in quell’occasione, alcune immagini tratte dalla mostra che il festival bolognese BilBOlbul ha dedicato a Reynolds presso Spazio B5. Prima di lasciarvi all’intervista, ringrazio Stefano A. Cresti per il sempre ottimo lavoro di interpretariato e Tunué per la collaborazione. Buona lettura.

Gabriele Di Fazio: Un mondo nuovo è un’antologia del lavoro di Chris Reynolds, uscita in Italia per Tunuè in concomitanza con la mostra a lui dedicata da BilBOlbul, dove Chris è stato ospite nel weekend. Il libro raccoglie i lavori pubblicati a partire dal 1986 negli albi autoprodotti Mauretania Comics e nella fondamentale rivista inglese Escape, oltre all’intero graphic novel Mauretania uscito per Penguin nel 1990. Tra l’altro Mauretania fu anche pubblicato in Italia da Feltrinelli nel 1992 in uno dei primi tentativi degli editori generalisti di portare fumetti “diversi” nelle librerie di varia. La versione originale di questa antologia, intitolata The New World e uscita nel 2018 per la New York Review Comics, è curata – sia nella scelta delle storie che nel design – da un altro autore di fumetti, il canadese Seth, di cui è stato pubblicato di recente da Coconino Clyde Fans. Seth aveva già scritto nel 2005 un apprezzamento della serie Mauretania per la rivista The Comics Journal, un testo che ancora oggi è a mio parere l’esame più azzeccato e profondo del lavoro di Chris (potete leggerlo qui, ndr).

Allora, dato che abbiamo qui con noi Chris cerchiamo di capire innanzitutto cos’è la Mauretania, cioè il mondo – non necessariamente in senso geografico – in cui si svolgono questi fumetti, per lo più storie brevi interconnesse tra loro. Apprendiamo in una di queste storie che siamo nel futuro, ossia nel 2087, ma non è chiaro se questa collocazione temporale è comune anche agli altri racconti, né sono chiarissimi i legami tra i diversi episodi, dato che una cosa che succede in una storia non influenza necessariamente quanto accade agli stessi personaggi nella successiva. Mauretania in particolare è un termine che andava ad indicare una provincia romana dell’Africa, territori che oggi corrispondono più o meno all’Algeria e al Marocco, ma qui non c’è un’ambientazione esotica, anzi sembra di essere nel Regno Unito, dunque in uno scenario più familiare all’autore, che è nato in Galles e si è trasferito in Inghilterra per il college. Ma c’è comunque qualcosa di diverso, qualcosa di rotto, come succede quando siamo appunto in una distopia. Quindi vorrei chiederti a questo punto perché Mauretania e com’è nata l’idea di utilizzare questo termine.

Chris Reynolds: Iniziai a fare questi fumetti insieme al mio amico Paul Harvey e un giorno venne a casa mia e cominciammo a parlare di come avremmo dovuto chiamare il nostro comic book. Alla fine della serata scegliemmo come titolo Mauretania, ma adesso nessuno dei due si ricorda chi se ne uscì con quel nome.

GDF: Nell’introduzione al volume Ed Park azzarda l’ipotesi che l’oscurità di queste storie, che sono caratterizzate da un bianco e nero molto pesante, possa collegarsi in qualche modo al nome Mauretania, che a sua volta deriva dalla tribù dei Mauri, un termine che significa appunto “scuri” riferendosi al colore della loro pelle… Non so se questa connessione fu determinante per la scelta…

CR: In realtà non era una scelta consapevole, anzi, si tratta soltanto di una coincidenza, perché non sapevamo in realtà dove si trovasse la Mauretania. Scegliemmo questo nome perché era misterioso, antico, e lo collegavamo più alla famosa nave che fu varata nel 1906 che alla provincia romana.

GDF: Nella storia che apre il volume, The Dial, c’è il protagonista che torna dalla guerra, infatti tra le righe si capisce che c’è stato un conflitto tra la Terra e gli alieni, con questi ultimi che hanno avuto la meglio. Reg arriva a casa e trova degli scavi minerari tutt’intorno, inoltre non c’è traccia della sua famiglia. Scopre anche che ha preso piede una religione, il Dial appunto, i cui adepti sono uomini incappucciati, di cui adesso nota la presenza anche nelle sue foto da bambino, come se la sua famiglia fosse sempre stata in qualche modo collegata al Dial. Alla fine di questa storia c’è una scheda in cui vengono date una serie di informazioni, e si parla anche dell’ambientazione temporale degli eventi, il 2087. Ma questi elementi non tornano nelle storie seguenti. Noi magari diamo per scontato – per le nostre abitudini di lettori e per una serie di convenzioni – che anche le altre storie siano ambientate nello stesso mondo di The Dial, invece non è necessariamente così. La cosa bella di tutto ciò è che alcuni di questi elementi inizialmente oscuri si connettono in maniera chiara tra loro e quindi leggendo e rileggendo il libro si capisce che siamo in un mondo del tutto autoreferenziale, con le sue regole e la sua logica. Si tratta di un mondo al tempo stesso oscuro e intellegibile, perché il lettore riesce ad afferrare solo in parte il senso di quanto sta accadendo, con una sensazione simile a quando abbiamo una parola sulla punta della lingua. E comunque i personaggi si sviluppano, succedono delle cose – e succede anche che i morti tornano in vita, senza che possiamo davvero capirne il perché. Tra i vari personaggi il più iconico è sicuramente Monitor, una sorta di supereroe se possiamo chiamarlo così, probabilmente un bambino anche se la cosa non è chiara. Mi chiedevo come fosse venuto fuori questo singolare personaggio… Ho letto da qualche parte che è stato ispirato dal fumetto Billy the Cat.

CR: Quando avevo 14 anni scrissi un romanzo e uno dei personaggi era Monitor. All’epoca Billy the Cat era molto popolare e sicuramente mi influenzò. Quando poi iniziai a fare i fumetti riutilizzai questo personaggio – semplificando notevolmente il costume rispetto a quello di Billy The Cat – perché mi sembrava davvero un buon personaggio, innanzitutto perché  può avere qualsiasi età tra gli 8 e i 30 anni, come se l’età fosse determinata dal tipo di storie in cui si trova. E’ un personaggio che non ha caratteristiche specifiche, molto generico, e quindi perfetto per questo tipo di storie. Se fosse stato una persona “normale”, avrei dovuto dare più informazioni sul suo background, su chi fosse e perché stesse facendo quelle cose lì, invece se tu metti in una storia un personaggio che sembra vagamente un astronauta si danno molte cose per scontate, quindi si può andare avanti direttamente con la storia.

GDF: Sì, sembra un astronauta perché indossa sempre un casco, e poi sappiamo che ha un astronave e che ha incontrato gli alieni, anche se ci sono degli episodi in cui lo vediamo impegnato in faccende del tutto ordinarie, come lavorare in un bar, fare il pubblicitario, aprire un’azienda di frigoriferi, ereditare una casa e via dicendo…

Ok, adesso vorrei cercare un po’ di capire in che ambiente nascevano questi fumetti e da cosa sono stati influenzati, nel senso che mi sembrano molto in sintonia con altre cose che uscivano all’epoca in Inghilterra, per esempio su riviste come Warrior e 2000 AD, ma ci sono anche dei riferimenti letterari – inevitabilmente vengono in mente opere come 1984 di Orwell e Brave New World di Huxley – e persino televisivi, perché a me alcune tematiche, alcune atmosfere e anche un certo modo di raccontare che va avanti per scarti, per indizi, spesso per elementi del tutto assurdi mi ha ricordato parecchio la serie The Prisoner. Ti chiederei a questo punto se queste sono state per te delle influenze oppure se ne hai avute altre in particolare.

CR: Per quanto riguarda The Prisoner c’è una coincidenza significativa da citare, cioè che fu girato in un paesino a 9 miglia dalla casa in cui sono cresciuto da bambino. Ma in realtà l’ho visto soltanto dopo aver concluso i fumetti che si trovano in Un mondo nuovo, perché i canali televisivi che prendevamo a casa non lo trasmettevano. Per quanto riguarda il resto, ci sono delle similitudini con 1984 o Brave New World ma non credo che siano state delle vere influenze, perché io non ho mai trattato certi temi, nel senso che la trama dei miei fumetti è un pretesto per creare una certa atmosfera. Ed è l’atmosfera che mi interessa veramente, più della storia in sé.

GDF: E infatti l’atmosfera è molto importante in questi fumetti, anche e soprattutto nelle storie brevi. Ce ne sono alcune di una pagina – penso per esempio a Una nuova sera o a Giorni nuovi e migliori – in cui domina un mood malinconico e nostalgico. Sono dei “pezzi”, più che delle storie, che a livello testuale assomigliano a una canzone o a una poesia e in cui sembrano avere una certa rilevanza dei ricordi di infanzia, dei sogni, delle esperienze personali in genere. Quanto è stato importante il tuo vissuto per la costruzione del tuo mondo?

CR: Beh, alcuni ricordi personali hanno avuto sicuramente il loro peso durante la creazione di queste storie, ma sinceramente non sono interessato ai ricordi in quanto tali ma solamente all’atmosfera che essi possono evocare, proprio come possono fare altri elementi come gli alieni, lo spazio, il futuro, le guerre. Quindi anche i ricordi sono solamente uno strumento per ricreare l’atmosfera a cui sono interessato. A volte il mio scopo è quello di ricreare un’atmosfera che io stesso ho sperimentato, quindi utilizzo dei ricordi di atmosfere addirittura, e se è vero che spesso non sono riuscito a ricreare esattamente le atmosfere che avevo in mente, devo riconoscere che con questo tentativo ho creato qualcosa di nuovo, forse anche più interessante. E l’utilizzo del bianco e nero è stato fondamentale per rendere al meglio queste atmosfere.

GDF: A proposito del bianco e nero, citerei ancora l’introduzione di Ed Park, che scrive: “Dire che questi fumetti sono in bianco e nero suona riduttivo, sono più come un bianco e nero e ancora nero”. Infatti il libro è pieno di neri, persino i contorni delle vignette sono delle linee ondulate molto spesse, calcate, pesanti. Inoltre ci sono tantissime silhouette. So che hai studiato pittura all’Accademia di Belle Arti e quindi avrai avuto dei riferimenti anche classici, se non delle esperienze pratiche con vari stili e tecniche, per esempio penso alla xilografia, a cui i tuoi disegni sono vicini. Ti chiederei dunque di raccontarci come ti sei formato artisticamente e quanto a tuo parere la tua formazione abbia contribuito a plasmare il tuo stile.

CR: Anche lo stile si è sviluppato in maniera non del tutto conscia, io scrivevo queste storie e a un certo punto pensai che sarebbe stato interessante utilizzare un metodo che restituisse l’impressione di guardare un vecchio film in bianco e nero, dove le immagini sono indistinte, poco chiare, consumate, perché avrebbe aiutato a dare alla storia un’impressione di distanza. Per lo stesso motivo ho spesso utilizzato le didascalie al posto dei dialoghi, sempre per creare una certa distanza da quanto veniva raccontato. E c’era bisogno di creare questa sensazione di distacco per raccontare al meglio le storie che avevo in testa.

GDF: Un altro elemento fondamentale è il paesaggio, che può essere considerato il protagonista di alcune di queste storie e che contribuisce a creare questo mood malinconico e nostalgico. Si tratta di un paesaggio per lo più contemplativo, del tutto diverso da quello che potremmo aspettarci da fumetti o film distopici. L’uso che fai del paesaggio tra l’altro non è univoco, perché è vero che si vedono soprattutto campi, colline, fiumi, nuvole che si muovono in cielo – c’è molta insistenza su questo, ci sono intere pagine di paesaggi in questo libro – al contrario nella prima parte del graphic novel Mauretania ci sono degli scenari urbani stranianti e a volte angoscianti. Quanto è importante il paesaggio nelle tue storie e che importanza hanno avuto i panorami dei posti dove sei cresciuto e hai studiato da giovane?

CR: Il ruolo del paesaggio nelle mie storie è quello di generare certe atmosfere. Il paesaggio è estremamente importante perché io sono convinto che luoghi differenti generino atmosfere differenti. Inoltre in alcune delle mie storie quasi non si vedono personaggi: i loro pensieri vengono mostrati attraverso delle didascalie e gli elementi del paesaggio diventano importantissimi per creare le atmosfere, anche più dei personaggi stessi.

GDF: La seconda metà del volume è occupata dal graphic novel Mauretania, che rappresenta il climax emotivo di tutto il libro, perché in effetti storia dopo storia il lettore comincia a sentire qualcosa per i personaggi, una sorta di affezione. Per quanto noi adesso abbiamo parlato di paesaggio o di altri elementi oggettivi, per quanto possiamo leggere delle analisi dei tuoi fumetti in cui i riferimenti che si utilizzano sono per lo più non narrativi – si citano per esempio De Chirico, Hopper, Tarkovskij – nel tuo lavoro c’è comunque un forte senso della narrazione e Mauretania è un po’ la conferma di questo elemento. La storia racconta una sorta di contrapposizione tra i protagonisti del libro, Jimmy e Susan, e questa organizzazione che si chiama Rational Control, Polizia Mentale nella traduzione italiana. Al di là della trama, si tratta di una storia che tratta temi importanti come la dicotomia tra intuizione e razionalità e quella tra libertà e controllo. Quello che mi viene da chiederti è l’insistenza sul tema delle corporation, che è centrale in Mauretania e in realtà in tutto il libro, che è pieno di uomini che fanno lavori inutili, che lavorano per lavorare, non per se stessi ma nemmeno per i datori di lavoro a quanto sembrerebbe. Mi chiedevo perché hai scelto di trattare questo tema, se ti è venuto dalle esperienze lavorative personali, da quelle dei tuoi amici o se vedevi qualcosa che si sviluppava in quegli anni nella società intorno a te.

CR: Beh, la verità è che la storia Mauretania fu commissionata da un editore. La Penguin mi disse che volevano 120 pagine simili a quelle dei racconti brevi e così dovetti introdurre dei nuovi elementi per creare una storia sensata di quel tipo. E dato che ero interessato a questi temi ho deciso di utilizzarli. Nel complesso penso di essere riuscito a unirli abbastanza bene con gli elementi delle storie che avevo scritto in passato. Ma se non mi fosse stato commissionato il graphic novel, probabilmente non avrei inserito questi temi nelle mie storie.

GDF: Mmm, ok… (risate). Beh, ti chiederei a questo punto se ti è piaciuta la scelta di Seth di mettere Mauretania alla fine del volume e se in generale sei soddisfatto della selezione delle storie, dato che ce ne sono tante altre che sono rimaste fuori.

CR: Sì, questa è un’antologia e quindi non ci sono tutte le mie storie ma un gruppo di fumetti selezionati da Seth, che ha anche curato il design del volume. Penso che sia un’ottima introduzione al mio lavoro e che Seth abbia fatto una selezione coerente, prendendo delle storie che si sostengono a vicenda. Ma ci sono anche altre storie simili o comunque che sono connesse a quelle pubblicate, e che potrebbero benissimo stare nel libro. Ma questa è la selezione di Seth, lui ha scelto i fumetti che riteneva migliori e io sono molto contento del risultato finale, anche se bisogna dire che c’è molto altro materiale.

GDF: Sicuramente in questo modo il libro funziona davvero bene… Dunque, ti faccio un’ultima domanda e chiudiamo. All’inizio il “mondo nuovo” sembra essere quello dove si svolgono le vicende narrate ma poi, una volta conclusa la lettura, si cambia idea e si capisce che in realtà la novità appartiene al futuro, a quello che non vediamo, cioè al mondo che i personaggi del libro hanno contribuito a creare con le loro azioni, un mondo probabilmente migliore di quello in cui si muovono Reg, Monitor, Jimmy, Susan e via dicendo. C’è un progresso nel corso del tempo – i personaggi riescono a cambiare la società in cui vivono in effetti – e quindi c’è una ventata di ottimismo in storie che hanno comunque dei connotati distopici e che tradizionalmente vengono viste come pessimistiche, se non post-apocalittiche. Ma anche in questo senso nelle tue storie non esageri mai, anzi ce ne sono alcune, soprattutto quelle di ambientazione più bucolica, in cui c’è un senso di pace e di serenità, nonostante le guerre, gli alieni ecc. Tu pensi che ci sia un messaggio di ottimismo nel tuo lavoro e in genere consideri le tue storie più ottimistiche o pessimistiche?

CR: Le considero sicuramente ottimistiche. Sarebbe molto facile scrivere una distopia negativa e disperata ma è un genere che proprio non mi interessa. Inoltre mi piace sviluppare dei finali che si discostino dalla direzione in cui sembra andare la storia nel corso del racconto, così che possano risultare inaspettati, per quanto ovviamente debbano sempre avere un legame con la storia che ho raccontato. In realtà non penso molto in chiave di ottimismo o pessimismo, penso più a cosa mi interessa veramente raccontare. E probabilmente una storia pessimistica non mi darebbe grossa soddisfazione. Ma forse nemmeno una storia solamente piena di gioia…

Un pomeriggio con Steven Gilbert

(English text)

Steven Gilbert è un cartoonist canadese autore di Colville, graphic novel appena pubblicato in Italia da Coconino Press.

La carriera di Gilbert come autore di fumetti iniziò negli anni ’90, quando fece uscire sei numeri di I Had a Dream, più altri due albi, Gardenback The Cult of Gardenback, dove sviluppò i personaggi e le situazioni della serie precedente. Tra i due fumetti di Gardenback pubblicò Colville, un comic book di 64 pagine che ricevette alcune critiche positive al tempo. Ma dopo il 1998 il mondo dei fumetti perse le tracce di Gilbert, tanto che era praticamente impossibile trovare informazioni su di lui fino a qualche anno fa. La fonte più rilevante, se possiamo chiamarla in questo modo, è un post del 2011 sul sito Comics Comics in cui Frank Santoro incluse “il tizio che a metà degli anni ’90 fece un fumetto chiamato Colville in una lista intitolata Good Cartoonists Gone. Lo stesso Gilbert contribuì alla discussione scrivendo: “Wow, è bello che qualcuno si ricordi di me… Sono io il tizio che fece Colville. Mi fa piacere che ti sia piaciuto Frank. Ero un espositore alla SPX del ’98 e lì riuscii a vendere un po’ di copie di quell’albo. Disegno ancora fumetti quando riesco a trovarne il tempo, infatti ho completato tutto il secondo capitolo di Colville (circa 48 pagine) e 25 pagine del terzo sono disegnate e letterate. Un giorno o l’altro lo finirò e prenderò un tavolo al TCAF o qualcosa del genere. Dal 1999 sono stato impegnato a gestire il mio negozio di fumetti qui a Newmarket, Ontario, che ho chiamato Fourth Dimension. E questo occupa la gran parte della mia giornata. Purtroppo ho dovuto mettere il tavolo da disegno in secondo piano. E probabilmente mi riesce meglio vendere i fumetti degli altri piuttosto che fare i miei!”. Ma Gilbert tornò al fumetto nel 2013 con un libro di 128 pagine, The Journal of the Main Street Secret Lodge, che vinse un Dough Wright Award per il Best Spotlight Work l’anno successivo. E finalmente nel 2015 riuscì ad autoprodursi, dopo quasi due decadi di lavorazione, il volume di Colville, con le 64 pagine del fumetto originale e oltre 100 pagine di nuovo materiale che concludeva la storia.

Avevo scoperto l’esistenza di Colville su internet ed ero da tempo curioso di leggerlo, così quando il mio amico Francesco in arte Ratigher mi disse che aveva scritto una e-mail a Steven Gilbert per ordinare i suoi libri, io feci lo stesso e gli chiesi anche se potevo vendere qualche copia di Colville nel mio webshop. Ratigher scrisse una recensione di Colville qui su Just Indie Comics e da quel momento un sacco di gente ordinò il libro o mi chiese informazioni a proposito. Fu davvero strano vedere tanti lettori italiani interessati a un lavoro così oscuro, che era difficile da trovare anche in Nord America (a oggi Gilbert non ha un sito internet e i suoi libri non hanno distribuzione). Cominciai a scambiarmi qualche mail con Gilbert nei mesi successivi e prima di partire per il Canada per il Toronto Comic Arts Festival del 2016 gli chiesi se potevo intervistarlo e con l’occasione andarlo a trovare a Newmarket, una cittadina vicino Toronto dove vive e gestisce il negozio Fourth Dimension, al numero 237 della Main Street South. L’intervista ha avuto luogo lunedì 9 maggio 2016 alla presenza del mio amico Michele Nitri della Hollow Press e di Stacey, la fidanzata di Gilbert.

Dopo averla messa on line soltanto in inglese, mi sono finalmente deciso a tradurre l’intervista in italiano in occasione della pubblicazione nel nostro paese di Colville, uscito lo scorso 30 novembre grazie alla volontà dello stesso Ratigher, diventato nel frattempo direttore editoriale di Coconino. L’uscita del volume segna anche il debutto nel mondo dell’editoria vera e propria di Steven Gilbert, i cui fumetti mai erano stati pubblicati da una casa editrice ma sempre autoprodotti. Se non conoscete ancora il libro potete comunque leggere l’intervista, almeno fino al punto in cui trovate la frase “Ok, parliamo del libro di Colville adesso“. Da quel momento viene svelato qualche particolare della trama e se volete evitare fastidiose anticipazioni vi consiglio di fermarvi lì e magari tornarci una volta letto il fumetto. Dato che è stata realizzata più di un anno fa, l’intervista accenna soltanto a The Journal of the Main Street Secret Lodge vol. 2 (al tempo ancora in lavorazione) e trascura del tutto i lavori successivi come Port Stanley, in cui l’autore riprende lo stile dei suoi primissimi fumetti. Di entrambi trovate ancora alcune copie nel webshop. Nel frattempo buona lettura.

La Main Street a Newmarket, Ontario

Partiamo dall’inizio. Sei nato qui a Newmarket?

Non sono nato a Newmarket ma ho sempre vissuto qui, i miei genitori vivono a Newmarket e io non mi sono mai spostato.

E quando hai iniziato a leggere fumetti?

Ero molto giovane. Il mio primo ricordo che riguarda i fumetti risale a quando ero dal barbiere e vidi una pila di fumetti Archie e Disney con le cover strappate. Ma allora non mi attraevano granché. Da bambino mi piacevano i cartoni animati, guardavo sempre Bugs Bunny. Fino a una certa età forse ero più interessato all’animazione, poi a 9 anni sono stato operato alle tonsille e mentre ero in ospedale mia madre mi comprò un numero di Spider-Man. Credo che da lì mi sia venuto un vero interesse per i fumetti.

Beh, anche io leggo i fumetti da quando sono molto piccolo ma la vera fissazione mi è venuta leggendo una storia di Spider-Man, era un numero con il Doctor Octopus nel periodo di Bill Mantlo-Al Milgrom.

Certo certo, Al Milgrom… Il mio era un Marvel Team-Up con Spider-Man e il Doctor Strange.

Ok, e invece quando hai iniziato a disegnare?

Da bambino disegnavo parecchio, anche prima di appassionarmi ai fumetti. Mi piacevano i cartoni animati, così scarabocchiavo continuamente. Mio padre portava spesso della carta dall’ufficio, c’era l’intestazione da un lato così io utilizzavo la parte dietro del foglio. In quel periodo ero fissato con i ninja, mi piacevano i film di mostri e mi ricordo di essere stato ossessionato dai lupi mannari per parecchio tempo. Facevo tantissimi disegni di lupi mannari e mostri e roba del genere.

E questo sempre prima dei fumetti?

Sì, e quando ho scoperto i fumetti cercavo di riprodurne le copertine per provare a capire come funzionava quello stile lì. Poi verso i dodici o forse anche tredici-quattordici anni ho iniziato a fare i fumetti, o almeno a provarci. E’ stato al liceo che ho cominciato a disegnare dei comic book. Una volta mio fratello scrisse un soggetto per un sequel di The Dark Knight Returns di Frank Miller, era per un progetto scolastico. Quando ho capito che sarebbero state circa 30 pagine gli ho detto “Non disegnerò 30 pagine gratis”, così gli ho chiesto 200 dollari (ride). Penso che furono i miei genitori a dargli i soldi per pagarmi, quindi tecnicamente il progetto è stato finanziato da loro.

Ti ricordi ancora la trama?

No no, è stato tanto tempo fa, al liceo. Mi ricordo solo che cercavo di inchiostrare come John Totleben in Swamp Thing. Non sembrava un lavoro di Frank Miller, sembrava John Totleben. Dovrei ancora avere le tavole da qualche parte a casa ma non le ho più riguardate e non ho molta voglia di farlo. L’insegnante mi fece fare una dozzina di fotocopie e il pensiero che qualcuno possa averne ancora una mi terrorizza. Era veramente orrendo. Poi ricordo di aver fatto un fumetto utilizzando il personaggio di Travis Bickle interpretato da Robert De Niro in Taxi Driver e anche una storia con Grendel. Il mio sogno nel cassetto al tempo era che Matt Wagner mi ingaggiasse per disegnare Grendel.

Eri un fan di Matt Wagner?

Beh, leggevo Grendel quando avevo quattordici-quindici anni, ed era la prima lettura che si allontanava dai fumetti totalmente mainstream, perché in sostanza era un fumetto supereroistico ma per ragazzi più grandi. La cosa interessante è che Matt Wagner, che era un artista molto dotato, permetteva ad altri cartoonist di disegnare il suo personaggio e così io pensai “Può essere la mia grande chance”. Pensai anche di spedire i miei disegni a Matt Wagner ma non l’ho mai fatto. Il mio fumetto era una sorta di remake del film Die Hard ma con Grendel (ride). Sono abbastanza sicuro che il fumetto finisse con il personaggio che volava dalla cima di un edificio ed era totalmente ripreso dal finale di Die Hard, lo avevo visto circa un mese prima e mi era rimasto in testa.

E ti piaceva anche Sandman Mystery Theatre di Matt Wagner? Era uno dei miei fumetti preferiti negli anni ’90…

In realtà ne ho letto soltanto qualche pagina, sapevo che in quel periodo ci stava lavorando perché facevo il commesso in un negozio di fumetti ma non l’ho mai seguito veramente. E’ uscito in un periodo della mia vita in cui non leggevo la roba Vertigo perché ero preso dai fumetti alternativi.

Tornando al disegno, hai imparato da solo, giusto? Non hai frequentato una scuola d’arte o preso lezioni.

Al liceo avevo un professore d’arte che era molto aperto nei confronti del fumetto e mi incoraggiava a lavorarci. Infatti l’ho messo in Colville, dove ho disegnato una scena in cui ci sono il mio professore e il mio liceo. Beh, proprio due settimane fa me lo sono ritrovato qui nel negozio, qualcuno gli aveva mostrato il fumetto e lui è venuto da me per dirmi “Non mettermi più nei tuoi fumetti”. Secondo me era tranquillo fino a che non è arrivato alle ultime 40 pagine… Comunque sono stato fortunato a ricevere dei simili incoraggiamenti al liceo, anche se non ho mai avuto istruzioni specifiche, mi limitavo ad ispirarmi a più fumetti possibili, copiando e cercando di capire come mettere i diversi elementi sulla pagina.

E cosa è successo fino all’uscita di I Had a Dream #1? Lo hai pubblicato con la tua etichetta King Ing Empire nel giugno del 1995 ma tu facevi fumetti già da un po’ credo… Mi piacerebbe sapere che cosa c’è stato prima di quel comic book.

Ho cercato di mettere insieme un fumetto diverse volte. Avrò avuto circa 25 anni quando ho finito il primo numero di I Had a Dream, quindi era parecchio tempo dopo il liceo. Nel frattempo lavoravo a un negozio di fumetti e disegnavo qualche storia.

Ma solo per te…

Sì, è stato il mio campo di addestramento, ho disegnato centinaia di pagine di fumetti e illustrazioni ma non le ho mai mostrate a nessuno, forse solo a qualche amico. Lavorai a un paio di crime comic, delle specie di gialli che cercavo di capire come sviluppare, poi a un certo punto sono successi i fatti di cronaca che hanno ispirato Colville e ho pensato immediatamente “E’ questa la storia che voglio raccontare”.

E questo sempre prima di I Had a Dream.

Sì, era molto prima di I Had a Dream e già avevo disegnato una copertina per quella storia, anche se era una cover diversa sia da quella del comic book che da quella del volume di Colville, ma più simile alla seconda che alla prima. Al tempo pensavo che il fumetto si dovesse chiamare Warning Shot ma poi a un certo punto capii che non ero ancora in grado di realizzare ciò che avevo in mente, perché all’epoca non avevo mai provato a disegnare un fumetto più lungo di 25 pagine. Dovevo capire come funzionava una storia a fumetti. Ma poi un giorno un mio amico, uno che conoscevo da anni ma che non sapevo disegnasse fumetti, venne in negozio…

Come si chiamava?

Jason Williams.

Ah ok, immaginavo fosse lui, dato che il suo nome ricorre nei tuoi primi comic book.

Sì, così entrò in negozio e mi mostrò una storia di Spider-Man che aveva disegnato, e probabilmente era il peggior fumetto che avessi mai visto. Mi mostrò anche una lettera di rifiuto dalla Marvel. Dopo quel fumetto si dedicò a una serie chiamata Underterra e voleva pubblicarla anche se in realtà non era ancora pronto per un passo del genere. Mi diede le pagine del primo numero e mi chiese di correggerle. Quando le lessi mi resi conto che erano piene di errori, così scrissi un sacco di osservazioni e a un certo punto gli chiesi di farmelo disegnare da capo, proponendomi per riscriverlo insieme a lui e per inchiostrarlo. Ma alla fine pubblicò Underterra così com’era, con tutti gli errori. E ne stampò cinquemila copie a numero, distribuendo tutti e sei i comic book con la Diamond. Ma penso che alla fine riuscì a venderne una novantina di copie ad albo.

Quindi tutto ciò ti è servito da ispirazione? (ride)

Beh, ciò che ho preso da lui è stato fondamentalmente… il nome della tipografia (ride). Mi ha dato questa informazione e così ho pensato “Se questo tizio può fare un fumetto, è meglio che muova il culo per farne uno anch’io”. Avevo già una prima bozza dei primi tre comic book di I Had a Dream ma avevo disegnato ogni storia in un giorno. E così li ho completamente rifatti. Se ci ripenso, adesso non sono per niente soddisfatto del risultato e probabilmente non avrei dovuto pubblicarli, ma al tempo mi aiutarono a imparare a fare fumetti. Comunque penso che ci sia un bel salto nel quarto, quinto e sesto numero, in cui sono riuscito a mettere davvero le mie idee sulla pagina, e a disegnare meglio. Dopo questi sei numeri capii di aver finito con quel materiale, e pensai di essere pronto per lavorare a Colville. Ma poi feci un grosso poster per un mio amico, come regalo di compleanno, ed era un fumetto gigante con tipo 40 vignette. E divenne il primo Gardenback, che alla fine pubblicai prima di Colville.

“I Had a Dream” #1, giugno 1995

Se guardiamo i primi tre numeri di I Had a Dream, si nota che seguono gli stessi schemi delle newspaper strip, perché ci sono questi “tizi” che si confrontano in un’altra dimensione, con una serie di situazioni che possono ricordare Krazy Kat, o anche qualche cartone animato.

Sono sicuro che Krazy Kat non ebbe alcuna influenza su di me al tempo, ma come ho detto prima adoravo i cartoni della Warner e i Looney Tunes in particolare, con la loro violenza assurda, gli oggetti che vanno a sbattere tra loro, i muri che vengono abbattuti e così via… Sicuramente mi hanno influenzato. Vedi, i primi I Had a Dream erano molto nonsense, ero un grande fan di Chester Brown e mi ricordo di aver letto un’intervista in cui parlava del suo processo creativo e diceva di disegnare vignetta dopo vignetta, senza avere un’idea generale…

Sì, come in Ed The Happy Clown

Esatto, e così volevo lavorare anch’io in quel modo.

Poi con I Had a Dream #4 hai iniziato Slipstream, una storyline in due parti molto diversa dai lavori precedenti, che univa Roswell, i russi, le sperimentazioni sulla mente e le teorie della cospirazione. Lo avevi programmato sin dall’inizio?

Assolutamente no. Probabilmente stavo guardando troppi episodi di X-Files e leggendo libri sull’omicidio di Kennedy, ho letto 40-50 libri sull’argomento. Quando avevo 20 anni ero ossessionato dalle teorie della cospirazione, quei temi prendevano gran parte della mia attenzione allora e in qualche modo sono stati i fumetti a farmi interessare ad altro. Dopo aver fatto quei fumetti non me ne è importato più nulla, come se in qualche modo fosse finito un periodo della mia vita.

Tra Gardenback e The Cult of Gardenback hai pubblicato l’albo di Colville, giusto? Se non sbaglio dovrebbe essere del 1997.

Sì, all’inizio doveva essere molto più breve, circa 25 pagine, e doveva concentrarsi solamente sull’episodio ambientato nel cortile della scuola. Era vagamente basato su un vero episodio di cronaca nera, avevo ritagliato l’articolo sul giornale quando era successo perché mi ricordo di averlo letto e di aver pensato “Potrebbe essere un bel fumetto”. Ma quella era solamente l’ossatura, la storia infatti cominciò a crescere intorno all’episodio della sparatoria nel cortile. A quel punto pensai di fare un fumetto di 64 pagine e in breve tempo ebbi già un’idea approssimativa sia della storia che di come disegnarla. Andai a Keswick, una cittadina a 20 minuti da Newmarket dove quei fatti erano realmente accaduti. Il mio amico Jason Williams aveva vissuto lì, quindi conosceva bene la zona e così facemmo un po’ di foto da usare come riferimenti per il fumetto.

Usi parecchi riferimenti fotografici, vero?

Sì, fanno parte del mio metodo, perché non scrivo sceneggiature…

Mai?

Ci ho provato ma sempre senza successo, quando finisco e poi rileggo una sceneggiatura tradizionale con la descrizione delle vignette, i dialoghi e così via, di solito le idee mi sembrano stupide e non riesco più a usarle. L’unico modo in cui riesco a fare fumetti è mettermi seduto a disegnare. Il mio processo di scrittura è la creazione del fumetto.

Le 64 pagine del comic book di Colville del 1997 sono esattamente le prime pagine del volume del 2015 o hai cambiato qualcosa?

Sì, le 64 pagine del graphic novel sono le stesse del comic book, tranne che per una o due piccole revisioni dei disegni.

Quel fumetto era molto diverso da I Had a Dream. Dentro si sentiva qualcosa di nuovo, come se l’ispirazione venisse più da alcuni film che da altri fumetti o dalle teorie della cospirazione. Mi sembra di ritrovarci l’atmosfera di alcuni film americani degli anni ’70 o dei primi ’80, penso a registi come Brian De Palma, Martin Scorsese o anche il David Lynch di Blue Velvet.

Colville interior 1

Di solito nego di essere influenzato da cose specifiche e non penso che per i fumettisti sia una buona idea guardare al cinema, perché i fumetti sono una cosa a sé. Ma, detto questo, al tempo ero un grande fan di David Lynch e in particolare di Blue Velvet, che in fondo era una crime story perversa ambietata in una piccola città. Ero anche un grande appassionato di Twin Peaks e posso raccontarti un piccolo aneddoto a questo proposito. Ho deciso per il titolo Colville per l’artista canadese Alex Colville, anche se in realtà non c’è una diretta correlazione visiva con il fumetto, è più una cosa legata all’atmosfera. Ma c’è una scena in Twin Peaks, quando stanno parlando di dove si trova Twin Peaks – è un bel po’ da quando l’ho visto l’ultima volta ma il dialogo dovrebbe dire più o meno “All’angolo nord-est dello stato di Washington, al confine con il Montana e proprio sotto il confine canadese”. Non so bene perché ma un giorno mi sono messo a guardare su una mappa cosa c’era lì e ho scoperto che c’è una città che si chiama Colville. Puoi guardare sulla mappa, non è uno scherzo. Allora avevo già disegnato il comic book di Colville e così ho pensato “Beh, le forze dell’universo stanno lavorando insieme…” (ride). Questo a proposito dell’influenza di Lynch, per quanto riguarda Brian De Palma beh, ho dedicato il graphic novel a Brian De Palma e Nick Cave, il primo soprattutto per l’uso della carrellata nei suoi film. Sono un po’ fissato con le carrellate quando guardo i film… Il secondo capitolo del libro inizia con il personaggio che registra con la telecamera, quindi puoi leggere l’intero capitolo come una lunga carrellata, come se la telecamera non se ne andasse mai.

Ok, torneremo su Colville più tardi, quando arriveremo ai giorni nostri. Ora vorrei parlare della tua lunga pausa creativa, se per te non è un problema. In meno di tre anni, dal giugno 1995 all’aprile 1998, hai pubblicato sei numeri di I Had a DreamGardenback, il comic book di Colville e The Cult of Gardenback. Poi tra l’aprile del 1998 e il 2013…

Niente!

Sì, esatto (ride). Niente fino a The Journal of the Main Street Secret Lodge, che è appunto uscito nel 2013. Quindici anni sono una lunga pausa.

Quando finii le 64 pagine del comic book di Colville, mi resi conto che c’era ancora spazio per sviluppare quei temi. Inizialmente consideravo Colville come una storia autoconclusiva di 64 pagine e basta, ma poi quando ero a due terzi della lavorazione cominciai a pensare che fosse il primo capitolo di qualcosa di più lungo. Ma volevo anche sviluppare i fumetti di Gardenback e così pensai di alternare i due progetti, pubblicando ogni anno un albo dell’uno o dell’altro. Quando realizzai The Cult of Gardenback nel 1998, riuscii a disegnarlo, pubblicarlo e poi venderlo attraverso la Diamond abbastanza in fretta…

Hai utilizzato la Diamond sin dal primo numero di I Had a Dream, giusto? E anche la Capital City Comics al tempo.

Sì, all’inizio i miei fumetti venivano distribuiti anche attraverso Capital City ma poi la Diamond ha inglobato tutto. Comunque, dopo la pubblicazione di The Cult of Gardenback iniziai a lavorare al secondo capitolo di Colville. Nei miei piani il mio prossimo fumetto doveva essere Colville #2. Nel frattempo lavoravo a un negozio di fumetti, The Comic Wizard qui a Newmarket, proprio dall’altra parte della strada rispetto a dove siamo noi adesso. Sì, tutta la mia vita è in questo angolo di strada praticamente (ride)… Mentre ero lì, il negozio cambiò proprietà ma io continuai a lavorarci. Il nuovo manager entrò nel dicembre 1996 ma era un periodo difficile per gli affari e il negozio non andava affatto bene. Tenne il negozio per un paio d’anni cercando di mantenerlo in vita. A un certo punto pensai di comprare il negozio ma poi dovetti rendermi conto che non ce la potevo fare. Quindi stavo per rimanere senza lavoro e non avevo assolutamente le capacità per lavorare nel mondo reale. L’unica cosa che avevo fatto fino a quel momento era vendere fumetti, così decisi di aprire il mio negozio di fumetti.

Fourth Dimension, il negozio di fumetti di Steven Gilbert

Quindi hai aperto Fourth Dimension dopo la chiusura di The Comic Wizard?

Sì, quasi contemporaneamente. A un certo punto divenne chiaro che il negozio stava per chiudere nel giro di un paio di settimane, così affittai subito il locale, chiamai i distributori e tutto il resto. Ma il proprietario di The Comic Wizard tentò di mandare avanti le cose e ci fu un periodo molto strano in cui io avevo già aperto il mio negozio ma anche lui era ancora aperto.

Quindi c’erano due negozi? (ride)

Sì, nello stesso isolato, nella stessa strada. Ma uno stava chiudendo e l’altro aveva appena aperto… Dunque ciò che successe con i fumetti, beh, non avevo mai lavorato così duramente in vita mia, iniziare da capo un’attività imprenditoriale era da pazzi, soprattutto perché lo stavo facendo da solo. Il mio programma era mettere da parte i fumetti per sei mesi e poi dedicarmici di nuovo. Ma mandare avanti il negozio era davvero difficile, alla fine della giornata ero esausto e quando tornavo a casa non riuscivo a mettermi a disegnare. Quel periodo di sei mesi divenne di due anni e poi di tre, quattro, cinque… Mi ricordo di aver tirato fuori le tavole con l’intenzione di finirle diverse volte ma poi le guardavo per venti minuti con la matita in mano senza disegnare nemmeno una riga. E così le rimettevo al loro posto. A volte passava un anno prima che le tirassi fuori di nuovo. Successe nel 1999, nel 2000, nel 2001 e andò avanti nello stesso modo per diversi anni. Facevo ancora qualche disegno e qualche caricatura dei clienti del negozio per il mio divertimento, ma non fumetti.

E i paesaggi? Ci sono parecchi paesaggi in The Journal of the Main Street Secret Lodge, ci hai lavorato in quegli anni? 

No, non disegnavo nemmeno paesaggi. Non lo so in realtà, ma facevo più che altro disegni che poi buttavo. A un certo punto mi ricordo di aver capito di non essere più un fumettista, perché era troppo tempo che non facevo un fumetto. Ma poi, dopo qualche anno, mi venne l’idea di fare le fanzine Journal of The Main Street Secret Lodge e ripresi a disegnare seriamente. Sarà stato più o meno il 2003 quando stampai la prima, solo per divertimento, per darla agli amici e ai clienti. Forse ne fotocopiai un altro paio anche prima, erano come dei bollettini dei mercanti. Mi interessava soprattutto l’aspetto storico della Main Street, i palazzi, l’atmosfera. Iniziai a pubblicarle con una certa regolarità, creando piccole storie sul capitano Woodrow Gilbert e sulle sue avventure. Seguivo grosso modo la stessa formula, con dei tizi cattivi che venivano a Newmarket per derubare la banca e con Woodrow che arrivava per fermarli e ucciderli. Lo facevo esclusivamente per il mio divertimento. Poi cominciarono a diventare sempre più ambiziose, cambiai formato, ne pubblicai alcune più grandi, alcune arrivarono ad avere 24 pagine, altre 36, 48 e così via…

Quante di queste fanzine pensi di aver pubblicato in totale?

Penso di averne fatte altre cinque o sei dopo la prima del 2003. L’ultima era ancora fotocopiata ma era di 84 pagine, ci misi circa un anno per finirla. Aveva tantissime illustrazioni e un racconto interamente letterato a mano. Era una pazzia fare una cosa del genere e fotocopiarla e basta. Un giorno uno dei miei clienti, che faceva anche lui fumetti negli anni ’80, venne in negozio e mi diede una lettera di tre pagine in cui fondamentalmente diceva “Sei un idiota a non fare fumetti perché questa roba che stai facendo è grandiosa ma non è ciò che dovresti fare” (ride). E io risi e basta, perché quelle fanzine erano solo per me stesso, non mi interessava che la gente le leggesse, le facevo solo per la mia soddisfazione personale, per fare qualcosa di creativo. Ma fu in quel momento che ebbi l’idea per The Journal of the Main Street Secret Lodge. In realtà era un’idea che avevo in mente da quando stavo lavorando a Colville, già avevo pensato a questa rapina in banca da raccontare come se fosse un western, utilizzando Newmarket come sfondo. E rimase nella mia testa per anni. Poi scoprii di quell’articolo sul sito Comics Comics, probabilmente trovando il link su un altro sito che stavo guardando, perché a quel tempo non usavo granché internet, non avevo nemmeno mai cercato niente su Google credo (ride).

A Gilbert's zine from 2003

Una fanzine del 2003

Quindi già conoscevi il sito Comics Comics?

No, non avevo mai visto quel sito prima. L’unica cosa che sapevo è che Comics Comics era una rivista, fecero un paio di numeri che avevo avuto in negozio ma che finirono ancor prima che li leggessi. Non sapevo che Frank Santoro fosse coinvolto ma lo conoscevo per i suoi fumetti, come Storeyville, di cui ero un grande fan. Comunque penso di averlo visto sul sito di Heidi MacDonald, The Comics Beat, c’era questo link che diceva qualcosa come “Su Comics Comics Frank Santoro ha scritto un articolo sui cartoonist degli anni ’90 di cui non si hanno più notizie”. Mi ricordo che mossi il cursore sul link pensando “Se il mio nome è in quella lista me la farò sotto”. Poi cliccai e lessi “Il tizio che ha fatto Colville“. E allora pensai “Cazzo, se sono in questa lista significa che qualcuno si ricorda dei miei fumetti”. E così capii, fu come un interruttore che si accese nella mia testa dicendomi “Devi fare un altro fumetto”. E a quel punto iniziai a lavorare seriamente a The Journal of the Main Street Secret Lodge.

Era il 2011, giusto?

Penso di sì, non sono così bravo a catalogare le cose nella mia testa. Comunque iniziai a disegnare con l’idea di fare un’altra fanzine fotocopiata. La precedente era fatta di 21 fogli messi insieme, spillati e poi ripiegati per formare 84 pagine, più la copertina. Dovetti spillare alcune fanzine tre volte e fu veramente una rottura. Così pensai che 84 pagine erano il limite massimo e mentre ci lavoravo stavo molto attento a quanto disegnavo. Ma poi arrivai a 70 pagine, quindi a 75, 80 e così via e iniziai a preoccuparmi. Alla fine vennero fuori 130 pagine e quando le mostrai al mio amico Eddie mi disse “Questa roba deve diventare un libro, non può essere soltanto una stronzata fotocopiata che metti vicino alla cassa regalandola alle persone che entrano in negozio”.

Hai mai considerato l’idea di proporlo a un editore o te lo sei voluto autoprodurre sin dall’inizio?

Non ho mai pensato seriamente di mandarlo a qualcuno, l’autoproduzione era la mia sola opzione. Pensai a qualcosa tipo print on demand o a una tiratura molto bassa, perché in precedenza avevo venduto un centinaio di fanzine fotocopiate, così mi sembrava sensato fare 100 copie anche questa volta. Feci un sacco di ricerche sul print on demand ma quando ne parlai con qualcuno ai festival sembravano tutti insoddisfatti del risultato, mi parlavano di problemi con la rilegatura, la colla e via dicendo. Mentre facevo queste ricerche, trovai da qualche parte il nome della tipografia con cui avevo lavorato 15 anni prima e pensai per la prima volta di fare una vera e propria stampa in offset. Contattai lo stesso tipo con cui avevo parlato in passato ma avevo una vecchia e-mail perché a un certo punto aveva cambiato tipografia, ma ogni tanto controllava anche quel vecchio indirizzo e dopo un po’ mi rispose. Mmm, non so dove sto andando a parare con questa risposta…

Beh, penso che siamo arrivati al punto in cui hai deciso di stampare in offset.

Giusto! (ride). Beh, un fattore importante era il prezzo, perché stampare in offset significa fare almeno 1000 copie, quindi è un po’ un investimento piuttosto che fare un centinaio di copie con il print on demand. Ma poi scoprii che i costi del print on demand erano molto alti, il libro sarebbe venuto 9 dollari a copia, più 2 dollari per spedire in Canada perché la tipografia era negli Stati Uniti, così dovevo pagare 11 dollari a copia più il cambio, mentre 1000 copie in offset sarebbero costate 2200 dollari canadesi. Era davvero un buon affare. Così a quel punto pensai “Ok ho deciso, lo stamperò sul serio”.

“The Journal of the Main Street Secret Lodge”

Quel libro vinse il Dough Wright Award per Best Spotlight Work, giusto?

Sì, fu tutto un po’ strano, perché inizialmente lo vendevo soltanto qui nel negozio, vicino alla cassa. Avevo già pensato di andare al Toronto Comic Arts Festival l’anno seguente ma non pensavo proprio di proporre il libro per i Dough Wright Awards. Poi un mio amico, che vive a Winnipeg e che aveva già una copia del Journal, mi disse che ci sarebbe stato un firmacopie di Chester Brown da quelle parti nel giro di un paio di giorni e io gli dissi “Maledizione, mi piacerebbe dare una copia a Chester ma non riuscirò mai a spedirtene una in tempo”. Lui allora mi propose di dargli la sua copia, tanto io potevo mandargliene un’altra con calma, così gliela consegnò. E Chester fu molto contento di scoprire che avevo fatto un nuovo fumetto.

Già avevi incontrato Chester Brown prima di allora? 

Sì, lo conoscevo ma in maniera molto formale, lo avevo incontrato a delle sessioni di autografi e gli avevo parlato. Lui conosceva già i miei fumetti degli anni ’90. Non so quanti giorni passarono ma dopo un po’ ricevetti questa telefonata al negozio ed era Chester che si voleva complimentare con me per il fumetto. Inoltre mi disse che era nella giuria che assegnava le nomination per i Dough Wright Awards e che se volevo potevo spedire cinque copie del Journal ai membri del comitato. Mi raccontò anche che aveva cercato di comprarne qualche copia a The Beguiling a Toronto ma non ce l’avevano e non sapevano come procurarselo. E allora io gli dissi “Lo so io come trovarne delle copie, ne ho centinaia negli scatoloni” (ride).

Quindi fino a quel momento non avevi nemmeno portato delle copie a The Beguiling.

No, in realtà chiamai Peter di The Beguiling proprio dopo quella telefonata con Chester per chiedergli se ne volesse delle copie e lui mi disse di sì. Poi, quando uscirono le nomination dei Dough Wright Awards 2014, il mio nome era sulla lista insieme a quello di altri cartoonist decisamente bravi. E fu molto strano per me, quasi non ci credevo che il mio nome fosse accanto a quello degli altri autori. I tipi dei Dough Wright Awards mi invitarono al party al TCAF perché ero stato nominato e a quel punto pensai “Beh, sembrerebbe brutto non andarci quando sei nominato e sei anche un espositore del festival”. E ti riservano dei posti nelle prime file in una specie di area VIP, ma io volevo sedermi in fondo perché pensavo sarebbe stata una facile via d’uscita dopo la premiazione. Alla fine quando andammo là con Stacey ci sedemmo a metà della sala ma comunque non nell’area VIP, per qualche motivo non mi sembrava opportuno…

Hai trovato un compromesso…

Sì sì, tra la metà e il fondo a dire il vero… Poi fu abbastanza surreale ciò che successe. Nella categoria in cui ero stato nominato c’erano altri quattro cartoonist che trovo eccezionali, c’erano Dakota McFadzean, Connor Willumsen e… Oddio, non mi ricordo…

Ma la categoria Best Spotlight Work è per i cartoonist giovani, giusto? (ride)

Sì, era per autori emergenti, e la cosa sembrava un po’ una barzelletta, era divertente in qualche modo. Ma se guardi la pagina dei premi, non c’è nessun requisito di età, quindi la categoria è per cartoonist emergenti ma non devono essere giovani. Non ero nervoso per la nomination finché non arrivai lì, dopo fu veramente terribile. Qualche giorno prima della premiazione, Stacey mi guardò e mi disse “Vincerai” ma a me sembrava del tutto impossibile. Ma si vede che lo sapeva.

Il premio però non ha cambiato il tuo stile, perché dopo hai continuato a lavorare, hai anche finito Colville ma non hai comunque pensato di proporlo a qualche editore.

Beh, non per divagare, ma quando uscì il comic book di Colville nel 1997, spedii delle copie a Seth e Chester Brown, e Seth mi rispose con una cartolina su cui scrisse “Dovresti mandarlo a Chris Oliveros della Drawn & Quarterly, penso che gli piacerebbe dargli un’occhiata”. Così mandai una copia a Chris Oliveros e lui mi rispose dicendomi che pensava che ci fossero delle cose valide nel mio fumetto, chiedendomi di tenerlo informato sui miei progetti futuri. Ovviamente subito dopo smisi di fare fumetti per diversi anni. Ma probabilmente la Drawn & Quarterly è il mio editore di fumetti preferito e mi sentivo come se le mie cose non fossero al loro livello. Una parte di me sente che i miei fumetti non sono abbastanza validi per essere pubblicati dagli editori che mi piacciono…

Dai, ma lo pensi veramente?

Forse sì, sai, mi piace la Drawn & Quarterly, mi piace la Fantagraphics, mi piace Conundrum, mi piace la Koyama Press e forse tra qualche giorno al TCAF darò a tutti loro delle copie dei miei libri, non so… So che alcuni di loro sanno chi sono ma non mi sono mai fatto avanti. Forse potrei provarci con il prossimo Journal, perché in fondo mi piacerebbe avere una distribuzione più ampia per i miei fumetti. Ho anch’io un po’ di ego e mi piacerebbe che la gente potesse avere accesso ai miei libri in maniera più facile rispetto a trovare la mia e-mail in fondo a una recensione. Ma mi piace anche l’autoproduzione perché è in tutto e per tutto una mia creazione, non devo cambiare niente che non abbia voglia di cambiare, ogni riga può essere qualsiasi riga che io voglio che sia. Mi fa anche piacere che sia Colville che The Journal abbiano raggiunto il pareggio, hanno venduto abbastanza copie in negozio, al TCAF e a una manciata di altri posti per coprire i costi di stampa. E in fondo era questo il mio obiettivo, quando feci The Journal pensai “Se un giorno o l’altro recupererò i costi di stampa, posso considerarlo un successo commerciale”.

Hai delle ambizioni tutt’altro che sfrenate…

Non so, non ho nemmeno proposto i miei nuovi libri alla Diamond, forse per paura di un possibile rifiuto, per timore che la Diamond mi risponda “I tuoi fumetti non sono così validi da essere distribuiti…”.

Beh, ma in ogni caso non dovresti preoccuparti dell’opinione della Diamond!

Ma la Diamond rappresenta una strada importante nelle fumetterie del Nord America e di tutto il mondo, ogni negozio di fumetti in lingua inglese ordina dalla Diamond. Cioè, a me non interessa un giudizio estetico da parte della Diamond… Ok, troverò il tempo per farlo, ho le informazioni per contattarli, quindi penso che prima o poi lo farò.

A proposito dei contenuti di The Journal of the Main Street Secret Lodge, il protagonista è il Capitano Woodrow Gilbert. E’ basato su una persona realmente esistita?

Ormai esiste davvero nella mia testa. A dirla tutta, il personaggio è completamente rubato da Lonesome Dove, una miniserie tv con Tommy Lee Jones e Robert Duvall. E’ un western, ed è probabilmente il miglior western che io abbia mai visto. E’ basato su un romanzo con lo stesso titolo di Larry McMurtry. In Lonesome Dove il protagonista è un cowboy, un ex Texas Ranger che si chiama Captain Woodrow F. Call. I personaggi vanno dal Messico al Montana per mettere su un ranch e la storia racconta questa lunghissima transumanza. Dopo aver visto la serie scherzavo sempre con il mio amico che ora è a Winnipeg, James, dicendo che avrei chiuso il negozio per andare in Messico a comprare cinquemila bovini da portare fino in Montana. I due personaggi di Lonesome Dove sono Woodrow e il suo amico Augustus e a quel tempo mi ero convinto che se non attuavo questo piano era solo perché non sapevo se fossi Woodrow o Augustus. Poi un giorno James mi guardò, come se stesse valutando sul serio la domanda, e mi disse “Tu sei Woodrow”. Così mi venne la bizzarra idea di questo mio lontano parente che era un ex Texas Ranger e che aveva fatto questa lunga transumanza, per poi spostarsi in età matura dal Montana a Newmarket, facendo del Northern American Hotel sulla Main Street il suo quartier generale. E alla fine divenne il personaggio del mio libro. L’idea del personaggio è dunque ripresa totalmente da Lonesome Dove anche se mi sembra di aver raggiunto un risultato diverso alla fine.

Il volume raccoglie la storia principale con Woodrow protagonista ma anche paesaggi, un testo scritto a mano che parla di rapine in hotel, dei ritratti di donne a firma William Bobo…

Beh, cerco di soddisfare qualsiasi interesse…

Sì, c’è un po’ di tutto. Ma pensi che la vera protagonista sia Newmarket?

Sì, penso di sì, e più il tempo passa e più mi rendo conto che il motivo principale per cui mi piaceva lavorare a The Journal era perché così potevo disegnare la città. E c’è ancora più enfasi su questo aspetto nel secondo volume, su cui sto lavorando in questo periodo, sarà un vero diario di viaggio, una rappresentazione visiva della città ma anche di molto altro. E’ un volume di 250 pagine e circa 150 rappresentano una sorta di tour del paese, la gran parte degli sfondi vengono da riferimenti reali di posti che si trovano qui a Newmarket.

Hai cercato dei riferimenti fotografici o iconografici per descrivere la Newmarket del passato?

Ho tantissimo materiale sulla storia della città e un sacco di riferimenti visivi. Vivo qui da sempre e quindi è stato davvero facile capire come sarebbe stato questo viaggio attraverso la città. Potrei sedermi, chiudere gli occhi e riconoscere esattamente ogni angolo, ogni posto. Non è difficile trovare le diverse location, vivo qui e quindi posso uscire e andare a fare delle foto se mi serve qualcosa.

Zines and comics by Steven Gilbert

Fanzine e comic book di Steven Gilbert

Ok, parliamo del libro di Colville adesso. Credo che la storia sia molto più forte letta tutta insieme perché la reiterazione della scena chiave è molto importante e dà forza all’intero lavoro. Quest’idea non era già nel primo comic book, giusto? 

Quando mi venne l’idea di lavorare al seguito del primo comic book, non avevo nessuna soluzione visiva per dare unità alla storia. In quelle prime 64 pagine a un certo punto feci comparire Paul Bernardo, che fu una cosa molto spiacevole, perché era una persona reale, un vero serial killer e stupratore seriale dell’area di Toronto nei primi anni ’90. Il suo giocattolo preferito era la telecamera, e quando decisi che Bernardo avrebbe avuto più spazio nel secondo e nel terzo capitolo, mi venne l’idea di ripetere la scena del crimine, per cui utilizzare questo tizio tra i cespugli che registrava sembrò la cosa giusta da fare. Lui faceva veramente cose del genere, seguiva la gente, li riprendeva e così via. Colville è una storia in tre parti ma in origine stavo lavorando su un’altra parte, un capitolo in cui venivano mostrati i poliziotti che investigavano. Disegnai circa 25 pagine e poi le scartai perché si allontanavano troppo dalla ripetizione visiva del crimine. Quando le disegnai la seconda volta divennero simili al film Rashomon, dove viene mostrato lo stesso crimine da quattro prospettive diverse. E fu molto utile per sviluppare la trama coinvolgendo al tempo stesso gli altri personaggi.

Sì, è interessante perché questa soluzione crea un legame tra le diverse vicende, e questo mi fa pensare di nuovo alla città come vera protagonista della storia.

Mi sforzo parecchio per rendere l’ambientazione una parte del racconto, mi piacciono le storie che parlano di zone specifiche, in cui lo spettatore segue le vicende dei personaggi ma ha anche la possibilità di guardare i paesaggi, scoprire la geografia del posto e così via.

E la storia non parla soltanto della città ma anche dell’organizzazione criminale della città, come dice il titolo del libro spedito da Tracy insieme all’adattamento di Twilight of Superheroes, un fumetto inedito di Alan Moore…

Sì, lo chiamo il finale alla Watchmen

Infatti è molto simile, e ti volevo proprio chiedere qualcosa a questo proposito. Volevi che fosse soltanto una citazione o hai volutamente riscritto la sequenza finale di Watchmen?

Non ho consapevolmente pensato a un riferimento diretto. C’era un periodo anni fa, negli anni ’90, quando mi piaceva fantasticare di tanto in tanto sul finale della storia e immaginavo una scena in cui Tracy mandava le tavole all’autore del vero libro, cioè a me. Infatti sin dall’inizio il ragazzo doveva disegnare questo fumetto sulle attività criminali della città, ma poi a un certo punto pensai di lasciar perdere perché volevo ambientare la scena in cui Tracy spediva il fumetto in un ufficio postale e avrei avuto bisogno di scattare delle foto per poterlo disegnare, e mi sembrava complicato mettermi a fare delle foto alle poste…

E quindi hai usato la cassetta delle lettere…

Sì, ho capito che potevo farlo senza dover disegnare un ufficio postale. Il titolo del libro, Nomenclature of a Small Town Criminal Organization, è un piccolo tributo al mio periodo JFK, c’era questo libro autoprodotto che avevo comprato – era un libretto fotocopiato che si poteva ordinare solo per posta – si chiamava Nomenclature of an Assassination Cabal e io ho sempre pensato “Che cazzo di titolo fantastico”. E così questa semplice idea di Nomenclature of a Small Town Criminal  Organization era un piccolo dettaglio che mi è rimasto in mente per 10 o forse 15 anni. Ma poi quando lo stavo disegnando ho pensato “E’ molto simile al finale di Watchmen“.

E questa nomenclatura è in fondo il libro stesso, pagina dopo pagina il lettore incontra criminali sempre più malvagi, all’inizio abbiamo David, poi Van, quindi Alan Gold e infine Paul, il più inquietante di tutti… Hai pianificato dall’inizio questa sorta di crescendo?

Non avevo l’idea di creare un’escalation, no… Ma forse una delle ragioni per cui non sono riuscito a lavorare al libro per così tanto tempo è che il finale che avevo deciso mi metteva davvero a disagio. Inizialmente avevo già pianificato di dedicare dieci pagine a Paul Bernardo nel seminterrato con la ragazza ma mi sembrava di non essere in grado di disegnare delle scene così tremende, così è come se mi fossi rifiutato di finire il libro per tutto questo tempo. E’ un argomento orribile.

Colville interior 2

Ma avevi deciso che questo argomento dovesse essere nel tuo libro.

E’ strano perché avrei potuto cambiare la storia e fare qualcosa di diverso, ma anni fa avevo deciso che il finale sarebbe stato quello, quindi per me non c’era realmente la possibilità di fare delle modifiche.

Potrebbe essere un altro motivo per cui avevi smesso di fare fumetti… 

Sai, aprire il negozio è stato probabilmente il motivo principale ma mi sembrava anche di non avere ciò che mi serviva, qualunque cosa fosse, per disegnare quelle pagine, era materiale terribile per me. Avevo letto dei libri su Paul Bernardo e quindi sapevo quanto fossero tremendi quei crimini, così quando iniziai a utilizzare quel materiale nella storia di fantasia del fumetto, facendo diventare il personaggio della ragazza una vittima di Bernardo, capii che non sarebbe stato piacevole da disegnare. Non volevo che fosse eccitante, volevo che fosse orribile. E mi sentii orribile a disegnarlo, e ho parlato con persone che hanno trovato orribile leggerlo, quindi suppongo di aver raggiunto l’obiettivo se è possibile dire una cosa del genere.

Quindi finire il libro è stata una sorta di liberazione?

Sono felice di averlo finito e non ho alcun interesse a fare di nuovo quel genere di storia lì. Le storie di The Journal of The Main Street Secret Lodge hanno dei momenti violenti e piuttosto cruenti ma al tempo stesso c’è anche una componente di divertimento e di gioco, non vanno prese sul serio per la gran parte.

Sì, e anche i disegni sono molto diversi, Colville è più realistico.

Beh, a mio parere Colville è la cosa migliore che io abbia mai disegnato. Mi piacciono molto anche alcune pagine del prossimo Journal ma non penso che lavorerò così tanto a un altro fumetto come ho lavorato a Colville.

Immagino che le pagine di Colville abbiano richiesto una lavorazione più complessa rispetto a quelle del Journal, il tratteggio è molto dettagliato, soprattutto nella seconda e nella terza parte. E il tratteggio è una sorta di marchio di fabbrica per te.

Le tavole di Colville sono state disegnate per la gran parte in formato più grande e sì, ci ho messo una vita per farle. Per quanto riguarda il tratteggio, beh, non lo consiglierei a nessuno. Alcune volte i fumettisti mettono un sacco di linee sulla pagina per mascherare il fatto che non sanno disegnare. Ma nei miei fumetti i disegni brutti sono sotto gli occhi di tutti. Non c’è l’intenzione di nascondere i disegni mal riusciti, ho scelto di usare il tratteggio per creare una sorta di atmosfera. Forse nei miei primi fumetti il disegno era più stilizzato, poi è diventato più realistico e ora sto tornando a qualcosa di più stilizzato nel prossimo lavoro. Lo stamperò nei toni del grigio, disegnando in strati separati bianchi e neri, un processo diverso da quanto ho fatto in passato. Spero che sia un cambiamento positivo, anche se sono sicuro che il libro che farò dopo il nuovo Journal avrà un sacco di tratteggio, probabilmente più di tutti gli altri.

In pratica stai andando avanti e indietro…

Sì, penso proprio di sì. (ride).

Steven Gilbert nel suo negozio

Un’intervista a Conor Stechschulte

(English text)

In occasione della prossima imminente edizione di BilBOlbul, dal 24 al 26 novembre a Bologna, Conor Stechschulte sarà protagonista di una mostra intitolata Il peso dell’acqua, che inaugurerà presso la galleria Spazio & il 24/11 alla presenza dell’autore, per poi prolungarsi fino al 20 dicembre. Negli stessi giorni troverà pubblicazione in Italia per 001 Edizioni I dilettanti, traduzione di The Amateurs, graphic novel edito nel 2014 da Fantagraphics dopo una prima versione autoprodotta. E a breve è prevista inoltre l’uscita del terzo capitolo di Generous Bosom, la serie che il cartoonist americano sta realizzando per gli inglesi di Breakdown Press.

Per presentare Conor al pubblico italiano gli abbiamo rivolto qualche domanda sulla sua formazione, le sue opere e il suo processo creativo. L’intervista è stata realizzata via e-mail tra settembre e ottobre 2017 da Alessio Trabacchini e Gabriele Di Fazio, cui si è aggiunta in seguito Elisabetta Mongardi. La traduzione in italiano è di Mauro Meneghelli. Buona lettura.

The Amateurs mostra la tua capacità di far scorrere il mistero nel quotidiano, sembra che attraverso i vari personaggi (nella storia principale e nella cornice) la storia illustri diverse modalità di rapportarsi all’elemento misterioso e non razionale dell’esistenza. Non sappiamo se sei d’accordo con questa lettura ma vorremmo cominciare proprio dal tuo rapporto con questo elemento e da come pensi che possa essere trasmesso, mostrato o evocato attraverso l’arte.

Le storie di fantasia possono aiutare a guardare da altri punti di vista ciò che viviamo. Questo è un grande dono che ho ricevuto dell’arte, e che cerco di trasmettere. Inoltre mi piace molto quando sogno qualcosa di veramente banale – come aver spostato un oggetto nel mio appartamento o aver ritrovato qualcosa in macchina – e poiché si adatta perfettamente alla realtà è come una strana ma noiosa bomba a orologeria che esplode all’improvviso. Rende il resto della mia giornata un po’ irreale. Mi è successo anche di recente, ho sognato di aver inviato alcune foto sul mio cellulare a un estraneo, che ha risposto semplicemente “Ah!”. Qualche giorno dopo il sogno, ho avuto un momento di assoluto panico al pensiero che questa cosa leggermente imbarazzante fosse successa davvero.

Quindi, se sognare oggetti comuni è importante per la tua arte, è anche vero che l’incipit di The Amateurs mostra il processo contrario, dato che qualcosa di insolito si materializza nella vita di tutti i giorni. La testa ritrovata nel fiume innesca infatti una serie di eventi straordinari, come succede con l’orecchio tagliato trovato nel campo all’inizio di Velluto blu di Lynch. Se i tuoi fumetti svelano la permeabilità tra il mondo reale e quello onirico, puoi raccontarci meglio come l’esperienza del sogno influenza il tuo lavoro? Inoltre, ci sono autori che ami particolarmente tra coloro che hanno percorso questa strada?

Mi piacerebbe parecchio fare dei sogni lucidi, ma finora non ci sono riuscito se non in quei momenti, la mattina presto, in cui posticipo continuamente la sveglia. Ho trovato molte soluzioni a problemi di sceneggiatura o di disegno in questo “spazio” (mi ricordo per esempio l’immagine finale di The Dormitory con il ragazzo che fuma alla finestra del seminterrato).

Un autore che mi viene subito in mente a questo proposito è Jesse Ball. Ho avuto il privilegio di averlo come tutor durante il mio semestre alla School of the Art Institute di Chicago la scorsa primavera e ho appena letto Sleep, Death’s Brother, il suo libro sul sogno lucido. Le sue idee sui sogni sono molto più interessanti delle mie e mi piace particolarmente la sua concezione dello spazio onirico come un territorio dove allenare la volontà; il suo libro è infatti destinato ai bambini e ai detenuti per l’esercizio della forza di volontà in circostanze particolari.

La gran parte dei miei autori e artisti preferiti ha “percorso questa strada”. Uno dei più importanti per me è Kobo Abe, e per Generous Bosom mi sto ispirando molto al suo libro Secret Rendezvous. Nei suoi quaderni Werner Herzog non fa distinzione tra avvenimenti quotidiani e immaginario onirico (sebbene affermi di non sognare la notte). L’idea seminale per The Amateurs è scaturita da una scena che ho letto nei suoi diari in cui descrive dei macellai incapaci sulle sponde di un fiume a Iquitos. Nell’ambito del fumetto penso che Olivier Schrauwen sia un maestro delle situazioni sognanti/fantasiose/soggettive e nel giocare con il loro scarto umoristico rispetto alla realtà circostante. Altri libri/autori/artisti per me importanti in questo filone sono L’allegra compagnia del sogno di J.G. Ballard, Solaris di Stanislaw Lem, Il pellegrinaggio in Oriente di Hermann Hesse, L’uccello che girava le viti del mondo di Haruki Murakami, chiaramente Borges, Philip K. Dick,  Apichatpong Weerasethakul, Tarkovsky, sicuramente Lynch… E molti altri che sto dimenticando.

L’edizione Fantagraphics di The Amateurs presenta alcune differenze dalla prima versione che ti sei autoprodotto nel 2011. La più significativa è la sostituzione dell’introduzione scritta a mano con una storia completamente nuova di due studentesse che trovano la testa di un uomo nel fiume, lo stesso fiume dove faranno un rito per celebrare la promozione insieme alle compagne di scuola. Perché hai deciso di modificare l’originale e come hai creato questa nuova storyline?

Ero semplicemente insoddisfatto della lettera da un punto di vista estetico. Era una delle ultime cose che avevo aggiunto al fumetto e più la guardavo meno mi convinceva. Un paio di mesi dopo aver pubblicato l’albo ho avuto l’idea di questa seconda storyline e ho pensato: “Se mai avrò modo di ristamparlo l’aggiungerò”. Così quando Fantagraphics me ne ha dato l’opportunità è stata una delle prime cose che ho fatto.

Gli animali hanno un ruolo chiave in The Amateurs, sembrano forti e consapevoli, mentre Jim e Winston, i due macellai protagonisti della storia, sono deboli e confusi. Inoltre la violenza brutale di alcune sequenze in cui gli animali sono considerati semplicemente come cibo sembra condannare la scelta di mangiare carne animale. Volevi comunicare una sorta di “messaggio” con questa storia? O l’interpretazione è più metaforica?

Ho deciso che Jim e Winston dovessero essere dei macellai perché volevo facessero un lavoro intimamente correlato con la morte. Volevo raccontare come le persone, invece di fare i conti con la morte, la considerano una cosa che non li riguarda e finiscono per collocarla nel corpo altrui. E questo porta sempre a un danno per se stessi e per gli altri.

Detto questo, quando ho realizzato il libro ero vegetariano da dodici anni. Ma poi ho ricominciato a mangiare carne. Ahah, non so se questo spiega qualcosa della storia… Se qualcuno decidesse di diventare vegetariano dopo aver letto il libro sarebbe fantastico.

Leggendo The Amateurs, l’impressione è che il genere dei tuoi personaggi non sia casuale. Oltre ad alcuni indizi evidenti (la scuola femminile, le due clienti), tutti gli animali che ad un certo punto si ribellano contro gli umani sono femmine (la scrofa, la giumenta, la mucca) mentre i maschi sono più sottomessi (il maiale va nel mattatoio di sua iniziativa, la tartaruga viene torturata nel bosco). Sembra anche che il potere minaccioso del fiume, quale che sia, non colpisca le donne: lo usano per fare il bagno, lavare i panni, fare dei riti senza che gli succeda nulla. Quando, invece, Winston e Jim entrano nell’acqua vengono letteralmente fatti a pezzi. C’è anche una scena in cui Winston, subito dopo essersi macinato le dita, urla alle due clienti che non tollererebbe mai che una donna criticasse il suo lavoro. Per non parlare del fatto che gli torna in mente che quando erano bambini le due clienti lo avevano vestito da femmina. Ci sembra dunque che il tuo libro sia pieno di sottili riferimenti alle relazioni tra uomini e donne (o alla concezione generale di mascolinità e femminilità). Tutto ciò è intenzionale o lo stiamo sovrainterpretando? E il fiume c’entra qualcosa con la rappresentazione della femminilità nel libro?

Grazie per questa lettura così accurata. È assolutamente vero che, almeno nelle mie intenzioni, il genere era un aspetto fondamentale che volevo affrontare.

Anche a rischio di spiegare troppo o escludere interpretazioni migliori e più interessanti, direi che The Amateurs è un tentativo di prendere in giro, ridicolizzare e fare a pezzi (letteralmente, ahah) la concezione di una mascolinità autosufficiente, non-relazionale, quella dell’uomo che ha tutte le risposte. È questo ciò che Jim e Winston tentano di rappresentare per i personaggi femminili del fumetto.

Di grande ispirazione per The Amateurs è stato il libro di Kaja Silverman Flesh of my Flesh, che propone di sostituire il mito di Edipo con quello di Orfeo per quanto riguarda il genere – una storia basata sulla mortalità invece che sulla castrazione. Afferma che la nostra mortalità ci permette di relazionarci gli uni con gli altri per analogia, attraverso le nostre somiglianze, piuttosto che metaforicamente, cosa che presuppone sempre una gerarchia. Ho utilizzato molte di queste idee e ho preso in prestito l’immaginario del mito di Orfeo (ad esempio la testa trascinata sulla riva).

Grazie per aver evidenziato l’aspetto del genere a proposito degli animali ma non penso di averlo fatto intenzionalmente. Credo che un modello simile emerga anche in Generous Bosom, dove il protagonista e “eroe” della storia è in realtà molto passivo.

Quanto all’acqua, credo sia rappresentativa di uno stato estatico/trascendente/indefinito e non riferita al concetto di genere.

L’acqua è un elemento ricorrente nei tuoi fumetti, e talvolta ha un ruolo fondamentale. Può essere il fiume rituale in The Amateurs, la pioggia da cui prende forma Generous Bosom, il lago delle tensioni acute ma impalpabili di Glancing, il mare che accoglie i giochi di Water Phase e il flusso narrativo di Christmas in Prison. Se la consideriamo come un simbolo, l’acqua è necessariamente sfaccettata, fluida, e sembra collegata al desiderio, al cambiamento, all’epifania. È dove succedono le cose, dove si raccontano le storie e si svelano i segreti. Perché l’acqua è così importante per te?

Grazie per aver rintracciato in maniera così completa questa immagine nei miei lavori! Avete delineato così bene il modo in cui ho utilizzato l’acqua che non so se posso aggiungere altro…

Dei significati simbolici che avete elencato mi identifico maggiormente con l’idea di cambiamento. L’acqua è dove i confini si infrangono, le cose si dissolvono, le definizioni si spostano.

Per quanto si debba essere chiari ed esplicativi nel raccontare una storia, soprattutto con i fumetti (ecco un tizio, ed eccolo di nuovo, vedi? Porta le stesse scarpe e lo stesso cappello, a parte il fatto che gli è caduto l’ombrello, ed eccolo, è di nuovo lui che si sta chinando per raccoglierlo), l’acqua concede uno spazio necessario alla vaghezza.

È un luogo che permette di sospendere l’interruzione tra le varie vignette (o forse è un modo di rappresentare quel non-spazio tra loro). Puoi raffigurare un personaggio con tratti puliti e decisi per la maggior parte della tua storia ma, se pensi allo stesso personaggio in una vasca piena d’acqua, le linee diventano tutte ondulate. E possono essere diverse, dunque.

Questo conferma la tua tendenza a cercare modalità sempre nuove per raccontare una storia. Per esempio anche il tuo ultimo lavoro, Tintering, è innovativo, perché invece di disegnare i personaggi racconti la storia di cinque artisti autodidatti attraverso diversi oggetti rotti e usando vignette molto simili tra loro, mentre il contenuto è veicolato soprattutto attraverso il testo. Come sei arrivato a questo e perché è importante per te puntare l’attenzione sugli oggetti?

L’ispirazione per il soggetto del fumetto è stata una lezione di storia dell’arte di Lisa Stone, che è un’insegnante incredibile, generosa e acuta sul tema degli artisti autodidatti e vernacolari. Il modo in cui questi artisti si rapportavano agli oggetti era diverso da come noi abitualmente facciamo (o dobbiamo fare) nella quotidianità. Kea Tawana, per esempio, smontava con meticolosità e attenzione quei vecchi edifici di Newark. Aveva un’enorme sensibilità per l’artigianato e non poteva sopportare che dei materiali utili andassero sprecati. Buona parte del lavoro di questi artisti autodidatti è una risposta alla produzione massiva di oggetti tipica della nostra cultura, e all’incuria e spreco successivi.

Inizialmente pensavo che il fumetto dovesse essere come quelle sezioni di Christmas in Prison in cui il personaggio fa una sorta di monologo rivolto al lettore. Allora ho disegnato un tipo dietro un albero e poi ho pensato che avrebbe allungato una mano e spezzato un ramo. A quel punto mi è sembrato più corretto che fosse il ramo a parlare. La maggior parte delle storie di questi artisti iniziano e finiscono tragicamente – subiscono una perdita, creano qualcosa di bello che viene distrutto. Mi è sembrato giusto che fosse qualcosa di rotto a raccontare queste storie e che parlasse dalla parte della ferita.

In Generous Bosom esplori in maniera approfondita un tema per te ricorrente. Potremmo chiamarlo “voyeurismo” ma sarebbe semplicistico, è piuttosto la questione continua di “chi guarda” e delle dinamiche del guardare. Questo tema è presente in molte delle tue opere ed è fondamentale nel tuo albo autoprodotto The Dormitory. Ma chi è il vero voyeur, l’autore o il lettore? O qualcun altro?

Difficile rispondere brevemente a questa domanda, soprattutto perché la considero una questione aperta, su cui sto ancora lavorando… Non credo che qualcuno possa semplicemente guardare qualcosa senza, consapevolmente o meno, partecipare o alterare ciò che sta guardando. Non penso di poter dire chi sia il “vero” voyeur.

Forse i fumetti si basano proprio sul fatto che l’atto di osservare influenza ciò che si guarda. Ci puoi parlare della tua esperienza di lettore? Come ti piace leggere/guardare i fumetti?

Sì, credo che questa sia una giusta considerazione. In un fumetto non si sfugge al fatto che qualsiasi cosa si trovi sulla pagina è stata messa lì da qualcuno e nel disegnare non c’è differenza tra ciò che si vede e come lo si vede.

Detto questo, come lettore mi piace molto considerare il fumetto come un medium in cui mettere del tuo. Non è la stessa cosa di guardare un film, qui è il pubblico/lettore ad animare l’azione. Per rispondere alla domanda, penso che Generous Bosom indaghi la dinamica della lettura dei fumetti – puoi pensare di osservare qualcosa che succede sia come lettore che come autore ma in realtà sei tu a far succedere quella cosa.

Mi piace leggere più volte i fumetti. E mi piace il fumetto perché è un mezzo che incoraggia questo processo; è sempre facile ritrovare una scena preferita, è a portata di mano. E inoltre leggendo i fumetti si può passare velocemente dall’oggetto della storia al mezzo con cui è raccontata. La densità e la profondità di un fumetto davvero bello sono immediatamente accessibili.

I tuoi fumetti bilanciano flusso e struttura in una maniera unica e originale e in genere è molto difficile capire se sei partito dalla trama o dai disegni. Glancing, un’opera basata sull’accostamento di acquerelli senza testo, potrebbe essere un ottimo esempio. Qual è la tua concezione di fumetto e narrazione?

Grazie! Sulla mia concezione di fumetto e narrazione penso si possa tornare a ciò che ci siamo detti sull’acqua e sulla comparsa del misterioso e dell’irrazionale nel quotidiano. Struttura=Vita quotidiana=Narrazione principale di un fumetto/Disegni lineari/Chiarezza, mentre Flusso=Mistero=Acqua/Cambiamento/Irrazionalità.

Nei miei fumetti tento di mettere tutti i pezzi in fila, di raccontare una storia, e per farlo bisogna stabilire delle regole che il lettore possa seguire e su cui possa fare affidamento (credo che questo sia ciò che intendete con “struttura”). Queste regole si accumulano e possono presto diventare ostacoli alla libertà e alle potenzialità proprie del mondo che ho creato, che sono la fonte di energia per il seguito della storia. Per me a questo punto è il momento di cambiare le regole, o di lavorare a un altro progetto con regole diverse o ancora imprecise.

Lavorare a Glancing è stato in questo senso molto divertente e dinamico, perché facevo tre o quattro disegni e poi potevo inserirne altri nel mezzo, o dopo, o prima. Potevo osservare tutto il lavoro disposto sul pavimento e farmene un’idea complessiva. Voglio lavorare ad altri fumetti in questo modo.

Un altro aspetto interessante del tuo lavoro è che in genere eviti l’opposizione tra fumetti narrativi e non-narrativi – e tra “fiction” e “poetry comics” – alternando le due modalità o dimostrando la loro sostanziale identità nel campo del fumetto. Concordi con questo punto di vista?

Grazie di nuovo! Sì, ritengo che anche questo aspetto sia collegato alla domanda di prima. Aggiungerei che le decisioni sulla struttura, se qualcosa debba essere “poetico” o “narrativo” e così via, sono prese seguendo l’entusiasmo per ciò su cui sto lavorando. Spesso inserisco qualcosa di misterioso/poetico/irrazionale/non-narrativo perché mi sto per annoiare di una fase della storia o perché voglio evitare una scena che non mi sembra interessante da realizzare o da leggere.

Il tuo lavoro guarda sia ai fumetti letterari degli anni ‘90 sia alla sperimentazione formale che si distingue dagli standard del graphic novel, come Fort Thunder e gli art comics in genere. Ma qual è il tuo background? Anche al di fuori dei fumetti, ovviamente.

La mia più grande influenza sono gli amici che ho trovato al Maryland Institute College of Art, le persone che facevano parte del gruppo Closed Caption Comics. Da giovani abbiamo imparato tutti insieme a fare fumetti. Era il periodo in cui stava nascendo PictureBox e molte delle cose di Fort Thunder stavano emergendo ed era perfetto – sembrava che l’immediatezza di quei lavori e la loro forza visuale si rivolgessero proprio a noi. Kramers Ergot 4 e 5, il vecchio sito di Fort Thunder e conoscere CF e Brian Chippendale alla Small Press Expo ci fece capire che quello era il mondo dell’arte in cui potevamo trovare il nostro spazio. Direi che per un bel po’ quella è stata la dimensione che mi interessava: la mia cerchia di amici e quel paio di spiriti guida là fuori.

Oltre a questo, crescere nella Pennsylvania rurale ha avuto una grande influenza sui mondi immaginari dei miei libri. Ho letto anche molta letteratura. Ho appena terminato un master alla School of the Art Institute di Chicago. Non so se però siete più interessati alla mia formazione e alle mie influenze o alla mia biografia…

Soprattutto alle tue influenze, ma anche all’aspetto biografico nella misura in cui ha influenzato il tuo lavoro…

Oltre a Closed Caption Comics, ho partecipato ad altri progetti artistici che hanno avuto un grande impatto sulla mia vita. Appena finita la scuola, ho dato una mano alla creazione della galleria Open Space a Baltimora. Abbiamo curato degli spettacoli, ospitato performance, creato una biblioteca di fanzine e abbiamo messo in piedi la Publications and Multiples Fair. Sto anche aiutando a organizzare la prima Chicago Art Book Fair.

Per sette anni sono stato anche in una band chiamata Witch Hat che ho fondato con Noel Freibert e Lane Milburn. Dopo tre anni Lane ha lasciato la band e si è unito a noi Chris Day. Chris e io ora siamo in una nuova band che si chiama Lilac, con Anya Davidson e Kenny Rasmussen, qui a Chicago (io e Chris ci siamo trasferiti nello stesso periodo). Quando sono entrato nella scena underground dei fumetti c’erano molti punti di contatto con la scena musicale underground. Ho incontrato molti musicisti grazie ai fumetti e molti fumettisti grazie alla musica.

Pensi che la tua arte o il tuo approccio all’arte siano cambiati da quando non sei più a Baltimora? A Chicago c’è una scena fumettistica importante e una lunga tradizione di arte contemporanea che sicuramente ti avranno stimolato, ci viene da pensare agli Hairy Who ma ci sono probabilmente molte cose che in Europa sono poco conosciute.

La mia arte e il mio approccio sono sicuramente cambiati molto da quando ho lasciato Baltimora. Ho frequentato una nuova scuola negli ultimi due anni e l’essere in contatto con tantissime nuove opere, persone e idee è stato incredibilmente rinvigorente e travolgente. Penso che per digerire tutto ciò mi ci vorranno degli anni.

Quanto allo stile di vita, trasferirmi qui e frequentare la scuola mi ha permesso di evitare i lavori non artistici (almeno per ora). È una grande opportunità che prima non pensavo di potermi permettere. Ora sono più concentrato sull’idea di fare arte a tempo pieno, o almeno di farla e insegnarla.

Chicago è una città fantastica per i fumettisti. C’è una comunità splendida, di grande supporto, e realtà come la serie di reading Zine Not Dead gestita da Matt Davis e Brad Rohloff, che porta avanti la tradizione delle letture performative di fumetti avviata da Lyra Hill con Brain Frame. E poi a soli cinque isolati da casa mia vivono tutti insieme Anya Davidson, Lane Milburn, Margot Ferrick e Andy Burkholder (anche Edie Fake viveva lì, nella mansarda). A due isolati di distanza ma in un’altra direzione vivono i miei cari amici Molly O’Connell e Chris Day – i quali fanno entrambi cose molto belle, nell’ambito dei fumetti e non solo.

Abbiamo già parlato di Conor Stechschulte qui:

Qualche fumetto dalla Small Press Expo (Mountain Comic & Generous Impression)

Best Comics of 2014: The List (The Amateurs, Generous Bosom, Glancing)

Generous Bosom #1-2

Christmas in Prison

Misunderstanding Comics #8 (The Fence)

PopOok! Un’intervista con Hamo Bahnam

PopOok! è una fanzine di Los Angeles nata nel 2012 dalla mente di Hamo Bahnam, che ne è l’editore e il curatore, oltreché uno degli artisti presenti nei quattro numeri usciti fino a oggi. Quando Hamo mi ha contattato per mostrarmi il suo progetto, io non ne sapevo assolutamente nulla, e penso che lo stesso valga ancora oggi per tante persone che seguono con assiduità il mondo dell’autoproduzione e del fumetto underground statunitense. In una scena dove ogni artista conosce i suoi colleghi e tutto passa sotto la lente di ingrandimento dei social network, Pop Ook! è una delle poche eccezioni rimaste, una zine fatta per “il puro piacere di”, senza sentire il bisogno di promuoverla con l’aggressività e la ripetitività che tutti noi conosciamo e spesso utilizziamo. Dentro i quattro numeri usciti fino a oggi di PopOok! troviamo contenuti che non si preoccupano affatto di piacere al pubblico e spesso anche molto diversi tra loro: ci sono fumetti che guardano direttamente alla rivoluzione underground come quelli dello stesso Bahnam, gli strani cartoon di Rusty Jordan (avevo parlato del suo Alamo Value Plus sul vecchio blog), gli incubi di Marcel Dejure e i “wet dreams” di Yara Zair. E poi collage, illustrazioni, inserti su carta colorata, bellissime copertine stampate a mano e un cd di musica ambient-noise-sperimentale-rock che accompagna ogni uscita. I fumetti e le illustrazioni non sono tutti allo stesso livello, ci sono alcune pagine che sembrano soltanto abbozzate, di artisti immaturi e con uno stile ancora indefinito, ma sfogliando i diversi numeri di PopOok! c’è la sensazione di toccare con mano un amore autentico e sincero per i fumetti, l’illustrazione, la carta stampata, la musica. Ho parlato di PopOok! con Hamo Bahnam in un’intervista condotta via mail negli ultimi mesi e che è disponibile in inglese cliccando qui.

“La soffitta”: intervista ad AkaB e Squaz

di Nicola D’Agostino e Serena Di Virgilio

Un uomo dalla formidabile memoria e dalla dubbia moralità ripercorre la sua tormentata esistenza e le terribili azioni di cui si è reso protagonista. È la premessa di La soffitta, libro metà illustrato e metà a fumetti firmato da AkaB e Squaz che verrà stampato come cartonato olandese di 80 pagine a colori in formato 22 x 29,7 cm a 23 euro.
La soffitta si può acquistare unicamente facendo un preordine entro il 10 dicembre sul sito di Passenger Press.

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La soffitta è un esperimento interessante sotto vari punti di vista, creato a quattro mani da autori che in questi anni hanno firmato opere non banali, che qui si cimentano in un ibrido di forme narrative e adottano un sistema di distribuzione alternativa ai canali tradizionali, ma anche al più canonico crowdfunding, per raggiungere un pubblico interessato con un occhio a costi e rischi.

Abbiamo contattato i due autori per far loro qualche domanda sul libro e sul progetto che c’è attorno.

Anzitutto vi chiediamo di presentarvi ai lettori.

AkaB: Mi firmo AkaB e da più di vent’anni solco i mari della comunicazione inseguendo una balena immaginaria da abbattere e per cui valga la pena morire (o vivere).

Squaz: Disegno fumetti e illustrazioni da quasi 15 anni. Ho lavorato su alcune delle principali riviste italiane e ho pubblicato libri a fumetti, principalmente per case editrici indipendenti (3 solo con la Grrrz Comic Art Books di Silvana Ghersetti). L’ultimo è Tutte le ossessioni di Victor per Diàbolo Edizioni, su testi di Davide Calì.

Cos’è La soffitta?

Squaz: È un libro che doveva essere una cosa ed è diventata un’altra. È nato da una serie di miei disegni che stavo realizzando con l’intenzione di farne una mostra. Non pensavo neanche alla pubblicazione. Poi le cose hanno preso una strada diversa.

AkaB: Un libro imprevedibile che ha sorpreso per primi noi. La storia guidata dai disegni di Squaz è venuta fuori un po’ per volta rivelando logiche e simmetrie che non potevamo immaginare.

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Come avete collaborato e/o vi siete divisi il lavoro?

Squaz: Una volta che mi sono ritrovato una ventina di disegni, mi sono accorto che sembravano illustrazioni per un racconto. A quel punto, ho pensato che valesse la pena affiancare un testo, ma le prove che ho fatto non mi convincevano. Così ho pensato di rivolgermi a qualcuno che potesse essere in sintonia con la materia e con le suggestioni di quelle immagini e che potesse aggiungere la propria interpretazione, arricchendole. AkaB mi è sembrata la persona giusta, quella a cui ho pensato spontaneamente.
In pratica, AkaB si è trovato a lavorare su una serie di immagini già realizzate.

AkAB: Squaz mi ha inviato una sequenza di illustrazioni apparentemente slegate tra loro e dopo averci ragionato ho intravisto una trama che con il passare del tempo è divenuta sempre più compatta e organica. Poi, dopo averne discusso, abbiamo deciso di aggiungere una seconda parte a fumetti andando ancora più a fondo nella contorta psiche del protagonista.
Di fatto è un libro dettato dai segni.

Squaz: Sì, anche la parte a fumetti tra l’altro, pur essendo una diretta conseguenza della parte precedente, ha visto nascere prima i disegni e dopo il testo. Non ho reso le cose facili al mio compare…

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Come avete lavorato su questa seconda parte a fumetti?

Squaz: Come dicevo, la parte a fumetti è una conseguenza della parte illustrata. Una volta che avevamo finito la prima parte, abbiamo pensato che sarebbe stato bello fare uno stacco e arrivare al presente del protagonista, che è la voce narrante. Quindi le illustrazioni sono diventate i suoi ricordi, frammenti del suo passato.

AkaB: In realtà dopo il disagio dettato dal delirante impatto iniziale, il resto della storia è venuto fuori molto naturalmente. In generale questa struttura inversa mi è congeniale. E’ un po’ come scrivere il testo di una canzone dopo averne sentito la musica.

Squaz: In pratica, basandomi sul testo già scritto da AkaB, ho pensato a queste tavole a fumetti conclusive senza sapere cosa si dicessero i personaggi. Quindi è diventata un po’ una partita di ping pong.

AkaB: Ping pong medianico.

Come nella prima parte c’è una divisione abbastanza netta tra chi ha fatto i disegni e chi i testi/sceneggiatura?

Squaz: Materialmente, io ho fatto tutta la parte grafica e AkaB tutti i testi. Ma non solo nella prima parte, in tutto il volume.

AkaB: Sì. i disegni sono tutti di Squaz e i testi, miei. Ormai non si capisce più niente!

Squaz: È quello il bello.

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Da quanto va avanti la vostra collaborazione? A quali altre cose avete lavorato insieme?

Squaz: Be’, nel 2011 abbiamo lavorato insieme per la prima volta su Le 5 Fasi, insieme a Ponticelli, Ausonia, Officina Infernale e Tiziano Angri. Ma ci conoscevamo da molto prima.
Non mi pare ci siano altre collaborazioni vere e proprie, comunque.
In realtà, c’è stato un tentativo insieme ai nomi citati sopra (i Dummy), ma è un libro che poi è rimasto nel cassetto. Il nostro “libro maledetto” (faccio fatica anche a pronunciare il titolo).

AkaB: Ci conosciamo da quando entrambi abbiamo iniziato con questa malaugurata idea di fare i fumetti diversi. Abbiamo collaborato molto attivamente per il progetto delle “5 fasi”. Ma in generale con tutti i Dummy stiamo cercando (con grande fatica) di mantenere vive queste collaborazioni. Personalmente penso sia una ricchezza enorme poter sperimentare svariate combinazioni e rimanere stupiti dagli imprevedibili risultati finali.
Di “libri maledetti” ahimè ne abbiamo più di uno.

Squaz: Ad ogni modo, quando pensiamo di fare qualcosa insieme è sempre perché abbiamo per le mani qualcosa da sperimentare, da scoprire insieme agli altri. Non è roba da tutti i giorni, diciamo.

Chi sono “i Dummy”?

AkaB: Un collettivo scansafatiche.

Squaz: Ah, i Dummy sono i 6 dell’Apocalisse delle “5 fasi” che citavo prima. Più alcuni altri che lo sono ad honorem.

AkaB: Per completezza i nomi sono: Alberto Ponticelli, Officina Infernale, Tiziano Angri, Ausonia, Squaz, Marco Galli, Dario Panzeri e io.

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Parliamo del meccanismo con cui finanziate, vendete e distribuite il libro. Perché un preordine e non un crowdfunding classico, o un “Prima o mai”?

AkaB: Pigrizia. E caso.

Squaz: Il crowdfunding non mi è mai piaciuto.

AkaB: Una volta ne stavamo parlando io e Squaz fuori da una libreria e [Christian G.] Marra [della Passenger Press, nda] si è proposto di occuparsi di tutta quella serie di cose che non avevamo voglia di fare.
È un esperimento che volevamo provare in vista di future strategie.

Squaz: Sì, anche perché il libro era pronto e imparare a fare le cose in autogestione totale richiede tempo che non avevamo. Lo sapevamo e ne abbiamo ampiamente avuto conferma in questo periodo. Adesso abbiamo almeno un po’ le idee più chiare.
In effetti, è una soluzione ibrida, ma per ora ci sta bene così. Il numero di copie stampate dipenderà in larga misura da quante persone lo ordineranno, né più né meno. Ci è sembrato anche coerente con la natura del libro stesso, che è comunque riservato ad appassionati veri, non al lettore casuale.

AkaB: Non ho preferenza né forme di razzismo metodologico. Sono tutte ok. È chiaro che la rete in futuro sarà sempre di più la piazza principale dove smazzare le nostre sostanze. Bisogna solo trovare le panchine migliori e tagliare gli intermediari.

Terrete da parte alcune copie, come hanno fatto altri, per poterle vendere in seguito a chi non ha fatto in tempo a preordinare?

AkaB: Sì. Ma in un numero mooooolto limitato.

Squaz: Se ne avanzeranno saranno pochissime. Al più, se la gente verrà a piangere sotto casa che è rimasta senza, potremo ristamparlo in edizione economica, ma per adesso vediamo come va. Sono cose che decideremo più avanti.
Edizione economica e senza serigrafia in omaggio, voglio ricordare.

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Sul sito si legge che “tutti i lettori che acquisteranno una copia del libro, riceveranno la serigrafia limitata fatta a quattro mani”. Qui come avete collaborato?

Squaz: Io ho fatto lo sfondo, AkaB il disegno principale. Quello è stato più semplice. I testi lì non potevamo certo metterli, abbiamo pensato che valesse la pena far vedere anche il suo “tocco” grafico.

AkaB: Abbiamo lavorato come in animazione. Squaz ha fatto lo sfondo polveroso ed io il personaggio tettuto fantasma.

C’è qualcosa che tenete ad aggiungere?

Squaz: Che spero che altri autori vogliano percorrere questa strada, non solo esordienti o giovani promesse.

AkaB: Se il concerto vi è piaciuto, lì in fondo sulla sinistra vicino all’uscita trovate il nostro banchetto. Supportate il disagio e il disagio vi supporterà.

Un’intervista al Professor Bad Trip

Colgo l’occasione della mostra A Saucerful of Colours, personale dedicata al Professor Bad Trip dalla Tekè Gallery di Carrara, per recuperare una vecchia intervista realizzata al Prof dal sottoscritto e da Giuseppe Marano e pubblicata nel marzo 1995 su Underground #5. Incontrammo Bad Trip (vero nome Gianluca Lerici) in occasione di diverse edizioni di Lucca Comics, sulle gradinate del Palazzetto dello Sport, dove allora ci si metteva a vendere le fanzine, nonostante i continui inviti da parte dell’organizzazione a togliere il disturbo. Gianluca ci consentì di utilizzare un suo disegno per la copertina di Underground #5, che si apriva proprio con un’intervista realizzata via posta e montata a collage sullo sfondo dell’arte del Prof, come potete vedere dalle foto che accompagnano l’articolo. Sicuramente non sarà esaustiva come l’intervista realizzata da Vittore Baroni per l’Almanacco Apocalittico di Mondadori e ristampata in versione integrale proprio nel catalogo di A Saucerful of Colours, ma spero che sia comunque l’occasione per recuperare un contenuto oscuro e a suo modo utile per inquadrare uno dei più importanti artisti dell’underground italiano, scomparso a soli 43 anni il 25 novembre 2006. E a questo proposito vi raccomando di visitare la mostra della Tekè, che sarà aperta fino al prossimo 30 luglio il martedì e il mercoledì dalle 17 alle 20, dal giovedì alla domenica dalle 18 alle 24. Per il momento, buona lettura.

Professor Bad Trip: raccontaci vita opere e miracoli in una autobiografia completa.

Il Professor Bad Trip nasce a La Spezia il 21-5-63. Per tutti gli anni ’80 è conosciuto in zona come “Gianluca Punk”. E’ stato:

– DJ a Radio Popolare Alternativa (La Spezia, 79/83)

– cantante del gruppo hardcore “The Holocaust”

– denunciato per: occupazione, danneggiamento, corteo non autorizzato, resistenza a pubblico ufficiale (2 volte!), oltraggio a pubblico ufficiale, violenza a pubblico ufficiale (per un totale di 7 denunce più 4 giorni di prigione)

– diplomato all’Accademia di belle arti di scultura a Carrara.

Influenze, ispirazioni, aspirazioni?

Influenze grafiche: Stefano Tamburini, Robert Crumb, Joe Coleman, Paul Mavrides, Robert Williams, Basil Wolverton, Ed Big Daddy Roth, Matteo Guarnaccia, C.Burns, F.Masereel, D.Kitchen, Rick Griffin, Raymond Pettibon, W.Smith, ecc.

Ispirazioni (per via mentale, orale, polmonare o acustica): hashish, Max Stirner, Karl Marx, LSD, William Burroughs, George Orwell, Aldous Huxley, marijuana, The Germs, Ballard, Kropotkin, Fear, Hakim Bey, Bob Dobbs, Jerry Rubin, Timothy Leary, Robert Anton Wilson, Crass, Stanley Kubrick, David Cronenberg, ecc.

Aspirazioni: segrete (basta denunce!)

BAD TRIP COMIX è un po’ il manifesto del nuovo underground italiano, non credi?

Fumetto underground italiano:

– prima generazione (i babbi): Max Capa, Matteo Guarnaccia e Stefano Tamburini

– seconda generazione (il figlio unico): Prof. Bad Trip

– terza generazione (i nipoti): ??? (niente di niente, boh?)

Il tuo incontro con Matteo Guarnaccia ha dato vita a DOUBLE DOSE COMIX (inspiegabilmente stroncato dal “Manifesto”): come è nata la cosa?

Matteo è il mio babbo, quindi è stato un incontro fisiologico. “Il Manifesto” ha stroncato DOUBLE DOSE COMIX perché Thomas Martinelli (autore del pezzo) “non riesce a seguirmi” (sue parole a Lucca); in realtà di fumetti underground non capisce nulla (non ha la cultura necessaria). “Il Manifesto” rimane comunque l’unica fanzine leggibile tra tutta la merda che esce in edicola.

“Il Pasto Nudo”, Burroughs e l’underground: come è nata la decisione di realizzare un adattamento del libro, e che ruolo ha Uncle Bill nella tua formazione?

William Burroughs è una pietra miliare delle controculture; ha influenzato dal beat al punk all’industrial culture: è uno che ha visto nel futuro!!

Fare IL PASTO NUDO a fumetti è stata un’idea di Gomma di Shake e, al di là di giudizi formali-estetici-culturali-ecc. mi preme sottolineare due necessità soddisfatte:

1) anticipare tutti i merdoni postmoderni italiani da edicola che volevano l’esclusiva su una cultura che non gli apparteneva.

2) parlare di eroina e anni ’80 in una maniera il più “trasversale” possibile.

Ti è piaciuto “Il Pasto Nudo” di Cronenberg? E, più in generale, che impatto hanno su di te i film del regista canadese?

Amo Cronenberg – è, insieme a Kubrick, il mio regista preferito. Mi è piaciuto anche “Il Pasto Nudo”, tenendo a mente che da un libro simile si potevano fare 20 films e 30 fumetti diversi.

Come vedi l’attuale scena post-underground americana?

La scena americana è grandiosa, i disegnatori underground finiscono nei musei e sono considerati “gli artisti”. Succederà anche qua con 10 anni di ritardo, come al solito.

DECODER e la Shake sono un’esperienza fondamentale per la stampa underground, non credi?

Sono fondamentali per la scena italiana (nel mondo ci sono centinaia di case editrici simili): hanno il pregio di essere una cooperativa e di dare del lavoro a un sacco di fratelli e sorelle e di tradurre e pubblicare in italiano cibo per la mente di difficile reperibilità e/o traducibilità.

Cos’è per te il cyberpunk?

Cyberpunk è un’attitudine oltreché uno stile di scrittura. Burroughs, Ballard e Dick sono cyberpunk ante-litteram. Ma anche l’uso della fotocopiatrice, dei computer, ecc., da parte dei movimenti è cyberpunk. L’idea ribaltata di tecnologia solo al servizio del potere, di pochi tecnocrati, ecc. è la sfida del cyberpunk.

Che ci dici della collaborazione con i Meathead?

Mi hanno contattato per i miei disegni. Ho ascoltato il loro nuovo CD e mi è piaciuto molto; ci siamo conosciuti e continuiamo a piacerci e collaboreremo ancora in futuro.

La tua visione della psichedelia…

Questa domanda meriterebbe 10 pagine di risposta, quindi la salto!

Bad Trip e i centri sociali, dal Leonka al Forte Prenestino: che opinioni hai sui diversi CSOA in cui hai operato?

I centri sociali sono gli unici spazi culturali gestiti dal basso e orizzontalmente: non se ne può che parlar bene, al di là delle croniche lacune, miserie e guerre tra bande. Forte Prenestino è il massimo, è grandissimo, e i romani sono più rilassati e meno tesi dei milanesi. Spero si tenga lì il grande Free Festival+Rave del 2000!

Parliamo un po’ di Bob Dobbs e della Church of Subgenius…

Ne avete già parlato, quindi sapete di cosa si tratta; vi segnalo solo l’uscita mondiale di REVELATION X (nella quale sono presente – unico italiano, sigh – con 2 disegni). E’ la risposta agnostica, libertaria e patafisica a tutti i fondamentalismi.

Tra le tue innumerevoli attività c’è anche la mail-art: parliamo un po’ di questo movimento…

Con l’avvento delle reti telematiche la mail art è destinata alla morte. Per quanto mi riguarda ho smesso da anni di rispondere a tutti (per questioni economiche). E’ stato un utile strumento di scambio di idee, fanzines, ecc., che continuo a coltivare solo con chi mi interessa particolarmente.

Bad Trip 4

Drawing in the sky – Un’intervista con Mardou

(English text)

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Ho scoperto i fumetti di Sacha Mardou (in arte solo Mardou) con il secondo numero di Sky In Stereo, pubblicato da Yam Books dopo l’esordio autoprodotto. Quel mini-comic conteneva la scena in cui la protagonista prendeva l’acido e cominciava a vedere strani segni nel cielo, iniziando un vagabondaggio quasi liberatorio per le strade di Manchester, Inghilterra, dove era ambientato il fumetto e dove è cresciuta l’autrice. Quel momento così libero, quella fuga, quell’assolo proposto con tanta abilità da Mardou mi fece capire che avevo davanti agli occhi un talento cristallino. La lettura del primo numero mi confermò quell’impressione: le vicende di Iris erano raccontate con un’abilità nella costruzione dei dialoghi, una leggerezza e una scorrevolezza difficili da trovare altrove, soprattutto se si tiene conto che dietro a quella leggerezza si nascondevano temi importanti come amore (soprattutto per il collega di fast-food Glenn), droga (dall’ecstasy agli acidi fino all’eroina) e adesso anche religione. Dico “adesso” perché Sky In Stereo sta finalmente tornando in pista, ma non con il terzo numero che ci potevamo aspettare, quanto con un’edizione definitiva in due volumi pubblicati da Revival House Press. Il primo esce in questi giorni e contiene un lungo prologo inedito, i due mini-comics e quello che doveva essere il terzo numero, per un totale di 182 pagine. L’ho letto in anteprima e ne ho parlato con l’autrice.

Ciao Sacha, dato che questa intervista è in qualche modo un’anteprima del vol.1 di Sky In Stereo, lascerei a te l’onore di introdurre il libro a chi non lo conosce.

Ciao Gabriele, Sky In Stereo è un graphic novel in due parti che parla di un’adolescente chiamata Iris, del suo lavoro schifoso, della sua vita scolastica e infine del suo esaurimento nervoso. Sembra deprimente ma non lo è. Ci sono diversi momenti positivi lungo il percorso.

La prima cosa che mi viene in mente parlando di Sky In Stereo è che diversi elementi possono sembrare autobiografici, a partire dal fatto che la storia è ambientata a Manchester, in Inghilterra, dove sei nata e cresciuta. Ma al di là del sapere quanto c’è di autobiografico nelle vicende di Iris, a me piacerebbe chiederti se il materiale di Sky In Stereo parte da qualcosa che hai scritto o disegnato durante gli anni del college, per esempio un diario o uno sketchbook, perché alcune parti sono veramente accurate e realistiche.

No, non tenevo un diario a quei tempi. Molti degli eventi più importanti sono tratti dalla mia vita, ma ho fatto la scelta di trasformarli in fiction. Inoltre questo materiale guarda parecchio indietro, a più di venti anni fa. Non posso ricordare conversazioni fatte all’epoca, e così diventa invenzione. La fiction mi ha dato molta più libertà nell’esplorare da una prospettiva diversa gli aspetti più complicati della vita reale, comprimendoli in qualcosa di più semplice, una storia che inizia e finisce.
Molti personaggi sono inventati, come per esempio Doug, il patrigno di Iris. Mia madre era sposata con un tipo, ma era molto diverso da Doug. Mi piace molto quel personaggio in realtà, è stato divertente scriverlo e i continui battibecchi tra lui e la mamma di Iris aiutano a rivelare i motivi delle decisioni di Iris nella storia. Mia mamma è una Testimone di Geova nella vita reale, ma non è come Gina. Gina è abbastanza devota e conservatrice, l’ho descritta così per renderla funzionale alla storia. Mia mamma invece è adorabile e ho un rapporto molto stretto con lei. L’ho sempre avuto.
Sono contenta che la storia sembri vera comunque, mi piace l’idea che la gente ci si possa riconoscere.

Sì, tutta la storia sembra reale e alcune parti sono molto vivide, penso per esempio alla rottura tra Iris e John, che ha una dimensione emotiva molto forte…

Grazie. Penso che crescendo dimentichiamo quanto è intenso l’amore da giovani. Lì ho cercato proprio di catturare l’intensità e la futilità di quel sentimento.

Questa prima parte, in cui esplori l’ambiente familiare e l’educazione religiosa di Iris, è inedita, infatti Sky In Stereo #1 si apriva con quello che adesso è il secondo capitolo, quando Iris è in macchina con le amiche prima di entrare in un locale. Come ti è venuta l’idea di realizzare questa specie di prequel?

Ho sempre avuto l’intenzione di raccontare la storia dall’inizio, ma quando ho disegnato i mini-comics ho pensato che sarebbe stato più interessante cominciare direttamente nel mezzo dell’azione. Nel secondo libro (ho già le bozze pronte e lo disegnerò e inchiostrerò in autunno), il tema religioso tornerà nel periodo trascorso da Iris all’ospedale psichiatrico. Il manoscritto originale era molto più voluminoso e andava anche più indietro, a quando Iris aveva sette anni e i sui genitori stavano divorziando. La storia com’è adesso è venuta fuori durante l’editing. Ho tagliato due interi capitoli di circa 100 pagine totali, di cui avevo già fatto le bozze e che mi piacevano molto. “Evvai, almeno non devo disegnare tutta questa roba!”. E penso che alla fine il libro sia venuto meglio così.

A questo proposito un momento importante è quando Iris scopre L’età della ragione di Sartre e le sue certezze religiose vengono meno, mi ci sono ritrovato molto in quella parte, dato che a parecchie persone è capitato, intorno ai 14-15 anni, di mettere in discussione gli insegnamenti tramandati dalla famiglia e dalla società dopo essersi avvicinato a certi romanzi o testi filosofici.

Sì, ho letto un libro veramente importante per me, Confessions of a Teenage Jesus Jerk di Tony Du Shane ed è esattamente quello che succede a lui: dopo aver letto un libro dalla cattiva reputazione ha cominciato a mettere in discussione la sua famiglia di Testimoni di Geova. A dire il vero ho letto il libro dopo aver scritto Sky In Stereo, ma l’ho trovato molto vicino.

Sky In Stereo 2

Un’altra scena centrale è quella in cui Iris prende l’acido, non a caso le sue visioni del cielo danno il titolo al libro. All’inizio è fatta, felice, esaltata, ma con il passare del tempo è come se questa esperienza le abbia dato non solo “buone vibrazioni” ma anche una nuova consapevolezza, come se l’acido le avesse mostrato la strada per lasciare da parte la sua insicurezza…

E’ come si sente il giorno dopo, si sente speciale e positiva. Ma poi nei giorni seguenti non ha dormito né mangiato… La fiducia in se stessi quando è euforica non dura. Non può durare.

E infatti questo apre la strada al suo esaurimento, che sarà il tema del secondo volume…

Sì, il secondo volume avrà le stesse pagine del primo e vedrà Iris rinchiusa durante l’estate. C’è un estratto di tre pagine alla fine di questo libro che dà l’idea di cosa succederà. Per certi versi mi sono lasciata influenzare da La campana di vetro di Sylvia Plath.

Iris ascolta un sacco di musica dei primi anni ‘90, ci sono riferimenti ai Pixies, ai Blur, ai Pavement, agli Orbital, al Nick Cave solista… Ma ci sono anche David Bowie e i Velvet Underground… Tu cosa ascoltavi al college?

Tutta questa roba, tranne gli Orbital. La techno e la dance ancora andavano forte a Manchester, anche se il boom c’era stato all’inizio degli anni ’90. Non sono mai stata coinvolta in quelle scene. La canzone dei Pulp Sorted For E’s & Wizz era molto realistica, non per me magari, ma vedevo quel tipo di cultura intorno a me. Mi ricordo di aver letto un’intervista a Nick Cave degli anni ’90 e lui raccontava di aver iniziato a fare a botte con qualcuno dopo aver provato l’ecstasy. Ahah, è lui il mio tipo!

E che mi dici degli Smiths? Non so se ti piacevano, ma ci sono alcuni momenti che potrebbero essere tratti da un testo di Morrissey, per esempio quando alla fine del primo capitolo Iris pensa “He was my first… Being young feels like a curse. All this time ahead of me… Blank and grey”. E sono di Manchester anche loro…

Erano in giro un po’ prima di me e non sono mai stata una fan. Le chitarre di Johnny Marr mi hanno sempre urtato i nervi. Mi piacciono i Joy Division e i New Order, che erano altri due gruppi importanti di Manchester. Quando ero al liceo andavano forte gli Happy Mondays e i James. Alla fine il fumetto è ambientato a Manchester, e la musica è in qualche modo strettamente legata alla città. Era un posto dove suonavano tante band e da lì sono nati grandissimi gruppi. E questo ha dato a questa città altrimenti poco importante un senso di se stessa.
E’ difficile da spiegare ma ho cercato di rendere la musica parte del tessuto del libro nello stesso modo il cui la musica è intrecciata alla cultura della città di Manchester.

Sky In Stereo 3

Facendo un passo indietro, purtroppo ho conosciuto i tuoi lavori soltanto con gli albetti di Sky In Stereo, ma so che prima hai realizzato parecchi lavori, come Anais In Paris e Manhole. Ho visto on line qualche storia breve tratta dall’antologia tutta al femminile Whores of Mensa e sono molto diverse, si tratta di brevi racconti più estemporanei, mentre le tue ultime cose sono molto incentrate sulla narrazione. C’è qualche artista a cui ti ispiravi in modo particolare ai tempi di Whores of Mensa e come sei arrivata poi a sviluppare uno stile così narrativo?

Dan Clowes e Julie Doucet erano due delle mie fonti di ispirazioni. Ma erano entrambi degli artisti incredibili. Ho capito che la mia forza era la scrittura e così trovare uno stile grafico da mettere al servizio delle mie storie diventò il mio obiettivo di lungo termine. E lo è ancora!

In tal senso questa prima raccolta di Sky In Stereo segna una crescita dal punto di vista stilistico, mi sembra che le parti inedite poi siano più curate, come se con il passare del tempo il tuo stile stesse diventando più meticoloso…

Sono molto più a mio agio con il mio stile adesso, e penso che si veda. Scoprire il lavoro di Gabrielle Bell circa dieci anni fa è stato veramente importante per me. Non che io stia cercando di imitarla, ma c’è quella rassicurante sensazione di scorrevolezza nel suo disegno che mi ha davvero ispirato. E non si sforzava di disegnare, le bastava essere se stessa. Mi ha formato!
Inoltre penso di aver inconsapevolmente preso alcune cose da Ted May, mio marito. E’ un artista incredibilmente bravo, io non sono al suo livello. Ma stavo guardando al modo in cui disegno gli occhi adesso e ho capito che l’ho ripreso da Ted in tutto e per tutto.
Beh, siamo sposati quindi sono autorizzata, o almeno credo.

Beh, non credo che ti farà causa. Il paragone con Gabrielle Bell è perfetto, lei è una delle mie cartoonist preferite e sia le tue storie che quelle di Gabrielle sono scorrevoli, leggibili e mai noiose. Inoltre siete due artiste molto abili nel rendere il linguaggio del corpo…

Grazie, mi piace veramente tanto il suo lavoro, e poi ha avuto una vita così interessante. Hai notato che Gabrielle raramente usa i primi piani? Nella maggior parte delle sue vignette disegna figure intere o a tre quarti. Mi ricorda Ozu, i suoi film erano così.

Ok, siamo quasi alla fine dell’intervista e ne approfitto per chiederti se c’è qualcosa che ti è piaciuto davvero negli ultimi tempi, qualche fumetto oppure un romanzo o un film.

Everywhere Antennas di Julie Delporte è meraviglioso, l’ho adorato. E Paul Joins the Scouts di Michel Rabagliati è formidabile. Lui è uno scrittore e un cartoonist davvero bravo. Mi piace molto anche il lavoro di Melissa Mendes.
Ted sta lavorando al prossimo numero di Men’s Feelings e ne sto leggendo qualche pezzo quando mi avvicino di nascosto alla sua scrivania. E’ grandioso!

E per quanto riguarda la narrativa? Ho letto che hai studiato letteratura inglese al college, quindi sarei curioso di sapere se c’è qualche romanzo che hai apprezzato di recente o qualcosa a proposito dei tuoi autori preferiti.

Mi piace leggere tutto di un autore, partendo da qualsiasi cosa abbia scritto per passare poi alla sua biografia o autobiografia. Negli ultimi due anni ho letto tutta Doris Lessing, è probabilmente la mia persona preferita di sempre. O comunque è nella top five. Il suo libro Shikasta è diverso da qualsiasi cosa io abbia letto in precedenza.
Mi piace molto anche John Updike, alcuni lo hanno accusato di sessismo perché era un gran donnaiolo ma in realtà descriveva i suoi personaggi femminili in modo molto realistico. Cioè, se leggi le cose di Erica Jong scritte negli stessi anni i personaggi sembrano datati e stucchevoli. Invece le casalinghe di Updike sembrano reali e riescono a commuovere.
Leggo parecchi libri per bambini con mia figlia. Adoriamo la serie The Borrowers e in questo momento stiamo per finire i romanzi dei Moomins, Tove Jansson era grandiosa. Quei libri hanno ispirato i miei sogni. L’altra notte ho sognato un’altra volta tesori sommersi, quindi grazie Tove!

A proposito di sogni, in Italia abbiamo un famoso presentatore, Gigi Marzullo, che faceva un programma televisivo notturno in cui intervistava a lungo i suoi ospiti, spesso facendo domande abbastanza assurde. E una di queste era proprio “la vita è un sogno o i sogni aiutano a vivere meglio?”. Concludeva ogni intervista con la classica “si faccia una domanda e si dia una risposta”. Mi piacerebbe provare quest’ultima, che ne dici?

D- Hai visto qualcosa di fico di recente?
R- Ieri ho disturbato due coccinelle che si stavano accoppiando nel mio giardino. Stavo guardando le mie piante di cetriolo per vedere se ce n’era qualcuno pronto per essere colto e ho trovato questa coppia che si era appartata, si erano infilate in un angolo nascosto vicino a un cespuglio, coperte da una foglia. Una era giallognola con un sacco di macchie e la femmina era rossa con due chiazze. E mi è sembrata davvero una cosa fica.

Sky In Stereo 1

Marcos Farrajota e la scena portoghese

(English text)

Chili Com Carne

Marcos Farrajota è l’editor di š! #20, il numero speciale dell’antologia lettone dedicato ai fumetti portoghesi (di cui ho parlato in quest’altro post), ma è anche la persona dietro a un sacco di interessanti progetti in Portogallo, un bibliotecario alla Bedeteca de Lisboa – uno dei migliori luoghi legati al fumetto in Europa – e un cartoonist, autore di tantissimi mini-comics e della raccolta Talento Local. In Italia si è fatto notare per la collaborazione con il Crack! Festival del 2009 che è sfociata nella pubblicazione dell’antologia Crack On e per il suo contributo a Quadradinhos, un’antologia curata da Alberto Corradi che faceva da complemento alla mostra sul fumetto portoghese realizzata in occasione del Treviso Book Festival del 2014 (qui potete leggere la prefazione dello stesso Corradi). Ho intervistato Marcos per parlare di fumetti portoghesi e altro.

Inizierei questa intervista facendo ordine tra i tuoi vari progetti, dalla fanzine Mesinha de Cabeceira, nata nel 1992, al collettivo Mmmnnnrrrg, di cui nel 2015 si festeggiano i 15 anni, fino a Chili Com Carne, che forse è la realtà più conosciuta fuori dal Portogallo e che ha anche un aggiornatissimo blog. Puoi dirmi come sei passato da un progetto all’altro e come stai dedicando tempo e spazio alle diverse etichette al momento? 

Beh, in realtà è tutto molto organico, nel senso che non c’è obbligo di pubblicare ogni anno un Mesinha de Cabeceira, per esempio tra il 1997 e il 2000 ci sono voluti tre anni per far uscire un nuovo numero… Inoltre, Mesinha è pubblicato a volte da CCC, altre da MNRG… Una confusione per i bibliotecari e i collezionisti, credo.

CCC coinvolge anche più persone e così possiamo dividerci il lavoro… E MNRG siamo Joana Pires e io – siamo una coppia, quindi possiamo parlare a casa delle nostre idee.

Tutti i progetti sono “hobby”, non lavori professionali che ci fanno guadagnare la pagnotta… Ci rilassiamo quando ci dobbiamo rilassare e agiamo quando c’è bisogno di agire!

A vederla da fuori, guardando le vostre pubblicazioni e gli eventi che organizzate, la scena portoghese sembra decisamente vivace. Eppure nell’introduzione a s! #20 sottolinei più volte il fatto che fare fumetti sia un processo solitario, arrivando a definire il medium come “una forma di tortura, uno sforzo inutile privo di cause e conseguenze, che non offre gloria né nessun’altra forma di ricompensa personale”. Mi sembra un concetto legato in qualche modo alla citazione di Pessoa che dice “tutto quello che facciamo, nell’arte o nella vita, è una forma difettosa delle nostre ambizioni iniziali”, come se questa idea dell’inutilità del fare fumetti ti sia arrivata nel corso di questi anni di attività come autore e come editore…

C’è stato un periodo più buio nella scena portoghese, ma ora ci sono nuove persone piene di energia e di idee… Questi ultimi cinque anni sono stati eccitanti, dopo una fase in cui sembrava non succedesse nulla dal 2005 al 2010. Ora ci sono i “professionisti” che lavorano per il mercato statunitense, piccoli editori che crescono e fanno ben sperare per il futuro, i medi editori che tornano e una crescente attenzione per il mercato del graphic novel. Speriamo che questo permetta di avere sempre più fumetti sperimentali e d’avanguardia… Perché altrimenti si creerebbe soltanto un grosso buco nero, gli artisti si sentono senza sbocchi perché il loro lavoro non interessa a nessuno, neanche agli appassionati di fumetto, che in realtà sono i lettori peggiori perché sono degli stronzi conservatori che collezionano merda infantile. Penso che proprio per questo ho sempre guardato al di fuori del Portogallo, in modo da avere più prospettiva e più feedback. I cartoonist della nuova generazione, come Amanda Baeza, già lo davano per scontato, non a caso il primo libro di Amanda è stato pubblicato in Lettonia, cosa che trovo veramente fantastica.

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La pubblicazione di antologie come Mutate & Survive e Boring Europa, che univano agli autori portoghesi altri artisti da tutta Europa, risale ormai a diversi anni fa, mentre l’ultima esperienza in questo ambito, Futuro Primitivo, è del 2011. Ultimamente invece Chili Com Carne si sta dedicando sempre più a libri realizzati da un unico autore. Pensi che questa sia una tendenza attuale del mercato, che formati come l’antologia o la rivista interessino ormai a un numero di appassionati sempre più ristretto mentre con il cosiddetto graphic novel è più facile guardare anche al lettore occasionale?

Pura coincidenza. Sono state le forze cosmiche a far venir fuori i graphic novel di David Campos, Francisco Sousa Lobo, André Coelho e Nunsky… Ed è anche vero che fare un’antologia in modo interessante (scegliendo un tema, per esempio) è un duro lavoro per l’editor! Stiamo ancora lavorando a delle antologie, come la serie QCDA o il prossimo volume di Zona de Desconforto, una serie in cui autori stranieri parlano delle loro esperienze in Portogallo. Quest’anno usciranno anche diversi libri realizzati da un solo autore, il che è ottimo perché in questo modo ci sono più libri da scoprire e da leggere.

Per quanto riguarda il mercato, è chiaro che i graphic novel sono IL formato che ha venduto di più negli ultimi dieci anni, ma anche nel mondo della letteratura esistono le antologie e vendono di meno perché sono per un pubblico più ristretto, cioè per le persone della “scena”, non per una grande audience. Per il nostro piccolissimo mercato (in Portogallo) e per la nostra bassa tiratura (di CCC o MNRG) al momento non c’è grande differenza, la gran parte delle nostre antologie sono esaurite mentre ci sono tanti fumetti monografici che sono ancora disponibili – ma è anche vero che i graphic novel risalgono al massimo a tre anni fa…

Alcune delle ultime cose che avete pubblicato sono diverse dalle vostre pubblicazioni “storiche”, dato che si distaccano dall’estetica e dalle tematiche underground prevalenti in passato. Parlo per esempio di The Dying Draughtsman di Francisco Sousa Lobo e di Askar, O General della colombiana Dileydi Florez, il primo un romanzo grafico intimista e profondo, il secondo un lavoro molto curato graficamente che guarda alla rappresentazione delle grandi battaglie storiche tipiche dell’arte del passato più che al fumetto.

Stiamo diventando vecchi?!? Nemmeno per sogno, Papá em África di Anton Kannemeyer è pieno di cazzi neri, Erzsébet è pieno di sangue di vergine, Rudolfo vomita un sacco in Malmö Kebab Party e se pubblicherò un mio nuovo libro quest’anno sarà pieno dei miei brutti disegni (e di cazzi!)… Ancora devi vedere una nostra fase “pulita”, o qualche libro “pulito”. Aspetta e vedrai, ahahahah!!!

Seriamente, gli autori fanno quello che vogliono, noi non imponiamo nessuna estetica… D’altra parte non avrebbe senso, a meno che non fossimo una specie di editore commerciale di sesso&violenza o di merdosi libri a due-colori pseudo-artistici o di qualsiasi altra cosa…

Malmo Kebab Party

Ok, forse mi ero perso un po’ di cazzi vari nei vostri fumetti… Comunque, cambiando argomento, parlami invece della tua attività alla Bedeteca de Lisboa (il link è a un sito non autorizzato, quello ufficiale è inattivo dal 2011). So che avete una bella collezione di fumetti e che fino a qualche tempo fa organizzavate corsi, eventi, ecc.

Sì, lo facevamo… Dal 2005 è andato tutto in malora, adesso sono soltanto un buon vecchio bibliotecario della Bedeteca. Comunque se capiti a Lisbona vienici a trovare! C’è un bel giardino, bei sofà e belle sedie, 9000 tra fanzine, riviste, libri, albi, CD, DVD e altri oggetti legati al fumetto e all’illustrazione. Perché sprecare tempo visitando le trappole per turisti quando puoi venire a rilassarti alla Bedeteca? Tra l’altro abbiamo libri in portoghese, inglese, francese, italiano, finlandese, svedese, polacco, ecc.

Il periodo d’oro delle pubblicazioni, dei grandi festival, delle mostre e tutto il resto è ormai passato (ne ho parlato in un’intervista pubblicata su Stripburger) ma la biblioteca è ancora interessante.

Dato che parliamo di fumetto portoghese, mi piacerebbe sapere cosa è popolare o mainstream in Portogallo oggi. Noi in Italia abbiamo fumetti come quelli della Sergio Bonelli Editore che sono il concetto di “popolare” per eccellenza, non so se conosci Tex o Dylan Dog. Poi c’è una grande diffusione dei manga, vengono pubblicati parecchi supereroi e ultimamente c’è il boom del fumetto ironico, satirico o in generale comico. Da voi cosa significa “fumetto popolare”?

Penso che le strisce umoristiche siano le più popolari (Calvin & Hobbes, Dilbert, Adam, Cathy…). Poi c’è questa roba pedofila franco-belga per gente dai quarant’anni in su, i supereroi fascisti per i trentenni, i manga per i ragazzi… Dopo qualche anno è tornata anche la Disney, ma credo che si rivolgano a persone nostalgiche di una certa età, i ragazzini non sono così stupidi da leggere ancora quella merda. Molti portoghesi leggono l’inglese, il francese e lo spagnolo e così comprano le edizioni straniere perché il mercato non fornisce abbastanza libri di qualità. Abbiamo anche edizioni brasiliane di schifezze Bonelli, non so chi legge quella roba e nemmeno voglio saperlo. Mi chiedo se possiamo parlare di un “mainstream” (eccetto che per le strisce umoristiche) perché a quanto ne so i trade paperback di Batman vendono quanto A Viagem di Baudoin. Forse quell’idiozia di Saga venderà di più perché è divertente e, lo sai, i comics dovrebbero essere… comici! Eh, che ironia…

Si può dire che un libro che vende 3000 copie è popolare o mainstream? Sinceramente non lo so…

Passando dal popolare al personale, mi piacerebbe sapere quali sono gli autori portoghesi che tu ammiri di più e ti sentiresti di consigliare ai lettori.

Vecchi e nuovi tutti mischiati, vivi o morti, con dei libri solisti o no: André Lemos, Janus, Ana Cortesão, João Fazenda, Nunsky, Filipe Abranches, Bruno Borges, Carlos Botelho, Pedro Brito, Pedro Nora, Amanda Baeza, José Smith Vargas, Jucifer, Pedro Burgos, Tiago Manuel, Rafael Bordalo Pinheiro, Francisco Sousa Lobo…

The Dying DraughtsmanBeh, sicuramente c’è molto da esplorare per gli stranieri come me… Come vedi invece la scena europea al momento? A me sembra che ci sia un’attenzione sempre maggiore e spesso eccessiva per gli aspetti puramente estetici e tecnici del fumetto, favorita anche dalla diminuzione dei costi di stampa che ha consentito la diffusione del colore. Questo a mio parere ha influito pesantemente anche nell’ambito delle autoproduzioni, dove si trovano tanti prodotti conformisti, che poco hanno di alternativo…

Sì, i grapich novel hanno portato i fumetti a somigliare al mondo della letteratura: pieno di cose leggere, best-seller e così via… Devi scavare più a fondo per trovare le cose migliori, ma è sempre stato così, no? Le persone diventano nostalgiche se pensano a quando hanno scoperto Daniel Clowes o Joe Sacco negli anni ’90 e adesso ci sono tutti questi cloni o sottoprodotti di Clowes e di Sacco, ma poi basta guardare a realtà come Canicola o alle antologie come Glomp o a qualche tizio serbo o croato e c’è ancora abbastanza energia e originalità in giro da essere entusiasti come negli anni ’90. O guarda anche a Olivier Schrauwen, che è riuscito a unire “la quantità di pagine che ti permette di essere rispettabile” con aspetti estetici e formali. O a Ruppert & Mulot o a Tommi Musturi… O a Jarno Latva-Nikkola, che può essere etichettato come “caricatura” ma che ha una profondità degna di un graphic novel…

E’ vero che i grapich novel hanno sempre più peso nel mercato librario con “mia mamma era una puttana fatta di crack” o con la biografia di Pinochet, proprio come i libri di cucina o i gatti che salvano il mondo sono diventati i nuovi best-seller… Se tutti i graphic novel fossero di qualità (una cosa che qualche anno fa era il sogno della Fantagraphics o de L’Association) il mondo sarebbe perfetto, ma sai, là fuori ci sono ancora McDonald’s, la guerra, la fame, l’ultimo film di Batman, il razzismo, Berlusconi…

Come al solito abbiamo bisogno di critici – bravi critici – che possono filtrare tutta questa “nuova industria del libro disegnato”, ma dove sono?

Se ti va concluderei parlando dei progetti futuri. Ho letto che ci saranno parecchie iniziative per i 15 anni di Mmmnnngggr, me ne puoi parlare? E da Chili Com Carne cosa dobbiamo aspettarci?

Le celebrazioni per il quindicesimo anniversario di MNRG sono quasi finite… Abbiamo fatto un tour con due band punk, fatto uscire uno split-tape e la mia nuova zine, Anton (Kannemeyer, autore di Papá em África, ndr)  ha partecipato a Lisbona a una conferenza con qualche polemica e io ho fatto il DJ al Beja festival. A questo punto ci daremo da fare per pubblicare i nuovi libri di Aleksandar Zograf, André Ruivo e Tiago Manuel… E qualche altra cosa arriverà di sicuro!

Per quanto riguarda Chili Com Carne ancora non lo sappiamo… Ma speriamo di pubblicare nuove graphic novel di Francisco Sousa Lobo e José Smith Vargas, parecchi altri libri e zine, poi ci sarà una mostra all’Amadora Fest e all’Università di Salamanca in Spagna. Ma solo dopo giugno avremo le idee più chiare…

Marcos Farrajota

“From Now On” con Malachi Ward

(English text)

Malachi Ward 1

Malachi Ward è l’autore di Ritual, una serie pubblicata dalla Revival House Press, e di From Now On, una raccolta di storie brevi che uscirà a giugno per la Alternative Comics. Insieme a Matt Sheean ha creato un’altra serie, Expansion, e ha realizzato alcune storie per il Prophet di Brandon Graham. Negli scorsi giorni ho scambiato alcune e-mail con Malachi e ne è venuta fuori l’intervista che segue.

Dato che hai già parlato della tua formazione come artista e delle tue ispirazioni in questa intervista con Dave Nuss della Revival House Press, salterei questi argomenti e inizierei subito da From Now On. Questo è il tuo primo libro vero e proprio e sarebbe interessante presentarlo ai lettori. Dando un’occhiata al sommario, l’antologia si apre con Utu, una sorta di classico nella tua produzione, dato che è uno dei primi fumetti se non esattamente il primo che hai stampato. Pensi che l’uscita di Utu nel 2009 possa essere considerata un momento chiave della tua carriera?

Dopo il college iniziai a leggere molti più fumetti e a flirtare con l’idea di diventare un cartoonist. Ovviamente con il termine “fumetti” si può intendere quasi qualsiasi cosa e io non sapevo ancora cosa fare di preciso. Non so come poter definire il mio stile dell’epoca… Forse stravagante? Comunque, tra il 2007 e il 2009 avevo più o meno focalizzato ciò che volevo fare e così nel 2009 iniziai Utu e cominciai a lavorare anche a The Scout, per l’antologia Hive di Jordan Shiveley. Li finii entrambi in tempo per l’Alternative Press Expo del 2009. Entrambe queste storie rappresentarono un’importante svolta per me. Erano i primi lavori che finivo e che mi sentivo di stampare e far vedere in giro. E in qualche modo ancora mi piacciono.

Penso che Utu sia veramente originale, perché inizia in un modo e poi si sviluppa in una direzione completamente differente. Inoltre utilizza parecchi registri, inizialmente sembra una sorta di racconto mitologico, poi diventa divertente e alla fine è anche triste. Hai cominciato a lavorare alla storia con l’intenzione di utilizzare diversi toni e atmosfere, oppure la trama è venuta fuori di getto, in modo naturale?

Per me una delle attrattive di Utu era proprio quella biforcazione della trama, infatti sembra un certo tipo di storia e poi di colpo diventa tutta un’altra cosa. Non sono un grande appassionato dei colpi di scena, ma a chi non piace quando una storia ti sorprende, specialmente se tutto è al posto giusto? Sono molto attratto da questo espediente narrativo… E’ qualcosa che cerco di inserire spesso in una storia, anche se non funziona! Ognuna delle storie di Ritual ha in misura diversa un elemento del genere.

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Prima hai citato The Scout, un fumetto del 2009 che sarà riproposto in From Now On, in cui hai trattato a modo tuo i concetti di tempo e di ripetizione. The Scout è basato su una griglia di sei vignette per ogni pagina e, guardando le tue vecchie cose, ti sei avvalso di una struttura ben definita anche in molte altre occasioni. D’altra parte, il lavoro più recente utilizza un layout regolare ma sicuramente meno rigido. Pensi che questo possa riflettere un tuo miglioramento come cartoonist o si tratta semplicemente di una coincidenza?

Per quanto riguarda The Scout, ero preoccupato di dover raccontare la storia in poche pagine (dato che era per un’antologia e avevo uno spazio limitato) ma al tempo stesso di renderla leggibile e scorrevole, senza farla sembrare troppo compressa. E penso che questo sia più facile mantenendo un layout regolare. Ho fatto lo stesso per un’altra storia di From Now On intitolata Henix, per ragioni simili. Inoltre credo che un layout di sei vignette funzioni bene in un mini-comic di 5.5″x8″. Anche se sono sicuramente migliorato da allora, tornerei ancora a un layout rigido come quello se si adattasse al fumetto che sto realizzando. Anche quando i miei fumetti presentano vignette di varie dimensioni e utilizzano composizioni di volta in volta diverse, di solito seguono una struttura regolare da cui non mi discosto.

Un altro fumetto in From Now On è Top Five, una specie di metanarrazione fantascientifica a tema Star Trek, che per te è una passione oltre che una fonte di ispirazione. Anche Sweet Dreams e The Oviraptor sono reinterpretazioni di alcuni stereotipi della fantascienza. Penso che questa cosa contribuisca a rendere i tuoi fumetti freschi e originali, mi riferisco cioè al fatto che usi alcune idee prese dai film di fantascienza e dalle serie tv e li rivisiti secondo la tua sensibilità, creando un mix che non è così diffuso attualmente nel mondo dei fumetti alternativi… 

Qualche volta, per me, una storia inizia pensando a come posso maneggiare un tropo tipico di un certo genere. Forse l’obiettivo è trovare il nucleo dell’idea, qualunque essa sia, quel momento emotivo che fa scattare qualcosa, gli elementi tematici o di atmosfera che possono coinvolgere il lettore, e poi partire da lì evitando tutti i tipici errori in cui può cadere una storia di fantascienza, fantasy o horror.

Oltre a quelle di cui abbiamo parlato finora, non conosco le altre storie di From Now On. Puoi presentarne qualcuna a me e ai lettori?

C’è un nuovo fumetto interamente a colori intitolato Disconnect (di cui trovate una tavola inedita qui sotto, ndr) che si svolge nello stesso mondo in cui sono ambientate Top Five, The Oviraptor Hero of Science, seguendo le avventure di uno degli altri personaggi che sono scomparsi quando la squadra ha viaggiato indietro nel tempo. Tra le altre storie c’è Beasts of Kay-7, in cui racconto la mia versione di un team alla Star Trek che esplora un nuovo pianeta abitato da mostri misteriosi. Henix, a cui accennavo prima, è una storia dai forti connotati fantasy a proposito di un prigioniero deformato (almeno agli occhi dei protagonisti) che nasconde dei segreti sulla famiglia reale.

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A questo punto possiamo passare a Ritual, la serie che pubblichi per la Revival House Press, in cui ogni numero è una storia autoconclusiva di 20-30 pagine. Prima di comprare Ritual #2 – The Reverie, avevo visto il tuo lavoro soltanto su internet e quando ho letto quella storia sono rimasto veramente colpito… Era grandiosa! Poi ho letto altri tuoi fumetti e con il senno di poi posso dire che The Reverie è probabilmente la storia più “seria” e toccante che hai realizzato fino ad ora. E, a differenza degli altri numeri di Ritual, si basa su una narrazione estremamente lineare. Mi piacerebbe sapere come sei arrivato a raccontare questa storia, se è nata dalle tue paure o magari da un incubo.

The Reverie è incentrata su una tragedia familiare, quindi rispetto agli altri miei lavori contiene sicuramente delle situazioni molto più forti dal punto di vista emotivo. La morte di un familiare è un espediente narrativo a buon mercato, su cui si basano spesso le motivazioni del protagonista di una storia, quindi ho cercato di permeare con più empatia possibile il crescendo e poi la ricaduta relativi a questo tipo di situazione. L’idea mi è venuta dal mio interesse per la gamma di comportamenti di cui una singola persona è capace, e anche da come l’opportunità determina la nostra capacità di agire in modo morale. Ha anche a che fare con il concetto di rimpianto – ho sentito parecchie persone parlare di cosa avrebbero dovuto fare con le loro vite, o di come pensavano che le cose sarebbero dovute andare. Per me questo è sempre stato un sentimento completamente estraneo, qualcosa che ho grossi problemi a comprendere. E’ un’idea che molto probabilmente esplorerò più a fondo in futuro.

In The Reverie il tuo stile sembra meno controllato e definito del solito e per me questa non è una cosa negativa, perché in alcune sequenze hai fatto un bellissimo lavoro nella raffigurazione dei panorami e della rabbia del protagonista. Ma forse stavi cercando di fare un po’ di sperimentazione…

Penso che la prima metà di quel fumetto sia ancora abbastanza controllata. Tutto ciò che succede al di fuori della dimensione del titolo (la “Reverie” è una dimensione creata da uno scienziato in cui ogni desiderio si avvera e dove si rifugia uno dei personaggi dopo la morte della moglie, ndr) è inchiostrato con un brush e disegnato in maniera abbastanza accurata. In realtà non avevo molto tempo mentre stavo lavorando alla storia e la gran parte della seconda metà è stata disegnata nel giro di un paio di settimane. Inizialmente avevo intenzione di cambiare un po’ lo stile all’interno della dimensione del desiderio, per esempio inchiostrando con una penna invece che con un brush, ma a causa del poco tempo che avevo a disposizione quella parte della storia risulta stilisticamente più approssimativa.

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Ritual #1 – Real Life e Ritual #3 – Vile Decay sono abbastanza simili nella struttura, mentre per quanto riguarda i contenuti Real Life rappresenta una situazione quotidiana che si sviluppa in modo veramente spaventoso, mentre Vile Decay parla del futuro e di come le persone stanno rovinando il mondo. Nel complesso questa serie tratta tanti temi importanti, come la famiglia, le relazioni, la morte e – nel terzo numero – anche la politica e l’ecologia. Ma tutti e tre i numeri di Ritual parlano soprattutto delle tue paure. O almeno è il modo in cui la vedo io…

La mia intenzione iniziale con Ritual era di creare un’antologia horror. In realtà, alla fine soltanto Real Life ha degli elementi che potrebbero essere ricondotti all’horror, ma ogni numero è essenzialmente legato al concetto di paura. Real Life prende spunto da incubi che ho fatto veramente: mia moglie che mi abbandona in maniera rabbiosa, e io che divento “malvagio”. Anche The Reverie nasce da un’idea simile, infatti all’epoca stavo riflettendo su come potrei facilmente diventare una persona meschina se si presentassero certe situazioni. Vile Decay, se apparentemente parla del degrado della società, in realtà è incentrata più sulla mia paura di disconnettermi dal mondo, basata sul fatto che invecchiando diventerà sempre più facile farlo.

Un altro modo di leggere il primo e il terzo numero di Ritual è considerarli degli episodi pilota di una serie tv, ma in realtà i tuoi fumetti non avranno mai un seguito, così il lettore deve immaginare o cercare di interpretare le storie sfogliando avanti e indietro le pagine…

Ritual #3 utilizza uno stile narrativo molto sfuggente… Può essere una lettura poco soddisfacente per parecchie persone. Se il lettore pensa che ne valga la pena, ci sono abbastanza elementi che gli consentono di comprenderlo, o almeno il fumetto invita a mettere insieme i diversi pezzi della storia. Nei miei prossimi fumetti sto reagendo in qualche modo a questo approccio (che tendo ad avere per non so bene quale ragione), creando delle storie con delle risoluzioni molto più definitive.

Malachi Ward 4

Stai lavorando anche al quarto numero di Ritual?

Ho già una bozza dettagliata di cui sono molto soddisfatto. Al momento l’unica cosa che devo fare è trovare il tempo per disegnarlo. Per ora il titolo di Ritual #4 è The Left Hand Path.

Quindi potrebbe essere sulla tua paura di diventare mancino… 

Come fai a saperlo??? Quella è la mia vera paura più profonda.

Il nuovo numero userà due colori come il precedente? Mi è piaciuto tantissimo il rosa/arancio di Vile Decay, l’uso del colore ha contribuito a creare un’ambientazione vaga e irreale.

Dave Nuss e io stiamo pensando di stampare Ritual #4 a colori, anche se con una gamma limitata.

So che stai lavorando a una serie di nuovi progetti con il tuo amico Matt Sheean, con cui hai già collaborato per Expansion e per il Prophet di Brandon Graham. Ho letto che tu e Matt vi dividete totalmente le differenti fasi del processo creativo e sono curioso di sapere come riuscite a fare una cosa del genere.

Per il progetto su cui stiamo lavorando adesso (Ancestor, che farà parte dell’antologia Island pubblicata dall’Image), Matt e io ci dividiamo il lavoro in questo modo. Innanzitutto parliamo della trama di ogni numero e buttiamo giù una bozza, di solito insieme. Se la bozza richiede delle parti importanti di dialogo, prendiamo una sequenza ciascuno e la scriviamo. Poi, in un paio di giorni molto intensi, facciamo gli schizzi per l’intero numero. A quel punto Matt disegna, io inchiostro e coloro, e Matt aggiunge gli effetti di luce. Quando la pagina è finita, io aggiungo il lettering.

Mi sembra un modo molto interessante di sviluppare una collaborazione… Ancestor sarà una storia lunga?

Alla fine Ancestor sarà più lungo di qualsiasi cosa abbia mai fatto, probabilmente 120 pagine quando sarà finito.

Oltre ad Ancestor stai lavorando ad altre storie lunghe o continuerai con le storie brevi? 

Al momento sto lavorando agli schizzi di un fumetto a colori che sarà di circa 80 pagine. Ho in programma di fare soprattutto storie lunghe da questo momento in avanti.

Mi piacerebbe concludere questa chiacchierata parlando di cosa ti piace al momento, se stai ascoltando della musica in particolare, o se c’è un fumetto, un romanzo o un film che ti ha entusiasmato negli ultimi tempi…

Ho appena finito di rileggere Going Clear di Lawrence Wright, un libro con cui mi sono abbastanza fissato. Poi sto facendo alcune ricerche sulla cultura indoeuropea, che trovo veramente interessante. Nel mondo del fumetto ho trovato fantastica e stimolante Sex Coven, la storia di Jillian Tamaki per l’antologia Frontier. Lo stesso vale per il nuovo numero di Crickets di Sammy Harkham. Non ho visto molti film che mi hanno veramente entusiasmato quest’anno, ma mi è piaciuto molto Ex Machina, e Mad Max: Fury Road è stato divertentissimo. Mentre scrivo sto ascoltando l’album del 1988 Encounter di Michael Stearns e anche un sacco di Jean-Michel Jarre.

Malachi Ward 7

 

I numeri 2 e 3 di Ritual sono disponibili nello shop di Just Indie Comics.