“Hip Hop Family Tree” di Ed Piskor

di Ed Piskor, Panini 9L, maggio 2015, brossurato, 112 pagine a colori, 33×23.3 cm, euro 22

 

Hip hop family tree cover italiana

 

Inizialmente serializzata su Boing Boing, la serie Hip Hop Family Tree di Ed Piskor continua la sua cavalcata trionfale e, contemporaneamente all’annuncio della ristampa dell’intera saga in albi mensili da parte di Fantagraphics, sbarca dalle nostre parti con un’elegante edizione Panini 9L. Anche i lettori italiani possono così cominciare a leggere la storia dell’hip hop riadattata graficamente come se fosse un fumetto Marvel dell’epoca. E’ la prima metà degli anni ’70 quando la prima vignetta del volume ci mostra Dj Kool Herc in una sala del South Bronx mentre guarda la gente scatenarsi all’entrata di un giro di batteria. Da lì l’idea di mettere in loop i break strumentali delle canzoni, mixandoli gli uni con gli altri, e di arruolare un MC per aggiungere alla performance l’uso della voce. E’ la nascita di un genere, ulteriormente potenziato dall’invenzione dello scratch da parte di Grandwizard Theodore e da talenti come Grandmaster Flash e Afrika Bambaataa, che danno vita ai cosiddetti bloc party. L’hip hop esplode e porta alla formazioni di gruppi dall’aspetto simile a quello delle gang di strada, che si sfidano a colpi di dischi in “battle” epiche, attirando l’attenzione di produttori, discografici, distributori ma anche di artisti e musicisti rock. La carrellata di volti celebri che si succedono pagina dopo pagina è lunghissima e se è ovvio vedere personalità del mondo hip hop come DJ Hollywood, Sylvia Robinson, Lovebug Starski, Russell Simmons e tanti altri, meno scontata è la presenza di Keith Haring, Jean-Michel Basquiat, di Blondie e dei Clash. Piskor guarda al mondo dell’hip hop a 360 gradi e ne approfondisce le fonti di ispirazione, i riferimenti, le ibridazioni. Lo scopo è quello di offrire un contesto alla nascita e alla formazione di questa musica, prendendo in considerazione anche altri elementi della cultura pop del periodo ’70-’80.

 

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Al di là della dimensione documentaristica, la grandezza dell’opera di Piskor è nello stile, che riesce a non stancare dopo le tante pagine che si sono accumulate in questi anni senza soluzione di continuità: su Boing Boing siamo arrivati al 1984 e negli Usa sta per uscire il terzo libro delle serie. Se la narrazione è infatti dettagliata, sono proprio il disegno vintage, i colori opachi e le tante trovate grafiche a renderla anche vivace e godibile, insieme a una predilezione per i dettagli, gli episodi, gli aneddoti che non fanno mancare una dimensione narrativa. Tra le cose migliori di questo primo volume c’è la tavola dedicata al black-out del 1977, quando l’oscurità porta a una notte di pistole puntate e furti di strada, oppure Grandmaster Flash che gira i dischi e le manopole lasciando scie come il quasi omonimo velocista dei fumetti, o anche le didascalie classiche da fumetto di supereroi che assumono nuove forme come BOMP, POP, DAP, BAP. Il genere supereroistico è qui utilizzato come mezzo espressivo proprio come facevano gli esponenti della pop art con il cinema, la pubblicità e ovviamente il fumetto stesso. Questa particolare affinità è sottolineata nell’appendice Il legame tra hip hop e fumetti, una delle cose più divertenti del volume, in cui Piskor ci racconta tra l’altro di aver risparmiato “9$ con i soldi del pranzo per comprare New Mutants 87, la prima apparizione completa di Cable, disegnata dal mio idolo, Rob Liefeld”. Per Piskor, classe ’82, era quasi scontato essere un fan di Liefeld, che negli anni ’90 prosperava insieme agli altri autori poi divenuti fondatori dell’Image. D’altronde tutta la produzione Marvel – quindi non solo i grandi classici degli anni ’60 – è stata attentamente rivalutata da tanti cartoonist dell’underground statunitense, basti pensare a Benjamin Marra e Tom Scioli, che contribuiscono a questo volume con le pin-up conclusive, o ad altri come Chuck Forsman (almeno per quanto riguarda la sua nuova serie Revenger) o Josh Bayer, del cui progetto All Time Comics ho già parlato su queste pagine.

 

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In particolare Piskor guarda all’estetica dei fumetti metropolitani, quelli che hanno fatto conoscere New York ai ragazzini di tutto il mondo. E’ chiaro che il riferimento è più alla Marvel che alla Dc, perché in una storia dell’hip hop l’ambientazione deve essere non solo urbana, ma anche realistica. La sua è la New York delle pagine di Daredevil, di alcune storie di Capitan America, di un classico minore come Omega The Unknown, anche se l’azione non si svolge a Manhattan, location della gran parte dei titoli Marvel, ma soprattutto nel Bronx e ad Harlem, quest’ultima già scenario di un cult anni ’70 come la serie blaxploitation dedicata a Luke Cage/Power Man. Tra locali, palestre, sale da concerto, l’Apollo Theatre e negozi cult (il Bobby’s Happy House Records di Bobby Robinson), è tutto un susseguirsi di mattoni rossi, steccati, muri coperti da graffiti, vagoni della metro, recinzioni, tetti scoperti. Ecco così che Hip Hop Family Tree diventa anche storia di una città, oltre che storia di un genere musicale, di un certo modo di fare fumetti e dei legami tra arte, musica e cultura di strada.

 

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