Facciamo il punto su Kevin Huizenga/4
Prosegue il “punto” su Kevin Huizenga con una panoramica su Il fiume di notte, traduzione italiana via Coconino del volume The River at Night pubblicato da Drawn & Quarterly, a sua volta raccolta dei sei numeri della serie Ganges. Questi gli altri post dello speciale Huizenga: il primo sugli esordi dell’autore, il secondo sulle sue principali opere, il terzo sui temi della sua produzione. A risentirci prossimamente per il quinto e conclusivo articolo, che raccoglierà curiosità varie ed eventuali. Buona lettura.
Sabato pomeriggio, viali quasi deserti, tipici sobborghi americani. Un uomo cammina da solo, diretto in biblioteca. Pensa a quante volte ha percorso quella strada e vede se stesso nel passato fare lo stesso tragitto. Riflette sul tempo: il momento presente gli sembra eterno ma anche effimero, perché basta un attimo per farlo svanire. Raccoglie un giornale, ricorda com’era la sua vita un anno fa. Che cosa faceva? Dove andava? A cosa pensava? Alla fine decide di accelerare il passo perché la biblioteca sta per chiudere. Fine della storia. Nelle successive pagine de Il fiume di notte vedremo sempre lo stesso uomo, Glenn Ganges, osservare un ciclista che butta una cartaccia per terra, arrivare finalmente in biblioteca, farsi un caffè, leggere, chiacchierare con la moglie Wendy, andare alla ricerca della cartaccia gettata dal ciclista, riflettere sul significato della canzone She’s Leaving Home dei Beatles. E poi, alla fine del primo capitolo della storia, mettersi a letto accanto alla moglie e osservarla dormire, mentre lui inizia a vagare con la mente perché non riesce a prendere sonno.
Quanti fumetti raccontano eventi così quotidiani e ordinari? Pochi, direi. Siamo da sempre abituati a leggere di avventure straordinarie, esseri superpotenti, e – di recente – di fatti storici, di cronaca, di costume. Certo, c’è l’autobiografia, declinata da molti cartoonist come sguardo al proprio ombelico. Ma c’è spesso un’insistenza sull’autore/personaggio, sulla sua identità e sulle sue disavventure. Qui nemmeno quello, perché Glenn Ganges più che essere un alter ego di Kevin Huizenga è piuttosto un uomo qualunque. Anzi, una persona qualunque, dato che non si parla mai o quasi mai della sua sessualità, altrimenti questo fumetto sarebbe potuto diventare l’ennesima odissea del WASP egocentrico. Le opere di Kevin Huizenga, e Il fiume di notte in particolare, sono i fumetti che ci mostrano tutto ciò che gli altri fumetti abitualmente tralasciano. Gente che prende un caffè, che cerca di dormire, che legge seduta su una poltrona. Un personaggio che cammina per strada, al massimo va al funerale di un familiare e che soprattutto pensa, pensa e pensa, senza mai smettere. Che ha consapevolezza di se stesso. Vengo disegnato, dunque sono. Ma senza diventare il centro della narrazione, anzi: il protagonista qui è solo un mezzo per aprire la strada a riflessioni e digressioni sui massimi sistemi. Non ha una storia, né una personalità definita. Per cercare un’iperbole, potremmo definire Il fiume di notte come il fumetto che ha riservato al graphic novel il trattamento che la Marvel ha offerto al genere supereroistico. Se la Marvel negli anni ’60 aveva rappresentato l’umanità di supereroi con superproblemi, Huizenga qui porta alla luce la quotidianità del protagonista di un graphic novel: il suo dietro le quinte, con tutte le inevitabili derive metanarrative.
“Sono una persona molto razionale, rifletto di continuo e mi preoccupo sempre per tutti gli aspetti della mia vita – tranne che per i fumetti, che lascio che si sviluppino pian piano. Non cerco di indirizzarli verso qualcosa di predefinito, anzi, direi che li lascio andare. Mi sento come se fossi libero nei miei fumetti”. Questa frase di Huizenga è fondamentale per capire in toto la genesi e la natura de Il fiume di notte. Che nasce seriale, al pari di tanti altri fumetti dalla genesi decennale raccolti in volume nel corso di questi ultimi anni: Rusty Brown di Chris Ware, per esempio, o anche Clyde Fans di Seth. D’altronde la storia ha avuto una lunga vita editoriale, in cui l’Italia ha avuto una parte importante. Nata per la serie Ignatz diretta da Igort e coprodotta da Fantagraphics e Coconino, è stata pubblicata in doppia lingua per i primi due numeri, per poi proseguire solo in inglese nei numeri 3 e 4. Rimasta al palo dopo la chiusura di Ignatz, ha subito anche un momento di difficoltà dello stesso autore, che dopo il divorzio con la moglie si è trasferito da St. Louis a Minneapolis nel 2014 per iniziare la carriera di insegnante (di fumetto, ovviamente). I primi quattro numeri sono stati pubblicati tra il 2006 e il 2011, nel giro di cinque anni, cioè nello stesso lasso di tempo che intercorre tra il #4 e il #5, che uscirà soltanto nel 2016, autoprodotto dall’autore anche se distribuito nelle fumetterie da Fantagraphics. Del 2017 è la conclusione della storia con Ganges #6, ancora autoprodotto, mentre la raccolta in volume è uscita nel 2019 per Drawn and Quarterly, seguita dalla recente traduzione italiana per Coconino.
Si tratta dunque di un’opera che ha avuto oltre 10 anni di lavorazione: l’opera della vita, probabilmente, ma che all’inizio Huizenga non aveva concepito come tale, né strutturato per la raccolta in volume. Sono personalmente queste le opere che preferisco: perché non sembrano meccanismi perfetti ma lasciano appesi spunti, ne sviluppano di ulteriori, prendono forma una pagina dopo l’altra. Insomma, mostrano al lettore la loro stessa genesi, come un making of incluso nel prezzo. Il tema di Glenn Ganges che non riesce a dormire, infatti, è accennato alla fine del primo capitolo, ma non è centrale sin dall’inizio. Non ne troviamo traccia nel secondo capitolo, tutto dedicato ai videogiochi e in cui l’autore racconta attraverso il suo personaggio un pezzetto di autobiografia, e cioè di quando lavorava alla Xplane (qui ribattezzata Requestra). Ma dal capitolo 3 viene poi ripreso, fino a diventare il nocciolo della vicenda. Ma cosa passa per la testa di Glenn Ganges mentre cerca di prendere sonno? E di cosa parla Il fiume di notte? Beh, se ciò che ci viene mostrato è del tutto quotidiano e ordinario, i pensieri del protagonista sono tutt’altro. Non riguardano la spesa, il lavoro, o cose banali. Un tema importante è il tempo, che più dello stesso Glenn è il vero protagonista del libro, insieme alla percezione che noi abbiamo di esso: il tempo che ci si mette per prendere sonno, e quanto può sembrare lungo un solo minuto quando non si riesce a dormire, e quanto è invece insignificante in un’ottica universale. Ma di discorsi ce ne sono tanti altri, sul nostro posto nel mondo, sulla morte, sull’origine della terra. Glenn legge saggi filosofici inventati, come Metodo ed essere di Jean-Luc Heilegra (parodia di Essere e tempo di Heidegger), cercato e ritrovato con tanta fatica tra i vecchi libri per provare disperatamente ad annoiarsi e così – finalmente – dormire, e veri trattati di geologia che raccontano le teorie di James Hutton, a cui Huizenga riserva la sua abituale traduzione grafica. Le teorie di Hutton, affrontate nel quinto capitolo, sono centrali per la conclusione della storia: rappresentano quello sguardo all’universale che l’autore non tralascia mai, rapportandolo poi al suo particolare nel sesto capitolo, in cui il tempo è scomposto in “scatole da due minuti” che raccontano passato e presente del protagonista. Accanto a lui, sin dall’inizio, c’è sempre la moglie Wendy, che in questo volume è ben più che un personaggio di contorno o anche un semplice coprotagonista. Potrebbe essere perfino considerata la “vera” autrice de Il fiume di notte, visto che è una fumettista, intenta a disegnare la serie Fight or Run, che nella “nostra realtà” è un fumetto dello stesso Huizenga (pubblicato prima sull’antologia Blood Orange, poi in un albetto autonomo). Un accenno in tal senso c’è all’inizio del quinto capitolo: ma non vi dico altro, leggetelo e traete le vostre conclusioni.
Ricco di spunti e di temi diversi, Il fiume di notte poggia la sua unità non solo sul tema di Glenn Ganges che non riesce a dormire, ma anche sulla forma. Certo, tra un capitolo e l’altro sono passati degli anni a volte, e a livello estetico qualcosa cambia. Ma dal punto di vista formale le soluzioni adottate da Huizenga danno una notevole compattezza all’opera. Lo stesso autore ha spiegato in un’intervista del 2014 pubblicata online da The Comics Journal: “Quest’anno scrivere Ganges #5 è stato davvero strano. L’ho rimandato per anni perché in realtà non sapevo proprio come concludere la serie. Così mi sono seduto e ho riletto Ganges dal #1 al #4 e ho avuto questa curiosa sensazione di trovare nel mio lavoro degli elementi che non avevo mai notato prima. Mi è sembrato di capire delle cose che c’erano in questi fumetti che non sapevo di aver fatto consapevolmente. E così ho concluso che se mi concentravo sugli aspetti formali del mio lavoro potevo capire come portarlo avanti. Affronto i miei fumetti sempre con una sorta di logica in mente – pensando a ciò che ha senso dal punto di vista formale, cercando un equilibrio – e ho scoperto che se guardavo i numeri dall’1 al 4 e cercavo di comprendere cosa succedeva sul piano della forma, mi sembrava subito chiaro cosa dovevo fare dopo. Avevo già un po’ di idee in testa ma in questo modo ho finalmente capito la forma che quelle idee avrebbero dovuto prendere”. Questa dichiarazione è particolarmente importante perché ci permette di vedere l’opera di Huizenga da un punto di vista puramente estetico. Mettiamola insieme con quanto scriveva Sean T. Collins recensendo Ganges #4 sul sito di The Comics Journal: “Kevin Huizenga ha già affrontato l’incapacità di addormentarsi del suo protagonista, l’everyman Glenn Ganges, nel numero 3, riformulando i vagabondaggi della sua mente irrequieta come una serie di avventurose esplorazioni di ambienti – acqua, scarichi, alberi, le bolle e i balloons degli stessi fumetti – che renderebbe orgoglioso qualsiasi membro di Fort Thunder”. Ecco dunque che Il fiume di notte diventa un fumetto di esplorazione, non di ambienti o di uno spazio fisico appunto, ma dello spazio mentale e vitale del protagonista. Un protagonista che agisce pensando, perché la sua azione è esplorare i dungeon della mente, dove non trova altro che i suoi stessi pensieri. L’immagine ricorrente del corpo di Glenn steso a letto – la testa ovale con il naso a formare una protuberanza – si accompagna a un’altra immagine della sua mente che vaga mentre non riesce a prender sonno, rappresentata graficamente da un altro Glenn più piccolo. Questo Glenn/mente – se così vogliamo chiamarlo in opposizione al Glenn/corpo – si moltiplica all’infinito proprio nel sesto e ultimo capitolo, che inizia con una storia nella storia intitolata La galleria degli specchi della natura in cui i movimenti di questo esercito di Glenn superano ogni barriera formale, uscendo fuori dalle vignette e arrivando fino ai bordi delle pagine, in quella che è una delle sequenze più semplicemente belle – se non LA più bella – disegnata da Huizenga nella sua carriera.
E’ come se alla fine tutta la complessità crescente di questo fumetto venga riportata alla forma pura e semplice. E sulle forme ci sarebbe molto altro da dire, vista la ricorrenza di figure circolari in tutto Il fiume di notte se non in tutta l’opera di Huizenga (guardatevi le diverse copertine di Gloriana, con la rotonda luna rossa che rimanda al pallone da basket della storia in appendice, o anche il fumetto autoprodotto The Body of Work). Sull’argomento si è soffermato il fumettista Andrew White, che ha realizzato una fanzine su Il fiume di notte, poi riprodotta anche on line. Vi suggerisco di darci un’occhiata per ulteriori approfondimenti. E visto che ci siamo vi segnalo anche che nel suo Patreon Huizenga ha messo a disposizione i pdf di due fanzine intitolate Riverside Companion, con note e approfondimenti su Il fiume di notte.
Disponibile “But Is It… Comic Aht?” #3
Già da qualche giorno è disponibile nel negozio on line di Just Indie Comics il #3 di But Is It… Comic Aht?, rivista sul fumetto pubblicata da Domino Books e curata dal patron Austin English. Più ricco del solito – ben 88 pagine – questo terzo numero è una lettura imprescindibile per chi ama il fumetto e tutto ciò che ruota intorno a esso. Tre sono le colonne portanti del magazine: una lunga intervista a Mary Fleener condotta da Tim Goodyear, un altrettanto interessante dialogo tra English e il Doug Allen autore della striscia cult Steven (che meriterebbe al più presto una riedizione in volume), un approfondimento sulla distribuzione del fumetto alternativo che guarda al passato (con la ristampa di un’intervista a Dylan Williams di Sparkplug Comics, prematuramente scomparso nel 2011) e al presente (con un dialogo tra lo stesso English, deus ex machina della distro Domino Books, e John Porcellino nelle vesti di Spit and a Half). Collegato a quest’ultimo punto, e in particolare alla figura di Dylan Williams, è uno special dedicato al collettivo Puppy Toss attivo a San Francisco negli anni ’90.
Ma i contenuti non finiscono qua, come potete vedere dal sommario qui sotto. Tra le altre cose cito un bell’articolo della cartoonist Ariel Cooper intitolato But Am I A Comics Artist? e alcuni fumetti brevi, tra cui spiccano una storia della casa editrice PictureBox realizzata da Matthew Thurber e l’eccellente Nightlife di Andrea Lukic, altra presenza fissa della distro Domino. Per ordinare But Is It… Comic Aht? #3 potete cliccare qui.
“Cloudburst” & “Osypno” di CF
Continua il bollettino CF. Da quando è tornato a fare fumetti, l’autore di Powr Mastrs è ospite fisso di queste pagine. D’altronde è uno dei miei cartoonist preferiti di sempre, quindi non posso fare a meno di dedicargli almeno una segnalazione. Vi evito il solito recap, che ho già fatto parlando della recente antologia Aerosol Plus edita da Mania Press e di cui la prima edizione è già esaurita. Ma non temete, se l’avete persa dovrebbe arrivare presso una ristampa. In più entro la fine dell’anno dovrebbe – il condizionale è sempre d’obbligo, per chi ricorda la storia del mai pubblicato Powr Mastrs #4 – uscire un libro nuovo per Anthology Editions.
Ulteriore segnale che il fumettista di Providence è davvero tornato in pista è un nuovo sito internet e due autoproduzioni fresche di stampa. Scarno come era lecito aspettarsi, 333cf.org è la nuova base operativa del nostro, dove trovate in vendita Cloudburst e Osypno, due spillatini di 40 pagine formato 8×14 cm con due storie assurde, divertenti e inafferrabili in pieno stile CF, collegate dalla figura di un misterioso postino. E già c’è la notizia di una prossima uscita dal titolo Puzzling Scars. Se siete interessati al materiale, non pensateci troppo su: in passato le zine di CF – poi raccolte nel volume Mere edito da PictureBox – andavano rapidamente esaurite e sono diventate ora oggetto da collezione. Mani dunque al portafogli e ordinate senza esitazioni: non ve ne pentirete, ve lo garantisco.
Facciamo il punto su Kevin Huizenga/3
In origine questo “punto” su Kevin Huizenga doveva uscire con pochi giorni di intervallo tra un episodio e l’altro. Poi come al solito la vita ci ha messo lo zampino e quindi eccoci qua che siamo ancora alla terza parte. E chissà quando riuscirò a pubblicare le due restanti. Vabbè, mi accontenterei di riuscire a finire il tutto, prima o poi. In questo post, dopo aver visto gli esordi di Kevin Huizenga e aver fatto una panoramica sulle opere principali della sua produzione (con l’eccezione de Il fiume di notte che sarà argomento della prossima puntata), cercherò adesso di elencare brevemente gli elementi essenziali dei suoi fumetti.
Glenn Ganges – L’alter ego di Huizenga è il protagonista di gran parte dei suoi fumetti. Ispirato nel design alle figure di E.C. Segar e al Flakey Foont di Robert Crumb, è un everyman alla Charlie Brown, un personaggio che non ha un suo reale sviluppo o una biografia, e non è nemmeno sempre uguale a se stesso. Glenn Ganges può vivere da solo o insieme alla moglie, può avere una figlia o anche no, può fare un lavoro piuttosto che un altro, e a volte queste variazioni hanno luogo all’interno dello stesso fumetto, nello spazio di poche pagine o addirittura vignette. Quando gli succede qualcosa, poi, non è detto che questo abbia un effetto sulla sua “vita” futura. Prendiamo per esempio il trittico di storie tratte da Drawn and Quarterly Showcase #1 (2003) e poi ristampate nel volume Maledizioni. Alla fine di 28th Street Glenn e la moglie sono riusciti finalmente ad avere una bambina grazie alla miracolosa piuma dell’orco, e nell’episodio successivo, The Curse, si accenna alla nascita della piccola. Ma nelle storie future dei Ganges non ci sarà alcun riferimento a questa vicenda, né alla bambina stessa. Spiega lo stesso Huizenga in un’intervista del 2018 con Alec Berry pubblicata su The Comics Journal #305 (2020): “Nei fumetti c’è questa fissazione per la continuity, e nella scrittura e in tutta la fiction in genere un personaggio ha una sua vita: un inizio, un periodo intermedio, e una fine. Io ho semplicemente pensato di poter usare Glenn in tanti scenari diversi, e che questa cosa non avrebbe avuto delle conseguenze. Potevo farlo ripartire da capo e basta”. Ma cosa fa Glenn Ganges? Niente di clamoroso, anzi, si potrebbe dire che fa le cose che rendono così ordinaria la nostra vita quotidiana. Per lo più cammina, osserva e soprattutto riflette, lanciandosi in voli pindarici spesso tendenti all’assurdo. Ma forse questa tavola, che è la prima pagina di Or Else #1, spiega più di tante parole l’essenza di Glenn Ganges.
“I’m not primarily interested in drama” – Sono andato a ripescare questa frase da una conversazione pubblicata su The Comics Journal #300 (2009) in cui Gary Groth intervista, o meglio lascia chiacchierare tra loro, Huizenga e Art Spiegelman. A un certo punto Huizenga afferma: “Ciò che mi interessa non è il dramma, la trama o la caratterizzazione dei personaggi, anche se sto comunque provando a concentrarmi di più su questi aspetti, e a imparare a svilupparli. Personalmente tendo più a pensare come un architetto o qualcosa del genere, come se dovessi creare una struttura coerente. O forse come un compositore, anche”. La dichiarazione fa capire chiaramente dove vanno a parare i fumetti di Huizenga, che seguono un intreccio classico soltanto quando adattano racconti e fiabe. Quando le storie le hanno scritte gli altri, insomma. Quando invece il fumetto è tutta farina del suo sacco, Huizenga lo imposta più come un saggio, o come una riflessione legata a un fatto specifico, spesso insignificante, successo ai suoi personaggi. E il fumetto come digressione – e non come storia – dà all’autore la possibilità di portare all’estremo le sue premesse, qualunque esse siano, raggiungendo livelli di profondità e a volte di assurdità inaccessibili con una trama convenzionale. Fa eccezione ovviamente la fase iniziale della sua produzione (quella di Supermonster), che era per lo più realistica e autobiografica.
La poesia della scienza – Ma non solo autobiografica: il primo Huizenga è in qualche modo anche un poeta, tanto che potremmo inserirlo nella corrente dei comics as poetry. Walkin’ da Supermonster #7, che citavo nel post d’apertura di questa rassegna, è esemplificativa in questo senso, con il protagonista/autore che osserva la natura e grazie ad essa riesce ad accedere ai suoi ricordi, rispecchiandosi in un bambino che gioca in un parco. Dalla poesia Huizenga si sposterà presto verso la scienza, e questo passaggio lo vediamo verificarsi già in Gloriana: se nella parte centrale l’autore traduce le emozioni di Glenn che guarda il tramonto in una serie di disegni in libertà, nella parte finale Glenn è già pronto a spiegare il fenomeno della luna rossa ai suoi vicini di casa, con la rappresentazione che non è più astratta ma comincia ad avvalersi di schemi e diagrammi. La poesia diventa scienza, e lo diventa ancor più in seguito, viste anche le esperienze professionali del nostro, che arrivato a St. Louis lavora per un anno alla Xplane, una “visual thinking company” la cui missione è creare rappresentazioni grafiche di vari prodotti (soprattutto software), e poi al St. Louis Science Center, dove rimane per quasi cinque anni. E anche successivamente, quando si dedica a fare il cartoonist a tempo pieno, Huizenga passa le giornate non tanto a disegnare, quanto a leggere saggi di filosofia, teologia, scienza, storia e quant’altro. E di queste letture si trova ampiamente traccia nei suoi fumetti.
Particolare vs. universale – La scienza, dunque, anzi le scienze naturali potremmo dire. Ci sono l’astronomia e la fisica, così importanti in Gloriana, la zoologia che è centrale in La maledizione e in The Wild Kingdom, la geologia che è alla base di diversi passaggi de Il fiume di notte. Tutte discipline che vengono utilizzate non per semplice sfoggio di erudizione (anche se di tanto in tanto Huizenga si lascia andare a qualche lungaggine di troppo) ma come strumenti per sviscerare determinati aspetti della condizione umana, vista in un dialogo più ampio con ciò che la circonda, e quindi con la natura, il tempo, lo spazio. E questo dialogo spesso diventa scontro, come accade appunto in The Wild Kingdom. Da queste considerazioni fondate su basi scientifiche si arriva a considerazioni filosofiche, in una tradizione che Huizenga riprende dagli antichi greci. In questo senso la metodologia di Huizenga è spesso ripetuta nelle sue opere, perché l’autore ci mostra qualcosa che succede a Glenn Ganges e gli dà significato rapportandolo ai fenomeni naturali. E questa tensione continua tra particolare e universale è un tema centrale: ne è un esempio perfetto, quasi scontato, la tavola gigante pubblicata sull’enorme Kramers Ergot 7 e poi riproposta in versione scomposta all’inizio de Il fiume di notte, in cui osserviamo un “pezzo” di Glenn Ganges che parla dentro il suo appartamento, con l’obiettivo che esce dalla stanza, sale sempre più su fino ad osservare i tetti, le strade e gli alberi e infine arriva addirittura tra le nuvole. Interessante il fatto che se nella versione di Kramers Ergot i dialoghi erano riportati a mo’ di cornice, in quella de Il fiume di notte scompaiono del tutto, dandoci ulteriore prova della loro scarsa importanza: a vederle dal cielo che cosa sono le parole spesso inutili che ci scambiamo ogni giorno?
Il tempo – Il tempo è un altro elemento centrale dell’opera di Huizenga, sia per come è utilizzato sia per come viene trattato. Non a caso una delle principali novità introdotte da Gloriana rispetto alle opere precedenti è l’utilizzo anticonvenzionale della cronologia. L’ho già detto poco fa: Huizenga non è interessato a raccontare una storia dall’inizio alla fine ma ad approfondire un tema. E quindi va avanti e indietro, scarta di lato, ricomincia da capo, come si vede appunto in Gloriana e come succede nel capitolo iniziale de Il fiume di notte, chiamato appunto Time Traveling, dove le vignette diventano tridimensionali mostrandoci Glenn Ganges che grazie alle possibilità offertegli dal fumetto riesce a passare da un anno all’altro con estrema facilità. Il tempo cessa di essere semplicemente un mezzo utilizzato per raggiungere uno scopo, e diventa l’oggetto della diegesi. E sotto un certo punto di vista tutta l’opera di Huizenga può essere letta come una riflessione sul tempo, in quanto relativizza ogni singolo fatto della quotidianità ricollocandolo nella più ampia cornice della storia dell’uomo, se non addirittura del pianeta. Leggiamo ne Il fiume di notte, in un pezzo originariamente pubblicato su Ganges #5: “Visto da questa ottica, un milioni di anni è assai breve. Il ciclo vitale di una persona è un granello di sabbia. La nostra mente, che fatica a collocare la nostra esperienza complessa in una rete già immensa di concetti e contesti (anche loro mai a riposo), non riesce a mutare scala con facilità per assorbire questa immensa vastità dello spazio senza provare vertigine e disorientamento”. E proprio Il fiume di notte è, per stessa ammissione di Huizenga, un’opera che si concentra soprattutto sul tempo, e sui diversi modi di pensarlo e rappresentarlo. Ma di questo parlerò nel prossimo post.
“Now if Jesus does return tonight, I’ll be so embarassed!” – La religione, e di conseguenza la teologia, sono argomenti che il cartoonist sviscera soprattutto nella fase iniziale della sua opera, per poi accantonarli pian piano. L’evoluzione dell’autore è chiara: da cattolico praticante mette sempre più in dubbio la sua fede, per poi sconfessarla fino al punto di disinteressarsene. Ma prima del disinteresse c’è la riflessione. In Gloriana la contrapposizione tra Glenn e i vicini che osservano il fenomeno della luna rossa è piuttosto elementare, con la considerazione finale del protagonista (“Now if Jesus does return tonight, I’ll be so embarassed!”) che è più ironica che dubbiosa. La contrapposizione tra religione e scienza torna anche ne Il fiume di notte. Sul tema da citare anche Jeepers Jacobs, vista su Kramers Ergot #5 e poi ristampata su Maledizioni, un ritratto piuttosto impietoso di un teologo che sviscera il complesso dibattito tra tradizionalisti e annichilazionisti sulle sorti dei peccatori dopo la morte.
Adattamenti, trascrizioni e cover – Altra costante sono le riscritture di materiale altrui. Ne abbiamo già incontrate parecchie a questo punto, dal Green Tea di Le Fanu a L’orco con le penne di Calvino. Per non parlare dei saggi o dei trattati scientifici che Huizenga ha utilizzato nelle sue opere, riportandone interi passi o adattandoli graficamente, come La vita delle api di Maeterlinck in The Wild Kingdom e Theory of the Heart del geologo James Hutton ne Il fiume di notte. Non ho invece ancora parlato delle “cover” di fumetti altrui, altra specialità del nostro, che ha ridisegnato una storia del 1956 tratta dal #8 di Mysteries of Unexplored Worlds (su Kramers Ergot #8, poi ristampata nell’autoprodotto The Half Men) e il #1 della serie anni ’60 Kona pubblicato con il titolo di Bona sullo stesso The Half Men e poi su Fielder #1. Libero dai compiti dello sceneggiatore e dalla necessità di comporre la tavola, Huizenga raggiunge in queste cover risultati eccellenti dal punto di vista del disegno puro e semplice.
Facciamo il punto su Kevin Huizenga/2
Continua il “punto” su Kevin Huizenga con un post che riassume brevemente le opere fondamentali della bibliografia dell’autore. Tralascerò per ora Il fiume di notte, che sarà oggetto di un pezzo tutto suo. Se l’avete persa potete leggere qui la prima parte di questo speciale. Via!
Gloriana – Ci eravamo lasciati qualche giorno fa parlando di Supermonster. Proprio sul quattordicesimo e ultimo numero della serie – datato 2001 – viene pubblicata Gloriana, la prima storia lunga di Huizenga e quella che definisce il suo inconfondibile stile. Sono passati pochi mesi da Supermonster #13 ma tra i due mini-comic c’è un abisso creativo. Se il numero precedente mostrava un autore ancora alla ricerca della sua voce, questo fa conoscere al mondo un cartoonist maturo, capace di arrivare al capolavoro a soli 24 anni. Sicuramente in questo cambiamento hanno avuto una grossa influenza, almeno da un punto di vista estetico, le strip che Huizenga leggeva in quel periodo, da Gasoline Alley a Thimble Theatre passando per Krazy Kat. La linea che prima era grezza e indecisa si è fatta sottile ed elegante. I dialoghi non alternano più balloon classici e totale assenza degli stessi ma vengono rappresentati costantemente con nuvolette rette da una sottile linea tremolante, quasi invisibile (alla Gasoline Alley, appunto). Anche nei contenuti possiamo notare un notevole passo in avanti, sollecitato con tutta probabilità dalla lettura dei fumetti di Chris Ware, già rielaborati in chiave del tutto originale. L’importanza di Gloriana è rafforzata dalla definitiva centralità del personaggio di Glenn Ganges, everyman alla Charlie Brown con una certa somiglianza con il Flakey Foont di Crumb e al tempo stesso alter ego utilizzato da Huizenga per abbandonare l’autobiografia pura e abbracciare una narrazione più complessa. Glenn assomiglia solo in parte al suo creatore, perché se da una parte ne riflette vicende personali, passioni e interessi, dall’altra se ne differenzia in alcuni aspetti fondamentali (non è un fumettista, tanto per fare un esempio). La storia, organizzata in capitoli più o meno lunghi che formano un discorso unico, si sviluppa in modo tutt’altro che lineare, con una scansione che segue un filo logico piuttosto che la mera cronologia. Per lunghi tratti siamo spettatori della vita di un uomo qualunque, che ritorna a casa dopo aver fatto la spesa, parla con la moglie incinta, assiste alla nascita del figlio, vive da solo (è il passato? oppure ha immaginato moglie e figlio?), chiacchiera al telefono, va in biblioteca. Nel frattempo, accanto alle piccole cose quotidiane, si muovono i grandi fenomeni della natura. Mentre è in biblioteca Glenn assiste al tramonto e da lì prendono forma una serie di vignette che rappresentano le sensazioni del protagonista di fronte al calar del sole, con tanto di paginone apribile al centro dell’albo a mostrare questa gigantesca tavola.
Nella parte finale c’è invece il tema della contrapposizione tra religione e scienza, tra irrazionale e razionale. I vicini stanno guardando una strana luna rossa pensando che sia un segno di Dio, e Glenn gli dà la spiegazione scientifica del fenomeno, aprendo la prima delle lunghe digressioni teoriche della bibliografia di Huizenga. Ad accompagnarla non ci sono più disegni in libertà ma veri e propri diagrammi. Si completa così la reazione ai fenomeni della natura – che siano rappresentati dal tramonto o dalla luna rossa – sotto i diversi aspetti dell’esperienza umana: percettivo ed emotivo (Glenn in biblioteca), religioso (i vicini), scientifico (ancora Glenn). Dopo Supermonster #14, questa storia è stata ristampata in una versione leggermente modificata dall’autore in Or Else #2 (2005) e nel volume Gloriana (2012), entrambi pubblicati da Drawn & Quarterly.
Maledizioni – Raccolta uscita nel 2006 sia per Drawn & Quarterly (con il titolo Curses) che per Coconino, Maledizioni mette insieme cinque storie con protagonista Glenn Ganges. La prima è Green Tea (2002), tratta dall’omonimo racconto di Le Fanu e pubblicata originariamente su Orchid, volumetto che conteneva adattamenti a fumetti di storie della letteratura vittoriana, a cura di Ben Catmull e Dylan Williams ed edito da Sparkplug Comics. La vicenda di un prete ossessionato dalla visione di una scimmia viene inserita da Huizenga all’interno di una cornice con protagonista Glenn Ganges. Seguono le tre storie realizzate per Drawn and Quarterly Showcase #1 (2003), tra cui spicca un altro adattamento, ossia 28th Street, una versione della fiaba dell’orco con le penne riletta da Italo Calvino in Fiabe italiane e in cui il protagonista va a caccia della penna “magica” non per guarire qualcuno ma per favorire la fertilità sua e della moglie. Il volume si chiude con l’unica storia a colori del lotto, Jeepers Jacobs, vista su Kramers Ergot #5 (2005) e con protagonista un professore di teologia. Il volume è la summa del fumetto di Huizenga, un flusso di parole e immagini libero da ogni imposizione, in cui si alternano temi, generi, registri, tecniche narrative. Green Tea e 28th Street sono tra gli apici raggiunti dall’autore, due dei suoi pezzi migliori di sempre. Sono invece meno entusiasta di Jeepers Jacobs, che ha delle trovate paradossali divertenti (Glenn Ganges visto come miscredente al pari di Hitler, Bin Laden, Giuda e Bertrand Russel, tanto per dirne una) ma che è più ordinaria ed eccessivamente pedante in alcuni passaggi teologico-filosofici.
The Wild Kingdom – Detto che le TRE opere fondamentali per conoscere Huizenga sono Gloriana, Maledizioni e Il fiume di notte, è impossibile non citare in questa sede anche The Wild Kingdom, forse il suo libro più criptico, quello che più degli altri avanza per suggestioni e spunti, come se stessimo ascoltando una suite o anche un lungo pezzo post-rock, con i suoi momenti di quiete e le esplosioni, i leitmotiv, le pause, le digressioni. Non ci troviamo di fronte a una narrazione tradizionale nel senso del termine, anzi, The Wild Kingdom è a tutti gli effetti un saggio. Lunghe sequenze mute si alternano ad approfondite riflessioni del tutto prive di immagini, come nel caso dei brani tratti da La vita delle api dello scrittore belga Maurice Maeterlinck, premio Nobel per la letteratura nel 1911. Soprattutto nella prima parte Huizenga cerca l’improvvisazione, si lascia andare al flusso dei pensieri e del disegno, all’associazione d’idee. Gli stacchi tra una vignetta e l’altra sono spesso netti, ed è il lettore che ha il compito di riempire gli spazi. In alcune tavole lo stile è meno ricercato del solito, con linee corpose e pochi dettagli. Il tema dei diversi capitoli che compongono The Wild Kingdom è la natura e l’impatto che l’uomo ha su di essa. Ma l’accento non è tanto sull’inquinamento o sulle crudeltà che gli esseri umani infliggono al regno animale (e vegetale), quanto sulla limitatezza dell’uomo stesso. Huizenga sembra ricordarci in queste pagine che se a noi sembrano piccoli e insignificanti gli animali e le piante, ancor più piccoli siamo noi esseri umani davanti al corso della natura e all’immensità del cosmo. E a rimetterci in riga c’è un finale apocalittico, in cui il “regno selvaggio” si prende la sua involontaria ma spietata rivincita. Una prima versione del fumetto è stata pubblicata in Supermonster #12 (2001). La versione estesa, come la conosciamo oggi, è uscita prima su Or Else #4 (2006) e poi nel volume cartonato The Wild Kingdom (2010), entrambi editi da Drawn & Quarterly.
Or Else – Con Supermonster, di cui ho già parlato, e Ganges, di cui parlerò dato che è stata in gran parte raccolta ne Il fiume di notte, Or Else è l’altra serie fondamentale quando parliamo di Kevin Huizenga. Si tratta di cinque comic book di diverso formato pubblicati da Drawn & Quarterly tra il 2004 e il 2008 con l’intento di riproporre alcune storie difficilmente reperibili dell’autore, in buona parte ritoccate e rivisitate, insieme a materiale inedito. Or Else #1 contiene una nuova versione di NST’04 da Supermonster #11, Chan Woo Kim leggermente modificata rispetto a Supermonster #9, l’inedita Jeezoh e una tavola della serie muta Fight Or Run, che aveva debuttato sull’antologia Blood Orange di Fantagraphics. Or Else #2 è la riproposta, con qualche leggera correzione, di Gloriana da Supermonster #14. Il #3 mette insieme March 6, 1999 e Al and Gertrude da Supermonster #12, Phone Story #4 e I Stand Up for Zen da Supermonster #13, più l’inedita A Short Stroll tratta dai diari di Kafka. Come già detto sopra Or Else #4 è la versione estesa di The Wild Kingdom, mentre il #5 è il primo con materiale totalmente inedito, tra cui spicca la prima parte di Rumbling, adattamento di una delle storie di Centuria dell’italiano Giorgio Manganelli. Nonostante i piani ambiziosi di Huizenga (nell’ultima pagina dell’albo c’era il sommario dei successivi numeri di Or Else fino al… 24), il #5 rimarrà l’ultimo. Per gli aficionados segnalo che la prima parte di Rumbling è stata riproposta dall’autore in un albetto autoprodotto stampato su carta verde. La storia ha avuto anche un seguito, prima con Rumbling #2 e poi in appendice a Ganges #6. E per la precisione vi segnalo che Huizenga ha inaugurato nel 2018 una nuova serie spillata e di grande formato, di cui è uscito finora solo il #1. Autoprodotta ma distribuita nel circuito delle fumetterie da Drawn & Quarterly, Fielder è in un colpo solo l’erede di Or Else e Ganges.
Facciamo il punto su Kevin Huizenga/1
La pubblicazione italiana di The River at Night per Coconino Press (Il fiume di notte, 216 pagine, 27€) mi dà l’occasione per fare il punto su Kevin Huizenga. In realtà stavo pensando da un bel po’ di tracciare un profilo di questo autore, a me caro innanzitutto per la qualità dei suoi fumetti, ma anche perché lo seguo praticamente dagli esordi, ossia dai tempi di Supermonster, il suo primo mini-comic autoprodotto. Ma anno dopo anno l’idea di scrivere un articolo approfondito su di lui è sembrata sempre più complessa, vista la mole di lavoro che ha prodotto, le diverse versioni esistenti delle sue storie, le collaborazioni ad antologie e riviste, i numerosi e complessi spunti offerti dalla sua opera. Insomma, se io lavorassi a Just Indie Comics nella vita non avrei problemi a mettermi lì e dedicare mesi all’analisi dei fumetti di Kevin Huizenga, ma dato che non è così che mi guadagno da vivere e che anzi, non solo nessuno mi paga per scrivere questa roba qua, ma sono addirittura io a pagare (il dominio e il server, almeno), e che oltretutto non ho nessuna particolare qualifica per scrivere di fumetti se non il fatto di essermi conferito da solo l’autorità di farlo, insomma, per tutti questi e anche altri motivi facciamo il punto su Huizenga così come viene, un po’ a casaccio. Anche perché per scrivere queste righe nemmeno mi sono riletto tutto tutto, che se mi metto a ripassare tutti i suoi fumetti, tutte le sue interviste, tutte le sue collaborazioni addio, rischio di morire prima. Quindi ok, cerchiamo di inquadrare l’autore senza troppe smancerie citando almeno le sue opere principali. Non mi perderò troppo nelle descrizioni, dandovi piuttosto riferimenti, spunti e qualche opinione. Anche perché le descrizioni hanno rotto, meglio leggersi i fumetti piuttosto che le descrizioni degli altri, che poi il più delle volte si riducono ai soliti dieci aggettivi (delicato, inquietante, bizzarro ecc. ecc.). E io ho da tempo dichiarato guerra agli aggettivi (pur essendone spesso vittima, ahimè).
In questo primo post darò un’occhiata agli inizi della carriera di Huizenga. Nel prossimo cercherò invece di darvi una piccola guida alle sue opere principali. Nel terzo cercherò di sintetizzare – cosa piuttosto complicata – i temi fondamentali dei suoi fumetti. Nel quarto parlerò invece de Il fiume di notte. In un quinto post raccoglierò note e curiosità. Saranno tutti flash, brevi excursus su un autore che meriterebbe un libro piuttosto che le mie poche e scombinate parole. Ma accontentiamoci, su.
Il mio primo fumetto di Kevin Huizenga è Supermonster #10, datato 1999. Ricordo chiaramente di averlo comprato sul sito Uss Catastrophe, lanciato proprio in quell’anno sotto forma di blog da Ted May e Warren Craghead per presentare il loro lavoro e quello di amici e cartoonist affini. Il negozio partirà qualche tempo dopo, curato proprio da Huizenga e successivamente da Dan Zettwoch, e probabilmente anche io ordinai quel Supermonster non al momento dell’uscita ma successivamente, forse nel 2002, dato che mi ritrovo anche Supermonster #13 e Supermonster #14, nonché il #3 dell’antologia autoprodotta Impossible. Tutta roba stampata tra il 1999 e il 2002, appunto. Certo, questo non spiega perché non ho Supermonster #11 e #12. Forse erano esauriti? E chi lo sa. Fatto sta che questi primi numeri di Supermonster sono perfetti per dare qualche cenno biografico sull’autore. Ci aggiungerei anche Walkin’ da Supermonster #7, che si poteva leggere gratis su Uss Catastrophe (insieme ad altre storie più o meno dello stesso periodo) e che con il noto trucchetto di viaggiare nel passato di internet potete riscoprire qui. Vi ritroviamo lo stesso Huizenga che dopo aver trascorso la notte in una nuova casa cammina per i sobborghi. La passione per la natura, che poi diventerà passione per la scienza in grado di spiegare i meccanismi della natura, è già evidente per come il nostro si concentra su piante e giardini. E poi casette, strade, pali e cavi della luce, animali, in un fumetto dominato dalla contemplazione della realtà circostante, in cui succede poco, anzi niente. O forse tutto, dato che nelle ultime tavole il panorama viene disturbato da una sorta di rumore grafico finendo per diventare astratto e alla fine l’autore/protagonista si identifica con un bambino che gioca in un parco, anticipando modalità espressive e temi – soprattutto il dualismo tra particolare e universale – tipici di tutta la sua opera. Se non sbaglio con le date, l’ambientazione dovrebbe essere a Grand Rapids nel Michigan, dove Huizenga, classe 1977, si era trasferito per studiare al college dopo essere cresciuto a South Holland, un sobborgo di Chicago popolato soprattutto dai discendenti degli immigrati olandesi e situato nella zona di confine tra Illinois e Indiana (per gli amici Illiana). Walkin’ è ambientato nella tarda estate del 1997 ed è datato 1998. E non è niente male per un 21 enne, anzi.
A un certo punto di Walkin’ si legge: “Didn’t go to church this morning”. Essì, il giovane Huizenga era religioso e in effetti il college di Grand Rapids dove studiava filosofia e – in un secondo momento – arte era una scuola cristiana. La sua formazione è infatti tutt’altro che alternativa. “Ho iniziato ben lontano dalla cultura DIY o punk – racconta in un’intervista rilasciata a The Comics Journal nel 2014 – in un sobborgo abbastanza tradizionale e cristiano. Ero ancora troppo spaventato e mi sentivo come il tipico bravo ragazzo cristiano, tanto che pensavo di non poter avere a che fare con i tipi punk o con gli artisti. Stavo in un territorio di mezzo, e ancora mi sento così, in un certo senso”. Il retroterra religioso era così importante che Huizenga meditava addirittura di farsi prete. “Penso che mi attirasse l’idea di scrivere prediche ogni settimana – racconta nella stessa intervista – come se fossero una specie di sfogo creativo. Ma poi realizzai che non ero tagliato per quella vita, anche se ero ancora molto serio e convinto a proposito della mia fede cristiana al tempo”. Che questa idea fosse reale nella testa del giovane Kevin e tra i suoi familiari è testimoniato da Supermonster #10, sottotitolato Like Pure Being, che nel suo piccolo formato 14×11 cm scarsi e una copertina che è ancora cartolina dei tipici sobborghi USA adatta una lettera della nonna dell’autore. “Kevin I really think you should go to the Seminary – leggiamo – I think you’d make a good preacher. There is a real shortage of preachers in the denomination. We need them”. Ma, come già sappiamo, i piani della nonna di Kevin verranno rovinati, dato che il nostro dedicherà la sua vita ai fumetti più che a Cristo & Co.
Saltiamo a questo punto a Supermonster #13. All’interno vi troviamo I Stand Up for Zen, in cui l’autore/protagonista è ancora a Grand Rapids, colto subito dopo la fine del college, mentre lavora nel settore marketing di un distributore di oggettistica. E infatti tutta la storia è incentrata sulla sua riluttanza a definire un dozzinale braccialetto con la descrizione fornitagli dai suoi capi, ossia “fashionably zen”. Tra la realizzazione del fumetto e la pubblicazione dell’albo Huizenga lascia Grand Rapids per trasferirsi a St. Louis nel Missouri, dove grazie al collega fumettista Ted May aveva trovato lavoro come designer presso la Xplane, una “visual thinking company” specializzata nel creare rappresentazioni grafiche di vari prodotti (soprattutto software). “I moved to St. Louis this summer and everything was new and blowing my mind” leggiamo infatti a pag. 1 del mini. Siamo nel 2000 per la precisione, e Huizenga si trova molto bene a St. Louis, tanto che ci rimarrà per 15 anni. A lavoro incontra la sua futura (ma ormai ex) moglie, e nel tempo libero inizia la sua prima storia lunga, intitolata Gloriana, che occupa tutto il #14 di Supermonster, l’ultimo della serie, e che ha come protagonista non più lo stesso autore ma il personaggio/alter ego che lo accompagna ancora oggi, Glenn Ganges. Ma di Gloriana, e delle altre opere fondamentali della bibliografia di Kevin Huizenga, parlerò nel prossimo post.
Mettere il corpo sulla pagina/2
Si conclude il saggio di Alessio Trabacchini tratto da Prendere posizione. Il corpo sulla pagina, catalogo del festival BilBOlbul 2020 che è possibile acquistare a questo link. Qui trovate invece la prima parte dell’articolo. Buona lettura.
Costruire, distruggere, sognare
La centralità della presenza corporea, l’utilizzo autoterapeutico della narrazione disegnata e un esempio particolarmente consapevole ed efficace dell’uso della self-deprecation come strumento di affermazione di sé. Queste caratteristiche distinguono l’opera di Kominsky-Crumb da quella di molte tra le iniziali compagne di strada, dove la questione del corpo viene nondimeno consapevolmente affrontata, ma con diversi esiti. Le eroine disegnate da Trina Robbins (analogamente a quelle reali da lei studiate) hanno l’obiettivo di riposizionare le donne sul piano del fumetto. Si tratta per lei di lavorare su figure tipiche, rinnovare i miti. Più che distruggere gli stereotipi, l’intenzione sembra quella di farli slittare verso archetipi utili a un percorso di emancipazione.
Melinda Gebbie (1937-), per fare un altro esempio, condivide alla base il programma di Robbins per un rinnovamento della figura femminile in chiave mitica, ma ne sposta il campo dalla luce piena della collega a un territorio di lampi e tenebre, il campo di un desiderio incontrollato e di un disordine famelico. Il corpo ritorna con prepotenza, mentre in Robbins appare come depurato, ma l’intento dell’apollinea Robbins e della dionisiaca Gebbie rimane la creazione di modelli femminili forti, che attacchino frontalmente la tradizione patriarcale del fumetto. La via di Kominsky-Crumb è inizialmente marginale e marginalizzata – a chi può interessare la vita privata di una ragazza qualsiasi, per di più mostrata in quel modo? – , ma diventerà la strada maestra del graphic novel e, in generale, del fumetto non seriale.
Già nella generazione immediatamente successiva, diverse autrici seguono la direzione tracciata da AKC, come Dori Seda (1951-1988), giunta al fumetto dalla pittura e dalla scultura. Nel suo caso, è il gesticolare ampio e disarmonico della protagonista che scuote uno stile grafico piuttosto tradizionale, con i contorni definiti, le ombre portate e un realismo mimetico solidale con la sintesi del cartoon. Il gesto caricato dona qui la misura emotiva del fumetto, ma diventa anche spesso il principio ordinatore della tavola, che sembra assemblarsi attorno ai movimenti della protagonista, sempre in scena. In altre parole, è il corpo che regola (non subisce) caoticamente lo spazio. Sincera provocazione e divertimento esibizionistico che nelle ultime storie assumeranno una direzione chiaramente politica, dove la sincerità risiede in una disponibilità dialogica verso il lettore, disponibilità che si manifesta nelle parole, ma che comincia proprio nel disegno. Qui, il mimetismo dettagliato di Seda si allontana dalla brutalità grafica di Kominsky-Crumb come dal grottesco armonico e rifinito di Crumb per affidarsi a un gesticolare inquieto, sempre in sovraccarico di energia vitale e autodistruttiva: la conquista dello spazio come guerra e come gioco.
Phoebe Gloeckner (1960-) arriva al fumetto molto presto, negli anni della sua traumatica adolescenza. Contemporaneamente, si dedica all’illustrazione medica, che diventa nelle sue mani un esercizio di crudeltà grafica praticato sulla forma e le funzioni del corpo, specificatamente femminile. Nelle illustrazioni per La mostra delle atrocità di James Ballard (RE/Search, 1990), la presunta asetticità dei corpi in sezione accoglie azioni di natura sessuale: erotismo disturbante e ironia freddissima che si accompagnano bene alle suggestioni ballardiane, ma spingono oltre. L’Autoritratto con pemphigus vulgaris (1987) che apre Vita da bambina, esposizione dei traumi vissuti durante l’infanzia e l’adolescenza, vale come prefazione. Porta in collisione i due sguardi oggettificanti sul corpo femminile – dell’arte e della scienza – dirigendo l’attenzione, con un close-up della pustola, sul disgusto. E, mentre mima gli occhi chiusi, se ne prende gioco con un ambiguo sorriso che confonde il dolore con l’ironia.
La malattia è il mezzo della rivolta, e Phoebe Gloeckner ha definito la pratica autobiografica da lei utilizzata come un processo di autodistruzione, contestando l’identificazione con il suo alter-ego Minnie e descrivendolo piuttosto come un processo di sostituzione: “The process is destructive – I must die so that Minnie can live”. La cura (attraverso l’arte) e il sacrificio (per l’arte?) si trovano così in sovrapposizione, mettendo in dubbio la funzione salvifica del racconto sul piano narrativo, ma soprattutto su quello visuale, dove la deformazione cartoonesca innestata su un illusionismo quasi fotografico, la focalizzazione oscillante e l’alterazione delle proporzioni rendono incerta la mappatura del corpo e disorientano lo sguardo e la lettura. L’autobiografia disegnata prenderà, in generale, altre e più comode direzioni.
Nell’opera della canadese Julie Doucet (1965-), una delle fondamentali figure-ponte tra l’eredità dell’underground e l’attuale dominio dell’autofiction, si fondono suggestioni americane e francofone. Nella serie di albi Dirty Plotte, che raccoglie le sue storie dal 1988 al 1998, Doucet mescola comicità e angoscia, volgarità ostentata e una malinconia sottile che avvolge le cose. Anche in questo caso un’influenza crumbiana può sembrare evidente, tanto da portare la storiografia (che spesso nasconde una sorta di criptomaschilismo dietro il nazionalismo palese) a oscurarne altre non meno limpide e chiarificatrici, come, per citarne una, le visioni della francese Nicole Claveloux. In ogni caso, al di là delle fonti d’ispirazione, il percorso di Doucet dalle prime autoproduzioni fino al proclamato abbandono del fumetto – dunque tra la fine degli anni Ottanta e i primi Duemila – ha portato il linguaggio in territori inesplorati. Il suo approccio al racconto di sé – mosaico di intimismo, provocazione, onirismo e fantasticheria – offre una mappatura del corpo e delle sue opzioni profonda e articolata (per approfondire: Anne Elizabeth Moore, Sweet Little Cunt, Uncivilized Books, 2018).
Generalizzando un po’ brutalmente, l’autobiografia confessionale può essere orientata dalla ricerca dell’identità o dall’affermazione del desiderio: l’una definisce l’altro o viceversa. Doucet sembra scegliere la seconda opzione: Julie attraversa il quotidiano, l’onirico e il simbolico venendo volta per volta ridefinita dal contesto e dalle sue azioni, il genere e il sesso vengono continuamente messi in questione, con l’alter ego disegnato dell’autrice che sperimenta a più riprese l’opportunità di avere un pene, oppure si diverte a scompigliare gli stereotipi della mascolinità. Ma è anche il piano della realtà a essere instabile: uno spazio sporco e rigoglioso, ora confortevole ora carico di minacce inquietanti, brulicante di oggetti pronti a prendere vita.
L’intimità che nasce dal contatto con la mente della protagonista, illuminata anche negli angoli che di solito si preferisce lasciare in ombra, convive con la cruda rappresentazione di una violenza che aleggia tra le cose e incombe sui corpi, sul suo. Un corpo che, a cominciare dal piacere di disegnarsi, reagisce e desidera. Ma la manifestazione del desiderio non è l’autogratificazione crumbiana, non è un gioco neutro della fantasia: è la battaglia quotidiana per la conquista della propria agentività, è una performance che si mette in scena pagina dopo pagina dentro e contro le condizioni sociali avverse. In questa incarnazione dell’autofiction disegnata, il corpo è un insieme di abilità, non ha confini precisi, è fragile e malleabile allo stesso tempo, e ogni sua parte – come ogni parte dello spazio che lo circonda – è suscettibile di rivolta.
Decorare, curare, mutare
Kominsky-Crumb, qui eletta a ideale capostipite, Gloeckner, Seda e Doucet si sono trovate nella necessità di inventare i modi per rappresentarsi e per rappresentare le donne nei fumetti. Le loro scelte – che comportano anche una ridefinizione dei concetti di bellezza, espressività corporea, presenza nello spazio – risultano ancora vitali e, soprattutto nel caso di Doucet, hanno influenzato generazioni di autrici e autori. Tuttavia, nel recente affermarsi dell’autobiografismo, si è visto con quanta facilità la rappresentazione si ricodifichi e lo stereotipo si riaffacci, così come la narrazione tenda a riadagiarsi nel convenzionale e nel consolatorio.
Ma infrangere le convenzioni e riportare il disegno alla propria originaria corporeità – sia liberandone l’istinto come Kominsky-Crumb o attraverso una più meditata strategia come Gloeckner – non è certo la sola via percorribile. C’è ad esempio quella di Lynda Barry (1956-), che, al pari di Chris Ware per quanto nettamente meno celebrata, esplora le forme e le funzioni della memoria nella narrativa disegnata. Barry ricostruisce il passato attraverso i suoi detriti in un gesto, reale e simbolico, di risarcimento della perdita e del dolore. Nella densità visiva di One! Hundred! Demons!, forse il suo libro più celebre, l’autorappresentazione è estroflessa verso gli oggetti, sparsa tra le cose: non può essere contenuta dal corpo, ma vive nella cura con cui sono dislocate le cose che tocca e ricorda.
O ancora, agli antipodi della brutalità espressiva di Kominsky-Crumb, c’è la tensione decorativa di Geneviève Castrée (1981-2016), disegnatrice e musicista, discendenza diretta della connazionale Julie Doucet. Castrée decora il segno nelle storie brevi – fatte di pause, ellissi, rime visive – e anche nell’autobiografico Susceptible, storia della sua crescita al fianco della madre dipendente dall’alcol e dalle droghe. E “decorazione” sembra il termine più adatto anche se poggia sul gradino più basso nella gerarchia delle arti occidentali, come qualcosa di alieno alla struttura e all’ipotetica essenza di un oggetto. La parola non indica qui l’orpello ornamentale, ma un consapevole e articolato atto di risignificazione del trauma. Anche se si pone il compito di curare le ferite del passato, l’autobiografismo di Castrée è coniugato al presente: privo di nostalgie, condanne o assoluzioni, procede con lo stupore dell’infanzia che racconta e punta a liberarsi del suo peso. Ma è prima il disegno che dà linfa alla storia, con le figure umane racchiuse da una linea netta, i gesti un po’ scomodi, marionette in cerca di una loro armonia. La linea vale come strumento di comprensione, nel senso che racchiude e aspira alla chiarezza, secondo la lezione di Hergé, e a una ricerca di bellezza nuova e da condividere. La stessa volontà coinvolge corpi, spazi e lettering: una calligrafia sottile che, come un parlare sottovoce, costringe il lettore ad avvicinarsi.
Ridefinire la bellezza e rivendicare la bellezza appaiono questioni sempre più centrali. Particolarmente emblematico è il caso della statunitense Tara Booth (1988-), artista che spazia dalla pittura al fumetto fino alla creazione di pattern da indossare e che dichiara programmaticamente l’intenzione terapeutica della sua creatività. L’autrice disegna se stessa ostentando una canonica bruttezza: sproporzionate le membra, goffe le posture, deformati i tratti del volto, mentre nelle storie, brevi tranches de vie, intimismo, comico e disagio quotidiano procedono abbracciati. Ma l’effetto è opposto, con la composizione e la vitalità del tratto che, al di là dell’evidente autoironia nel raccontare le angosce personali, comunicano vera gioia visiva e partecipazione. Soprattutto nel colore, Booth esalta le qualità terapeutiche della decorazione, riscontrabili nei risultati come nel processo: pattern costruiti strato dopo strato alla ricerca della giusta, singolarmente armonica, combinazione di forme e di toni.
Si può andare oltre. Lisa Hanawalt (1983-), autrice celebre se non altro per la collaborazione alla serie Bojack Horseman, ha portato ad un nuovo livello la tradizione zoomorfista del fumetto, facendone il campo di un’incessante oscillazione dell’identità. Nelle sue pagine – che slittano secondo necessità dal fumetto al racconto illustrato, dal fantastico puro al diarismo diretto – la trasmutazione fisica o nei comportamenti dall’umano all’animale si accompagna all’instabilità dello stile, in perenne fibrillazione tra il realismo e l’astratto. Per certi artisti l’ossessione è la sostanza dello stile, qualcosa di stabile che segna i confini della loro lingua e gli dà sapore e direzione. Per Hanawalt, il principio ordinatore è un interesse di tipo feticistico che si concentra sempre sul particolare – si tratti di storie, reportage, divagazioni, illustrazioni – assecondando, per parafrasare il titolo di una sua raccolta, uno sguardo sporco e scemo.
È, alla base, una ricerca del piacere, libera e non per questo meno attenta e politicamente responsabile. E la figura dell’autrice? Quando le capita di disegnare se stessa, Hanawalt lo fa sempre in maniera diversa, senza una sintesi, quasi con informale disinteresse, a meno che non scatti l’identificazione equina, la sua ossessione primaria: “dagli otto ai quattordici anni sono stata un cavallo”, “I cavalli sono il mio interesse principale”. Ma la sua non è una proiezione né una maschera o una metafora. è l’impronta del desiderio, come se Hanawalt volesse essere un cavallo.
Nel fumetto contemporaneo, più facilmente al di fuori dell’area del graphic novel, le modalità di rappresentazione del corpo finalmente sono esplose. Cadono, in particolare gli scarni ma rigidi codici che costringevano nello stereotipo i corpi delle donne, ma anche gli schemi di una rappresentazione binaria del sesso/genere. Nell’interzona dove convivono realismo e astrazione, il disegno è lo strumento perfetto per scompaginare i dualismi e, se ogni rottura del codice si presta a essere codificata, si crea lo spazio per nuove rotture.
La carrellata di autrici successive all’esperienza pionieristica di Aline Kominsky-Crumb vuole rendere conto di alcune di queste rotture e di un’epoca in cui ci si interroga in profondità sulle modalità della sua rappresentazione, sulle sue radici culturali e discriminanti, sulle sue conseguenze politiche ed esistenziali. La domanda non dovrebbe però riguardare il modo in cui si “devono” rappresentare i corpi sulla base di nuove e più inclusive categorie, anticamera di nuovi stereotipi, ma i modi in cui si “possono” rappresentare i corpi per impedirne la codifica, per aprire spazi sempre nuovi al nostro sguardo.
Alla domanda sulle influenze nel suo modo di disegnare le donne, Lale Westvind, geniale creatrice di mondi futuri e possibili, risponde: “Disegno le donne nel modo in cui vorrei fossero state disegnate nei fumetti quando ero bambina. Ero così invidiosa del modo in cui erano disegnati gli uomini. […] Soprattutto, forse perché sono più androgini, amavo i personaggi che avevano una testa di animale. Vedi, se hanno una testa di animale non sono ovviamente maschi o femmine” (Brian Nicholson, This Amazing Mechanism She Can Control With Her Mind: An Interview with Lale Westvind, tcj.com, agosto 2020).
Postilla
L’area geografica a cui si è fatto riferimento è limitata, con rare eccezioni, all’America del Nord. È stata certamente la scelta più facile, considerata la ricchezza del materiale disponibile, e forse la più adatta per cominciare a muoversi in un campo ancora poco esplorato. Bisogna nondimeno guardare altrove e, soprattutto con occhi diversi. Anche se autrici e lettrici si sono moltiplicate, il graphic novel “non-maschile” corre più di un rischio di essere ridotto a genere (letterario) a sé stante, confinato nella sua riserva… L’organizzazione della cultura, sovrapposta a quella della produzione, impedisce alle differenze di manifestarsi come dinamica vitale di possibilità volta per volta realizzate, servendosene invece come ulteriore occasione per diversificare i prodotti, costruire schemi, apporre etichette.
Bibliografia
– Tara Booth, How to Be Alive, Retrofit Comics, 2017
– Geneviève Castrée, Susceptible, Drawn & Quarterly, 2012
– Julie Doucet, Dirty Plotte: The Complete Julie Doucet, Drawn & Quarterly, 2018
– Phoebe Gloeckner, A Child’s Life and Other Stories, Frog Books, 1998 (ed. it. Vita da bambina, Topolin Edizioni, 1999 e Fernandel, 2007)
– Lisa Hanawalt, My Dirty Dumb Eyes, Drawn & Quarterly, 2013
– Aline Kominsky-Crumb, Love That Bunch, Fantagraphics, 1990 e Drawn & Quarterly, 2018
– Trina Robbins (a cura di), The Complete Wimmen’s Comix, Fantagraphics, 2016
– Dori Seda, Dori Stories, Last Gasp, 1999
– Lale Westvind, Grip, Perfectly Acceptable, 2020
JICBC pt. 2: “Bat-Man is Lost in a Woods” e “Headache” #3
Partirà subito dopo Pasqua la seconda spedizione del Just Indie Comics Buyers Club, l’abbonamento che permette di ricevere durante l’anno fumetti accuratamente selezionati dal sottoscritto. Guardando il titolo di questo post, i più attenti (bravi!) tra i non abbonati (cattivi!) si chiederanno perché a costituire l’albo principale dell’invio di aprile è Bat-Man is Lost in a Woods, fumetto che è servito a pubblicizzare l’edizione 2021 dell’abbonamento e che doveva essere originariamente spedito a gennaio. Ebbene, come gli onorevoli abbonati già sanno, i ritardi nell’arrivo dagli USA delle copie di Bat-Man mi hanno costretto a sostituirlo con un altro albo, rimandandone la spedizione ad aprile. Ed eccolo qui, dunque, come promesso: le copie si sono finalmente materializzate e posso procedere dunque a inviare a tutti gli iscritti il fumetto di David Enos uscito nel 2016 per l’etichetta California Clap.
Bat-Man is Lost in a Woods è il classico bootleg di supereroi, filone molto diffuso nella microeditoria statunitense. Ma non si tratta della solita parodia dissacrante, né di un riverente omaggio. L’autore sceglie un approccio tutto suo al mito di Batman, raccontandoci un supereroe spaesato, alla disperata ricerca della moglie scomparsa. “Il più grande mistero mai affrontato da Bat-Man è probabilmente la scomparsa di sua moglie Amity – si legge in quarta di copertina – Il folto bosco che circonda il loro castello mette a disposizione pochi indizi, e mesi di ricerche non lo hanno portato più vicino alla verità. In un caso del genere anche le sue ineguagliabili tecniche investigative potrebbero non essere sufficienti”. Ed ecco dunque un Batman (anzi, Bat-Man) che vaga senza darsi pace, che rimane a dormire fuori di notte scavandosi un rifugio sottoterra, che si reca in preda a un presagio in una cittadina sul mare facendo le conoscenze di un’avvenente signora. Tra una ricerca e l’altra si dipanano i dubbi morali e le riflessioni esistenziali del ben poco eroico supereroe, oltreché una serie di incontri con un sottobosco di criminali e colleghi provenienti addirittura dal roster dei cugini della Marvel. E non vi dico altro per non rovinarvi la sorpresa… Bat-Man is Lost in a Woods è un delizioso omaggio alla figura dell’uomo pipistrello, una sua lettura postmoderna come tante ne abbiamo viste dagli anni ’80 in poi, ma che sostituisce l’epica e la seriosità con una buona dose di divertita malinconia. Perfetti in tal senso anche i disegni, che con i colori pastello e un approccio televisivo fatto tutto di primi piani e mezzi busti rimandano alle atmosfere dell’indimenticabile serie con Adam West.
Se Bat-Man verrà inviato a tutti gli iscritti al Buyers Club, il secondo fumetto è come sempre destinato ai soli sottoscrittori della versione Large dell’abbonamento. Si tratta del #3 dell’antologia Headache, con base tra la Svezia e la Cambogia, ossia i paesi dove risiedono gli editor Dennis Lindfors e Nicolas C. Grey, quest’ultimo visto di recente su Mineshaft. I testi sono ovviamente in inglese, mentre il cast di autori è internazionale, e comprende anche un certo Robert Crumb. Vi dico subito per dovere di cronaca che di Crumb ci sono solo 5 pagine tratte dagli sketchbook, ma la sua presenza, insieme alla copertina dello stesso Grey, vi farà capire subito il tono del magazine, che riprende il classico spirito underground di una volta attualizzato in chiave contemporanea. Oltre ai due autori già citati si susseguono così VATO & Gil Alonso Jr., Stephen Grey, Alma Lefverström, Jason Atomic, Louis Brawley, Dennis Worden. I temi spaziano dal lucido trattato sociologico e un po’ apocalittico di Nicolas C. Grey Life is Meaningless and Then You Die alle estemporanee e dissacranti vignette di VATO e Alonso, dalle illustrazioni delle strade londinesi di Soho (ancora Grey) a una storia lunga di Jason Atomic con protagonista un uomo con il pene di legno… E insomma, avete capito l’antifona. Per concludere vi segnalo che di Headache è già uscito anche il #4, ma io ho deciso di includere nell’abbonamento il #3 semplicemente perché… è più bello.
Per chi non è abbonato al Buyers Club qualche copia dei due fumetti è già disponibile per essere ordinata separatamente nel negozio online di Just Indie Comics. E ne approfitto per ricordarvi che per gli ordini superiori a 50€ basta inserire al momento del pagamento il codice ITALIA50 per avere spese di spedizione gratuite in tutta Italia.
Mettere il corpo sulla pagina/1
Pubblichiamo in questo e in un successivo post un saggio di Alessio Trabacchini che analizza il lavoro di autrici sicuramente care a chi segue questo sito. L’articolo è tratto da Prendere posizione. Il corpo sulla pagina, catalogo del festival BilBOlbul 2020. Buona lettura.
Premessa teorica
Il foglio bianco è lo spazio, un campo aperto di relazioni possibili limitato da convenzioni, regole, condizionamenti. I segni che tracciamo sul foglio sono l’estensione, la dislocazione, la riorganizzazione di noi stessi nello spazio, ma anche il luogo possibile dove “noi stessi” riconosciamo la perdita del nostro confine. Il disegno, che qui consideriamo nella sua funzione narrativa, è un’opportunità e, dunque, una responsabilità.
Aline Kominsky-Crumb e le altre autrici che incontreremo per riflettere sulla rappresentazione del corpo nel fumetto inscenano modi diversi di cogliere questa opportunità, modi che sono stati scelti più in virtù del loro radicalismo che della capacità di indicare una tendenza. Si parlerà soprattutto di autorappresentazione, di autobiografia disegnata, ma questa deve essere una traccia e non un limite, nel tentativo di rendere più nitida la riflessione. Disegnare se stessi è da una parte un istinto, in qualche misura “naturale”, che va oltre il modo in cui ci vediamo, proprio per una questione di continuità con il corpo; dall’altra, comporta un esercizio di autocoscienza che può condurre chi disegna a mettere in prospettiva tutta la sua strategia espressiva.
Per comprendere la posta in gioco può essere utile, a costo di apparire stucchevoli, chiarire secondo quali relazioni i termini “disegno”, “corpo” e “fumetto” dovrebbero sostenere il discorso.
Le immagini provocano una risposta che è fisica prima che mentale, all’inverso della scrittura. Ed esistono immagini, come quelle disegnate, che sono insieme immagine e gesto: la traccia di un gesto, oppure la sua eco. Il disegno passa dunque attraverso la mano, che possiede una sua indipendenza, un suo “pensiero”.
Quanto alla separazione tra corpo e mente, così come ci è stata inculcata nei secoli, non è certo scrivendo che potremo liberarcene. Ma se ci sforziamo almeno di allentarne la presa, guardando, allora il disegno cessa di essere mera rappresentazione, il più o meno ubbidiente riflesso di noi e di quanto ci circonda, nella incessante ridefinizione del margine tra realismo e astrazione. Disegnando, e soprattutto disegnando noi stessi, possiamo guardarci, sentirci, costruirci, frammentarci, perderci, dissolverci, nasconderci, ibridarci, mutare. Vale per la mano che crea, ma anche per l’occhio che guarda, che nondimeno appartiene al corpo.
Il fumetto, semplicemente, complica le cose: mescola il racconto e l’immagine, traduce il tempo in spazio… E’ un linguaggio confuso, dove confusione è quello stato in cui non è possibile discernere l’uno dall’altro, in maniera certa e definitiva, gli elementi di un insieme. Ma è senza dubbio il disegno – che ora non si riferisce solo al tracciare linee, ma anche all’articolarsi delle figure sulla pagina – che porta nel fumetto il calore e la tensione del corpo, quella parte che può eccedere il progetto, contraddire l’intenzione oppure infonderla di vita e di verità.
Se il disegno produce corpi – ovvero rappresenta la loro produzione –, il disegno narrativo ne mette in questione l’integrità a ogni gesto. O meglio: può compiere con moltiplicata complessità tutte le operazioni sopra elencate – costruire, frammentare, dissolvere… – perché è un’arte di relazioni e di confusioni. Il senso del disegno, in misura della sua potenzialità narrativa, è che non esistono segni o figure autosufficienti. Quando ci disegniamo e/o ci raccontiamo, possiamo confermare la nostra identità oppure disporci a perderla, o quanto meno a metterla in gioco.
Nei paragrafi a seguire si farà riferimento ad alcuni fumetti, in diversa misura autobiografici, realizzati da donne. Come si è detto, le opere non sono state scelte in virtù di una loro rappresentatività delle tendenze trascorse o attuali: si tratta anzi, in più di un caso, di singolarità “eccessive”. Queste singolarità offrono inoltre un campo disponibile per interrogarci sulle differenze, sulle difficoltà e sulle opportunità di un fumetto non-maschile e femminista; dove il femminismo, se non è sempre identificabile con una volontà militante, comporta comunque la coscienza profonda di una condizione. L’obiettivo non è proporre tesi o azzardare sintesi, ma portare l’attenzione su un campo largamente inesplorato, almeno per quanto riguarda il fumetto, una forma espressiva in cui l’egemonia maschile è stata a lungo schiacciante.
Occorre forse ancora ricordare – dopo due secoli di scrittrici e qualche generazione di pittrici e di fotografe impegnate a raccontarsi e ritrarsi – che l’atto autobiografico delle donne non può essere sbrigativamente ridotto allo scambio utilitario tra il narcisismo dell’autore e il voyeurismo di chi legge e guarda. Si tratta sempre di confrontarsi con un disequilibrio millenario nella narrazione e nello sguardo, e poi che il personale sia politico, nonostante l’abuso dell’espressione, è un fatto che non può essere ancora riposto nel cassetto dell’ovvio.
Sul piano del linguaggio, le autrici qui in evidenza sono – a diverso titolo ma almeno in questo piuttosto rappresentative – fumettisticamente impure. Vale a dire, in primo luogo, che per loro il fumetto è un linguaggio artistico possibile, magari d’elezione, ma non il solo che sono interessate a praticare. Un approccio più “laico” e meno maniacale, che non vuol dire meno appassionato, di quello riscontrabile nella media degli autori maschi. Le arti plastiche praticate da Aline Kominsky-Crumb o Dori Seda, quelle applicate di Tara Booth, la musica per Gènevieve Castrée, l’animazione per Lisa Hanawalt non sono attività secondarie. Analogamente, l’abbandono del fumetto da parte di Julie Doucet non è tanto il risultato di una resa creativa quanto una decisione rilevante sul piano della poetica.
In effetti, è l’idea stessa di fumetto che emerge a essere impura, naturalmente disponibile a contaminarsi con tecniche plastiche e narrative (dal collage al racconto epistolare) per produrre oggetti che la norma del fumetto si ostina a identificare, senza ironia, come ibridi o “di confine”.
Premessa storica
Il fumetto è stato – e in qualche misura è ancora – un’arte marginale, dunque potenzialmente eversiva, se non altro perché ai margini esiste lo spazio utile per l’eversione. Ma, in quanto oggetto culturale storicamente situato, è anche un ingranaggio, oramai piuttosto arrugginito, dell’industria dell’intrattenimento, vale a dire un ricettacolo degli stereotipi e uno specchio – deformato e deformante, a volte, ma sempre specchio – della cultura dominante.
Che la produzione del fumetto sia stata a lungo quasi esclusivamente affidata agli uomini è un dato inequivocabile, mentre lo sviluppo della sua fruizione è stato più articolato e attende uno studio approfondito. Una storia possibile del fumetto sarebbe quella della sempre meno lenta erosione di questo predominio, e c’è chi, come la pioniera dell’underground Trina Robbins (1938-), ha iniziato a raccontarla in un’intensa attività di saggi, recuperi ed eventi. Ma attestare la presenza femminile e testimoniarne la crescita non basta, l’obiettivo dovrebbe essere anche quello, al di fuori di una prospettiva binarista, di evolvere la visione collettiva del fumetto, riconoscere e rivalutare le crepe che in passato sono avvenute nella sua norma, dare valore alla varietà sempre più ampia di possibilità che oggi si sta aprendo.
All’inizio degli anni Settanta, negli Stati Uniti, quella che era stata una storia puntiforme di eccezioni variamente significative assume i contorni della scena controculturale. Le donne che si muovono all’interno degli Underground Comix colgono l’opportunità di una libertà creativa fino a quel momento impensabile e partecipano, pur con diverse intensità di adesione e militanza, dello spazio teorico, esistenziale e operativo del femminismo second wave.
Il primo albo antologico interamente fatto da donne, It Aint Me, Babe Comix, curato da Trina Robbins, esce a San Francisco nel 1970 per Las Gasp, il più importante tra gli editori underground. Nel 1972 cominciano la loro aperiodica pubblicazione le riviste Wimmen’s Comix, opera di un collettivo nel quale emerge per impegno militante la figura di Robbins, e Tits & Clits, diretta da Joyce Farmer e Lyn Chevli.
La misura dell’entusiasmo che caratterizza questa fase possono darla, per contrasto, gli ostacoli e le pressioni che le autrici si trovano ad affrontare: praticamente un turbine di processi di marginalizzazione tra loro intrecciati. La consueta marginalizzazione che pesa sul fumetto come linguaggio artistico e oggetto culturale, quella settoriale imposta dall’ambiente del fumetto mainstream sull’allora giovane fenomeno underground e quella operata da molti colleghi maschi che – ironicamente, distrattamente o criticamente misogini – guardavano spesso con sufficienza alle compagne di strada. Su un altro fronte, il movimento femminista aveva più di un motivo per sospettare delle giovani e militanti autrici: i soliti motivi riguardanti la gerarchizzazione delle arti, la potenzialmente ingestibile natura eversiva di cui si è detto, i contenuti che potevano prestare il fianco all’accusa di pornografia (una cosa è scrivere del “personale” e una cosa è mostrarlo a fumetti…) e magari, sul piano teorico, un sospetto generale verso il visivo che ha lungamente caratterizzato molte filosofie femministe e che rimane oggetto di discussione. La crescente temperatura del dibattito all’interno del movimento femminista si rifletteva peraltro sulle discussioni interne alle prime riviste, provocando scissioni e precisando i percorsi delle singole artiste. Non bastasse, una stretta censoria pone fine nel 1973 al periodo classico dell’underground, e le cartoonists ne fanno le spese in maniera speciale.
Disegnare nel sangue
La pubblicazione nel marzo 1972 di Binky Brown Meets the Holy Virgin Mary di Justin Green può essere considerata come data di nascita del fumetto autobiografico. L’evento, che avviene all’interno del circuito underground, segnerà un punto di svolta per molti autori, a cominciare da Robert Crumb, che aveva a sua volta ispirato la conversione al fumetto dello studente di pittura Green.
Green mette in scena i disastri che una rigida educazione cattolica provoca nella psiche del suo alter ego adolescente, una fenomenologia del senso di colpa che adotta le sperimentazioni grafiche e l’estensione dei confini del rappresentabile degli Underground Comix per metterle al servizio di qualcosa che ha il peso e l’urgenza del vissuto.
Nelle poche pagine di Binky Brown emerge quella qualità disforica del fumetto che, per decenni, era rimasta sottotraccia, coperta dalle euforie del comico e dell’avventura. È un fumetto confessionale, per usare l’aggettivo che nei decenni precedenti aveva indicato quella poesia nordamericana caratterizzata dall’esplorazione e dall’esposizione esplicita della realtà interiore e dei traumi personali. Con il termine “confessionale” indichiamo qui un approccio autobiografico nel quale lo scavo e la messa in scena dell’interiorità sono in primo piano rispetto ai fatti e alle relazioni della propria vita, così come alla realtà esterna. È un genere che si farà lentamente strada nel “decennio dell’io” per proseguire e infine esplodere nei successivi e non meno narcisisti decenni, diventando il cardine del futuro graphic novel.
In questa fase, tuttavia, l’introversione ha il potere di rovesciarsi con estrema facilità nella presa di posizione politica. È il caso di Green come di Aline Kominsky (1948-, in seguito Kominsky-Crumb), che in quello stesso 1972, sul primo numero di «Wimmen’s Comix», pubblica Goldie: A Neurotic Woman, inaugurando una serie di storie destinate a superare l’esempio di Green in radicalismo estetico e, forse, in una sua selvaggia maniera, anche politico.
In cinque pagine, AKC riassume la vita della prima delle sue alter-ego. Il punto di vista è frontale, con lo sguardo della protagonista ripetutamente puntato verso il lettore, il narrato in prima persona, la scansione in classiche vignette, che però l’autrice comincia già a mettere in crisi, come a pagina 5, dove il naso caricaturalmente pronunciato della quarta vignetta invade la terza. È il corpo che eccede, sarà un motivo di poetica costante.
Le prime parole sono “In the beginning I feel loved…”, dove la eco biblica appare carica di sarcasmo, anche in relazione alle immagini, già minacciose, che seguono, con i genitori che guardano Goldie di fatto isolata nello spazio, costretta com’è in una vignetta interna alla vignetta principale, dove la sua figura intera entra a fatica. “We made her”, dichiarano. È l’inizio di una catena di traumi, insicurezze, promiscuità e autolesionismo che termina tuttavia con un’affermazione di autostima: “I have a lotta putencial”, e con un proposito: “I set out to live in my own style”. Nel complesso e con il senno di poi, si tratta di un manifesto, il cui programma verrà rispettato con singolare coerenza negli anni successivi.
Il linguaggio visivo è già ricco di soluzioni e sicuro nelle scelte, considerando che si tratta di un esordio e che la competenza da lettrice di AKC è, in questo momento, irrisoria. Alle sue spalle ci sono naturalmente Green e Crumb e gli studi di pittura nell’orizzonte dell’espressionismo astratto, che al tempo era il mainstream dell’arte statunitense e che in tema di espressione frontale della soggettività aveva lasciato un’impronta. Il disegno di AKC è quello che allora poteva essere automaticamente identificato come “brutto”, in rapporto a una norma condivisa di piacevolezza, e anche “sgrammaticato”, in base ai codici settati sull’uso industriale del fumetto. Le proporzioni sono opzionali, mentre i volti, a cominciare da quello sempre in scena della protagonista, cambiano di vignetta in vignetta e l’equilibrio della tavola rimane precario, per quanto evidentemente mai casuale. Soprattutto, ogni sgradevolezza fisica viene amplificata senza per questo essere accolta in una nuova sintesi coerente, e dunque accettabile, come accade solitamente nella caricatura. Per quanto faccia uso della deformazione, la sua è una forma di realismo, che si affida a una linea sottile, tremolante, “tormentata” (tortured), come l’ha definita l’autrice.
In un’intervista concessa a Hillary Chute nel 2009 (Hillary L. Chute, Outside the Box. Interviews with Contemporary Cartoonists, University of Chicago Press, 2014), AKC ammette che tutti i suoi studi artistici e i suoi tentativi di controllare il gesto non sono riusciti a influenzare il modo in cui disegna i fumetti: “Sono così carica emotivamente che non riesco davvero a controllare cosa viene fuori”. Dopo aver sottolineato come la crudezza del segno sia specifica del fumetto (confessionale) e non si manifesti con la stessa violenza nella sua pittura, a una domanda diretta di Chute: “I tuoi fumetti non sono una tortura da disegnare, vero?”, risponde: “Sì. È quasi come se mi stessi disegnando nel sangue”.
Da una parte, dunque, il fare fumetti, prima ancora del risultato, viene qui eletto a strumento ideale per lo scavo interiore, uno strumento tanto forte da richiedere una misura di passività da parte dell’autrice, che si lascia guidare da un istinto specifico. In secondo luogo, è in questione prima di tutto il disegnare (comprese le parole) come parziale automatismo o latente autonomia della mano. La mano è proprio l’elemento di contiguità diretta tra il corpo e il disegno, o più precisamente tra il corpo e la sua rappresentazione, cosa che nell’autoritratto diviene particolarmente evidente ma può valere in generale. Il disegnatore si trova continuamente a dover fare riferimento al proprio corpo – anche solo per correlazione e disponibilità – nel tracciare le figure, usandolo variamente come modello e modulo. Infine, questo processo viene qui descritto con un’immagine drammaticamente carnale, che sarebbe fuorviante interpretare come esclusivamente dolorosa. In questo sangue si mescolano le due facce dell’arte di AKC: disgusto e desiderio. E se il processo può essere doloroso, l’obiettivo è il piacere, attraverso la trasmutazione del trauma coi mezzi del fumetto.
Rimanendo al livello del disegno, c’è senza dubbio un piacere liberatorio – e in qualche misura provocatorio – nella deformazione, ma ancora di più si nota nella meticolosità ossessiva, apparentemente randomica, di certi particolari e certe texture. Ad esempio, nella resa dei capelli, dove la linea sottile si moltiplica laboriosamente per creare una massa ondulata e volumetrica, laddove il resto del corpo si stacca appena dallo sfondo. E poi c’è la dichiarata ricerca del piacere, che in prima istanza è quello erotico e sessuale, che AKC pone come sfondo e obiettivo delle sue storie, dove le fantasie sadomasochistiche strutturano il quotidiano mentre il corpo è insieme origine del disagio e campo da gioco.
AKC sarebbe rimasta per poco sulle pagine di Wimmen’s Comix, vessata dalle critiche di molte compagne di strada e insoddisfatta dell’immagine idealizzata delle donne che ai suoi occhi si stava cristallizzando nella rivista: “Non voglio romanticizzare la vita, e non penso che romanticizzare le donne le faccia sentire meglio”. Soprattutto, il problema era quell’attitudine confessionale così ostinatamente perseguita e, per l’epoca, difficile da accettare. Un confessionalismo, come si è detto, disforico – tutto sbalzi, crudezze, malinconie, risate, aggressività e vergogna – che si poneva agli esatti antipodi delle eroine di Trina Robbins.
Nel corso degli anni, AKC perfezionerà i suoi errori, li renderà più precisi. Un nuovo alter ego, “The Bunch”, assumerà il ruolo di Goldie, e quel primo abbozzo di storia prenderà la forma di una vasta saga biografica che, mentre implacabilmente scava nel passato, racconta il presente, quasi il traguardo di un’educazione sentimentale, dove la rivendicazione del proprio masochismo trionfante viene offerta come un’affermazione di agentività.
Lo stile grafico evolve in funzione del corpo, sempre instabile e proteiforme nella sua rappresentazione, compresa l’occasionale presenza, all’interno del suo corpo, di un alter ego maschile, che non rovescia la dinamica della degradazione ma ne estende lo spettro. Intanto gli sfondi si riducono spesso a una sorta di sgranato occhio di bue che, cominciando da una cornice nera dai bordi della vignetta, procede verso il centro in un pulviscolo diradante di puntini: il corpo è sempre più in evidenza, quasi una sfida al lettore.
Non si tratta di trasgressione fine a se stessa, che pure è una parte costitutiva degli Underground Comix. Il gusto per la provocazione è anche una maschera, un’esca per il lettore. L’arte di Robert Crumb, compagno e dal 1978 marito di AKC, è interamente devota al suo desiderio e da esso guidata, tutto gli è subordinato. È una poetica tanto potente, e indefinitamente generativa, quanto immediatamente comprensibile. AKC naviga in acque più incerte, nella zona grigia del desiderio, dove il piacere rischia sempre di cozzare con il disgusto, dove la forza ha continuamente bisogno di confrontarsi con la fragilità e dove la vergogna diventa uno strumento di conoscenza. O meglio, non la vergogna in sé, ma l’atto di superarla ogni volta, il mostrarla, il raccontarla e il viverla in un movimento, che ambisce a essere unico, di vita-arte.
Un territorio rischioso, comunque lo si guardi: alle critiche più o meno circostanziate delle femministe si aggiungono gli insulti degli uomini. E non staremo a chiederci se questi fossero più disturbati dall’autonomia estetica del disegno o dall’affermazione perentoria di una soggettività padrona del suo sguardo, anche perché qui le due cose coincidono.
AKC, che pare veramente riuscita a “vivere nel suo stile”, alza le spalle. E il fatto di avere al fianco un gigante del fumetto, per di più accusato di misoginia, non solo non pare essere per lei un problema, ma diventa uno stimolo creativo. Aline e Robert creano insieme Dirty Laundry Comix, progetto aperiodico dove ognuno disegna se stesso e insieme raccontano la loro provocatoria, potenzialmente imbarazzante e in definitiva tenera quotidianità. Ancora, più che le storie, è la strana armonia che si crea tra i due segni teoricamente incompatibili, ognuno un corpo nello stesso spazio condiviso, che stabilisce e racconta la relazione. I due desideri, per via del disegno narrativo, s’intrecciano.
Mettere il corpo sulla pagina, seguendo l’espressione di Hillary Chute (Hillary Chute, Graphic Women. Life Narrative and Contemporary Comics, Columbia University Press, 2010), è per AKC un processo di liberazione orientato verso l’esterno, non una semplice terapia, ma qualcosa che chiede di essere condiviso. Per i lettori di qualunque genere, è un impegno che inizialmente può richiedere fiducia e tempo, ma apre numerose strade. Dove conducono?
“Dog Biscuits” di Alex Graham
Sensazione web del 2020, almeno nel limitatissimo circuito del fumetto alternativo USA, è da circa un mese uscito anche nel più tradizionale formato cartaceo Dog Biscuits di Alex Graham. Si tratta di un volume di 400 pagine reso disponibile dall’autrice sulla piattaforma di print on demand Lulu, che raccoglie integralmente il serial pubblicato in origine su Instagram. Sono sincero, pur essendo un fan della prima ora della Graham non ho seguito Dog Biscuits on line, semplicemente perché seguire un fumetto di 400 tavole serializzato su un social network mi sembra una tortura, anzi, direi una roba da inferno dantesco. E non mi venite a dire che è moderno, che è gratis, che c’è la gente che commenta (peggio!) ecc. ecc., perché tanto risponderei con due semplici parole: che palle. Ok, la pianto, che forse è ancora presto per trasformare questo sito in ciò che prima o poi diventerà: il susseguirsi dei mugugni di un vecchio lamentoso intento a ripetere di continuo che “fa tutto schifo” e che “si stava meglio prima”. Ma forse, per allora, il sito avrà anche cambiato nome (si chiamerà Fuck Indie Comics, ovviamente).
Lo dico subito per essere chiaro: Dog Biscuits è un grande fumetto, che riesce già a parlare con estrema lucidità di cosa significa vivere ai tempi della pandemia. Affrontando per altro il tema sotto molteplici punti di vista, in primis quello delle relazioni sociali, sentimentali e ovviamente sessuali. Come si fa a uscire con qualcuno ai tempi del Covid? E’ giusto frequentare più partner mettendo a rischio la salute altrui? Meglio l’astinenza o la paranoia? Domande attuali, senz’altro. Ma non solo, perché di cose attuali in Dog Biscuits ce ne sono tante e tra i temi trattati – più o meno a fondo – troviamo le relazioni tra generazioni differenti, l’identità sessuale e la fluidità di genere, la violenza delle forze dell’ordine e il movimento Black Lives Matter, le elezioni presidenziali americane. Immagino che leggere di queste cose in diretta su Instagram sia stata un’esperienza davvero strabiliante, per chi l’ha fatta. Sicuramente tra questi Simon Hanselmann, che ha consigliato a più riprese il serial facendo da cassa di risonanza per un’autrice fino a quel momento relegata all’underground puro e semplice.
La cosa che stupisce di più di Dog Biscuits è la maturità raggiunta dalla Graham. La cartoonist anticonvenzionale, istintiva, anarchica di Cosmic Be-Ing e Angloid si è trasformata in un’autrice matura, consapevole, persino ordinata, capace di raccontare con ritmo e pathos le vicende di tre cani antropomorfi e in particolare di Gussy, l’assoluto protagonista che gestisce una “boutique” di biscotti per cani. Sicuramente il fatto di serializzare la storia sui social le ha dato una mano, spingendola a scegliere un formato fisso (la tavola di sei vignette) e una regolarità di scansione che consentisse al lettore di apprezzare anche il singolo post (c’è sempre una sorta di conclusione nella vignetta finale di ogni pagina). Il risultato è limpido, tanto che il volume – se si facesse vivo qualche editore – potrebbe trovare tranquillamente la strada delle librerie di varia. Certo, il disegno non è accattivante o “carino” come prescrive oggi il mercato, però non è neanche sgraziato come in passato.
Per quanto mi riguarda, pur ribadendo il fatto che si tratta di un grande fumetto che ritroveremo senz’altro in certe classifiche di fine anno (e chissà, magari anche nella mia), mi sento in dovere di interpretare la parte dello snob. Mi aspettavo infatti grandi cose da questo libro, e sono rimasto soddisfatto soltanto in parte. Dog Biscuits manca della felice e frizzante anarchia che trovavamo in Angloid e in altre opere precedenti della Graham, ed è il tipico prodotto che ha tutti gli ingredienti giusti per piacere. Così giusti che sembrano messi lì apposta, come se ci fosse troppa consapevolezza, troppa premeditazione. Come se fosse stato fatto per piacere a un certo tipo di pubblico. Dicevo un paio di anni fa presentando Angloid agli abbonati del Buyers Club: “Angloid è un libro profondo, che viene da dentro, nato da un’autrice ai massimi della sua ispirazione. Mi ha ricordato, fatte presenti le debite differenze e proporzioni, Agony di Mark Beyer, ma forse è più che altro perché iniziano entrambi con la A. Con Beyer la Graham condivide di certo il suo essere evidentemente off, proponendo un cartooning tutto suo, apparentemente poco o per niente meditato ma che appare pagina dopo pagina perfetto, equilibrato, denso seppur ironico, poco pretenzioso, persino umile. La densità è ciò che più colpisce in Angloid, il suo aspetto crudo fatto di un minuzioso quanto scombinato tratteggio incrociato, le sue pagine dense di vignette e di testo che rimandano alla tradizione underground di antologie post-Sixties come Wimmen’s Comix e che niente fanno per facilitare il compito del lettore, stordendolo piuttosto con idee, contenuti, spunti a non finire”. Ecco, forse è proprio questo il punto. Angloid era un libro che comunicava pur non facendo niente per andare incontro al lettore, mentre Dog Biscuits va decisamente incontro al suo pubblico, lo cerca in maniera ossessiva. E’ un fumetto che chiede disperatamente attenzione. Non a caso è stato serializzato su Instagram, dove il successo si misura a “mi piace”.
A proposito di essere snob, concludo dicendovi che comunque Dog Biscuits è molto meglio di quasi tutto ciò che esce in Italia al giorno d’oggi. E vale la pena leggerlo, perché tra una vignetta e l’altra vengono dette tante cose vere e intelligenti. E perché al momento nessun altro fumetto parla dell’attualità in modo così autentico. Lo potete fare ordinandolo su Lulu, che ve lo spedisce a casa direttamente dall’Europa, in modo da evitare lunghe attese, spese di spedizione esagerate, dogana. L’edizione non è male, pur essendo un print on demand: buoni gli interni, un po’ meno la copertina che ha bei colori ma è troppo sottile. Ma insomma è un difetto secondario, cercate di passarci sopra. Non fate gli snob.