Jim Nutt, Jim Falconer, Art Green, Gladys Nilsson, Suellen Rocca e Karl Wirsum sono i sei artisti che formarono il collettivo Hairy Who, in azione a Chicago tra il 1966 e il 1969 nell’ambito del più ampio movimento dei Chicago Imagists. Dan Nadel, ex patron della PictureBox, gli dedicò un saggio già nel terzo numero dell’antologia The Ganzfeld (2003) e più di recente ha incluso il loro lavoro nella mostra What Nerve! Alternative Figures in American Art, di cui è uscito anche il relativo catalogo. Ulteriore ramificazione di quell’esperienza è il volume The Collected Hairy Who Publications 1966-1969, che non guarda tanto alle opere realizzate dal collettivo (a cui è comunque dedicata una sezione finale con tanto di foto d’epoca) ma si propone piuttosto di ristampare integralmente le riviste realizzate dai sei artisti in occasione delle diverse mostre, da quella del 1966 all’Hyde Park Art Center di Chicago fino alla trasferta di Washington nell’aprile del 1969. Trattasi più che di cataloghi di veri e propri comic-book contenenti illustrazioni e fumetti in cui venivano riletti alcuni dei loro quadri o venivano presentati lavori completamente inediti. E a rivederli oggi c’è da rimanere stupiti, perché il materiale pubblicato in questo volume hardcover di grande formato (168 pagine, edito dalla Matthew Marks Gallery di New York) è all’avanguardia per la fine degi anni ’60, anticipando di gran lunga dinamiche e contenuti che avremmo visto nel fumetto soltanto molto più tardi, per la precisione nei primi anni del nuovo millennio. Al di là infatti dell’estetica, che ricorda a una prima e superficiale occhiata le linee sinuose e i colori accesi tipici degli anni ’60, ciò che più colpisce è l’assoluta predominanza della forma rispetto al contenuto in un oggetto che ha tutte le fattezze del fumetto. Ci troviamo qui a che fare, insomma, con l’arte che si fa fumetto, mentre più di trent’anni dopo tanti cartoonist tentarono (e tentano tutt’oggi) di dare al fumetto l’estemporaneità, la sintesi e la forza del linguaggio artistico, rinunciando alle usuali dinamiche della narrazione. Mi viene in mente per esempio C.F., che soprattutto nelle sue fanzine (raccolte in Mere, guarda caso uscito per PictureBox) ricorda modalità di espressione vicine a quelle degli Hairy Who.
Pur con queste linee guida, e con la presenza di numerose collaborazioni realizzati sullo stile dei cadavre exquis surrealisti, ognuno dei sei artisti ha un’identità ben precisa. Art Green è quello che inizialmente più guarda ai fumetti del passato, soprattutto degli anni ’50 (Ec Comics e giù di lì), presentando soluzioni tradizionali come la suddivisione della pagina in vignette, i balloon e addirittura le didascalie. Successivamente questa componente scompare per lasciare spazio a illustrazioni a tutta pagina, in cui la vignetta è solo un ricordo, i colori si accendono e il tono diventa pop inglobando l’estetica della pubblicità, delle insegne, della grafica, in un mix che abbatte ogni distinzione tra arte “alta” e “bassa” (contrariamente a quanto faceva in quegli anni la pop art, intenta piuttosto a elevare al rango di “arte” la pubblicità, il fumetto, le merci ecc.). Anche Karl Wirsum parte dall’uso della vignetta per poi guardare altrove, passando da un Broken Balloon (titolo da incorniciare) che è quasi un fumetto tradizionale a sperimentazioni sulla forma e sul colore, con le linee che scompaiono per lasciare spazio a figure ai confini con l’astratto.
La sua evoluzione è simile a quella degli altri membri del gruppo, perché se la prima pubblicazione realizzata, The Portable Hairy Who! del 1966, è un gioco sul linguaggio dei comics, quelle successive si liberano da ogni vincolo programmatico per dare spazio a una creatività energica, in continuo movimento e mutazione. Successivamente Wirsum guarderà al mondo della musica e in particolare alle cover degli LP, non a caso una delle sue opere presentate a un’esibizione degli Hairy Who e riprodotta in una delle pubblicazioni è la copertina di un disco di Screamin’ Jay Hawkins. Suellen Rocca gioca invece con i simboli, spesso ricorrenti. I suoi sono i lavori che vanno maggiormente “letti” nel senso di “interpretati”, con un uso dell’arte come gioco con lo spettatore e continui richiami al surrealismo.
Le creazioni di Gladys Nilsson sono fatte di forme rotonde, sinuose, figure umane abbondanti, e anche le vignette, quando ci sono, diventano liquide, indefinite, curve. Tra i sei è quella che meno utilizza il colore – tant’è che parecchie sue illustrazioni sono in bianco e nero o si caratterizzano comunque per i toni tenui – e anche quella che più ricorda i fumetti underground che proprio in quegli anni esplodevano con il primo Zap Comix (1968). Jim Falconer, il meno inquadrabile e più discontinuo degli Hairy Who, parte dalle due notevolissime tavole a fumetti di The Victem del 1966 per passare a illustrazioni a tutta pagina e infine alla creazione di carte da gioco non convenzionali. Jim Nutt è infine il più vicino al fumetto contemporaneo. Il suo lavoro è attualissimo e rimanda in alcuni casi anche all’immaginario, apparentemente lontano, dei manga underground. Le due tavole di Nurse Horrid Horrid – colme di chiome rosse, bende, corpi deformi, protuberanze, reggicalze, unghie, nasi enormi, cerotti – sprizzano al tempo stesso sessualità, orrore, humor.
In tutti gli Hairy Who è comune la ricerca dell’ellissi e dell’enigma, volta a lasciare quel “nonsoché” tra le linee e i colori che solo il lettore/spettatore può colmare a suo piacimento. E non tutto è facilmente interpretabile, perché la gran parte delle volte siamo di fronte a opere improvvisate, istintive, ironiche, dove abbondano i giochi di parole, i doppi sensi, le suggestioni. D’altronde, come scrive Dan Nadel nel saggio che accompagna il volume, “like most good things, this work does not offer tidy conclusions or ideas that can be verbalized. It just needs to be lived with”.