“The Dim Reverberation of the Chaosholder”

by Arallū, Hollow Press, January 2016, stapled, 32 pages, 34 x 24 cm, 17 euros

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After Largemouths by Gabriel Delmas, a wordless opus of nearly 700 pages, Italian publisher Hollow Press tries a new editorial challenge with an eight-part saga created by an obscure artist, known only as Arallū. The first “seal” of The Dim Reverberation of the Chaosholder came out last January under the heading A Crippled Baby ‘n’ the Obsidian Golem, Towards the She-Outcast, confirming the inclination for long titles already highlighted by Under Dark Weird Fantasy Grounds anthology.

Note: The book is on sale, like other Hollow Press titles, in the Just Indie Comics online store. I’ve also collaborated with the publisher for Paolo Massagli’s Toxic Psycho Killer.

Presented by the publisher as a “dungeon crawler comic”, The Dim Reverberation of the Chaosholder is an alienating trip in an underground and diverse reality. This effect of claustrophobic derangement is achieved by Arallū through two basic narrative stratagems. The first and most obvious is the use of first-person perspective, similar to that of some shooter or fantasy videogames, which makes the reader one with the main character, the Obsidian Golem. The second is represented by the obsessive monologues of N’tar, a long-winded little monster who leads the Golem in the tunnels of the dungeon, carrying out the task assigned to him by the mysterious Hasabbāh. The reader is involved in a totally immersive experience, so that while turning the pages he can almost breathe the dust and humidity of the underground setting. He is essentially in the same situation of the protagonist, still silent, passive, able only to follow N’tar and to listen to his thick litany, full of singular words and of references to events yet undefined but probably essential for the development of the plot. The most intriguing seems the “Disorder”, an expression probably indicating an apocalyptic event of the past.

Arallū doesn’t dwell on explanations but he takes us immediately in his universe, full of connections to mythologies certainly unusual compared to the common background of mainstream comics, as he looks to the East using Persian, Armenian, Turkish or Babylonian terms deliberately mangled: a good example is Hasabbāh, whose name is a crasis of Hassan-i Sabbah, head of the sect of the Assassins formed in Persia in the late 11th century and frequently quoted by William Burroughs. However, these elements aren’t enough to get an accurate connotation of the era and even of the world in which the story is set. But we know this is such a retrograde and dark reality that people are measuring the passage of time according to the regeneration of the wounds they inflict on themselves.

The Dim Reverberation strikes not only for the story – full of text, intricated and intriguing – but also for the ability to join the Hollow Press vein, helping to give strength and cohesion to the catalog of Michele Nitri’s imprint. Here we find particular points in common with the work of Mat Brinkman and Miguel Angel Martin, the first for all his works but in particular for Multiforce – set in an underground world all of its own, although depicted with a more ironic and less solemn approach – the second for the story serialized in the Under Dark Weird Fantasy Grounds anthology, especially for the sexual subtext also present here with allusions to “fetishes” and “excitations of the anomaly”.

Original, almost alien in the context of today’s indie and underground comics, the book confirms its singularity in the package. Stapled, in a horizontal format of 24 x 34 cm, it is in fact characterized by a high-quality 200 grams tintoretto paper and by the use of a translucent paint that enhances some details for every of the 32 pages of the book. The cover with the flaps is just another element that gives a truly remarkable elegance to the whole object. Inside the graphical approach is disturbing in drawing obsessively the desolate landscape of the dungeon and its weird inhabitants. If some details, especially in the anatomy of the characters, are a little rough, the artist takes more and more confidence page after page, managing to build a style still basic but pleasantly unmistakable that culminates in the final scene, where the Obsidian Golem and N’tar meet the She-Outcast. Even the double-page reproduction of the Adwicked’s Creek is particularly successful and reminds Most Ancient’s Scaffold, a comic that for the mood and the nearly abstract drawings has some points of contact with The Dim Reverberation.

As for other Hollow Press titles, the comic is published in English but this time there is an Italian and a Japanese translation included to give it a widespread distribution. And a huge diffusion would be really deserved, for courage, originality and ability to fit into an increasingly dense catalog, which now includes also three new books: Crystal Bone Drive by Tetsunori Tawaraya, Fobo by Gabriel Delmas and Tract by Shintaro Kago, debuting at the Toronto Comic Arts Festival next 14-15 May at the presence of both the artist and the publisher.

Misunderstanding Comics #4

Come promesso nella precedente puntata di questa rubrica, torno a scrivere di un po’ di fumetti che mi sono stati inviati/consegnati dai lettori di Just Indie Comics. Si tratta di una selezione del materiale che ho trovato più interessante, perché purtroppo non ho davvero il tempo di occuparmi di tutti e tutto. Ci aggiungo Hax di Lale Westvind, uscito già da un po’ per Breakdown Press ma che ci tengo a recuperare. Terrò questa volta fede al titolo della rubrica parlando di tutto con estrema brevità, me ne scuso con gli interessati e con voi che leggete.

NOTA: Alcuni di questi fumetti potrebbero essere in vendita nel negozio on line di Just Indie Comics. In questo caso il link sul titolo vi porterà direttamente alla relativa pagina del negozio. I miei giudizi cercheranno di essere comunque obiettivi, ammesso che ciò sia possibile. Buona lettura. 

 

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Iniziamo proprio da Hax, ennesimo pirotecnico esperimento di un’artista che è una delle voci più originali nel fumetto contemporaneo, espressione di una sensibilità altra che oserei definire ballardiana per come lavora sull’incontro/scontro tra corpi e macchine, oltreché sui concetti di movimento, velocità, azione. Ossessiva nel riproporre temi, immagini, contenuti come lo è per esempio lo spagnolo Gabriel Corbera, la Westvind realizza con Hax un esperimento coloratissimo che sfrutta appieno, come è ormai tradizione in casa Breakdown, le sovrapposizioni di colori tipiche della stampa in risograph. Il riferimento più immediato è il video che l’artista di Brooklyn ha realizzato per The Metal East dei Lightning Bolt, un viaggio bidimensionale che sembra la versione animata di Mad Max: Fury Road. Anche Hax è un viaggio ma il tono è più algido rispetto al video. La storia si dispiega muta e misteriosa per 24 densissime pagine in cui tre o anche più personaggi femminili affrontano prove e battaglie in uno scenario di guerra, con esplosioni continue, aerei che volano, macchine luccicanti.

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Alla fine arrivano in un museo, appare un telefono e dall’altro capo della linea c’è un minaccioso signore della guerra vestito di nero. La trama è labile, siamo più dalle parti di un trip psichedelico ricco di associazioni di idee. Eppure viene voglia di sfogliarlo e risfogliarlo per afferrare sempre nuovi dettagli e possibili interpretazioni. Bellissimo.

 

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Psichedelico anche se di tutt’altro genere è il secondo numero di Abyssal Yawn di Bill Wehmann e Ed Steck, autoprodotto sotto il marchio Pacific Reverb Society. Se volete farvi un’idea del tono e delle tematiche di questa saga cosmica vi rimando alla mia recensione del primo numero, qui mi limito a segnalarvi l’uscita, dopo due anni di attesa, del secondo capitolo delle avventure di Birch Twig (“un Silver Surfer con trecce rasta e senza slip né misteriosi vuoti in mezzo alle gambe”, autocit.) e del cane parlante Max, pronti finalmente a dare battaglia alla malvagia Mother Sky Corporation. Abyssal Yawn continua a intrigare per la prosa ricca e pomposa di Steck, che rimanda alle saghe kyrbiane, e per l’approccio visionario. Se il primo numero era ambientato su un pianeta frutto della proiezione mentale di Max, in questa seconda uscita i due protagonisti entrano in un wormhole già a pagina tre e devono affrontare delle versioni alternative di se stessi.

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Niente è come sembra da queste parti, nemmeno nello spazio, e la dimensione fantascientifica è innanzitutto mentale. Il disegno volutamente “zozzo” di Wehmann, la colorazione da saga cosmica made in Marvel, i riferimenti socio-politico-ambientalisti e i personaggi da cartoon fanno il resto, creando un ibrido difficilmente definibile, al tempo stesso saga cosmica e parodia di se stessa.

 

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Torniamo decisamente sulla terra con un fumetto autobiografico, First Weeks della polacca Anna Krztoń, che avevo già notato su SW/ON #2 per un bel contributo graficamente arzigogolato. Ho seguito pian piano la sua crescita tra albi autoprodotti e contributi a varie antologie internazionali e credo che questo First Weeks, mini-comic in bianco e nero uscito a gennaio in 100 copie, sia la sua cosa migliore fino a oggi. Lo stile naif sintetizza perfettamente l’anima astratta e quella figurativa dei precedenti lavori dell’autrice, rappresentando con essenzialità ma anche con poesia le sue prime settimane a Varsavia. Siamo dalle parti di John Porcellino e dei comics-as-poetry per capirci, con un approccio diaristico che non è mai didascalico ma cerca sempre la poesia nel quotidiano. E alla fine della lettura rimane un pizzico di malinconia, segno che l’autrice ha centrato l’obiettivo. Di seguito qualche tavola per rendere meglio l’idea.

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L’albetto è ovviamente in inglese e per richiederlo potete scrivere a krztonia@poczta.onet.pl. Oppure aspettare che arrivi nel negozio on line di Just Indie Comics, cosa che spero accada al più presto.

 

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Se First Weeks lascia un senso di malinconia, Ceniza/Cenere di Serena Schinaia restituisce un senso di abbandono come pochi fumetti riescono a fare. E ci riesce in sole 16 pagine e poche, pochissime parole. Anche qui il fumetto è poesia e il riferimento più prossimo è l’ermetismo. D’altronde la Schinaia aveva già dimostrato in Deriva, albo autoprodotto che raccoglieva le sue storie brevi, di prediligere una scrittura fatta di frasi essenziali ma pregne di significato, lasciate a mò di didascalia sotto disegni carichi di un bianco e nero intenso. Ceniza/Cenere sviluppa questo stile in qualcosa di nuovo e diverso. Il tratto è più definito, la linea regolata e meno spigolosa, il bianco e nero viene abbandonato a favore del blu e del grigio.

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A dialogare sono due piani temporali, il presente e il passato, il primo caratterizzato da una partenza, e quindi dalla malinconia, il secondo da un addio, e dunque dal dolore. E solo il fumetto può unire con tale sintesi e brevità emozioni così complesse, in quella che è una storia essenzialmente sull’andare avanti lasciandosi alle spalle non solo le difficoltà ma anche le proprie radici. Bellissima anche l’ambientazione, con il paesaggio vulcanico, il villaggio, le sue strade, i pali della luce, i pescatori. L’albo è pubblicato dalle Ediciones Valientes di Martin López Lam, in spagnolo e italiano. Ne trovate qualche copia nel mio negozio on line, e credo che al momento sia l’unica distribuzione italiana.

 

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Concludo questa rassegna parlando di Rhizome, antologia spillata in risograph con testi in francese pubblicata dai belgi de La Boîte À Zines, in cui ogni numero trovano spazio gli artisti del collettivo più un ospite speciale. Dopo averne curiosamente spiato le vicissitudini on line, ho infine messo le mani sull’undicesima uscita, ormai risalente a un paio di mesi fa, che sceglie come tema un’immagine (una luce rossa nella neve, rappresentata in copertina) ispirata a un haiku di Michel Onfray  (Un feu rouge/Dans un chaos de flocons/Soleil miniature) dando luogo a interpretazioni molto diverse tra loro. A spiccare, almeno da quanto ho capito grazie al mio francese tutt’altro che perfetto, sono i contributi di Antoine Houcke con Vacuité, una storia ricca di immagini suggestive e squisitamente meditativa, di Gilles T con Cassandra, il fumetto più sghembo del lotto con il suo mix di fantasy postmoderno e ironia, dell’ospite Blaise Dehon con Hors les clous, quattro fascinose pagine mute che illustrano un vagabondaggio per le strade della città sovrapponendo una figura umana in rosso alle vignette in blu. Gli altri contributi sono di Didier Vander Heyden ed Emilie Maidon. Nel frattempo vi segnalo che è già uscito il dodicesimo numero, che vede come ospite la finlandese Anna Sailamaa.

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“š!” #24 + “mini kuš!” #38-41

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In uno dei miei Best Of del 2015 avevo incluso š! #23, un’uscita particolare dell’antologia lettone, che rompeva il tradizionale canovaccio per raccontare con cinque storie più lunghe e impegnative del solito il tema delle vittime del nazismo. Chiusa quella parentesi si torna all’antico con un nuovo numero, introdotto da una bella cover di Līva Kandevica e contenente oltre venti fumetti brevi di artisti internazionali, questa volta sul tema Urban Jungle. Se il tono generale di questi volumetti formato A6 è giocoso, estemporaneo, ironico, personalmente mi diverto sempre a cercare in ogni numero di š! qualche voce off, che sia grezza, meditativa o astratta. Per esempio in una delle uscite più recenti, quella dedicata al tema Fashion (š! #22), c’erano i contributi di Hetamoé e Léo Quievreux a spiccare su tutti per il modo in cui rileggevano il tema “fashion” come fascinazione legata ai corpi e alla carne. E la stessa Marie Jacotey, che curava la copertina e firmava la storia di apertura, è una cartoonist piacevolmente atipica, dato che il suo stile a matita nasconde sotto la facciata rassicurante una spigolosità sia nel tratto che nel contenuto.

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Abraham Diaz

Quali sono  dunque le voci off di questa nuova uscita? La mia preferenza va senz’altro ad Abraham Diaz, cartoonist messicano classe 1988 di cui sentirete riparlare su Just Indie Comics a proposito del suo Suicida #1. Diaz ha un tratto cartoon scombinato come piace a me e disegna personaggi dalle teste enormi e dalle espressioni tra lo stupido e l’incazzato. Le sue tavole sono piene di righe che vanno per conto loro, di colori che non riempiono mai del tutto lo spazio, di un lettering sgraziato che racconta vicende ironiche e assurde. Esteticamente alieno rispetto al resto è anche G.W. Duncanson, con un bel contributo pittorico in stile urban art, bianco e nero intenso fatto di graffiti, metropolitane, grattacieli: è questo uno di quei fumetti che mi piacerebbe rivedere un giorno in un formato più grande.

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G.W. Duncanson

Sia Diaz che Duncanson sono al debutto sulla rivista, segno che gli editor David Schilter e Sanita Muižniece hanno successo nel ricercare nomi nuovi da aggiungere a quelli abituali. Il che è confermato da altri due debuttanti, più in linea con il tono generale dell’antologia ma non per questo meno interessanti. Mi riferisco in primis a Sami Aho del collettivo finlandese Kutikuti, con un tratto cartoon (ma più armonico rispetto a quello di Diaz) e colori sparatissimi: Fooled Again ricorda esteticamente il lavoro di Anya Davidson ed è un esempio di storia breve divertente e compiuta con un bel feeling underground d’altri tempi. E poi c’è la belga Mathilde Van Gheluwe di Tieten met Haar, con colori acquerello caldi, uno stile affascinante che ricorda l’altro fiammingo Brecht Evens e uno storytelling preciso ed efficace. Non mancano comunque contributi interessanti anche da parte di qualche habitué: penso soprattutto a Dace Sietiņa, il cui stile in costante crescita è sempre più vicino esteticamente all’arte russa degli anni ’50-’60, ad Amanda Baeza che per una volta abbandona la geometria per un bel contributo figurativo in bianco e nero, a Jean de Wet che conferma quanto di buono già aveva fatto vedere nel mini-kuš! #20 (ne parlavo qui).

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Mathilde Van Gheluwe

E a proposito di mini-kuš!, il 17 marzo scorso ne sono usciti altri quattro, tutti di artiste donne. Ne approfitto per darvi una rapida occhiata, a partire dal #38, Three Sisters di Ingrīda Pičukāne, storia appunto di tre sorelle che trovano un uomo nudo in mezzo alla foresta, probabilmente ubriaco. Le donne parlano in francese, l’uomo in russo. E non ci sono sottotitoli, cosa che rende l’albetto un oggetto alieno, una favola moderna che si sviluppa tutta in orizzontale, lasciando i bordi superiore e inferiore della pagina in bianco, in modo da ritagliare una cornice dove raffigurare la coloratissima foresta con un effetto mosaico. Il dualismo femminile/maschile è qui più contrasto che dialogo e la rappresentazione delle protagoniste è quasi esplosiva, con i loro occhi grandi e una sensualità raffinata e intensa. Potremmo quasi opporre questo stile “caldo” e dionisiaco alle atmosfere algide e rigorose del mini-kuš! #40 di Hanneriina Moisseinen. 1944 racconta, come suggerisce il titolo, un episodio di guerra e precisamente l’evacuazione della Carelia, che la cartoonist finlandese mette in parallelo con il parto di un animale, rappresentando la crudeltà della natura e della guerra insieme. Alla storia lineare, seppur a modo suo brutalmente poetica, manca l’impennata decisiva e le matite della Moisseinen sono gradevoli ma troppo didascaliche per i miei gusti.

Tara Booth

Tara Booth

mini-kuš! #39 e #41 sono entrambi senza parole e sono per me anche i migliori del lotto. Il primo è opera dell’americana Tara Booth, che ha fatto il suo debutto nella famiglia lettone proprio su Urban Jungle. Tipica storia di “a day in the life”, Unwell è tutto tranne che ordinaria. La protagonista si risveglia al fianco di un improbabile hipster, sgattaiola via non prima di avergli vomitato nella toilette, inforca la bicicletta, ripensa a quando ha messo gli slip in testa all’amante, dipinge un quadro letteralmente con il culo, esce di casa con il cane, incontra un maniaco in un parco, si ubriaca di nuovo… Non vi svelo il finale ma tutto funziona alla perfezione in questo divertentissimo fumetto che potrebbe sembrare un film muto, disegnato con uno stile patchwork da cartone animato alla South Park e con un bell’uso del colore. La pagina è completamente al servizio della protagonista e dei suoi movimenti, tanto che la scansione in vignette è spesso rotta dai suoi movimenti in verticale. Consigliatissimo, proprio come il mini-kuš! #41, in cui ammiriamo una Aisha Franz in versione technicolor disegnare i contorni di un futuro-non-così-futuro tecnologico, tra droni, identità sessuali cangianti, macchine del piacere. Meno narrativo rispetto al lavoro della Booth, EYEZ punta tutto sull’approccio visivo e su un disegno semplificato rispetto ai lavori precedenti della Franz, che in questa versione iper-pop affascina non poco.

Aisha Franz

Aisha Franz

Per maggiori dettagli sulle nuove uscite e qualche immagine in più vi rimando al blog e al sito di kuš!, ricordandovi che l’editore lettone sarà ospite al Ratatà Festival del 14-17 aprile a Macerata, con un banchetto dove troverete tutte le pubblicazioni e una mostra dedicata alle artiste lettoni Anna Vaivare, Ingrīda Pičukāne, Līva Kandevica e Zane Zlemeša.

“Generous Bosom” #1-2 di Conor Stechschulte

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Ho parlato più volte di Conor Stechschulte su Just Indie Comics ma senza entrare finora nei dettagli. Sin dall’edizione autoprodotta di The Amateurs, Stechschulte mi ha colpito per la potenza e l’integrità del suo stile, in quell’occasione al servizio di una storia ironica e brutale al tempo stesso, quella di due macellai che all’improvviso dimenticano come fare il proprio mestiere. Ristampato da Fantagraphics, The Amateurs è uno dei fumetti migliori degli ultimi anni ma è in realtà soltanto un tassello di una produzione che si conferma passo dopo passo eccelsa, dalle storie brevi pubblicate sulle antologie del collettivo Closed Caption Comics, di cui Stechschulte è stato uno dei principali animatori, ad albi autoprodotti come gli splendidi The Dormitory e Glancing, quest’ultimo interamente realizzato con l’acquerello. Non c’è dunque da stupirsi se l’autore statunitense, che di recente ha vissuto tra Baltimora e Chicago, è stato messo sotto contratto dall’inglese Breakdown Press, attentissima a quanto di meglio arriva dagli Stati Uniti e non solo.

 

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Aperto da una citazione di Abe Kobo (“The night is not an invited guest but rather the air that fills this room”), il primo numero di Generous Bosom inizia con una pagina a quattro vignette orizzontali, le prime due segnate da un intenso tratteggio blu a matita volto appunto a raffigurare la notte, il buio e la pioggia, le altre due in cui la pioggia si assottiglia e lascia spazio alla cornice del racconto, il protagonista di spalle seduto in un bar, il cellulare in una mano e un foglietto di carta nell’altra. Lui è Glen, che mesi prima di stare in quel bar, di ritorno da un matrimonio in una notte buia e tempestosa, ha bucato due gomme in un colpo solo davanti alla casa di Art e Cyndi, marito e moglie, lui molto più avanti con gli anni di lei. Art lo invita a entrare e persino a passare la notte lì, ma basta poco perché dalla gentilezza si passi a quel senso di stranezza, di inquietudine, di disagio che è tipico dei fumetti di Stechschulte e che trasuda dalla pagina fino a entrare nel tessuto nervoso del lettore. Ecco appunto che la notte entra nella stanza, diventa aria e dà il via a una strana situazione tra i tre personaggi che culmina in una delle scene di sesso più realistiche mai viste in un fumetto, 13 tavole su una griglia fissa di otto vignette, sfondo sporcato di blu, tanti primi piani con i volti dei protagonisti presi dalla paura e dall’imbarazzo più che dall’eccitazione. Gli sguardi, le espressioni, le inquadrature riescono a esprimere alla perfezione quel senso di desiderio misto a imbarazzo che si trovava già in Glancing, una storia muta in cui i rapporti tra i tre protagonisti, intenti a fare un bagno di notte, erano raccontati semplicemente attraverso i loro occhi.

In Generous Bosom #1 Stechschulte sfrutta appieno le potenzialità della stampa in risograph, alternando pagine su sfondo bianco, in cui il disegno è di solito in blu e a volte anche in marrone, ad altre tratteggiate e riempite di un intenso blu a matita, in cui la rappresentazione della pioggia e del vento è sorprendentemente simile agli scenari di Flowering Harbour di Seiichi Hayashi, uscito sempre per Breakdown. Soltanto il flashback delle due pagine centrali è in verde, che invece sarà il colore dominante del numero successivo (per un resconto dettagliato sulla realizzazione di Generous Bosom date un’occhiata a questo post sul Tumblr della Breakdown Press).

 

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Generous Bosom #2 esce nel novembre del 2015 ed è ancora stampato in risograph. Ambientato mesi dopo il primo episodio, ne segue i diretti e inquietanti sviluppi, che sembrano tutto fuorché coincidenze. D’altronde già alla fine del numero precedente Glen aveva sentito Art e Cyndi parlare di un “piano” e anche il lettore aveva avuto gli strumenti per capire, sin dalle primissime pagine, che la sosta del protagonista a casa della coppia non era dettata dal caso. Adesso però si va oltre, perché se inizialmente Glen deve misurarsi con le conseguenze di quanto accaduto nel primo episodio, il finale ribalta ogni nostra possibile convinzione, introducendo nuovamente il tema del controllo che era centrale in The Dormitory. E torna anche quel senso di voyeurismo costante che aleggia nei fumetti di Stechschulte, con il lettore che si trova a guardare personaggi che guardano altri personaggi, come nella scena del VHS mostrato da Art a Glen, con qualche difficoltà tecnica (dove trovare un videoregistratore, oggi?) che spezza con il solito humor nero le atmosfere lynchiane del racconto (soprattutto Lost Highways mi sembra qui una chiara fonte di ispirazione, ma anche il cinema di Brian De Palma è senz’altro un’influenza). Il confine tra “realtà”, “piano” e “messa in scena” è sempre più labile e l’identificazione del lettore con Glen – spaesato, confuso ma a tratti anche eccitato – è totale.

 

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Mentre buona parte dei dialoghi si svolgono come nel numero precedente su sfondo bianco, le soluzioni grafiche e di stampa più raffinate sono riservate ai flashback, in cui Stechschulte riesce a dimostrare la sua tendenza a raccontare con le immagini ancor più che con i testi. L’autore si concentra in questo secondo episodio sul passato di Art e Cyndi, in una serie di scene dominate da un tratteggio verde per lo più diagonale e dai toni del blu, creando un effetto onirico, che alla scena principale sovrappone corpi e volti, come se fossero fantasmi. E quando vengono descritti i primi incontri tra i due, l’uomo è appunto un fantasma, dato che il suo volto –  di solito tondeggiante, delineato di volta in volta da un sorrisetto sardonico, dalla bocca spalancata e da marcate espressioni facciali – diventa indefinito, cancellato dai raggi del sole e forse anche dal desiderio, da parte della moglie, di dimenticare il passato. Quando non c’è Cyndi riusciamo invece a vedere Art in un flashback cronologicamente più vicino agli eventi narrati, in cui si scoprono le sue abilità di ipnotista, con tutta probabilità rilevanti nel prosieguo della storia. Se Generous Bosom #1 è compatto, strutturato, denso come già erano i precedenti fumetti di Stechschulte, il seguito esce da questi schemi perfetti e controllati aggiungendo divagazioni, fughe, assoli e trasformando così quella che finora era una riuscitissima canzone in una suite polifonica e sperimentale. Con Generous Bosom #2 l’autore alza l’asticella e sfida se stesso a creare qualcosa di più complesso. E soltanto le prossime uscite – la vicenda dovrebbe svilupparsi almeno per un paio di altri albi – potranno dirci se il tentativo è riuscito.

Mi capita spesso di chiedermi cos’è che rende certi fumetti migliori rispetto ad altri e la risposta è ovviamente di volta in volta diversa, a seconda delle cose lette di recente, del momento, dell’umore. Ma una delle risposte che mi do più di frequente è che, quando si parla di fumetti che vogliono raccontare una storia (e non è detto che i fumetti debbano sempre farlo), hanno una marcia in più quelle opere in cui ogni mezzo (testi, disegni, stampa, ecc.) contribuisce con la stessa dignità alla creazione di un unicum compatto e indivisibile. E Generous Bosom appartiene senz’altro a questa categoria.

“The Social Discipline Reader” by Ian Sundahl

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Steadily devoted to publish comics standing out as raw, far from any contemporary pattern and without commercial ambitions, Brooklyn-based Domino Books is one of the most interesting small presses of the US scene. Founded by Austin English, Domino looks just like his patron at a rough and spontaneous line, able to record odd situations and ambiguous feelings on the page, neglecting the cute aesthetics of most of today’s comics. In a world where every style, even if different from the dominant one, tends to become canon to the point of sterilizing itself, Domino’s artists are genuine examples of purity and expressive uniqueness with few equals. I think at the works of E.A. Bethea, of which I have already spoken some time ago in this post, or at Ian Sundahl‘s art, between comics, poetry and literature, marked by a deliberately raw sign, the result of an original aesthetics. Sundahl can really draw and this is obvious especially when he chooses free and intense lines, but sometimes he prefers to rely on sketchy and imperfect forms, in harmony with the material of these comics – dense stories of outsiders, prostitutes and misfits set in darkly lit bars, dusty suburban roads, smoke filled casinos. Sundahl is a Portland-based artist who self-released so far eight issues of his zine Social Discipline. English noticed him and put together The Social Discipline Reader, a 40-page “best of” published in an edition that is the mirror of a direct and no-frills approach.

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The book is a jumble of short stories, illustrations, drawn essays. They range from the modern adaptation of the nineteenth-century memoir My Secret Life to Where You Are King – four packed and dark pages in which a prisoner tells a story of sex, jealousy and at the end violence – passing through a series of illustrations of people sitting in front of slot machines, reproductions of pictures taken on the road, two pages about heels (a recurring theme in Sundahl’s art, since he also released an issue of Heelage zine and a new one is on the way). The mood is sometimes very prosaic (“Nothing is so delicious as the intimacy established between a man and a woman by a fuck” begins one of the pieces from My Secret Life), other almost transcendental in depicting men and women as toys in the hands of fate, whether they are subjugated by the impressive shapes of Nevada slot machines or they witness mysterious apparitions of phantom ships.

sd test5Fascinated by the world as told by Ian Sundahl – pulp and visceral as a certain literature and a few comics can be – I made available some copies of The Social Discipline Reader in Just Indie Comics online shop, where you can also find a section with other fine titles by Domino Books.

Just Indie Comics Buyers Club, pt. 2

Lo scorso mese di dicembre ho lanciato un abbonamento meglio noto come Just Indie Comics Buyers Club, ovviamente collegato ai fumetti di cui si parla su questo sito e a quelli disponibili nel negozio on line di Just Indie Comics. Non si è trattato di un successo strepitoso, ma i dieci coraggiosi che si sono abbonati hanno consentito di mandare avanti senza troppa fatica la distribuzione di fumetti che ho inaugurato nel settembre scorso e per questo avranno la mia eterna (memoria permettendo) gratitudine.

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Gli ignari possono rileggersi il post in cui parlavo del Buyers Club, perché qui mi limiterò semplicemente a dire che è in partenza la seconda tornata di fumetti. Se la prima spedizione è stata caratterizzata per tutti gli abbonati dalla presenza di Frontier #10 di Michael DeForge, la seconda avrà come comune denominatore The Social Discipline Reader di Ian Sundahl, di cui ho parlato recentemente in un’apposita recensione. Ho scelto questo titolo per poter dare a tutti la possibilità di affrontare un fumetto diverso, ruvido o propriamente “raw” come dicono gli americani, ampliando in questo modo i confini solitamente definiti dall’editoria, a volte anche da quella “alternativa” o che dir si voglia.

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Per chi ha scelto la versione Small del Buyers Club insieme a The Social Discipline Reader ci sarà una piccola sorpresa, mentre gli abbonati formato Large avranno un secondo fumetto, che varierà a seconda dei casi. Giusto per dare un’idea a chi non è entrato nella legione di Just Indie Comics, tra i titoli che hanno fatto e faranno parte delle prime due tornate di questo esclusivissimo club ci sono, in ordine sparso, Pope Hats #4 di Ethan Rilly, Blammo #8 1/2 di Noah Van Sciver, Fedor di Patt Kelley, Immovable Objects di James Hindle, Rough Age di Max de Radiguès, Ganges #5 di Kevin Huizenga, Windowpane #3 di Joe Kessler.

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Se qualcuno di voi desiderava ardentemente uno di questi fumetti e non l’ha ricevuto, basterà scrivermi e cercherò di includerlo nella spedizione di luglio. Per i non abbonati, alcuni di questi titoli sono disponibili nello shop, quindi date un’occhiata lì se siete interessati. L’iniziativa è comunque stata positiva e conto di ripeterla il prossimo anno, con la speranza di estenderla anche a tutta Europa invece che alla sola Italia. Intanto buona lettura.