Mi considero più uno stronzo che un esperto di fumetto giapponese, per farvi capire quanto poco ci capisco di fumetto giapponese (o quanto sono stronzo). Tuttavia sono in grado, se non sempre almeno spesso, di capire se una cosa mi è piaciuta o meno. E Un ragazzo gentile di Shin’ichi Abe, in uscita il 12 settembre per Canicola, è un fumetto bellissimo, che dovrebbe meritare tutta la vostra attenzione. Elenco dunque un po’ di informazioni che ho appreso tra materiale stampa, biografia dell’autore e quarta di copertina del libro. Abe è considerato uno dei principali esponenti del watakushi manga, genere incentrato sull’esplorazione di sé, oltreché il maggiore erede di Yoshiharu Tsuge. I racconti contenuti in questo volume sono stati pubblicati nelle riviste Garo e Young Comic tra il 1970 e il 1973, ad eccezione dei conclusivi Vita Privata (Shūkan Manga Times, 1976) e Miyoko, l’aria di Tagawa (ancora Garo ma nel 1994). L’atmosfera bohémien, le scene di sesso al limite della molestia, l’alcolismo autodistruttivo rappresentano sicuramente i temi ricorrenti ma non sono il vero punto, perché a emergere in maniera prevalente è un senso di impermanenza, inadeguatezza, incomunicabilità. La narrazione è sempre esilissima, quasi scompare tra vuoti e silenzi. Un racconto come Il Gatto sembra una scena di un film di Antonioni, con i personaggi muti che quasi non riescono a guardarsi negli occhi. Altre volte emergono situazioni più sostanziali, come la necessità di un aborto o un tentativo di suicidio, ma senza che l’apice drammatico venga effettivamente messo in scena.
Al centro della gran parte delle storie, anche quando le stesse vestono i panni della fiction, c’è la biografia di Abe, le prime prove da mangaka, il suo trasferimento a Tokyo, l’alcolismo, il ritorno in provincia. Tutto ciò insieme a Miyoko, la donna che lo accompagna nei suoi spostamenti e di cui spesso conosciamo il punto di vista, con trovate narrative d’avanguardia. Stilisticamente la prima parte del volume stupisce per la presenza invadente dei neri, che dominano la scena. Ci sono alcuni racconti, come Spalle leggere, in cui c’è una netta opposizione tra la semplicità con cui Abe rende i corpi umani e l’accuratezza degli sfondi, sia interni che urbani: sfondi così affascinanti che ricordano le stampe giapponesi e che ci si ferma a guardare interrompendo l’incedere della storia, nello stesso modo in cui ci si incanta davanti ai palazzi nei fumetti di Tardi. La presenza o l’assenza della luce è resa così bene da risultare accecante o, a seconda dei casi, tanto oscura da permeare il cuore dei personaggi, in pagine di incredibile potenza. Abe ricorda senz’altro il già citato Tsuge, con cui condivide una composizione della pagina rigorosa e matura, mentre risulta meno equilibrato del suo collega nella linea, che è più discontinua, libera, adattandosi al contenuto delle storie. Gli ultimi tre racconti mostrano un approccio sostanzialmente diverso rispetto al resto del volume, con l’utilizzo dei grigi e di forme che abbandonano gli spigoli per arrotondarsi. Il tratto diventa quasi underground e in alcuni passaggi sembra addirittura diluire gli inconfondibili connotati geografici, fino a perdere di vista le proporzioni nell’ultima storia datata 1994. Un ragazzo gentile alla fine lascia scossi, turbati, affascinati, emozionati, e si rivela un’altra grande riscoperta del fumetto giapponese d’autore. Non fatevelo scappare.