In questo nuovo appuntamento con la solita rubrica di segnalazioni varie recupero un po’ di albi usciti tra fine 2016 e inizio 2017 di cui non sono riuscito ancora a parlare.
NOTA: Alcuni di questi fumetti potrebbero essere in vendita nel negozio on line di Just Indie Comics. In questo caso il link sul titolo vi porterà direttamente alla relativa pagina del negozio. I miei giudizi cercheranno di essere comunque obiettivi, ammesso che ciò sia possibile. Buona lettura.
Parto a razzo con la prima uscita della linea All Time Comics della Fantagraphics, in cui cartoonist contemporanei come Josh Bayer (curatore del progetto), Benjamin Marra e Noah Van Sciver si uniscono a colonne della Marvel anni ’70-’80 come il compianto Herb Trimpe e Al Milgrom per creare una serie di albi ambientati in un fantomatico universo fumettistico. Qui avevo già detto qualcosa a proposito. Nel frattempo mi è finalmente arrivato questo Crime Destroyer, un albo storico se si pensa che è l’ultimo fumetto realizzato da Trimpe (inchiostrato da Marra) prima della sua scomparsa. La storia, a firma Josh Bayer, racconta di un reduce di guerra che decide di combattere il crimine mettendosi un costume con due pugni giganti sulle spalle e che beve tè mentre si informa sul rapimento di una giovane ragazza da parte di deformi abitanti dei tunnel della metropolitana. Tutte facezie che erano all’ordine del giorno nei fumetti Marvel di quarant’anni fa e che ritroviamo in quello che vuole deliberatamente essere un qualsiasi numero di una qualsiasi serie di supereroi dell’epoca. L’aderenza al modello è totale e se vi aspettavate trasgressione o un po’ di violenza in più perché siamo nel 2017 e pubblica Fantagraphics no, non c’è neanche quella. Persino la carta, i colori e il lettering (a opera dello storico letterista Marvel Rick Parker) riprendono lo stile degli anni che furono. Vi piacerà o no? Dipende se siete o siete stati fan del genere. Io ovviamente sì e per me è una goduria assoluta avere tra le mani la riproduzione esatta dei fumetti che mi hanno fatto veramente innamorare di questa forma d’arte. Per il resto la storia di Crime Destroyer è piuttosto esile e pretestuosa ma magari dalle prossime uscite (in programma più o meno mensilmente) si vedrà anche qualcosa di più. E il sottotesto politico, a sua volta in tono con certe produzioni supereroistiche anni ’70, lascia ben sperare.
Proseguiamo questa rassegna con un paio di albi targati Retrofit Comics, a partire da Our Mother di Luke Howard, per me una delle più belle sorprese degli ultimi tempi, una storia su una madre con disturbi d’ansia e attacchi di panico declinata in modo metaforico e tutt’altro che diretto. Non c’è un vero e proprio dramma in queste pagine né dettagli autobiografici ma piuttosto una serie di storie che raccontano, si interrompono e riprendono, a volte omettendo passaggi ed episodi. Si inizia con due genitori che assoldano un losco figuro dandogli l’incarico di procurare qualche tipo di disordine alla figlia in nome di un’oscura tradizione di famiglia e si prosegue con sconosciuti che si materializzano nel salotto di casa, avventure fantasy, robot, animali da laboratorio e altro ancora. Howard, già visto all’opera con Talk Dirty to Me pubblicato da Adhouse Books, si conferma come una delle migliori voci uscite dal Center for Cartoon Studies e non solo, consegnandoci un albo perfetto per narrazione e anche ricerca stilistica, molto vario nel segno e nell’utilizzo delle tecniche narrative. Peccato averlo letto soltanto a 2017 iniziato da un pezzo perché sarebbe entrato di diritto nella mia lista dei migliori fumetti del 2016. Ma tanto chissenefrega delle maledette liste. Sempre da Retrofit arriva la più recente fatica di Anya Davidson, cartoonist chicagoana già nota per School Spirit uscito per PictureBox e per il più recente Band for Life pubblicato da Fantagraphics. Albetto brossurato di dimensioni anche importanti (64 pagine), Lovers in the Garden è ambientato a New York nel 1975 e sviluppa a ritmo incalzante una trama che potrebbe essere uscita da un film di quegli anni o anche di Tarantino, Jackie Brown in primis. Traffici di droga, reduci del Vietnam, giornalisti, doppi giochi e sparatorie sono gli ingredienti di quella che potrebbe sembrare una classica gangster story e che invece è innanzitutto il racconto dell’amicizia tra due uomini. Lo stile della Davidson fa il resto e unendo l’uso delle matite colorate a una linea rigida e legnosa rende alla perfezione il passaggio dalla psichedelia al punk che stava avvenendo in quegli anni.
Pubblicato da un’altra casa editrice statunitense, la Hic & Hoc, Foggy Notions è un albo di 36 pagine in bianco e nero in cui l’autrice November Garcia utilizza una linea scarna, pagine costruite in modo banale e un lettering goffo e ingombrante per raccontare vicende poco significative e neanche troppo divertenti, tra lavori sfigati, vita di quartiere, malintesi con le forze dell’ordine. Insomma, Foggy Notions è un fumetto fantastico, di quelli che leggerei e rileggerei senza mai stancarmi, soprattutto grazie alla capacità dell’autrice di raccontare con scorrevolezza, acume e disincanto il suo quotidiano. Ciò che lo differenzia da produzioni simili ma meno riuscite è la capacità di creare uno stile proprio e ben definito, in cui tutto è al proprio posto, e di portarlo avanti fino alla fine con la convinzione che solo i testardi sono in grado di avere. E poi la faccia sempre perplessa e disorientata della protagonista, con quegli occhi grandi e la bocca segnata dalle smorfie, valgono da soli il prezzo del biglietto. Altra recente uscita di Hic & Hoc è Dad’s Weekend di Pete Toms, cartoonist californiano che unisce la sua linea pulita e ordinata a colori piatti e tenui. Ne viene fuori uno stile algido, perfetto accompagnamento per il clima di costante paranoia che si respira nei suoi fumetti. Whitney è un’adolescente che deve passare un fine settimana con il padre, fissato con le sette e le teorie della cospirazione. Quando un suo amico scompare misteriosamente, l’uomo coinvolge la figlia in una ricerca che ben presto diventa un viaggio nella sua malattia mentale, in un’escalation di disagio e imbarazzo. O forse ci sono davvero di mezzo Venusiani e Rettiliani? Coeso e lucido come capita di vedere poche volte, Dad’s Weekend fa categoria a parte in un mondo dei fumetti in cui spesso storie di questo genere si risolvono con una strizzata d’occhio e un sorrisetto furbo al lettore. Lo sguardo di Toms è invece serio e deciso, fino al punto da risultare drammatico. Peccato per i troppi e inflazionati riferimenti al mondo dei social network, ma forse il problema è mio che mi piacciono le cose in cui si vedono ancora i telefoni a disco.
Realizzato per il corso Comics, Emotional Directness and Self-Doubt tenutosi nella primavera del 2016 presso la School of the Art Institute of Chicago, The Fence è l’ultimo mini-comic di Conor Stechschulte, autore di The Amateurs, Generous Bosom e Christmas in Prison, di cui gli affezionati lettori di Just Indie Comics dovrebbero sapere abbastanza. Si tratta di sole 8 pagine realizzate con l’acquerello che non si discostano da quanto visto finora, sia per contenuti (ancora il controllo, un futuro indefinito, la natura e l’acqua) che per scelte stilistiche (e in questo senso l’opera più vicina è senz’altro Glancing, di cui avevo detto brevemente in questo Best of 2014). Ma non c’è da stupirsi, perché ogni opera di Stechschulte richiama le altre, in un gioco di riferimenti e autocitazioni che non è mai noioso ma va a costruire un mondo e una poetica. Non vi rivelo altro perché la storia è brevissima e se vi capiterà di leggerla è bene che lo facciate senza avere preconcetti, per cui mi limito a dirvi che ci sono degli uomini costretti a lavorare tutto il giorno, paesaggi incontaminati, un recinto che è impossibile superare e… apparizioni. Stechschulte continua a parlare un linguaggio misterioso, irrazionale e intuitivo, in cui non tutto è perfettamente intellegibile ma in cui niente è fine a se stesso.
Chiudo segnalandovi due nuove uscite di Steven Gilbert, cartoonist canadese a cui ho dedicato quasi un anno fa una lunga intervista e che ora dopo anni di autoproduzione sotterranea sta per pubblicare il suo primo fumetto ufficiale con l’edizione italiana di Colville, in uscita per Coconino. E proprio a Colville guarda Riverdale, mini di sole otto pagine in cui Gilbert rilegge la sua opera principale come se fosse un fumetto della Archie Comics, cambiandone ambientazione e personaggi. Ne viene fuori una divertente auto-parodia che decostruisce le vicende del modello originale con sintesi a dir poco estrema. Port Stanley segna invece il ritorno del nostro allo stile e ai personaggi dei suoi primi rarissimi fumetti come I Had a Dream e Gardenback. Mini-comic di 40 pagine in bianco e nero quasi completamente muto (c’è un solo balloon con la domanda “Up?”), segue gli spostamenti nello spazio di una figura spesso indefinita, intenta a saltare, correre, guardarsi intorno. Sembra un fumetto sperimentale degli anni Zero ma in realtà Gilbert queste cose le faceva già da prima, infischiandosene di trama, coerenza narrativa, contenuto. Ed è bello vederlo tornare a quelle atmosfere e farci così assistere a un ritorno a casa del suo protagonista, come se fosse finalmente l’ora della liberazione dopo anni di vagabondaggi, di torture e infine di limbo dovuto alla lunga inattività del suo demiurgo. Che ci sia tra le righe qualche riferimento autobiografico, vista la lunga pausa di Gilbert e il suo ritorno in pianta stabile alla produzione fumettistica? Difficile rispondere, ma a confermare il nuovo slancio creativo del cartoonist canadese c’è anche l’uscita del secondo volume di The Journal of Main Street Secret Lodge, che unisce illustrazioni, testi e storie a fumetti a tema Newmarket, la cittadina dell’Ontario in cui Gilbert vive e gestisce il suo comic shop. Niente male per uno che sembrava aver messo definitivamente la matita nel cassetto.