Sabato 3 giugno durante il Just Indie Comics Fest ho fatto qualche domanda a Diego Lazzarin e Alessandro Galatola a proposito delle mostre allestite in quell’occasione e del loro lavoro, soffermandomi in modo particolare su Aminoacid Boy and the Chaos Order e Dio di me stesso. Ne è venuta fuori una chiacchierata che mi è sembrata interessante e che ho dunque trascritto ed editato con la collaborazione dello stesso Galatola. Non vi dico di più perché probabilmente, se seguite questo sito, già sapete di cosa si sta parlando. Per ulteriori dettagli vi rimando a un prossimo reportage dal festival. Buona lettura.
Gabriele Di Fazio: Allora, partiamo da te Diego per ordine di età, dato che sei sicuramente più anziano di lui.
Diego Lazzarin: Sì, sono il papà…
GDF: Beh, non fino a questo punto… Diego è autore di Aminoacid Boy and the Chaos Order, un libro di cui in Italia non si è parlato tanto quanto avrebbe meritato, forse perché nel nostro mondo del fumetto cosiddetto “indipendente” ci sono tante persone, tanti collettivi che si conoscono tra loro e che ricevono più attenzioni perché sono nella “scena”, mentre Diego è un outsider che non conosce nessuno e non legge neanche tanti fumetti, quasi per niente anzi…
DL: No, qualcosa… Chippendale!
GDF: Ok, allora mi correggo… Dunque, Diego si è autoprodotto dal nulla questo libro ormai nel 2015 e ha fatto una campagna di crowdfunding su Indiegogo. Si era proposto di arrivare a 6500 euro e ne ha raccolti 9000, il libro è stato pubblicato direttamente in inglese e questo gli ha permesso di andare benissimo anche all’estero, dove è riuscito a vendere anche parecchie tavole originali. Al di là del risultato commerciale per me la cosa stupefacente, soprattutto perché questo è il tuo primo fumetto, è la capacità con cui ti sei confrontato sul formato lungo, perché Aminoacid Boy è una sorta di graphic novel se vogliamo chiamarlo così, ed è riuscito perché rispetta i tempi narrativi, c’è una storia, c’è un’inizio e una fine. Volevo capire come hai lavorato per realizzare questo libro, perché vedendo gli originali che sono in mostra qui in occasione del festival la cosa che salta agli occhi è che non ci sono le pagine finite ma soltanto immagini singole, tutte di formato diverso, che poi ritroviamo all’interno della narrazione. Sei partito dalla pittura, dall’aspetto visivo, o comunque avevi già in testa la storia?
DL: In realtà quando ho iniziato a lavorare al libro avevo in mente la storia da un sacco di tempo, da veramente tanti anni, ma io venivo dall’animazione, quindi ero abituato a un processo completamente diverso e in questo caso mi sono dovuto confrontare con il linguaggio della narrazione. Per me lavorare sulle illustrazioni è stata proprio una scuola. Le illustrazioni sono singole perché non ero in grado di fare una pagina intera, e soprattutto durante la lavorazione del primo capitolo le ho fatte e rifatte decine di volte. Soltanto dopo almeno tre capitoli ho cominciato a ragionare sul formato pagina e quindi sulla composizione. Successivamente mi sono stancato della composizione della pagina e anche un po’ della storia, della narrazione, così ho cambiato nuovamente metodo e ho voluto divertirmi con delle pagine piene di sola illustrazione.
GDF: Infatti il penultimo capitolo è composto interamente da splash page o addirittura da pagine doppie che però non sono fini a se stesse, dato che rappresentano anche quello che sta succedendo nella storia.
DL: Il cambiamento avviene in parallelo all’evolversi della storia, perché succedono delle cose caotiche non più legate al personaggio, ma all’ambientazione.
GDF: A questo punto mi sembra inevitabile riassumere qual è la trama del libro per chi non la conosce.
DL: Vai, provaci!
GDF: Allora, c’è questo mondo alieno o comunque una realtà diversa dalla nostra, in cui un dio fatto di carne e metallo invia Aminoacid Boy sulla Terra per capire come funziona il mistero della vita umana, cioè perché gli uomini fanno quello che fanno, perché sono dotati di volontà, di desiderio, insomma come fanno ad avere delle pulsioni che gli consentono di avere un obiettivo, di superare il caos naturale dell’esistenza…
DL: O anche di non superare…
GDF: Esatto… Insomma, il dio manda Amino sulla Terra con il compito di scoprire questo mistero e di comunicare le informazioni che raccoglie attraverso internet, solo che per un errore spazio-temporale il protagonista arriva sul nostro mondo tanti anni fa, così che la sua prima esperienza è l’incontro con il Pequod impegnato a dare la caccia a Moby Dick. Già questi primi sviluppi fanno anche un po’ ridere e infatti il libro, nonostante sia pieno di mostri ed esseri deformi, è raccontato con uno spirito naif, ironico. Poi nel corso del tempo Amino passa attraverso varie fasi, fino ad arrivare ai giorni nostri… Dico bene?
DL: Sì, passa attraverso varie fasi e di volta in volta muta cambiando il suo DNA, perché lui assorbe il DNA degli esseri che si trova vicino, come gli animali e infine l’uomo…
GDF: In una delle sue evoluzioni diventa cantante di un gruppo punk e dopo, in vecchiaia, un rispettabile padre di famiglia che guarda la tv sul divano. Il tutto si svolge con il personaggio principale che guarda la realtà sempre con gli occhi dell’alieno, in modo disincantato, facendo sembrare ridicoli o vani certi nostri costumi. Questo sembra contenere una critica sociale da parte tua, e mi chiedo se ti sia venuta così oppure se c’era intenzionalmente dal principio.
DL: In effetti nel libro c’è proprio la mia visione del mondo, la mia percezione della realtà, soprattutto quando verso la fine arriva il Caos sulla Terra. La visione del personaggio è invece la mia visione personale, è proprio un cammino di crescita, infatti vi sono rappresentate le varie fasi della vita e Amino è costantemente alla ricerca del motivo, della ragione del volere, ma non riesce mai a capirlo, solo a un certo punto guardandosi indietro si accorge che in una fase della sua vita stava provando la gioia dell’interesse nelle cose, ma poi perde di nuovo i punti di riferimento e la realtà lo confonde di nuovo.
GDF: Quindi c’è una vera e propria ricerca personale nel racconto, tanto che, pur se apparentemente fantastico, Aminoacid Boy è in realtà un libro autobiografico…
DL: Fanta-autobiografico!
GDF: Ok, a questo punto passiamo ad Alessandro. Anche con te vorrei iniziare un po’ su come lavori, perché leggendo le tue storie contenute in Dio di me stesso, l’albo che abbiamo pubblicato in occasione di questo festival, ci si rende conto che non sono storie vere e proprie, sono più che altro delle digressioni, quindi c’è un argomento, o piuttosto una situazione – non so, un uomo chiuso in una stanza – e da lì tu cominci a immaginare tutta una serie di cose che succedono. E poi è molto letterario, c’è un testo forte, ci sono delle visioni molto potenti a livello grafico, con tutti questi pattern, anche degli inserti del mondo dei cartoon, dei videogiochi e via dicendo. Quindi volevo sapere se tu di solito parti da un’idea o da una storia e se fai uno storyboard, perché in realtà sembra che questi fumetti siano realizzati seguendo una sorta di flusso di coscienza.
Alessandro Galatola: Sì, in effetti lavoro in maniera quasi del tutto casuale, magari parto da un’idea o da un’immagine che ho avuto, o da delle sensazioni che voglio descrivere, e quindi cerco di trovare le immagini giuste che possano rappresentarle. Tra le varie idee secondo me quelle che rendono meglio sono quelle mi girano in testa per un sacco di tempo: a volte mi rendo conto che in qualsiasi situazione mi trovo, qualsiasi problema mi trovo ad affrontare mi viene quell’immagine in testa, quindi quando ho una fissazione la metto lì e cerco di capire cosa ci può girare intorno, cosa può succedere. In particolare la storia che è ambientata tutta in una stanza chiusa e parla appunto di un tipo che è ingabbiato lì dentro…
GDF: Crocefisso su un letto di rose.
AG: Sì, la seconda storia dell’albo… Lì volevo fare una storia d’amore e quindi volevo divertirmi raccontandola, e non so perché quando non ho assolutamente nessuna idea su cosa fare, su cosa disegnare, mi vengono in mente le stanze chiuse perché le trovo molto confortevoli. E quindi mi sono detto ok, immaginiamo che ti trovi in una gabbia dentro una stanza chiusa, che diavolo può succedere in una situazione così estrema, che non puoi fare niente e non c’è nessuno insieme a te? E quindi da lì ho cercato di trovare tutte le possibili soluzioni a questo problema. Per quanto riguarda il metodo, questa era l’idea iniziale e avevo un senso generale della struttura e delle sensazioni che doveva trasmettere la storia, però fondamentalmente ho proceduto vignetta per vignetta ma aiutandomi comunque con uno schema di partenza, perché se non l’avessi avuto non sarei finito da nessuna parte. Dovevo avere per forza un qualche tipo di struttura che mi aiutasse a scrivere mentre disegnavo e quindi ho fatto semplicemente una griglia quadratissima, sono tutti quadrati e sono tutti uguali, e ho proceduto a riempire gli spazi volta per volta. Come? Dipende, dipende da quello che mi succedeva in quel periodo, quindi se mi girava un pensiero in testa o se avevo appena vissuto qualcosa, non so, con una ragazza o in qualsiasi altro modo che mi facesse venire un’idea che si potesse ricollegare a quel mondo, a quelle sensazioni, lo inserivo e poi cercavo di far quadrare tutto quanto. Quindi magari c’era qualcosa che veniva prima, qualcosa che veniva dopo, e io cercavo di cucire tutto insieme cercando di mantenere comunque un flusso costante e dinamico. Sicuramente ci sono delle parti un po’ più chiare, un po’ più leggere, un po’ più divertenti e delle parti che sono esattamente l’opposto. Comunque l’obiettivo era in qualche modo far divertire molto ed emozionare molto i lettori.
GDF: Infatti succedono tutte e due le cose. Prendi quest’uomo chiuso in una stanza, che è una situazione, un argomento, un tema, fai delle digressioni su quest’argomento, lo guardi da tutte le possibili sfaccettature fino a portarlo al paradosso più totale, all’esagerazione e a creare sia divertimento che emozione. Secondo te, che poi è molto difficile rispondere a una domanda del genere, c’è più dramma o più ironia nei tuoi lavori?
AG: Ehm… C’è… C’è molto paradosso.
GDF: Non si capisce se si deve ridere o piangere.
AG: Non lo so, o meglio, è questo il punto. Mi piace raggiungere quel punto nelle cose in cui i due aspetti coincidono completamente e quindi raggiungi un livello di saturazione emotiva e ti scarichi completamente e sei pulito e stai bene. Per questo mi piaceva fare questa specie di saliscendi tra le varie emozioni, in modo che tu avessi esplorato tutto e arrivassi alla fine in qualche modo completamente depurato e con la mente libera e felice e contenta.
GDF: Io avevo già visto un’altra cosa che hai fatto prima di questa, l’antologia che ti eri autoprodotto nel 2015, che si chiamava SAFE SPACE, e lì c’erano dei fumetti secondo me molto diversi rispetto a Dio di me stesso, sia stilisticamente sia soprattutto per i contenuti, perché erano più legati alla grafica, più giocosi rispetto a questi che invece sono più scritti e densi. C’è una bella differenza fra l’uno e l’altro, anche perché sono passati circa due anni da quel primo albo e i nuovi sono senz’altro più recenti…
AG: Sì, li ho cominciati a fare nel 2015 e li ho finite a Natale scorso.
GDF: Però secondo me c’è un grosso stacco fra quello che facevi prima e quello che fai adesso, sembra come se tu avessi letto o visto qualcosa di importante, come se fosse successo qualcosa che ti ha fatto cambiare. Secondo te a cosa è dovuta questa evoluzione?
AG: Sicuramente prima ero più piccolo, quindi cercavo di esplorare varie strade, cercavo di divertirmi e basta, fare delle cose che mi piacessero, senza particolari ambizioni. E poi in generale vedevo ancora un sacco di altri autori e di artisti, quindi continuavo ad assorbire tante cose diverse, fin quando questa cosa mi ha rotto le palle e mi sono detto voglio fare una cosa mia, punto e basta, perché se continuo a guardare troppo al mondo esterno non riuscirò più a trovare una soluzione mia, comincerò a non sapere più chi sono, e quindi ho deciso di chiudermi completamente e di cercare di far quadrare tutti i riferimenti che avevo fino a quel momento.
GDF: Quindi hai cercato di raccontare qualcosa di tuo.
AG: Sì, l’unica cosa che mi concedevo era vedere cose dal passato, guardando ad artisti che non avrei mai avuto la possibilità di conoscere se non avessi avuto internet, o cose del genere, quindi scaricavo un sacco di fumetti, me li leggevo, leggevo articoli eccetera e cercavo di selezionare le cose che sentivo come mie, che in qualche modo mi facessero sentire a casa provando semplicemente a mischiare tutto insieme. Questo dipende anche dal fatto che stavo finendo l’università però non mi andava per niente, quindi cercavo qualsiasi modo che mi tenesse lontano dallo studio e più incollato alla pagina, più dentro il mio mondo, perché in quel momento la trovavo la cosa più appagante.
GDF: Infatti nel tuo lavoro ci sono tanti riferimenti a cose più vecchie, io avevo citato quando c’eravamo visti tempo fa Mark Beyer, che magari tu anagraficamente non potevi conoscere. Sembra che questo fumetto sia l’opera di un autore molto più grande di te, che viene da una scena diversa…
AG: Volevo crescere, volevo darmi un po’ di forza, volevo capire chi fossi, quindi ho cercato di basarmi su tutto quello che mi apparteneva a un livello più profondo. Per quanto riguarda i fumetti mi sono sempre piaciute le cose più stilizzate, più vicine ai graffiti o anche più primitive. Poi mi piacevano i videogiochi, soprattutto quelli a cui giocavo da piccolo, tipo Zelda o i Pokemon mi piacevano un casino, anche perché mi facevano sentire a casa. Ci vedo una specie di coerenza estetica in tutto questo, quindi mischiavo i due piani, quello dei fumetti e quello dei videogiochi, perché se questi due mondi si incontrano sento che la cosa mi appartiene.
GDF: Allora, per concludere, parliamo delle altre cose che vediamo qui esposte, partendo di nuovo da Diego. La tua mostra ha infatti una parte incentrata sugli originali di Aminoacid Boy e un altra è invece tratta da un libro a cui stai ancora lavorando, che si chiamerà Protector of the Kennel. C’è un netto distacco fra i due, perché i materiali di Aminoacid Boy sono pittura, acrilico, le altre invece sono stampe, perché gli originali sono stati modificati in digitale a livello di colorazione.
DL: Per questo lavoro qui sono partito da alcune textures che ho fatto sempre in acrilico però poi ho acquisito in digitale per spingerle con il colore in Photoshop. E’ un lavoro in cui sto cercando di tirare fuori queste tinte sparate utilizzando filtri ed effetti. Passo parecchie ore a lavorare al computer, però parto sempre dal lavoro in acrilico.
GDF: Come mai hai deciso di cambiare metodo di lavoro?
DL: Perché mi annoio se, quando divento troppo consapevole di cosa sto facendo, non mi sorprendo più. E quindi ho cambiato.
GDF: Più o meno di cosa parlerà il libro nuovo?
DL: Non lo so ancora ma a grandi linee è la storia di una separazione dopo una lunga relazione.
GDF: Però con i mostri.
DL: Sì, c’è questo essere che stava facendo un percorso con la sua compagna per finire il suo ciclo vitale e quindi riprodursi, però doveva andare molto lontano dal posto in cui vive. A un certo punto la sua compagna muore e lui rimane senza endorfine perché avevano un legame simbiotico, e vive in questo mondo in cui non c’è tecnologia ma tutto si ripara biologicamente. Solo che mentre lui torna sono arrivati degli altri alieni che hanno portato la tecnologia, quindi sta cambiando tutta la situazione… Ma non so ancora che cosa succederà dopo.
GDF: Ok, speriamo di scoprirlo presto. Invece Alessandro oltre agli originali tratti dal libro ha in mostra quelle stampe in fondo che abbiamo fatto per l’occasione, si tratta di materiale in bianco e nero colorato in digitale. Tranne un paio di illustrazioni, sono tutti fumetti di quattro vignette e a colori, quindi mi chiedevo perché avevi iniziato a lavorare così e se parallelamente stai portando avanti anche storie più lunghe…
AG: Cose lunghe zero.
GDF: Ormai stai andando sulle quattro vignette.
AG: Ho delle idee in testa però non è ancora il momento di lavorarci, ci vorrebbe troppo tempo quindi le lascio un po’ maturare, nel frattempo faccio questi piccoli fumetti in cui in uno spazio così ridotto posso permettermi di esprimere qualcosa e allo stesso tempo fare degli esperimenti grafici, trovare delle soluzioni che mi interessano. Ho scelto il colore perché dopo aver lavorato tanto in bianco e nero ho bisogno di fare le cose in maniera un po’ più dinamica, un po’ più leggera e mi sembrava che, senza rinunciare a una certa dose di potenza ed energia, il colore fosse perfetto per questo genere di cose, perché sono anche più veloci da realizzare, da leggere, sono come delle piccole poesie in un certo senso.