A History of “Hate”

Era il 1990 quando Fantagraphics dava alle stampe il primo numero di Hate, l’allora nuova serie a fumetti di Peter Bagge. Trent’anni sono passati da quello storico #1, e per celebrare la ricorrenza la casa editrice di Seattle sta per riproporre tutti i 30 numeri del comic book e i successivi Annual in un elegante cofanetto in uscita il 24 novembre. Personalmente non ricordo quale fu il primo numero di Hate che comprai. Ciò che ricordo è che durante una vacanza-studio a Londra nell’estate del 1994 scappai dal British Museum dove il mio gruppo tornava per la seconda volta in pochi giorni e me ne andai da Gosh!, storico negozio di fumetti situato nelle vicinanze. Lì recuperai gli albi che mi mancavano delle mie serie preferite di allora, ossia Hate di Peter Bagge ed Eightball di Daniel Clowes, tornando dal Regno Unito con due collezioni finalmente complete. All’epoca, insieme al mio amico Giuseppe Marano, facevo una fanzine che si chiamava Underground e proprio a questi due autori avevamo dedicato il nostro #2 (in realtà era il terzo, perché c’era stato un numero zero secondo l’usanza di quegli anni). I due Comics Journal che utilizzammo come principali fonti per i nostri articoli, ossia il #154 (novembre 1992, dedicato a Clowes) e il #159 (maggio 1993, dedicato a Bagge), sono due delle pubblicazioni che ho letto e sfogliato più volte in vita mia. L’articolo su Peter Bagge portava la mia firma, e così devo constatare che a quasi trent’anni di distanza mi trovo di nuovo davanti a un computer a scrivere sugli stessi argomenti, non solo perché sono una persona monotona e noiosa ma anche perché Hate è una di quelle cose che non mi ha mai stancato e che mi sono sempre portato dietro nella vita. Ancora oggi questo fumetto mi fa ridere, mi intrattiene, mi appassiona e in una sola parola mi esalta per come racconta vicende così autentiche che nella mia testa sono diventate quasi vere: l’ho riletto di recente – tutti i 30 numeri, più gli speciali, più gli Annual – e non è invecchiato di un secondo, anzi, l’ho trovato più intelligente, ben fatto e divertente della gran parte dei fumetti che si pubblicano oggigiorno. E quindi non potevo non dedicargli un lungo tributo a trent’anni dalla nascita, perché se è vero che ci piace stare sempre sul pezzo, è anche vero che a volte siamo stanchi di novità. E allora è meglio concentrarci sulle nostre passioni più profonde. Sulle cose che restano.

Quello che leggerete di seguito è un lungo excursus sull’Hate di Peter Bagge, che ho cercato di rendere interessante sia per chi l’ha letto che per chi non ne ha mai sentito parlare prima. I lettori di vecchia data si divertiranno – spero – a ripercorre le gesta di Buddy Bradley e soci trovando lo spunto per riprendere in mano i vecchi comic book. Chi ha conosciuto Hate attraverso i vari tentativi di traduzione italiana (prima su Il Mensile del Fumetto, poi da parte di Phoenix e quindi Magic Press), avrà forse lo stimolo di andare a caccia delle storie inedite in Italia completando ciò che la traduzione non è riuscita a portare a termine. I neofiti, che magari avranno la tentazione di recuperare il pur costoso ($119.99) cofanetto, potranno comunque leggere l’articolo che segue: pur parlando dei personaggi e delle loro vicende, ho cercato infatti di non scendere troppo nel dettaglio delle trame, soprattutto quando mi sono avvicinato alla conclusione. Mi scuso dunque se gli “esperti” troveranno alcuni passaggi sbrigativi e superficiali, ma era l’unica soluzione per far sì che quest’articolo potesse essere letto da tutti e non solo da pochi appassionati.

I contenuti dedicati a Bagge non finiscono qui. Nelle prossime settimane troverete infatti altri post su Hate e dintorni che approfondiranno dettagli e curiosità su questa serie cult. Quindi bando alle ciance e vi lascio… ad altre ciance. Buona lettura.


Peter Bagge nasce nel 1957 a Peekskill, nello stato di New York, da genitori cattolici che si convertiranno presto all’alcool. Quattro fratelli, brutti voti a scuola, comincia a disegnare sin da bambino ispirato dal fratello maggiore Doug. Dopo il diploma passa da un lavoro a un altro e a metà degli anni ‘70 si trasferisce nella Grande Mela. Lì tenta la strada accademica, iscrivendosi alla School of Visual Arts. Il tentativo fallisce dopo soli tre trimestri, anche se quell’esperienza gli permette di conoscere la futura moglie Joanne Connelly. Intanto tenta la strada dell’illustrazione commerciale ma capisce ben presto che non fa per lui. E’ la fine degli anni ‘70 e a New York il punk domina su tutto il resto, tanto che l’arte, il fumetto e la moda ruotano spesso intorno a esso. Bagge inizia a pubblicare su riviste come High Times, The East Village Eye, WW3 Illustrated, Video Games, Stop e Screw: sono fumetti brevi, spesso pagine singole, a volte semplici strisce fatte per strappare una veloce risata al lettore. Nel frattempo entra in contatto con John Holmstrom, editor della rivista Punk nonché fumettista. Con lui, e insieme a J.D. King, Bruce Carleton e Ken Weiner, fonda la rivista Comical Funnies, di cui usciranno tre numeri tra il 1980 e il 1981. Con Weiner si autoproduce, nel 1982, l’albo The Wacky World of Peter Bagge and Ken Weiner. A quel punto l’estetica di Bagge è già definita, e se lo stile è ancora sporco e ben più underground di quanto apparirà verso la fine del decennio, i tratti distintivi sono già lì, su tutti le grandi bocche aperte e le espressioni caricaturali, sgraziate e costantemente incazzate dei personaggi – così esagerate che sembrano uscite da un cartoon di Tex Avery o della Warner Bros.

Innamorato dei fumetti di Robert Crumb, cerca e ottiene la pubblicazione su Weirdo, debuttando nel terzo numero con una storia realizzata insieme a Holmstrom, King e il fratello Doug. Crumb apprezza molto il lavoro di Bagge, in particolar modo su Martini Baton, una striscia nata in collaborazione con Dave Carrino. Gli propone così di diventare editor di Weirdo, ruolo che Bagge ricoprirà per due anni, dal #10 (estate 1984) al #17 (estate 1986), cercando di far coesistere nella sua gestione due generazioni di autori underground, quella di Zap Comix e la nuova scena che stava nascendo a New York. O meglio, una delle scene di New York, dato che Bagge aveva un occhio di riguardo per gli artisti come lui, più punk, satirici, sporchi e meno raffinati rispetto a quelli che negli stessi anni gravitavano intorno a Raw di Art Spiegelman. Crumb non è l’unico a vedere qualcosa in Bagge. Anche Kim Thompson e Gary Groth di Fantagraphics intuiscono le potenzialità del ragazzo e si fanno avanti proponendogli di dar vita a una testata tutta sua. Neat Stuff è uno spillato formato rivista che esordisce nel 1985 ed è il terreno in cui Bagge sviluppa tutti i suoi personaggi più riusciti, oltre che – almeno per me – una delle serie a fumetti più divertenti della storia. Ecco dunque Junior, Studs Kirby, Girly Girl & Chuckie-Boy, The Goon on the Moon, Chet and Bunny Leeway e soprattutto The Bradleys, una famiglia disfunzionale del New Jersey dai chiari riferimenti autobiografici che si era già vista su Comical Funnies, Stop e Weirdo. Tra i diversi componenti della famiglia Bradley, e cioè il padre Brad, la madre Betty e i figli Buddy, Babs e Butch, Bagge dedica pian piano più spazio a Harold detto Buddy, tanto che già alcune storie scritte in tempi non sospetti (si pensi a Rock’n’Roll Refugee pubblicato su Neat Stuff #3 del 1986) potrebbero essere a tutti gli effetti degli episodi della testata che sarà.

Da “Studs Kirby Gets Drunk by Himself”, Neat Stuff #2

L’esperienza di Neat Stuff si conclude dopo 15 numeri e 5 anni densissimi, in cui Bagge continua a collaborare a riviste e antologie varie, facendo un’apparizione anche nella prima pubblicazione di sempre della Drawn & Quarterly, ossia il primo numero dell’omonima antologia. Nel 1990 Bagge, nonostante le vendite discrete, decide di cambiare aria. Neat Stuff chiude i battenti e nasce così Hate, una delle serie di maggior successo di sempre in casa Fantagraphics, che permetterà a Bagge di allargare il suo seguito al di fuori della ristretta cerchia del fumetto alternativo. Hate sviluppa proprio il personaggio di Buddy Bradley – un Andy Capp poco più che ventenne ma che ce l’ha già con il mondo intero – e ne segue il trasloco dalla costa Est alla costa Ovest degli Stati Uniti. La stessa traiettoria era stata percorsa qualche anno prima da Bagge – trasferitosi nei sobborghi di Seattle insieme alla moglie nel 1984 – e dalla stessa Fantagraphics, che sul finire del decennio abbandonò la sede di Los Angeles per spostarsi all’ombra dello Space Needle.

Insomma, è l’aprile del 1990 quando nei negozi di fumetti arriva Hate #1. La copertina raffigura Buddy su un gigantesco hot rod e mette subito in chiaro in che mondo ci troviamo, citando Ed “Big Daddy” Roth e tutta un’estetica americana che parte da Harvey Kurtzman e altri autori di Mad passando per Basil Wolverton e i weirdos alla Roth, fino ad approdare all’underground di Crumb e Gilbert Shelton. My Pad and Welcome to It riprende le vicende di Buddy da dove le avevamo lasciate in Buddy The Weasel, la lunga storia che occupava per intero Neat Stuff #15. Se lì Buddy se n’era andato a dormire in spiaggia pur di non stare con tutta la sua pazza famiglia, qui ci mostra il suo nuovo appartamento dall’altra parte degli Stati Uniti, raccontando come ci è arrivato. Dopo aver vissuto in case condivise – spesso con tanta, troppa gente dentro – a Brooklyn, Hoboken e Minneapolis, eccolo dunque a Seattle, anche se la vera destinazione sembrava essere la California. Vabbè, meglio di niente, anche perché in quel periodo tutti parlano della “wonderful” Seattle. Ma per Buddy, che proprio come suo padre è sempre incazzato e vede il lato negativo di ogni cosa (non a caso il fumetto si chiama Hate), Seattle “non è fantastica come dicono”, visto che “le persone si comportano in maniera così gentile ed educata che ti viene da chiederti cosa hanno da nascondere” ed “è diventata troppo affollata e inquinata”. Il rapporto con i coinquilini non migliora certo l’umore del protagonista. Leonard “Stinky” Brown, compagno d’avventure già apparso in Neat Stuff e che l’ha seguito sin dal New Jersey, è un dongiovanni fancazzista menefreghista e casinista, sempre con qualche affare “incredibile” tra le mani e pieno di idee campate in aria che raramente arrivano a realizzarsi. Se Stinky è estroverso al punto da andarsene spesso in giro per casa tutto nudo, anche in presenza di estranei e nonostante le verruche genitali, il suo esatto opposto è George Hamilton, ultimo componente del terzetto. Riservato, paranoico, intellettualoide ma quasi sempre intento a guardare programmi trash in tv, George è il classico nerd che non ha amici né fidanzate, anche perché è troppo impegnato a scrivere sproloqui su questioni come morte, disperazione esistenziale e purezza spirituale che pubblica sulle sue fanzine fotocopiate, come meglio apprenderemo in una storia dedicata tutta a lui su Hate #3. E oltretutto è nero, finalmente a dare un po’ di colore al mondo dannatamente white trash di Bagge.

Il centro di tutto è però, ovviamente, Buddy: un personaggio ispirato inizialmente al fratello più piccolo dell’autore, ma che con il passare del tempo diventa sempre più autobiografico, con qualche aspetto caratteriale preso in prestito da amici e conoscenti. Bagge, ormai ultratrentenne, sposato e con una figlia, si ispira per Hate alle esperienze personali vissute ai tempi di New York ma le colloca a Seattle, in modo da avere sempre a portata di mano una realistica scenografia. La scelta si rivelerà ancor più fortunata del previsto, perché di lì a poco – con il boom di Nirvana e Pearl Jam ad arricchire una scena musicale già animata da band come Soundgarden e Mudhoney – Seattle diventerà il centro del mondo e Bagge attirerà molti lettori proprio grazie all’ambientazione delle sue storie. 

Con il secondo numero il cast si arricchisce dell’immancabile componente femminile, grazie all’arrivo di due personaggi chiave. La prima è Valerie, incontrata in una sala biliardo e che dimostra subito un certo interesse per il protagonista. Affascinante e determinata, è la classica tipa che Buddy sembra non meritarsi, anche perché – per quanto sia irritabile e astiosa – è evidentemente meno incasinata di tutti gli altri. E ha davvero un bel culo, come fa notare Bagge disegnandola con forme esageratamente sinuose mentre si china sul tavolo da biliardo in Hate #2.

Questo secondo numero è uno dei migliori – se non il migliore in assoluto – della serie e ha la struttura della tipica commedia romantica di Hollywood. Dopo aver litigato con un reduce dal Vietnam per aver chiamato lui e i suoi commilitoni “losers”, Buddy strappa un appuntamento a Valerie. Quando i due si rivedono le cose sembrano mettersi subito bene, dato che dopo una breve passeggiata la ragazza lo invita a casa rivolgendogli promettenti allusioni. Peccato che la coinquilina di Valerie sia Lisa, vecchia conoscenza del protagonista e in un certo senso anche dei lettori, dato che è la rielaborazione del personaggio femminile di Sometimes I Think I’m Going Crazy, storia breve apparsa sul #1 di Neat Stuff. Lisa aveva raccontato all’amica un’esperienza non proprio felice con un certo Buddy, reo di averle ficcato a forza la testa nella tazza del cesso durante un rapporto sessuale. E sì, si trattava proprio del nostro Buddy. Valerie, a cui non manca il carattere per farsi rispettare dagli uomini, va su tutte le furie e caccia via in malo modo l’aspirante spasimante. Ma in realtà si tratta solo di un rinvio, perché già alla fine di questo stesso episodio i due fanno pace spassandosela su un letto d’ospedale. Da qui inizia una tormentata relazione, caratterizzata da selvaggi litigi e passionali riappacificazioni, come Bagge ci racconta in Hate #3. Sempre nel #3 debuttano le rubriche, ciliegina sulla torta del comic book. Per ora ci sono soltanto gli editoriali e la pagina delle lettere, ma sono più che sufficienti. Se la pagina delle lettere è un divertentissimo ritrovo di fan e detrattori fuori di testa (ma di questo parlerò dettagliatamente in un prossimo post), gli editoriali diventano lo spazio in cui Bagge spara una raffica di segnalazioni di fumetti, fanzine e riviste, con i lettori che lo inondano di materiale cartaceo per farsi dedicare qualche riga. Rileggere tutto ciò diventa un modo per ripercorrere la storia dell’underground anni ‘90 USA come neanche la rete ci permette di fare, dato che molte delle pubblicazioni di cui si parla risalgono all’era pre-internet e non si trovano nemmeno con una ricerca Google. 

Buddy è ormai stabilmente fidanzato con Valerie e fa il commesso in una libreria dell’usato, un mestiere che Bagge conosce bene dato che prima di diventare un cartoonist a tempo pieno aveva lavorato per più di tre anni alla Barnes & Noble della Penn Station a New York. Ma per lui la vita è tutt’altro che tranquilla e monotona, anzi, a volte è animata anche dai fantasmi del passato. Nel #4 torna infatti – direttamente dalle pagine di Neat Stuff – il fratello Butch, già militarista e patriottico da ragazzino e ora diventato un reazionario tout court, tanto da portare una maglietta recante bandiera americana e scritta “Try burning this, asshole!”. Come già nell’incontro con il veterano del #2, torna il tema politico: il protagonista, che in storie come Buddy the Weasel (Neat Stuff #15) aveva mostrato qualche accenno di razzismo, sembra diventato ormai aperto e progressista. E’ chiaro che l’emancipazione dal contesto familiare e suburbano gli ha giovato, come invece non è successo a Butch, che è andato via di casa soltanto per arruolarsi nell’esercito. Certo, non si può nemmeno dire che Buddy sia diventato questo grande pensatore né tantomeno un attivista, visto che il suo menefreghismo e un certo nichilismo di fondo hanno sempre il sopravvento su pensieri potenzialmente più elevati. E’ un numero tutto a tema familiare questo, con una breve storia di chiusura in cui scopriamo il destino della sorella Babs, una “versione molto più stupida” della sorella dell’autore. Ciò che ne viene fuori è che, se Buddy sembra incasinato, i suoi consanguinei non se la passano certo meglio tra gli umani orrori del New Jersey. 

A questo punto Bagge ha presentato i personaggi e i temi ricorrenti della sua underground opera a fumetti. E per lui è davvero un gioco da ragazzi sviluppare il tutto nel suo tratteggiato e caricaturale bianco e nero, con i personaggi dalle grandi teste e dagli arti sottilissimi che inanellano espressioni e posture sempre più esagerate strappando sonore risate ai lettori. Le creature di Bagge spalancano la bocca, digrignano i denti, sudano, inorridiscono e si incazzano al punto che gli occhi gli escono fuori dalle orbite, il tutto senza soluzione di continuità, anzi spesso in un crescendo di situazioni comiche paradossali. I numeri che vanno dal 2 al 15 sono i migliori della serie per come uniscono realismo, dialoghi al fulmicotone, autentica antropologia culturale e uno spietato sense of humor che rende irresistibili storie di divertente quanto disperata quotidianità. Oltre a quelli già accennati, i momenti fondamentali sono la nuova appariscente capigliatura di Lisa (#5), la visita di Buddy e Valerie ai genitori di lei (#6) e l’improbabile appuntamento tra George e Lisa (#7). Discorso a parte meritano i numeri 8 e 9, che contengono Follow That Dream!, la storia di maggior successo di Hate, che spingerà la testata a quota 25.000 copie vendute. E non sono cifre da poco per un comic book del genere, che comincia a registrare un certo successo non tanto nelle fumetterie tradizionali quanto nelle librerie alternative e nei negozi di dischi, come Fallout Records, storico negozio di Seattle aperto tra il 1984 e il 2003, dove Hate vendeva centinaia di copie. Follow That Dream! è ambientata proprio nel mondo della musica ed è la storia che rappresenta il legame più concreto tra Hate e Seattle, perché se in altri frangenti la città del grunge è più che altro uno sfondo, qui è davvero la protagonista. Il motore della vicenda è l’ennesima idea balorda di Stinky, che in questo caso non si rivela così campata in aria. Sollecitato dall’amico, Buddy abbandona i panni del pigro e passivo slacker della Generazione X per prendere sotto la sua ala protettiva un gruppo di giovani musicisti capelloni e alcolizzati. Se il protagonista si trasforma così in un gretto manager discografico, il suo socio non è da meno, dato che scende direttamente sul palco con la band ribattezzata in suo onore Leonard and the Love Gods.

Il neo-manager si rimorchia anche una tipa in un negozio di dischi, portandosela a letto con la promessa di darle dei biglietti per il backstage. La scena – in cui la partner occasionale di Buddy si sdraia sul letto completamente disinteressata – testimonia la schiettezza di Bagge e un approccio ai temi sessuali diretto e senza fronzoli, tanto da venire duramente criticata dal pubblico, soprattutto femminile. Ma i detrattori forse non si erano ancora resi conto che, sin dai tempi di Neat Stuff, Bagge utilizza i suoi personaggi per mostrare, commentare e a volte criticare comportamenti e luoghi comuni. Se Crumb – e con lui Joe Matt, tanto per fare un altro esempio – mette in mostra se stesso e la sua fascinazione maniacale per il corpo femminile (e se c’è autocritica, compiacimento o un inscindibile mix di entrambi è questione complessa che merita altra sede), Bagge non fa fumetti esplicitamente autobiografici ma racconta le vicende di personaggi di fiction. I suoi fumetti diventano dunque un luogo dove – attraverso le gag, i paradossi, il disegno ipercaricaturale – si svolge un’analisi di temi sociali, relazionali e sessuali. Insomma, Buddy Bradley non si comporta come farebbe Peter Bagge, Buddy non è un personaggio positivo a tutto tondo né tantomeno il classico “eroe” dei fumetti, e Bagge non considera necessariamente “giusto” e “fico” tutto ciò che Buddy fa o dice. “Quando scrivo le mie storie – dirà Bagge qualche anno più tardi in un’intervista a Heidi MacDonald ristampata nel volume Peter Bagge: Conversations edito dalla University Press of Mississippi – non penso mai ‘Mi piace questo personaggio e voglio che a tutti piaccia questo personaggio e poi lo farò scontrare con un altro personaggio che rappresenta tutto ciò che non mi piace’. I personaggi non rappresentano idee o ideali. Sono solo persone. E tra le persone con cui ho a che fare non c’è nessuno che trovo assolutamente perfetto o del tutto insopportabile”. E anche Buddy è tutt’altro che perfetto, anzi, oltre ad approfittarsi delle fan della “sua” band tra un concerto e l’altro riesce anche a farsi sfuggire Valerie, mandando all’aria la relazione. D’altronde non gliene frega niente di niente, figuriamoci se si dà da fare per tenersi stretta la fidanzata. 

Si aprono così le porte al prevedibile ritorno di fiamma tra Buddy e una Lisa oltre i limiti della disperazione esistenziale e dell’autocommiserazione, tanto da arrivare a indossare un sacco di patate (#10) e a farsi praticamente violentare da un Buddy di nuovo politicamente scorretto dopo essersi rimessa in sesto e in tiro (#11). Altra scena, questa, più crumbiana di Crumb stesso: facile pensare che se fosse stata concepita e pubblicata oggi, l’autore si sarebbe beccato critiche a non finire e l’editore sarebbe stato costretto a chiedere scusa a tutti per aver dato alle stampe il fumetto. Per Lisa i patimenti non finiscono qui tra l’altro, dato che sul finale dello stesso numero Buddy, sempre più incontenibilmente ed egoisticamente arrapato, finisce quasi per affogarla nella vasca da bagno durante un rapporto sessuale.

Nei numeri seguenti assistiamo al tentativo del protagonista di lanciarsi nel mercato del collezionismo partecipando a una fiera del settore (#12), alla misteriosa scomparsa di George, che ha descritto Buddy come esempio negativo della gioventù contemporanea in un numero della sua rivista Zygote stampato in migliaia di copie e distribuito in tutta Seattle (#13), al ritorno di Valerie (#14) e alla rivisitazione della storia che aveva aperto la serie (#15). Questa volta però nell’appartamento c’è decisamente troppa gente, dato che vi si ritrovano tutti insieme Buddy, Stinky, Lisa e anche i redivivi Valerie e George. Forse per il nostro è il momento giusto per cambiare un po’ aria e magari andare a trovare la famiglia nel New Jersey…

Ed eccoci ad Hate #16, numero storico che segna l’inizio della seconda metà della serie e l’inaspettato passaggio al colore, una svolta che Bagge aveva pensato da tempo e che è diventata economicamente possibile grazie alle ottime vendite. Inoltre scegliere il colore significa sveltire i tempi di lavorazione, rinunciando all’elaborato tratteggio in bianco e nero e al lavoro sulle chine, ora affidate a Jim Blanchard. Si passa così da tre a cinque uscite all’anno, e Bagge può finalmente vincere la frustrazione di dover rallentare i suoi plot per star dietro a tutti gli aspetti della produzione artistica. Ma inevitabilmente la scelta divide i lettori: a partire dal numero seguente si susseguono lettere su lettere che danno a Bagge del venduto, accusandolo di aver perso lo spirito underground degli esordi e di realizzare un fumetto ormai commerciale che non fa nemmeno più ridere come una volta. Se è vero che all’epoca Bagge si divertiva a pubblicare soprattutto le lettere di critica e insulti, tralasciando quelle di complimenti che riteneva spesso troppo noiose, c’è da dire che il nuovo Hate non convince tutti, e una frangia del pubblico – soprattutto quella più giovane – rimane delusa non solo per l’adozione di uno stile decisamente più pop ma anche per il cambiamento di temi e ambientazione. Una volta Hate era la serie underground in cui il pupillo di Robert Crumb raccontava in modo caustico l’altra faccia della Seattle del grunge, ora è invece diventata una colorata situation comedy ambientata nel New Jersey il cui protagonista si è stabilmente sistemato nel seminterrato dei genitori insieme alla fidanzata. Ed è anche il personaggio di Lisa a suscitare le inferocite reazioni del pubblico maschile, a cui bruciava vedere in Buddy il cagnetto al guinzaglio della partner rappresentato da Bagge nella copertina del #21, introdotta dallo strillo The Official Voice of “Sellout Nation”. Sì, perché nel frattempo su Hate è arrivato anche il codice a barre e, soprattutto, la pubblicità, inaugurata dalla quarta di copertina del #19 con la locandina del film Crumb di Terry Zwigoff e poi deflagrata definitivamente dal numero successivo con dischi, orologi, negozi, accendini e via dicendo. Bagge si giustifica nell’editoriale del #20 definendo questa soluzione come l’unica possibile per mantenere inalterato il prezzo di copertina a causa dell’aumento del costo della carta, ma ovviamente un buon numero di lettori si scaglia contro di lui, la Fantagraphics e chissà chi altro… Da segnalare che da Hate #20 le pagine da 24 diventano 32, anche se si passa da una lussuosa carta bianca a un’altra ben più economica.

Ma torniamo alla cosa che ci interessa di più, ossia storie & disegni. E’ vero che il nuovo Hate non è al livello del vecchio? Beh, anche io all’epoca rimasi piuttosto interdetto dal passaggio al colore, tanto che a neanche 18 anni sulle pagine del #5 di Underground rompevo le palle scrivendo che “la prima impressione è che la testata abbia perso un po’ del suo fascino underground”. Bleah, che maledetto e imberbe snob… Però ok, a riguardarli oggi i numeri in bianco e nero sono decisamente più belli di quelli a colori, e un po’ devo dare ragione al me stesso di allora che vergava tali sentenze dalla sua cameretta di Anzio con un Commodore 64. Ma va anche detto che il comic book migliorerà numero dopo numero, trovando giovamento dalla maggiore confidenza alle chine di Blanchard, dai colori che diventano via via più caldi e paradossalmente anche dalla carta più economica, utile a dare un aspetto più cheap e meno patinato al tutto. Per quanto riguarda le storie, il periodo che va dal #16 al #21 è quello più altalenante dal punto di vista qualitativo, con un accurato spaccato della vita nei sobborghi americani ma anche con qualche momento di stanca dovuto alla ripetitività di certe situazioni familiari. Sì, perché alla fine Buddy e Lisa si stabiliscono nel New Jersey e a Seattle non ci tornano più. Bagge corregge completamente il tiro e smette di raccontare la giovinezza, le bevute, le uscite con le ragazze, i rapporti con i coinquilini e passa a descrivere la vita familiare, ispirandosi al suo retaggio di gioventù – già così importante per The Bradleys – e al periodo di Redmond, nei sobborghi di Seattle, quando aveva messo su casa e famiglia con la moglie Joanne.

Ovviamente cambia anche il cast dei comprimari, che torna a grandi linee quello di Neat Stuff, con la madre e il padre di Buddy, il fratello Butch, la sorella Babs con i suoi scatenatissimi figli e il balordo ex marito Joel, il compagno di scuola Tom diventato poliziotto e altri amici e vicini che rientrano in scena dopo anni di limbo. Tra questi il più importante è Jay, con cui Buddy aveva già legato in Hippy House (Neat Stuff #9). I due se la intendono ancora e insieme mettono su un negozio di oggettistica, memorabilia, riviste e dischi, insomma un paradiso per nerd inaugurato nel #19 con il titolo B & J’s Collector Emporium. Intanto nel #18 Buddy si è comprato una macchina degna di un supereroe, la cosiddetta poliomobile, un hot rod deforme con ruote giganti davanti e normali dietro. Non può non tornare alla mente la copertina di Hate #1, che all’epoca non aveva niente a che fare con il contenuto di quell’albo ma che adesso suona quasi profetica. Dopo due storie in cui il nostro se la deve vedere prima con i nipoti (#20) e poi con le bizze del padre appena uscito dall’ospedale e capace di catalizzare l’attenzione di tutte le donne della casa (#21), dal #22 la musica cambia. Bagge comincia a spingere sull’acceleratore introducendo nelle sue storie elementi di realismo spietato, quasi dei pugni assestati alla pancia dei lettori che nel tempo avevano conosciuto e amato i suoi personaggi. Forse una reazione alle accuse di essersi venduto e addolcito? Forse sì, o forse sono cose che Bagge aveva già in testa da tempo. Fatto sta che da questo numero le risate diventano sempre più amare o cessano quasi del tutto, almeno in alcuni frangenti. Difficile a questo punto scendere nei dettagli, perché entriamo nel vivo della trama, e anticipare altri sviluppi rovinerebbe la sorpresa a chi non ha mai letto Hate. Evito dunque il racconto di questo #22 come anche del #23, un episodio chiave tutto incentrato su Lisa. E che dire del #27, altro momento di sconcertante realismo? Bagge dimostra in questa fase di non essere solo un umorista e un abile creatore di storie, ma anche di saper stupire il lettore e di metterlo a disagio raccontando situazioni drammatiche. E di delineare personaggi “veri”, come per esempio la stessa Lisa, non più la ragazza in bianco e nero dei primi numeri, depressa e sottomessa, ma un personaggio “a colori”, sfaccettato e capace di inaspettati colpi di testa.

La serie sta ora vivendo un momento d’oro, grazie a questi “slice of life” e a un Buddy tornato single, che non vive più in famiglia ma si accompagna – sempre e comunque malvolentieri – a una congrega di balordi composta dal fratello Butch, dal solito Jay, dal vicino Jimmy Foley, dall’ex cognato Joel e dall’ambiguo duo composto da Jake The Snake e Pencils. A respirare nuovo ossigeno sono sia i lettori che lo stesso protagonista, ormai stabilitosi nel retro del suo negozio e pronto a sperimentare di nuovo la magia degli appuntamenti e dei flirt occasionali, arrivando a incontrare addirittura tre donne in un solo episodio, The Single Life appunto, pubblicato su Hate #29. La mutazione è ormai compiuta e, dopo qualche incertezza iniziale nella fase di passaggio, Hate si è egregiamente trasformato in un fumetto che descrive l’altra faccia dell’american way of life, o la vera vita dei sobborghi americani. Bagge non vuole raccontare storie eccezionali di personaggi speciali, perché ciò che gli interessa è la quotidianità, le piccole situazioni che tutti ci troviamo ad affrontare. E le disegna senza sentirsi superiore ai suoi personaggi, anzi, sentendosi proprio uno di loro. 

E siamo arrivati quasi alla fine, in numeri sempre più densi di contenuti, anche a firma di altri autori. Se dal #21 ci aveva pensato l’irresistibile Doofus di Rick Altergott a riempire qualche pagina in eccesso, una nuova rivoluzione si era sviluppata dal #26, con l’upgrade a 48 ricchissime pagine contenenti contributi di altri cartoonist, rubriche dei fanzinari recensiti da Bagge nel corso degli anni e ovviamente altra pubblicità. Ma di questo leggerete in un prossimo articolo, ora torniamo appunto a Hate #29, che al momento dell’uscita sembrava un numero qualsiasi. Niente lasciava presagire che il #30 sarebbe stato quello finale e invece ecco qui che questo corposo comic book di 56 pagine uscito a giugno del 1998 (con il prezzo stavolta rialzato a $3.95, tanto è l’ultimo numero e nessuno può protestare) conclude di botto le vicende di Buddy Bradley e soci. L’appena quarantenne Bagge si diverte a disegnare se stesso mentre tiene in mano un mini Buddy Bradley e lo butta nella tazza del cesso urlando “Say goodbye, folks!”. E aggiunge nell’editoriale: “Yes, this is the last issue of HATE. Why? Well, I, uh… Jeez, that’s a good question… Because I’m a SELF-DESTRUCTIVE FOOL, that’s why!”. E in effetti lasciare una serie che stava sperimentando un successo di pubblico davvero insolito per un fumetto “alternativo” sembrava una mossa suicida, ma Bagge voleva cambiare aria e dedicarsi a qualcosa di diverso, chiudendo i battenti quando il successo era ancora dalla sua e non per un calo di vendite o per mancanza di interesse del pubblico. Lo stesso era successo quasi dieci anni prima con Neat Stuff, chiusa all’improvviso per cercare vie alternative. Per quanto riguarda la storia del #30 beh, non posso certo raccontarvi come va a finire, quindi mi limito a dire che si assiste al ritorno di vecchi amici e che ci sono un paio di colpi di scena da ricordare… Oltre al fatto che alla fine Buddy trova il “fischietto magico” che era stato suggerito a Bagge dal fumettista Sam Henderson nella pagina delle lettere di Hate #12 e che era diventato un tormentone tra i lettori. Niente male come dedica finale ai super-appassionati che hanno seguito la serie per otto anni e che devono dire addio a personaggi amatissimi, che sono diventati quasi degli amici, come succede di solito con i migliori telefilm.

In realtà Hate #30 non segna la fine delle vicende di Buddy Bradley. Il 1998 vede l’uscita, oltre che di un’intervista sul #206 di The Comics Journal con copertina a tema The Death of Hate!, di uno speciale celebrativo intitolato Hate Jamboree. Quest’ultimo è un magazine di 64 pagine in cui Bagge celebra la fine delle avventure di Buddy Bradley. Anzi, più che una rivista la potremmo chiamare una fanzine, nel senso di un prodotto per i fan più che fatto dai fan. Il tono è chiaro sin dalla copertina, e basta aprire l’albetto per ritrovarsi, a pagg. 2 e 3, una splash page con un Buddy stupito che viene salutato dai suoi comprimari e anche da persone “reali” come lo stesso Bagge e Gary Groth. Il cuore di Hate Jamboree è il lungo articolo Hate: A Love Story, in cui lo stesso Bagge racconta genesi, storia e curiosità del suo comic book in 13 pagine accompagnate da illustrazioni spesso rare o inedite. Tra queste copertine (Screw, The Rocket, The Stranger, Goldmine), vignette tratte da Weirdo, High Times, Spin e altre riviste, poster per concerti e tour come l’HateBall del 1993 che vide il nostro girare le fumetterie statunitensi insieme a Daniel Clowes. Per il resto l’albetto è occupato da tributi, interviste a compagni di viaggio come Jim Blanchard e Rick Altergott, un’accurata bibliografia e fumetti rari dello stesso Bagge, tra cui cito come esempi più significativi la collaborazione Bagge-Clowes vista su Cracked #220 del 1986, un’illustrazione tratta da Honk #2 (ancora 1986, Fantagraphics) che accompagnava uno scritto di Alan Moore, la riproduzione integrale di un fumetto inchiostrato da Jim Woodring e realizzato per il booklet di un CD di George Thorogood, alcune strisce inedite di Studs Kirby pensate per la rivista del canale televisivo ESPN e mai pubblicate.

Ma questa grande festa di addio si rivelerà invece un arrivederci, dato che un paio d’anni dopo Bagge non resisterà alla tentazione di riportare sulla pagina le sue creature iniziando la pubblicazione degli Hate Annual. Proprio sugli Annual, e su altre curiosità legate a Hate, tornerò in una serie di approfondimenti che troveranno presto spazio su queste stesse frequenze. See you in the next post!

Un webshop sempre più ricco

Approfitto di questo spazio gentilmente offerto da me stesso per segnalarvi che nel negozio di Just Indie Comics trovate una trentina di titoli caricati negli ultimi giorni, tra nuovi arrivi, titoli del catalogo finalmente disponibili anche on line e addirittura libri “scritti”, ossia materiale non a fumetti: siamo così a quota 170 articoli, se non sbaglio un record per il negozio dalla sua nascita. Ma andiamo con ordine e cominciamo a illustrare brevemente le novità, come il #2 della pazzesca antologia made in San Francisco Tinfoil Comix (del #1, al momento esaurito, avevo parlato qui), il misconosciuto ma per me già cult A Different Sky di Samuel D. Benson (ci tornerò meglio in seguito) il settimo numero della fanzine Bubbles con interviste a Inés Estrada, María Medem e Jesse Jacobs e approfondimenti su Yoshiharu Tsuge e Gary Panter, i nuovi fumetti di quelli che ormai sono degli habitué da queste parti, ossia David Tea e Ian Sundahl, entrambi arrivati all’undicesima uscita delle loro serie Five Perennial Virtues e Social Discipline. Altro ritorno è quello di Pete Faecke, i cui fumetti avevo già portato in Italia un paio di anni fa direttamente dal CAKE di Chicago e che ora è di nuovo tra noi con il già visto gay western Pardners e soprattutto con due recenti albetti autoprodotti divisi a metà con A.T. Pratt (Wacky Western) e Drew Lerman (Detective!).

Da “Detective! Double Digest” il fumetto di Pete Faecke

This is Serious: Canadian Indie Comics è invece il catalogo di una mostra sul fumetto canadese che si è tenuta all’Art Gallery of Hamilton, con tavole di autori canadesi contemporanei e non, accompagnate da saggi di Jeet Heer e Peggy Burns. Dall’Italia arrivano invece Baby Gang di Diego Miedo e Pietra abbandonata di Tagliamani, su cui mi ero già soffermato qui. Dicevamo prima di Bubbles, e riprendo l’argomento per ricordarvi la presenza nel catalogo del #6, contenente un’intervista a Benjamin Marra condotta da Dash Shaw e anche un inserto con le prime sei pagine di Our Lord, My Master, graphic novel che Marra ha completato da tempo ma che è al momento ancora inedito (il perché lo scoprirete leggendo l’intervista). E a proposito di fanzine, ecco i primi tre numeri di Strangers, altra zine americana nata di recente, con interviste a Paul Kirchner, Geoff Darrow, Richard Corben, oltre ad articoli, recensioni e fumetti che rivolgono una particolare attenzione al passato più che al presente.

Dicevo poi del materiale “recuperato” dal catalogo, e cioè quei fumetti che prima ero solito portare ai festival ma che non avevo più caricato nel nuovo negozio su Big Cartel. Ebbene, sto cercando pian piano di metterne il più possibile on line, dato che i festival continuano a rimanere un’incognita. Per il momento trovate titoli a firma Antoine Cossé (di cui ho recuperato Showtime, mentre continua a essere disponibile anche The Train), Jakko Pallasvuo (Pure Shores), Julie Delporte (This Woman’s Work), Michael DeForge (con gli ormai rari e fuori catalogo On Topics e The Boy in Question), Etan Rilly/Hartley Lin con qualche numero del suo Pope Hats, e poi l’antologia giapponese Akkusu con un volume di difficile leggibilità ma senz’altro curioso che vede ospiti Archer Prewitt, Jason e Adrian Tomine, il settimo numero da tempo esaurito del magazine Nobrow, la collezione completa del Klaus di Richard Short edito da Breakdown Press, comprensiva dei tributi di autori come Alice Socal, Michael DeForge, Joe Kessler, Anna Haifisch, Lando ecc.

“On Topics” #1-2 di Michael DeForge

Visto che ci sono, ne approfitto per segnalarvi che prima dell’estate nella sezione Classix+Rare erano arrivate una serie di novità d’annata, come qualche Zap Comix e Weirdo, The Complete Dirty Laundry Comics di Aline Kominsky e Robert Crumb, il #2 dell’antologia Short Order Comix curata da Art Spiegelman e proveniente direttamente dal 1974. E concludo dandovi la notizia che ho da poco inaugurato la categoria Other Stuff, in cui spero di aggiungere pian piano materiale extra-fumettistico, alla faccia di “just” indie comics. Si inizia con un po’ di libri della seminale casa editrice milanese Shake (di cui è disponibile anche I fumetti del Prof. Bad Trip) e con due volumi della rivista/libro Re/Search dedicati alle fanzine. L’idea è quella di recuperare in giro materiale di difficile reperibilità legato al mondo della controcultura e dell’autoproduzione, con un occhio particolare a fanzine e riviste del passato che ho personalmente amato e che cercherò di far amare anche a voi.

E infine, stavolta per davvero, vi ricordo che tutte le spedizioni avvengono via corriere Sda e che basta inserire in fase di checkout il codice ITALIA50 per avere le spese di invio gratuite su tutti gli ordini dai 50€ in su.

La copertina di “Re/Search Zines!” vol. 1

JICBC pt. 4: “The Puerto Rican War” e “Living Nightmare”

L’ultimo capitolo del Just Indie Comics Buyers Club 2020 propone due autoproduzioni provenienti direttamente dagli USA. La prima, destinata a tutti gli abbonati, è The Puerto Rican War di John Vasquez Mejias, ovvero – come la definisce lo stesso autore – “la storia dei rivoluzionari portoricani del 1950 raccontata con la xilografia”. Poche volte sono stato così orgoglioso di presentare un fumetto del Buyers Club: The Puerto Rican War è un’opera che riempie gli occhi, frutto di una dedizione concettuale e pratica spaventosa. Se date un’occhiata a questo post sulla pagina Instagram di Mejias potrete ammirare l’importanza del lavoro in tutta la sua materiale meraviglia, potenziata dal fatto che le pagine sono ben 96. Siamo dalle parti del graphic novel più che dell’albetto autoprodotto, anche se l’aspetto artigianale è ben evidente nella rilegatura a filo rosso e nella qualità della carta, nera, sporca, tagliata senza l’uso di strumenti tipografici. Non è stato un albo facile da portare in Italia in grosse quantità, per la mole, i costi di spedizione e il momento particolare che stiamo vivendo, ma John si è messo a disposizione e mi ha dato una grossa mano. Un grazie a lui per aver reso la cosa possibile, oltreché per aver raccontato in modo così – passatemi il termine – “artistico” la storia di una rivoluzione da noi poco conosciuta, eppure che è un pezzo importante del colonialismo del ‘900. Ma come al solito quando si tratta del Buyers Club non scendo troppo nel dettaglio degli albi, lasciando agli abbonati la possibilità di godersi la lettura senza troppe anticipazioni.

Gli abbonati Large riceveranno insieme a The Puerto Rican War anche un altro albetto, ossia Living Nightmare di Pete Faecke, autore che avevo incontrato un paio di anni fa al CAKE di Chicago, portando in Italia alcune delle sue autoproduzioni. Proprio allora parlavo del suo lavoro come una rilettura costante (e spesso dissacrante) dei generi classici del fumetto americano, e Living Nightmare ne è ulteriore conferma, dato che questo mini guarda senza dubbio al materiale Ec Comics, riletto però in chiave esistenzialista e, per quanto possa sembrare strano, autobiografica. La prosa di Faecke è qui più che mai densa e si unisce a un aspetto grafico curatissimo, arricchito dalla stampa in risograph in blu e rosa. Sono solo 8 pagine ma vi assicuro che ne vale la pena. E se vi piace vi segnalo che trovate altri fumetti dello stesso autore tra le numerose novità del webshop di Just Indie Comics. Buona lettura dunque, e arrivederci al 2021 per una nuova edizione del Buyers Club.

“Pietra abbandonata” di Tagliamani

“Un signore interpreta il cattivo nella recita. Io interpreto una giovane ragazza. Il cattivo mi deve ammazzare. Mentre il cattivo mi spara io mi trovo dietro la scenografia. Dal pubblico nessuno vede nulla tranne il cattivo che stende il braccio e preme il grilletto. La folla sibila di paura e indignazione. Acchiappano il cattivo e lo portano a fare un giro dei bar. Già alle prime sorsate il vino dà alla testa”. Basta l’incipit per avere un’idea della prosa scarna e affilata con cui Marco Saccaperni in arte Tagliamani detta i tempi del suo Pietra abbandonata. Una prosa più che mai al presente, incalzante, che ti trasporta nell’azione e ti fa entrare senza troppe mediazioni nella testa della protagonista. I testi, a volte in corsivo e altre in stampatello, si accompagnano a disegni, scansioni di fotografie, fotocopie, collage vari. Ne viene fuori un libro unico nel suo genere, un brossurato formato A4 chiuso in una copertina arancione che a sfogliarlo rimanda contemporaneamente al futurismo e alle pitture rupestri, per quanto sia possibile un tale accostamento.

Per risparmiare tempo faccio raccontare la trama allo stesso autore: “Uno spettacolo teatrale finisce in linciaggio pubblico. Uno degli attori – una ragazza – lascia la città e raggiunge un paese di campagna dove è ospitata da un uomo. Il villaggio baratta merci con comunità straniere. Una banda di mercanti di carne di cervo minaccia l’equilibrio economico della comunità e assedia il villaggio. L’assedio consiste in cori da stadio. La ragazza si rifugia insieme ad altri abitanti nella casa dell’uomo che la ospita…”. Vi evito gli ulteriori sviluppi, che potrete scoprire da soli dato che il volume è disponibile nel webshop di Just Indie Comics. Vale invece la pena approfondire il come e il perché di questo libro.

Marco Saccaperni è un italiano classe 1980, nato in Umbria ma che al momento vive in Svizzera. Prima di Pietra abbandonata ha realizzato una versione illustrata dei Canti di Maldoror di Lautréamont. La storia nasce di pari passo con gli esperimenti grafici fatti dall’autore nel corso degli anni. Il testo è stato riprodotto su fogli A4 utilizzando in parte fotocopie di lettere di famiglia e in parte semplice scrittura. La parte in italiano è dunque tutta scritta a mano, mentre la traduzione in inglese è realizzata al computer. Quest’ultima è integrata nel libro in modo esemplare: non viene infatti riportata accanto all’originale, ma spesso trova spazio nelle pagine successive o precedenti, dando una sensazione di notevole organicità, come se il testo in inglese fosse un’altra delle componenti grafiche del volume. I disegni sono realizzati per lo più con Microsoft Paint. Il libro è stato stampato nel novembre del 2019 in una prima edizione limitata a 200 copie.

Avrete capito a questo punto che Pietra abbandonata è il tipico oggetto sui generis. Non un fumetto, più un libro illustrato che però travalica i confini dell’illustrazione stessa, perché il disegno non è sempre descrittivo, anzi è spesso quasi astratto, difficile da interpretare, slegato da ciò che leggiamo, come se le emozioni della storia sfociassero in un grafismo violento e primitivo. A volte il legame tra testo e disegno è sin troppo labile, e i testi – nella parte in cui i “cori da stadio” prendono il sopravvento – diventano più disegnati che scritti, e quindi di difficile interpretazione. Ma sono pecche secondarie, ciò che rimane alla fine della lettura è soprattutto la potenza della storia, che si dispiega secondo una logica tutta sua, e che arriva a dire qualcosa di importante su relazioni umane, conformismo e tradimento. E ci regala anche perle di saggezza come “Mostro amore e interesse puro / di questo, amico, puoi star sicuro / ma se all’empatia tu opponi un muro / io te lo ficco su per il culo”. Amen.

“Vision” di Julia Gfrörer

Non vi illudete, in questo libro non c’è né la Visione né Scarlet e forse si poteva già capire dal fatto che a pubblicarlo è Fantagraphics e non la Marvel. Non ci sono colori dunque, e nemmeno vendicatori, mutanti, Ultron, Tony Stark, Calabrone, Wonder Man, Tigra, Kang il Conquistatore, Korvac, Wasp, Costa Est e Costa Ovest. L’unica concessione al fantastico e al soprannaturale è uno specchio che parla, per il resto l’ambientazione è ottocentesca e realistica.

Già uscito a puntate in albetti autoprodotti, Vision è il terzo libro di Julia Gfrörer per la Fantagraphics, dopo Black is The Color del 2013 e Laid Waste del 2016. Confesso di non essere un grande fan di quei due libri lì. Per quanto la Gfrörer, cartoonist del New Hampshire classe 1982, abbia mostrato sin dall’inizio uno stile e una poetica originali, lontani dalle tendenze del fumetto alternativo contemporaneo, ho sempre considerato i suoi fumetti in qualche modo incompiuti. Con Vision la musica cambia, ovviamente in meglio. Innanzitutto il disegno, che come i precedenti lavori usa una griglia fissa di vignette: in Black is the Color erano 6, in Laid Waste 4, qui sono 9 e la scelta porta i suoi benefici, perché l’autrice rende meglio con le vignette piccole, che risultano più dettagliate e lavorate rispetto al passato. Il suo è un segno scarno, che sicuramente non fa gridare al miracolo, ma se nei lavori precedenti risultava a volte sin troppo sciatto qui è assai suggestivo nonché efficace, soprattutto nel rappresentare le diverse espressioni dei personaggi, quasi sempre ripresi in primo piano o comunque con inquadrature ravvicinate. E poi c’è la storia. Intensa, metaforica, pregna di contenuti, evita il facile escamotage del finale aperto e si compie nella sua interezza lasciando al tempo stesso tante domande sulle motivazioni dei personaggi che la animano.

La protagonista è Eleanor, che ha perso il fidanzato in guerra e ora è rimasta sola, tanto da dover dividere la pur grande casa con il fratello Robert e sua moglie Cora, gravemente malata. Le dinamiche tra i tre sono il fulcro della vicenda. Ma oltre a ciò che accade nella realtà, c’è una dimensione ulteriore e fondamentale nel libro, ossia quella della “visione” appunto. Già in apertura vediamo uno specchio parlare alla protagonista, lusingarla, sedurla, e poi pian piano convincerla a spogliarsi e a masturbarsi. Se è illusione o realtà non è dato saperlo e non è questo il punto, ciò che è certo è che lo specchio spinge Eleanor a considerare la propria sessualità, ad affermare se stessa, a mettere in discussione la realtà familiare a cui le circostanze (e il fratello) l’hanno costretta. A guardarsi, insomma. Un’ulteriore svolta avviene dopo un intervento alla cataratta, che cambierà ulteriormente la sua “visione” delle cose, portandola ad attraversare lo specchio, a uscire dalla sua cameretta e dal suo solipsismo fino a farsi regalare un orgasmo in carrozza dal suo medico, il dottor Bishop. Ma il mondo della Gfrörer è nero e spietato, e non facilmente consolatorio. La ribellione della donna – particolarmente significativa vista la realtà ottocentesca in cui vive – per quanto potente e simbolica non è una facile marcia verso il riscatto e la felicità. L’abisso è sempre dietro l’angolo nei fumetti della cartoonist statunitense, ed è un buco nero popolato di demoni interiori.

Ricco di spunti quanto affilato nello storytelling, Vision è un fumetto di 89 pagine che nella sua relativa brevità riesce a dire anche troppo: senz’altro una delle cose migliori – se non proprio la migliore – lette finora in questo strano 2020.

“Tinfoil Comix” #1

(English text)

Arriva da San Francisco una nuova antologia piena di autori sconosciuti ai più e che vince senza troppi problemi il confronto con simili iniziative ben più blasonate. Da un bel po’ non mi capitava di vedere una tale combinazione di talento, stranezza, urgenza e lucidità al tempo stesso: quasi tutti gli autori di Tinfoil Comix sanno cosa fare e come farlo, hanno qualcosa da dire e non hanno il tappo sulla penna. I fumetti mostrano temi e stili disparati ma hanno significativi punti in comune. Il primo che viene in mente è soprattutto uno sguardo altro al mondo, esemplificato in modo più diretto da una tavola di Jade Mar, in cui si legge: “Everything was one/We ate things/We farm things/We wait in lines/We advance/Were all these screens always here?/I’ve moved into this cave. The rent is incredibly affordable and/I feel at home”. I disegni sono semplici, indie ma quasi infantili. Lo stesso autore rincara la dose qualche pagina più tardi: “I can only tell a story from my perspective/I could try to tell one from yours but/I don’t think it would feel right”.

Tinfoil fa questo, racconta storie dal punto di vista degli autori, e se questo è ovviamente vero per tutto è particolarmente vero qui, perché sono prospettive definite, forti, crude, decise. Prospettive diverse dal comune, spesso influenzate dall’uso di droghe o farmaci come nel contributo un po’ retrò di Fried Feet messo in apertura, oppure che descrivono stati alterati raggiunti attraverso la sofferenza, come nel caso delle potentissime cinque pagine a firma Virgil Warren dedicate al Subcomandante Marcos. L’arte di Warren è fatta di spesse linee nere che scalfiscono i colori creando un effetto anni ’70 che ben figurerebbe in un fumetto della linea All Time Comics.

L’impaginazione a volte non è perfetta e si mangia i bordi della storia di Hope Kogod (e anche di qualcun’altra) ma poco importa. Le due pagine si aprono in verticale e sembrano quasi un poster, e alla fine Hope ricorda: “It’s 2020, I deleted Instagram, email me”. In effetti quelli di Tinfoil fanno le cose vecchia maniera, tanto che on line si fa fatica a trovare le loro tracce. Più che di virtuale qui si parla di reale, e infatti sono tante le storie a tema urbano, come le quattro pagine di Nick Fowler con soluzioni alla Bill Sienkiewicz o il coloratissimo fumetto di Jeremy McBrian che guarda ai graffiti e ai videogiochi. E colorate sono anche le pagine di Floyd Tangeman, che per non dare niente per scontato ricorda: “This comic reads from left to right”.

E’ evidente che questi autori non guardano soltanto al fumetto contemporaneo come punto di riferimento, anzi, l’approccio è spesso naif, quasi da outsider art. Le conseguenze sono rigeneranti, perché finalmente non ci ritroviamo di fronte alla copia della copia di turno, che sia di Olivier Schrauwen, di Jesse Jacobs o di Tara Booth. L’impressione è che i signori Tinfoil abbiano altro da fare, piuttosto che starsene a casa a leggere l’ultima uscita di Fantagraphics. E da queste pagine scaturisce proprio questo, un’incredibile inarrestabile irresistibile voglia di FARE. In tal senso Olga Corcilius scrive il manifesto perfetto utilizzando dei semplici pennarelli colorati: “Instead of drawing just write a novel/Instead of writing a novel just piss in the snow”. E il disegno appare sul bianco, una faccina bianca fatta di pipì. Siamo di fronte a una nuova rivoluzionaria generazione di autori? L’impressione è questa, e speriamo che i numeri successivi (il secondo è già alle stampe) ci diano qualche conferma.

I fumetti si succedono uno dopo l’altro, c’è solo una lista di cartoonist in ordine di apparizione all’inizio ed è compito nostro capire dove finisce uno e inizia l’altro, un po’ come usava fare Sammy Harkham nei vecchi Kramers Ergot. Sul finire arriva un certo Lemonhed, che esteticamente fa una roba alla E.A. Bethea, che chi segue questo sito avrà presente: vignette piccole, quadrate, che alternano immagini e solo testo, con un disegno in bianco e nero tendente allo scarabocchio.

Se il paragone con la Bethea funziona a livello di modus operandi, ci sta meno per quanto riguarda i testi, che non sono a modo loro poetici come quelli dell’altra ma piuttosto nervosamente autobiografici, pur non riuscendo a mantenere un punto in particolare. La scrittura divaga, si scompone in semplici lettere o in serie numeriche, fino a quando l’autore confessa: “So heres the thing the year is two thousand and nineteen I was gonna do my laundry but instead I/ took some Adderal and decided to make this comic so that maybe I can figure some things out”. Il fumetto diventa una terapia, e forse Tinfoil Comix è una terapia per tutti noi, abituati a contenuti che non ci fanno più sgranare gli occhi. Qui, invece, si sta con gli occhi spalancati dall’inizio alla fine.

Tinfoil Comix è creato e curato da Floyd Tangeman, che è anche l’editor della rivista insieme a Virgil Warren. Qualche copia del #1 è disponibile nel webshop di Just Indie Comics. Buone visioni.

“Cowboy” di Rikke Villadsen

Dopo la traduzione di The Sea, fumetto del 2011 giunto un paio di anni fa negli USA, Fantagraphics arricchisce il suo catalogo con la traduzione di Et knald till della danese Rikke Villadsen, uscito in Danimarca nel 2014. Già The Sea aveva stupito per forma, contenuti, temi. In quelle pagine un vecchio pescatore con velleità da marinaio trovava in mare un pesce parlante e un neonato. Nel frattempo, a riva, una giovane donna metteva in scena un rito di fertilità. C’era qualcosa di misteriosamente ancestrale in The Sea, come poche volte capita con efficacia nei fumetti contemporanei e com’era capitato, per esempio, in The Amateurs di Conor Stechschulte (in italiano I dilettanti, 001 Edizioni). La rappresentazione era totalmente teatrale. Cowboy conferma questa dimensione da palco dei fumetti della Villadsen, che potremmo definire teatro disegnato. Pochi personaggi, un set ben delimitato, abbondanza di monologhi. E poi metanarrazione, realismo magico, rilettura dei generi. Questa volta spetta al western, territorio tradizionalmente maschile: la Villadsen non si limita a ribaltarlo, mettendo in scena un personaggio femminile (come accadeva in Coyote Doggirl di Lisa Hanawalt), ma lo deforma, lo espone alle intemperie, lo modella a suo piacimento. Come aveva già fatto, da tutt’altra angolazione, Christophe Blain nel suo magnifico Gus.

Da The Sea è passato qualche anno, e si vede. Se quel libro era potentissimo a livello narrativo e concettuale, meno lo era dal punto di vista estetico. Le matite della Villadsen mostravano qualche indecisione di troppo, con dei passaggi frettolosi rispetto ad altri più definiti e riusciti. Qui, invece, l’aspetto grafico è decisamente compiuto: le pennellate blu disegnano corpi carnosi, rugosi, voluttuosi. La scena di sesso tra The Smoker e The Whore è impressionante per ricchezza di dettagli. Come avrete intuito, i personaggi non hanno nome in Cowboy ma soltanto ruolo: oltre ai due già citati, ci sono The Wanted, The Sheriff, The Coward e soprattutto The Window. Sì, “la finestra”, non “the widow” ossia la vedova. Le donne sono tutte “finestre” nei western, stanno lì a guardare. Ma lei no, vuole fare la rivoluzione, come Sissy in Even Cowgirls Get the Blues di Gus Van Sant. E poi avete pensato che i “buchi” aperti dalle pallottole sui cadaveri sono l’equivalente di una vagina e dunque una rappresentazione di potere? Il tema centrale del libro è proprio questo, tanto che i personaggi maschili si esprimono solo attraverso frasi tratte dai film di Sergio Leone e soci. Intanto la gente inizia inspiegabilmente a levitare, i manifesti parlano e i corpi cambiano sesso.

Della trama meglio non dire troppo, anche perché non è fondamentale. Cowboy non ha un inizio e una fine, è un fumetto senza capo né coda nel miglior senso possibile, tanto che quando lo finisci la prima volta te lo rigiri tra le mani per capire bene cosa hai letto: un libro queer potremmo dire, viste anche le tematiche trattate e le vicende che vi si svolgono. E’ pieno di spunti, fa pensare, provoca, di tanto in tanto racconta, è concettuale ma non si prende sul serio, non è perfetto e non ha intenzione di esserlo. Cowboy non è un graphic novel. Evviva Cowboy.

JICBC pt. 3: “The Driver” e “Amateur Hour” #1

E’ tutto made in O Panda Gordo il nuovo capitolo del Just Indie Comics Buyers Club, il terzo della serie. Le spedizioni partiranno a fine mese ma vi rivelo già adesso i fumetti che gli abbonati si ritroveranno tra le mani nel giro di qualche settimana. Innanzitutto O Panda Gordo: i più affezionati seguaci del sito conoscono già bene questa realtà di base a Glasgow e gestita dal portoghese João Sobral. L’ho presentata dettagliatamente un paio di anni fa in questo post e da allora la seguo sempre con molta attenzione. Alla fine dell’anno scorso sono arrivate un bel po’ di nuove uscite e tra queste mi ha colpito in modo particolare The Driver di Isobel Neviazsky, autrice che si era già fatta notare per il bizzarro e al tempo stesso profondo Employee of the Month: The Life of a Pizza Chef.

The Driver è quanto di più attuale ci possa essere, la storia di “a man who works as a car”, portando a spasso un “clerk” che è di fatto il suo aguzzino. Per fare ciò, l’autista arriva letteralmente a deformarsi, piegando il suo corpo a 90 gradi e spostando gli occhi sulla fronte con la sola forza di volontà. E per trovare la spinta propulsiva si ficca – scusate il francese – una sigaretta nel culo, come se fosse una marmitta. Altro non vi dico, perché spero che leggerete da soli questo fumetto, dato che anche se non siete tra gli abbonati al Buyers Club ne trovate qualche copia in più nel webshop. Lo stile della Neviazsky è pura art brut, tende allo scarabocchio, con le linee che diventano spesso espressione di violenza e dolore, e i testi questa volta non più in uno sgraziato lettering ma appiccicati come ritagli di giornale sulla pagina. Potente e urgente come pochi fumetti che si vedono oggi, The Driver è un incubo allucinato che non offre facili vie di uscita ma solo spunti di riflessione.

Gli abbonati Large riceveranno oltre a The Driver anche Amateur Hour #1, debutto dell’antologia personale di Chris Kohler, autore di quel piccolo fumetto perfetto che è Living Room, sempre pubblicato da O Panda Gordo. Frammentario quanto ricco di trovate, Amateur Hour stupisce per come richiama atmosfere di altri tempi, sospeso tra ambientazioni a volte indefinibili e una costanze sensazione di caducità. Tra un episodio e l’altro, spesso anche di una sola pagina, appaiono in ordine sparso gli elementi stessi della narrazione, le lettere che dovrebbero raccontarci una storia, i corpi ormai ridotti a scheletri, gli oggetti appartenuti a un musicista, episodi di una vita inquadrata in pochi essenziali attimi.

Kohler distrugge la narrazione stessa, fa scomparire i suoi veri protagonisti ma non per un vezzo nichilista, quanto piuttosto per parlare dei massimi sistemi, dalla forza della natura – con racconti su vermi, corvi, gatti e topi – alla morte stessa. E mentre sperimenta ci regala con Leavetaking un altro esempio di narrazione cristallina, sei pagine perfette che lo confermano autore da seguire con la massima attenzione.

 

“Cabin in the Woods” #1 by Tara Booth

“Mi chiedo continuamente: cosa devo comprare? Chi devo incontrare? E dove devo andare per sentirmi davvero bene? Ho questo pensiero ricorrente che se potessi semplicemente scomparire e disconnettermi dal mondo esterno, riuscirei finalmente a trovare un po’ di pace interiore”. Così rifletteva qualche tempo fa Tara Booth sulle colonne di It’s Nice That, in un articolo che introduceva il suo nuovo lavoro Cabin in the Woods. L’albetto si presenta come prima parte di un’opera più lunga ed è uscito qualche mese fa in edizione limitata di 600 copie per la berlinese Colorama, small press che ci ha già abituato alle sue prodezze tipografiche e che questa volta supera se stessa con queste 36 coloratissime pagine tutte stampate in risograph (e tutte mute, come da tradizione dell’autrice).

Qualcuno di voi ricorderà Nocturne, volumetto di 64 pagine uscito per 2dcloud un paio di anni fa: ebbene, Cabin in the Woods potrebbe essere considerato il suo contraltare grafico, dato che la fumettista di Philadelphia rimpiazza l’onnipresente blu della precedente prova con colori ben più appariscenti, anche se sempre caldi e raffinati grazie all’abituale uso del gouache. Quella vicenda “notturna” tutta ambientata tra le mura domestiche già ci aveva lasciato una certa sensazione di claustrofobia, rafforzata dal nuovo lavoro. L’alter ego della Booth esce dallo psicologo in lacrime e prende un autobus per tornare a casa. Da lì si sviluppa la frenesia contemporanea che tutti conosciamo bene. Ha ricevuto dei pacchi ma non li apre, preferendo piuttosto guardare “Netflick” sulla tv mentre con lo smartphone dà un’occhiata a “Instabam” (o anche “Instabut”, “Instabone” e così via), dove le appaiono delle foto che ritraggono – come scopriremo voltando le pagine – proprio i libri che aveva ordinato. Quando si decide a scartare i pacchi e a darsi alla lettura vecchio stampo, ecco che si stanca dopo poche pagine e allora accende il computer per ascoltare un audiolibro (sì, proprio del romanzo che stava leggendo). Ma riuscirà a mantenere l’attenzione? Ovviamente no, perché che non te lo fai un giretto su “Pornbub”? E poi che c’entra la “casetta nel bosco” di cui parla il titolo? Beh, forse è meglio che lo scopriate da soli: Cabin in the Woods è infatti disponibile nel webshop di Just Indie Comics ed è l’ennesima ottima prova di una delle artiste più originali e divertenti in giro al momento.

“Cryptoid” di Eric Haven

Uscito agli inizi del 2020, vi segnalo Cryptoid di Eric Haven, cartoonist classe 1967 che è senz’altro – come dicono gli americani – “one of a kind”. Ve lo segnalo soprattutto perché non ho trovato grosse occasioni per parlare di Haven da queste parti, se non con un rapido accenno nella mia classifica dei migliori fumetti del 2015 al suo eccezionale, geniale e selvaggio Ur, pubblicato da Adhouse Books. E pur avendo avuto in catalogo la raccolta di storie varie ed eventuali Compulsive Comics (Fantagraphics 2018), non mi sono sprecato a scrivere due righe né su quella notevole antologia né sul precedente Vague Tales del 2017, opera originale concepita sempre per la casa editrice di Seattle. Il nuovo Cryptoid, a quasi tre anni appunto da Vague Tales, ne riprende formato e struttura ribadendo il rapporto di Haven con Fantagraphics, dopo una carriera raminga che lo aveva visto passare da Buenaventura Press con The Aviatrix per proseguire come detto con Adhouse Books, senza dimenticare le svariate collaborazioni (The Believer, LA Weekly, San Francisco Bay Guardian, Mad Magazine). Nel frattempo da non trascurare, in parallelo al fumetto, la più remunerativa avventura televisiva di Haven come collaboratore del programma MythBusters di Discovery Channel.

Ma veniamo appunto a Cryptoid, sottile hardcover di 72 pagine sul formato 23 x 16 cm in cui i mostri di Haven guadagnano per la prima volta una dimensione – scusate la parola – politica. Il cartoonist californiano (di adozione, visto che è nato nello stato di New York) da sempre porta nel nostro presente le invenzioni dei fumetti di una volta, partendo da Fletcher Hanks per passare in zona EC Comics (il titolo rimanda persino nel font a Tales from the Crypt) e quindi attraversare i più strambi fumetti della Silver Age e le visioni kyrbiane da Quarto Mondo, Eterni e dintorni. Questa volta però vediamo The Resister, una supereroina con la testa d’aquila e scudo a stelle e strisce sul petto, spuntare dall’obelisco del Washington Monument per arrivare alla Casa Bianca, far fuori un lovecraftiano Steve Bannon e poi affrontare Donald Trump in persona.

Ma non è questo l’unico eccitante sviluppo di Cryptoid, anzi, quello che vede protagonista The Resister è soltanto uno dei tanti episodi che compongono una serie di racconti interconnessi tra loro, ricchi di personaggi fantasiosi, spesso ibridi uomo-animale, e di vicende che oscillano tra il comico e il cosmico, con notevoli punte di black humor, nonsense e autentico nichilismo. Ci sono per esempio il Mankylosaurus, cioè un essere metà uomo e metà anchilosauro, l’Ant-Bat (uno degli sconosciuti pipistrelli che vivono tra noi, come l’Hand-Bat, il Penguin-Faced Bat o meglio ancora il Flightless Running Shreiking Bat), Roger “the human gnome”, il Box di Logan’s Run che va a fare la spesa al grido di “Fish! Plankton! Sea Greens! Protein from the Sea!” e una misteriosa entità che veglia sul mondo ma che forse non può salvarci dall’energia negativa messa in moto dal minaccioso Nightsword. Nel mondo di Haven queste entità sono realmente tra noi e giocano con i nostri destini condannandoci a un inspiegabile quanto inevitabile distruzione. Ma prima di essere avvolti tra le spire di una trascendentale antimateria, potremo giocare con l’immaginazione e farci quattro risate. Insomma, poteva anche andare peggio.