Misunderstanding comics #2

Seconda puntata, a lunga distanza dalla prima, di questa rubrica di mini-recensioni e segnalazioni scritte in fretta e furia ma (almeno stavolta) riccamente illustrate. Qui recupero un po’ di uscite del 2015 di cui non sono riuscito a parlare in precedenza.

NOTA: Alcuni di questi fumetti potrebbero essere in vendita nel negozio on line di Just Indie Comics. In questo caso il link sul nome del fumetto vi porterà direttamente alla relativa pagina del negozio. I miei giudizi cercheranno di essere comunque obiettivi, ammesso che ciò sia possibile. Buona lettura. 

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Partiamo questa volta con uno sketchbook del maestro Charles Burns, Incubation, edito dalla Pigeon Press di Alvin Buenaventura, tragicamente venuto a mancare proprio mentre mi accingo a pubblicare queste righe. Giusto per fare il punto della situazione, si tratta della terza pubblicazione di Burns per la Pigeon Press, dopo Echo Echo – sketchbook che si focalizzava sui disegni a matita realizzati durante la lavorazione di Black Hole – e il più recente In The Garden Of Evil, che riproponeva in formato più grande le illustrazioni realizzate da Burns con Patrice Killoffer per Mon Lapin.

Incubation ha il pregio di essere un piccolo, economico, abbordabile albo in formato orizzontale che permette nelle sue 40 pagine di sbirciare sul tavolo di Burns, ammirando il suo processo di preparazione per la Nit Nit Trilogy, di cui in Italia abbiamo già visto per Rizzoli Lizard X’ed Out e The Hive (manca ancora all’appello il conclusivo e bellissimo Sugar Skull). Del lento processo di lavorazione della sua arte si è parlato già qui, per questa volta ci possiamo dunque limitare ad ammirare i disegni, che come potete vedere di seguito non sono solo e soltanto schizzi, anzi… Oltre ai vari sketch che, una volta raffinati, entreranno nelle tavole della trilogia, troviamo infatti tante illustrazioni complete di chine e colori che raggiungono già in queste pagine un alto livello di perfezione formale. E quando la linea è più libera, come nella figura della donna nella quarta immagine in basso, si ha l’occasione di godersi un Burns più selvaggio e spontaneo. Ok, smetto di scrivere e scatto un po’ di foto, che sicuramente renderanno l’idea meglio delle mie chiacchiere.

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Saltiamo di palo in frasca e andiamo a San Francisco da Niv Bavarsky, meglio noto come illustratore per rispettabilissimi comittenti come The New Yorker, New York Times, BloombergMcSweeney’s. Ma non tutti sanno che il buon Niv è anche un cartoonist che nei suoi fumetti abbandona l’uso del pennello e del colore per sviluppare un segno in bianco e nero più sporco e rozzo. Insomma, come immaginerete preferisco il Bavarsky fumettista a quello illustratore, che a volte trovo un po’ affettato. E se vi chiedete come sia nata questa mia convinzione, beh, deriva in larga parte da Piggy, 28 pagine in piccolo formato (10 x 16,5 cm) pubblicate l’anno scorso per Retrofit Comics e in cui sono raccolte storie brevi e illustrazioni, caratterizzate in buona parte dalla presenza di un maiale.

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E’ il caso dell’iniziale Smell The Flowers, in cui il protagonista si alza dal letto dopo un amplesso per uscire ad annusare i fiori in giardino (che romanticone), dove però trova il “minaccioso” animale ad aspettarlo. Al di là della semplicissima trama, le prime tre pagine della storia sono un esempio di intensità grafica in cui l’essenzialità diventa cifra stilistica, carica di simboli e allusioni. E non è tutto qui, perché dentro Piggy trovate una pagina dedicata a fantasie di morte, una versione tecnologica del mito di Narciso, giovani affamati, tentativi di fermare un’eruzione vulcanica degni di Armageddon. Non un capolavoro ma un mini-comic come Cristo o chi per lui comanda.

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Andiamo ancora più indietro nel tempo con Melody, bel volume pubblicato da Drawn and Quarterly nel 2015 ma che traduce per la prima volta in lingua inglese i fumetti francofoni autoprodotti da Sylvie Rancourt negli anni ’80 con tirature di 5.000 copie. Siamo ovviamente a Montreal, dove la giovane Melody, alter-ego dell’autrice, sbarca il lunario come ballerina negli strip-bar, dovendo fronteggiare non solo le attenzioni a volte troppo insistenti degli avventori ma anche il marito Nick, parassita, egoista, laido, ladro e a volte anche spacciatore.

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Detta così potrebbe sembrare una drammatica storia di degrado, ma in realtà tutte le vicende sono raccontate con un tono naif e un tratto elegantemente stilizzato, come se il punto di vista fosse quello di una bambina, in un approccio che poco ha di superficiale ma che piuttosto rappresenta l’uso del corpo come “atto” da rivendicare lontano da facili pudori e luoghi comuni. Ci si potrebbe aspettare prima o poi una svolta, una deflagrazione (soprattutto nel rapporto tra Melody e Nick), invece non c’è niente di tutto questo, la vita va avanti come spesso succede senza colpi di scena, anche perché non c’è qui l’urgenza di raccontare chissà cosa ma solo di raccontarsi. E la frase che apre, con qualche lieve variazione, ogni capitolo (This isn’t the beginning and it’s not the end, but somewhere in the middle) è programmatica.

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Femminista senza un filo di retorica, Melody anticipa il filone dei fumetti autobiografici canadesi che troveranno affermazione negli anni ’90 nella stessa Montreal grazie proprio alla Drawn and Quarterly. E Sylvie Rancourt è un’autrice che potremmo tranquillamente avvicinare, almeno per importanza se non per contenuti, alle varie Julie Doucet, Phoebe Gloeckner, Debbie Drechsler, Gabrielle Bell. Ah, l’introduzione al volume è di Chris Ware.

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Rimaniamo in tema di autrici femminili recuperando anche Bloody Pussy, tabloid gratuito di 12 pagine in bianco, nero e rosso uscito a Seattle nell’agosto scorso e curato dal trio Eroyn Franklin, Kelly Froh e Mita Mahato. Scopo del progetto è dimostrare che anche le donne possono realizzare fumetti crudi e bizzarri, con temi come la violenza sessuale, le mestruazioni, il rimming, le secrezioni corporee e l’orgasmo. E il tentativo può dirsi largamente riuscito sia a livello concettuale che grafico, dato che Bloody Pussy regala pagine di grande formato spettacolari e soprattutto POTENTI, come ogni buon fumetto dovrebbe fare.

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La lista delle collaboratrici (con qualche pseudonimo qua e là) comprende Marie Hausauer, Elly Blood, Mimi Blood, Et Russian, Kelly Froh, Tatiana Gill, Anna Vo, Brittany Kusa, Erma Blood, Sarah Romano Diehl, Lara Kaminoff, Ruby Blood. Io vi consiglio di procurarvene una copia finché siete in tempo: basta scrivere a blood.puss.nw@gmail.com e pagare le sole spese di spedizione, nemmeno onerose visto l’esiguo numero di pagine.

Dallo stato di Washington torniamo nel Vecchio Continente e per la precisione in Lituania, da dove gli amici della Kitokia Grafica mi hanno spedito qualche tempo fa una busta contenente le ultime uscite della loro fanzine Still Without Name, di cui avevo già recensito il secondo numero quasi due anni fa. La quarta uscita della serie passa al classico formato comic book abbandonando quello quadrato e quasi tascabile delle puntate precedenti. Il canovaccio rimane però lo stesso, trattasi infatti della classica antologia amatoriale che riunisce contributi spesso estemporanei ed estremamente variegati di giovani artisti provenienti da tutta Europa, tra cui è doveroso citare gli italiani Luigi Filippelli e Gianluca Sturmann. Detto che una selezione più rigida dei materiali e un po’ di editing in più non guasterebbero affatto, il progetto si fa amare per l’attenzione all’aspetto ecologico della faccenda (le 250 copie della fanzine sono realizzate con inchiostro a base di soia e carta riciclata) e per la possibilità di scoprire qualche nuovo talento emergente, soprattutto dell’area est-europea. Cito a questo proposito Ana Kun (Romania), Lina Itagaki (Lituania), il sempre bravo Boris Pramatarov (Bulgaria) e Chiara Lammens (Belgio), il cui contributo è un bel tentativo di inglobare lo stile delle pitture rupestri e al tempo stesso un’interessante esplorazione del concetto di spazio nella tavola. E proprio con una doppia pagina tratta dal lavoro della Lammens chiudo questa rassegna.

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