Mettere il corpo sulla pagina/2

Si conclude il saggio di Alessio Trabacchini tratto da Prendere posizione. Il corpo sulla pagina, catalogo del festival BilBOlbul 2020 che è possibile acquistare a questo link. Qui trovate invece la prima parte dell’articolo. Buona lettura.

Phoebe Gloeckner, Autoritratto con pemphigus vulgaris (1987)

 

Costruire, distruggere, sognare

La centralità della presenza corporea, l’utilizzo autoterapeutico della narrazione disegnata e un esempio particolarmente consapevole ed efficace dell’uso della self-deprecation come strumento di affermazione di sé. Queste caratteristiche distinguono l’opera di Kominsky-Crumb da quella di molte tra le iniziali compagne di strada, dove la questione del corpo viene nondimeno consapevolmente affrontata, ma con diversi esiti. Le eroine disegnate da Trina Robbins (analogamente a quelle reali da lei studiate) hanno l’obiettivo di riposizionare le donne sul piano del fumetto. Si tratta per lei di lavorare su figure tipiche, rinnovare i miti. Più che distruggere gli stereotipi, l’intenzione sembra quella di farli slittare verso archetipi utili a un percorso di emancipazione.

Melinda Gebbie (1937-), per fare un altro esempio, condivide alla base il programma di Robbins per un rinnovamento della figura femminile in chiave mitica, ma ne sposta il campo dalla luce piena della collega a un territorio di lampi e tenebre, il campo di un desiderio incontrollato e di un disordine famelico. Il corpo ritorna con prepotenza, mentre in Robbins appare come depurato, ma l’intento dell’apollinea Robbins e della dionisiaca Gebbie rimane la creazione di modelli femminili forti, che attacchino frontalmente la tradizione patriarcale del fumetto. La via di Kominsky-Crumb è inizialmente marginale e marginalizzata – a chi può interessare la vita privata di una ragazza qualsiasi, per di più mostrata in quel modo? – , ma diventerà la strada maestra del graphic novel e, in generale, del fumetto non seriale.

Già nella generazione immediatamente successiva, diverse autrici seguono la direzione tracciata da AKC, come Dori Seda (1951-1988), giunta al fumetto dalla pittura e dalla scultura. Nel suo caso, è il gesticolare ampio e disarmonico della protagonista che scuote uno stile grafico piuttosto tradizionale, con i contorni definiti, le ombre portate e un realismo mimetico solidale con la sintesi del cartoon. Il gesto caricato dona qui la misura emotiva del fumetto, ma diventa anche spesso il principio ordinatore della tavola, che sembra assemblarsi attorno ai movimenti della protagonista, sempre in scena. In altre parole, è il corpo che regola (non subisce) caoticamente lo spazio. Sincera provocazione e divertimento esibizionistico che nelle ultime storie assumeranno una direzione chiaramente politica, dove la sincerità risiede in una disponibilità dialogica verso il lettore, disponibilità che si manifesta nelle parole, ma che comincia proprio nel disegno. Qui, il mimetismo dettagliato di Seda si allontana dalla brutalità grafica di Kominsky-Crumb come dal grottesco armonico e rifinito di Crumb per affidarsi a un gesticolare inquieto, sempre in sovraccarico di energia vitale e autodistruttiva: la conquista dello spazio come guerra e come gioco.

Dori Seda, Cleanliness is next to dogliness!!, Weirdo #18 (1986)

Phoebe Gloeckner (1960-) arriva al fumetto molto presto, negli anni della sua traumatica adolescenza. Contemporaneamente, si dedica all’illustrazione medica, che diventa nelle sue mani un esercizio di crudeltà grafica praticato sulla forma e le funzioni del corpo, specificatamente femminile. Nelle illustrazioni per La mostra delle atrocità di James Ballard (RE/Search, 1990), la presunta asetticità dei corpi in sezione accoglie azioni di natura sessuale: erotismo disturbante e ironia freddissima che si accompagnano bene alle suggestioni ballardiane, ma spingono oltre. L’Autoritratto con pemphigus vulgaris (1987) che apre Vita da bambina, esposizione dei traumi vissuti durante l’infanzia e l’adolescenza, vale come prefazione. Porta in collisione i due sguardi oggettificanti sul corpo femminile – dell’arte e della scienza – dirigendo l’attenzione, con un close-up della pustola, sul disgusto. E, mentre mima gli occhi chiusi, se ne prende gioco con un ambiguo sorriso che confonde il dolore con l’ironia.

La malattia è il mezzo della rivolta, e Phoebe Gloeckner ha definito la pratica autobiografica da lei utilizzata come un processo di autodistruzione, contestando l’identificazione con il suo alter-ego Minnie e descrivendolo piuttosto come un processo di sostituzione: “The process is destructive – I must die so that Minnie can live”. La cura (attraverso l’arte) e il sacrificio (per l’arte?) si trovano così in sovrapposizione, mettendo in dubbio la funzione salvifica del racconto sul piano narrativo, ma soprattutto su quello visuale, dove la deformazione cartoonesca innestata su un illusionismo quasi fotografico, la focalizzazione oscillante e l’alterazione delle proporzioni rendono incerta la mappatura del corpo e disorientano lo sguardo e la lettura. L’autobiografia disegnata prenderà, in generale, altre e più comode direzioni.

Nell’opera della canadese Julie Doucet (1965-), una delle fondamentali figure-ponte tra l’eredità dell’underground e l’attuale dominio dell’autofiction, si fondono suggestioni americane e francofone. Nella serie di albi Dirty Plotte, che raccoglie le sue storie dal 1988 al 1998, Doucet mescola comicità e angoscia, volgarità ostentata e una malinconia sottile che avvolge le cose. Anche in questo caso un’influenza crumbiana può sembrare evidente, tanto da portare la storiografia (che spesso nasconde una sorta di criptomaschilismo dietro il nazionalismo palese) a oscurarne altre non meno limpide e chiarificatrici, come, per citarne una, le visioni della francese Nicole Claveloux. In ogni caso, al di là delle fonti d’ispirazione, il percorso di Doucet dalle prime autoproduzioni fino al proclamato abbandono del fumetto – dunque tra la fine degli anni Ottanta e i primi Duemila – ha portato il linguaggio in territori inesplorati. Il suo approccio al racconto di sé – mosaico di intimismo, provocazione, onirismo e fantasticheria – offre una mappatura del corpo e delle sue opzioni profonda e articolata (per approfondire: Anne Elizabeth Moore, Sweet Little Cunt, Uncivilized Books, 2018).

Generalizzando un po’ brutalmente, l’autobiografia confessionale può essere orientata dalla ricerca dell’identità o dall’affermazione del desiderio: l’una definisce l’altro o viceversa. Doucet sembra scegliere la seconda opzione: Julie attraversa il quotidiano, l’onirico e il simbolico venendo volta per volta ridefinita dal contesto e dalle sue azioni, il genere e il sesso vengono continuamente messi in questione, con l’alter ego disegnato dell’autrice che sperimenta a più riprese l’opportunità di avere un pene, oppure si diverte a scompigliare gli stereotipi della mascolinità. Ma è anche il piano della realtà a essere instabile: uno spazio sporco e rigoglioso, ora confortevole ora carico di minacce inquietanti, brulicante di oggetti pronti a prendere vita.

Julie Doucet, Regret, Dirty Plotte #6 (1991)

L’intimità che nasce dal contatto con la mente della protagonista, illuminata anche negli angoli che di solito si preferisce lasciare in ombra, convive con la cruda rappresentazione di una violenza che aleggia tra le cose e incombe sui corpi, sul suo. Un corpo che, a cominciare dal piacere di disegnarsi, reagisce e desidera. Ma la manifestazione del desiderio non è l’autogratificazione crumbiana, non è un gioco neutro della fantasia: è la battaglia quotidiana per la conquista della propria agentività, è una performance che si mette in scena pagina dopo pagina dentro e contro le condizioni sociali avverse. In questa incarnazione dell’autofiction disegnata, il corpo è un insieme di abilità, non ha confini precisi, è fragile e malleabile allo stesso tempo, e ogni sua parte – come ogni parte dello spazio che lo circonda – è suscettibile di rivolta.

Decorare, curare, mutare

Kominsky-Crumb, qui eletta a ideale capostipite, Gloeckner, Seda e Doucet si sono trovate nella necessità di inventare i modi per rappresentarsi e per rappresentare le donne nei fumetti. Le loro scelte – che comportano anche una ridefinizione dei concetti di bellezza, espressività corporea, presenza nello spazio – risultano ancora vitali e, soprattutto nel caso di Doucet, hanno influenzato generazioni di autrici e autori. Tuttavia, nel recente affermarsi dell’autobiografismo, si è visto con quanta facilità la rappresentazione si ricodifichi e lo stereotipo si riaffacci, così come la narrazione tenda a riadagiarsi nel convenzionale e nel consolatorio.

Ma infrangere le convenzioni e riportare il disegno alla propria originaria corporeità – sia liberandone l’istinto come Kominsky-Crumb o attraverso una più meditata strategia come Gloeckner – non è certo la sola via percorribile. C’è ad esempio quella di Lynda Barry (1956-), che, al pari di Chris Ware per quanto nettamente meno celebrata, esplora le forme e le funzioni della memoria nella narrativa disegnata. Barry ricostruisce il passato attraverso i suoi detriti in un gesto, reale e simbolico, di risarcimento della perdita e del dolore. Nella densità visiva di One! Hundred! Demons!, forse il suo libro più celebre, l’autorappresentazione è estroflessa verso gli oggetti, sparsa tra le cose: non può essere contenuta dal corpo, ma vive nella cura con cui sono dislocate le cose che tocca e ricorda.

O ancora, agli antipodi della brutalità espressiva di Kominsky-Crumb, c’è la tensione decorativa di Geneviève Castrée (1981-2016), disegnatrice e musicista, discendenza diretta della connazionale Julie Doucet. Castrée decora il segno nelle storie brevi – fatte di pause, ellissi, rime visive – e anche nell’autobiografico Susceptible, storia della sua crescita al fianco della madre dipendente dall’alcol e dalle droghe. E “decorazione” sembra il termine più adatto anche se poggia sul gradino più basso nella gerarchia delle arti occidentali, come qualcosa di alieno alla struttura e all’ipotetica essenza di un oggetto. La parola non indica qui l’orpello ornamentale, ma un consapevole e articolato atto di risignificazione del trauma. Anche se si pone il compito di curare le ferite del passato, l’autobiografismo di Castrée è coniugato al presente: privo di nostalgie, condanne o assoluzioni, procede con lo stupore dell’infanzia che racconta e punta a liberarsi del suo peso. Ma è prima il disegno che dà linfa alla storia, con le figure umane racchiuse da una linea netta, i gesti un po’ scomodi, marionette in cerca di una loro armonia. La linea vale come strumento di comprensione, nel senso che racchiude e aspira alla chiarezza, secondo la lezione di Hergé, e a una ricerca di bellezza nuova e da condividere. La stessa volontà coinvolge corpi, spazi e lettering: una calligrafia sottile che, come un parlare sottovoce, costringe il lettore ad avvicinarsi.

Geneviève Castrée, Susceptible (2012)

Ridefinire la bellezza e rivendicare la bellezza appaiono questioni sempre più centrali. Particolarmente emblematico è il caso della statunitense Tara Booth (1988-), artista che spazia dalla pittura al fumetto fino alla creazione di pattern da indossare e che dichiara programmaticamente l’intenzione terapeutica della sua creatività. L’autrice disegna se stessa ostentando una canonica bruttezza: sproporzionate le membra, goffe le posture, deformati i tratti del volto, mentre nelle storie, brevi tranches de vie, intimismo, comico e disagio quotidiano procedono abbracciati. Ma l’effetto è opposto, con la composizione e la vitalità del tratto che, al di là dell’evidente autoironia nel raccontare le angosce personali, comunicano vera gioia visiva e partecipazione. Soprattutto nel colore, Booth esalta le qualità terapeutiche della decorazione, riscontrabili nei risultati come nel processo: pattern costruiti strato dopo strato alla ricerca della giusta, singolarmente armonica, combinazione di forme e di toni.

Tara Booth, How To Be Alive (2017)

Si può andare oltre. Lisa Hanawalt (1983-), autrice celebre se non altro per la collaborazione alla serie Bojack Horseman, ha portato ad un nuovo livello la tradizione zoomorfista del fumetto, facendone il campo di un’incessante oscillazione dell’identità. Nelle sue pagine – che slittano secondo necessità dal fumetto al racconto illustrato, dal fantastico puro al diarismo diretto – la trasmutazione fisica o nei comportamenti dall’umano all’animale si accompagna all’instabilità dello stile, in perenne fibrillazione tra il realismo e l’astratto. Per certi artisti l’ossessione è la sostanza dello stile, qualcosa di stabile che segna i confini della loro lingua e gli dà sapore e direzione. Per Hanawalt, il principio ordinatore è un interesse di tipo feticistico che si concentra sempre sul particolare – si tratti di storie, reportage, divagazioni, illustrazioni – assecondando, per parafrasare il titolo di una sua raccolta, uno sguardo sporco e scemo.

È, alla base, una ricerca del piacere, libera e non per questo meno attenta e politicamente responsabile. E la figura dell’autrice? Quando le capita di disegnare se stessa, Hanawalt lo fa sempre in maniera diversa, senza una sintesi, quasi con informale disinteresse, a meno che non scatti l’identificazione equina, la sua ossessione primaria: “dagli otto ai quattordici anni sono stata un cavallo”, “I cavalli sono il mio interesse principale”. Ma la sua non è una proiezione né una maschera o una metafora. è l’impronta del desiderio, come se Hanawalt volesse essere un cavallo.

Lisa Hanawalt, My Dirty Dumb Eyes (2013)

Nel fumetto contemporaneo, più facilmente al di fuori dell’area del graphic novel, le modalità di rappresentazione del corpo finalmente sono esplose. Cadono, in particolare gli scarni ma rigidi codici che costringevano nello stereotipo i corpi delle donne, ma anche gli schemi di una rappresentazione binaria del sesso/genere. Nell’interzona dove convivono realismo e astrazione, il disegno è lo strumento perfetto per scompaginare i dualismi e, se ogni rottura del codice si presta a essere codificata, si crea lo spazio per nuove rotture.

La carrellata di autrici successive all’esperienza pionieristica di Aline Kominsky-Crumb vuole rendere conto di alcune di queste rotture e di un’epoca in cui ci si interroga in profondità sulle modalità della sua rappresentazione, sulle sue radici culturali e discriminanti, sulle sue conseguenze politiche ed esistenziali. La domanda non dovrebbe però riguardare il modo in cui si “devono” rappresentare i corpi sulla base di nuove e più inclusive categorie, anticamera di nuovi stereotipi, ma i modi in cui si “possono” rappresentare i corpi per impedirne la codifica, per aprire spazi sempre nuovi al nostro sguardo.

Alla domanda sulle influenze nel suo modo di disegnare le donne, Lale Westvind, geniale creatrice di mondi futuri e possibili, risponde: “Disegno le donne nel modo in cui vorrei fossero state disegnate nei fumetti quando ero bambina. Ero così invidiosa del modo in cui erano disegnati gli uomini. […] Soprattutto, forse perché sono più androgini, amavo i personaggi che avevano una testa di animale. Vedi, se hanno una testa di animale non sono ovviamente maschi o femmine” (Brian Nicholson, This Amazing Mechanism She Can Control With Her Mind: An Interview with Lale Westvind, tcj.com, agosto 2020).

Postilla

L’area geografica a cui si è fatto riferimento è limitata, con rare eccezioni, all’America del Nord. È stata certamente la scelta più facile, considerata la ricchezza del materiale disponibile, e forse la più adatta per cominciare a muoversi in un campo ancora poco esplorato. Bisogna nondimeno guardare altrove e, soprattutto con occhi diversi. Anche se autrici e lettrici si sono moltiplicate, il graphic novel “non-maschile” corre più di un rischio di essere ridotto a genere (letterario) a sé stante, confinato nella sua riserva… L’organizzazione della cultura, sovrapposta a quella della produzione, impedisce alle differenze di manifestarsi come dinamica vitale di possibilità volta per volta realizzate, servendosene invece come ulteriore occasione per diversificare i prodotti, costruire schemi, apporre etichette.

Bibliografia

  Tara Booth, How to Be Alive, Retrofit Comics, 2017

  Geneviève Castrée, Susceptible, Drawn & Quarterly, 2012

  Julie Doucet, Dirty Plotte: The Complete Julie Doucet, Drawn & Quarterly, 2018

  Phoebe Gloeckner, A Child’s Life and Other Stories, Frog Books, 1998 (ed. it. Vita da bambina, Topolin Edizioni, 1999 e Fernandel, 2007)

  Lisa Hanawalt, My Dirty Dumb Eyes, Drawn & Quarterly, 2013

  Aline Kominsky-Crumb, Love That Bunch, Fantagraphics, 1990 e Drawn & Quarterly, 2018

  Trina Robbins (a cura di), The Complete Wimmen’s Comix, Fantagraphics, 2016

  Dori Seda, Dori Stories, Last Gasp, 1999

– Lale Westvind, Grip, Perfectly Acceptable, 2020

Mettere il corpo sulla pagina/1

Pubblichiamo in questo e in un successivo post un saggio di Alessio Trabacchini che analizza il lavoro di autrici sicuramente care a chi segue questo sito. L’articolo è tratto da Prendere posizione. Il corpo sulla pagina, catalogo del festival BilBOlbul 2020. Buona lettura. 

Trina Robbins, copertina per It Aint Me Babe (1970)

Premessa teorica

Il foglio bianco è lo spazio, un campo aperto di relazioni possibili limitato da convenzioni, regole, condizionamenti. I segni che tracciamo sul foglio sono l’estensione, la dislocazione, la riorganizzazione di noi stessi nello spazio, ma anche il luogo possibile dove “noi stessi” riconosciamo la perdita del nostro confine. Il disegno, che qui consideriamo nella sua funzione narrativa, è un’opportunità e, dunque, una responsabilità.

Aline Kominsky-Crumb e le altre autrici che incontreremo per riflettere sulla rappresentazione del corpo nel fumetto inscenano modi diversi di cogliere questa opportunità, modi che sono stati scelti più in virtù del loro radicalismo che della capacità di indicare una tendenza. Si parlerà soprattutto di autorappresentazione, di autobiografia disegnata, ma questa deve essere una traccia e non un limite, nel tentativo di rendere più nitida la riflessione. Disegnare se stessi è da una parte un istinto, in qualche misura “naturale”, che va oltre il modo in cui ci vediamo, proprio per una questione di continuità con il corpo; dall’altra, comporta un esercizio di autocoscienza che può condurre chi disegna a mettere in prospettiva tutta la sua strategia espressiva.

Per comprendere la posta in gioco può essere utile, a costo di apparire stucchevoli, chiarire secondo quali relazioni i termini “disegno”, “corpo” e “fumetto” dovrebbero sostenere il discorso.

Le immagini provocano una risposta che è fisica prima che mentale, all’inverso della scrittura. Ed esistono immagini, come quelle disegnate, che sono insieme immagine e gesto: la traccia di un gesto, oppure la sua eco. Il disegno passa dunque attraverso la mano, che possiede una sua indipendenza, un suo “pensiero”.

Quanto alla separazione tra corpo e mente, così come ci è stata inculcata nei secoli, non è certo scrivendo che potremo liberarcene. Ma se ci sforziamo almeno di allentarne la presa, guardando, allora il disegno cessa di essere mera rappresentazione, il più o meno ubbidiente riflesso di noi e di quanto ci circonda, nella incessante ridefinizione del margine tra realismo e astrazione. Disegnando, e soprattutto disegnando noi stessi, possiamo guardarci, sentirci, costruirci, frammentarci, perderci, dissolverci, nasconderci, ibridarci, mutare. Vale per la mano che crea, ma anche per l’occhio che guarda, che nondimeno appartiene al corpo.

Il fumetto, semplicemente, complica le cose: mescola il racconto e l’immagine, traduce il tempo in spazio… E’ un linguaggio confuso, dove confusione è quello stato in cui non è possibile discernere l’uno dall’altro, in maniera certa e definitiva, gli elementi di un insieme. Ma è senza dubbio il disegno – che ora non si riferisce solo al tracciare linee, ma anche all’articolarsi delle figure sulla pagina – che porta nel fumetto il calore e la tensione del corpo, quella parte che può eccedere il progetto, contraddire l’intenzione oppure infonderla di vita e di verità.

Se il disegno produce corpi – ovvero rappresenta la loro produzione –, il disegno narrativo ne mette in questione l’integrità a ogni gesto. O meglio: può compiere con moltiplicata complessità tutte le operazioni sopra elencate – costruire, frammentare, dissolvere… – perché è un’arte di relazioni e di confusioni. Il senso del disegno, in misura della sua potenzialità narrativa, è che non esistono segni o figure autosufficienti. Quando ci disegniamo e/o ci raccontiamo, possiamo confermare la nostra identità oppure disporci a perderla, o quanto meno a metterla in gioco.

Nei paragrafi a seguire si farà riferimento ad alcuni fumetti, in diversa misura autobiografici, realizzati da donne. Come si è detto, le opere non sono state scelte in virtù di una loro rappresentatività delle tendenze trascorse o attuali: si tratta anzi, in più di un caso, di singolarità “eccessive”. Queste singolarità offrono inoltre un campo disponibile per interrogarci sulle differenze, sulle difficoltà e sulle opportunità di un fumetto non-maschile e femminista; dove il femminismo, se non è sempre identificabile con una volontà militante, comporta comunque la coscienza profonda di una condizione. L’obiettivo non è proporre tesi o azzardare sintesi, ma portare l’attenzione su un campo largamente inesplorato, almeno per quanto riguarda il fumetto, una forma espressiva in cui l’egemonia maschile è stata a lungo schiacciante.

Occorre forse ancora ricordare – dopo due secoli di scrittrici e qualche generazione di pittrici e di fotografe impegnate a raccontarsi e ritrarsi – che l’atto autobiografico delle donne non può essere sbrigativamente ridotto allo scambio utilitario tra il narcisismo dell’autore e il voyeurismo di chi legge e guarda. Si tratta sempre di confrontarsi con un disequilibrio millenario nella narrazione e nello sguardo, e poi che il personale sia politico, nonostante l’abuso dell’espressione, è un fatto che non può essere ancora riposto nel cassetto dell’ovvio.

Sul piano del linguaggio, le autrici qui in evidenza sono – a diverso titolo ma almeno in questo piuttosto rappresentative – fumettisticamente impure. Vale a dire, in primo luogo, che per loro il fumetto è un linguaggio artistico possibile, magari d’elezione, ma non il solo che sono interessate a praticare. Un approccio più “laico” e meno maniacale, che non vuol dire meno appassionato, di quello riscontrabile nella media degli autori maschi. Le arti plastiche praticate da Aline Kominsky-Crumb o Dori Seda, quelle applicate di Tara Booth, la musica per Gènevieve Castrée, l’animazione per Lisa Hanawalt non sono attività secondarie. Analogamente, l’abbandono del fumetto da parte di Julie Doucet non è tanto il risultato di una resa creativa quanto una decisione rilevante sul piano della poetica.

In effetti, è l’idea stessa di fumetto che emerge a essere impura, naturalmente disponibile a contaminarsi con tecniche plastiche e narrative (dal collage al racconto epistolare) per produrre oggetti che la norma del fumetto si ostina a identificare, senza ironia, come ibridi o “di confine”.

Trina Robbins, The Dread Platform Shoe Addiction of 1974, Wimmen’s Comix #4 (1974)

Premessa storica

Il fumetto è stato – e in qualche misura è ancora – un’arte marginale, dunque potenzialmente eversiva, se non altro perché ai margini esiste lo spazio utile per l’eversione. Ma, in quanto oggetto culturale storicamente situato, è anche un ingranaggio, oramai piuttosto arrugginito, dell’industria dell’intrattenimento, vale a dire un ricettacolo degli stereotipi e uno specchio – deformato e deformante, a volte, ma sempre specchio – della cultura dominante.

Che la produzione del fumetto sia stata a lungo quasi esclusivamente affidata agli uomini è un dato inequivocabile, mentre lo sviluppo della sua fruizione è stato più articolato e attende uno studio approfondito. Una storia possibile del fumetto sarebbe quella della sempre meno lenta erosione di questo predominio, e c’è chi, come la pioniera dell’underground Trina Robbins (1938-), ha iniziato a raccontarla in un’intensa attività di saggi, recuperi ed eventi. Ma attestare la presenza femminile e testimoniarne la crescita non basta, l’obiettivo dovrebbe essere anche quello, al di fuori di una prospettiva binarista, di evolvere la visione collettiva del fumetto, riconoscere e rivalutare le crepe che in passato sono avvenute nella sua norma, dare valore alla varietà sempre più ampia di possibilità che oggi si sta aprendo.

All’inizio degli anni Settanta, negli Stati Uniti, quella che era stata una storia puntiforme di eccezioni variamente significative assume i contorni della scena controculturale. Le donne che si muovono all’interno degli Underground Comix colgono l’opportunità di una libertà creativa fino a quel momento impensabile e partecipano, pur con diverse intensità di adesione e militanza, dello spazio teorico, esistenziale e operativo del femminismo second wave.

Il primo albo antologico interamente fatto da donne, It Aint Me, Babe Comix, curato da Trina Robbins, esce a San Francisco nel 1970 per Las Gasp, il più importante tra gli editori underground. Nel 1972 cominciano la loro aperiodica pubblicazione le riviste Wimmen’s Comix, opera di un collettivo nel quale emerge per impegno militante la figura di Robbins, e Tits & Clits, diretta da Joyce Farmer e Lyn Chevli.

Melinda Gebbie, copertina per Wimmen’s Comix #7 (1976)

La misura dell’entusiasmo che caratterizza questa fase possono darla, per contrasto, gli ostacoli e le pressioni che le autrici si trovano ad affrontare: praticamente un turbine di processi di marginalizzazione tra loro intrecciati. La consueta marginalizzazione che pesa sul fumetto come linguaggio artistico e oggetto culturale, quella settoriale imposta dall’ambiente del fumetto mainstream sull’allora giovane fenomeno underground e quella operata da molti colleghi maschi che – ironicamente, distrattamente o criticamente misogini – guardavano spesso con sufficienza alle compagne di strada. Su un altro fronte, il movimento femminista aveva più di un motivo per sospettare delle giovani e militanti autrici: i soliti motivi riguardanti la gerarchizzazione delle arti, la potenzialmente ingestibile natura eversiva di cui si è detto, i contenuti che potevano prestare il fianco all’accusa di pornografia (una cosa è scrivere del “personale” e una cosa è mostrarlo a fumetti…) e magari, sul piano teorico, un sospetto generale verso il visivo che ha lungamente caratterizzato molte filosofie femministe e che rimane oggetto di discussione. La crescente temperatura del dibattito all’interno del movimento femminista si rifletteva peraltro sulle discussioni interne alle prime riviste, provocando scissioni e precisando i percorsi delle singole artiste. Non bastasse, una stretta censoria pone fine nel 1973 al periodo classico dell’underground, e le cartoonists ne fanno le spese in maniera speciale.

Melinda Gebbie, Dare You Read On, Wimmen’s Comix #7 (1976)

Disegnare nel sangue

La pubblicazione nel marzo 1972 di Binky Brown Meets the Holy Virgin Mary di Justin Green può essere considerata come data di nascita del fumetto autobiografico. L’evento, che avviene all’interno del circuito underground, segnerà un punto di svolta per molti autori, a cominciare da Robert Crumb, che aveva a sua volta ispirato la conversione al fumetto dello studente di pittura Green.

Green mette in scena i disastri che una rigida educazione cattolica provoca nella psiche del suo alter ego adolescente, una fenomenologia del senso di colpa che adotta le sperimentazioni grafiche e l’estensione dei confini del rappresentabile degli Underground Comix per metterle al servizio di qualcosa che ha il peso e l’urgenza del vissuto.

Nelle poche pagine di Binky Brown emerge quella qualità disforica del fumetto che, per decenni, era rimasta sottotraccia, coperta dalle euforie del comico e dell’avventura. È un fumetto confessionale, per usare l’aggettivo che nei decenni precedenti aveva indicato quella poesia nordamericana caratterizzata dall’esplorazione e dall’esposizione esplicita della realtà interiore e dei traumi personali. Con il termine “confessionale” indichiamo qui un approccio autobiografico nel quale lo scavo e la messa in scena dell’interiorità sono in primo piano rispetto ai fatti e alle relazioni della propria vita, così come alla realtà esterna. È un genere che si farà lentamente strada nel “decennio dell’io” per proseguire e infine esplodere nei successivi e non meno narcisisti decenni, diventando il cardine del futuro graphic novel.

In questa fase, tuttavia, l’introversione ha il potere di rovesciarsi con estrema facilità nella presa di posizione politica. È il caso di Green come di Aline Kominsky (1948-, in seguito Kominsky-Crumb), che in quello stesso 1972, sul primo numero di «Wimmen’s Comix», pubblica Goldie: A Neurotic Woman, inaugurando una serie di storie destinate a superare l’esempio di Green in radicalismo estetico e, forse, in una sua selvaggia maniera, anche politico.

In cinque pagine, AKC riassume la vita della prima delle sue alter-ego. Il punto di vista è frontale, con lo sguardo della protagonista ripetutamente puntato verso il lettore, il narrato in prima persona, la scansione in classiche vignette, che però l’autrice comincia già a mettere in crisi, come a pagina 5, dove il naso caricaturalmente pronunciato della quarta vignetta invade la terza. È il corpo che eccede, sarà un motivo di poetica costante.

Le prime parole sono “In the beginning I feel loved…”, dove la eco biblica appare carica di sarcasmo, anche in relazione alle immagini, già minacciose, che seguono, con i genitori che guardano Goldie di fatto isolata nello spazio, costretta com’è in una vignetta interna alla vignetta principale, dove la sua figura intera entra a fatica. “We made her”, dichiarano. È l’inizio di una catena di traumi, insicurezze, promiscuità e autolesionismo che termina tuttavia con un’affermazione di autostima: “I have a lotta putencial”, e con un proposito: “I set out to live in my own style”. Nel complesso e con il senno di poi, si tratta di un manifesto, il cui programma verrà rispettato con singolare coerenza negli anni successivi.

Aline Kominsky, Goldie: A Neurotic Woman, Wimmen’s Comix #1 (1972)

Il linguaggio visivo è già ricco di soluzioni e sicuro nelle scelte, considerando che si tratta di un esordio e che la competenza da lettrice di AKC è, in questo momento, irrisoria. Alle sue spalle ci sono naturalmente Green e Crumb e gli studi di pittura nell’orizzonte dell’espressionismo astratto, che al tempo era il mainstream dell’arte statunitense e che in tema di espressione frontale della soggettività aveva lasciato un’impronta. Il disegno di AKC è quello che allora poteva essere automaticamente identificato come “brutto”, in rapporto a una norma condivisa di piacevolezza, e anche “sgrammaticato”, in base ai codici settati sull’uso industriale del fumetto. Le proporzioni sono opzionali, mentre i volti, a cominciare da quello sempre in scena della protagonista, cambiano di vignetta in vignetta e l’equilibrio della tavola rimane precario, per quanto evidentemente mai casuale. Soprattutto, ogni sgradevolezza fisica viene amplificata senza per questo essere accolta in una nuova sintesi coerente, e dunque accettabile, come accade solitamente nella caricatura. Per quanto faccia uso della deformazione, la sua è una forma di realismo, che si affida a una linea sottile, tremolante, “tormentata” (tortured), come l’ha definita l’autrice.

In un’intervista concessa a Hillary Chute nel 2009 (Hillary L. Chute, Outside the Box. Interviews with Contemporary Cartoonists, University of Chicago Press, 2014), AKC ammette che tutti i suoi studi artistici e i suoi tentativi di controllare il gesto non sono riusciti a influenzare il modo in cui disegna i fumetti: “Sono così carica emotivamente che non riesco davvero a controllare cosa viene fuori”. Dopo aver sottolineato come la crudezza del segno sia specifica del fumetto (confessionale) e non si manifesti con la stessa violenza nella sua pittura, a una domanda diretta di Chute: “I tuoi fumetti non sono una tortura da disegnare, vero?”, risponde: “Sì. È quasi come se mi stessi disegnando nel sangue”.

Da una parte, dunque, il fare fumetti, prima ancora del risultato, viene qui eletto a strumento ideale per lo scavo interiore, uno strumento tanto forte da richiedere una misura di passività da parte dell’autrice, che si lascia guidare da un istinto specifico. In secondo luogo, è in questione prima di tutto il disegnare (comprese le parole) come parziale automatismo o latente autonomia della mano. La mano è proprio l’elemento di contiguità diretta tra il corpo e il disegno, o più precisamente tra il corpo e la sua rappresentazione, cosa che nell’autoritratto diviene particolarmente evidente ma può valere in generale. Il disegnatore si trova continuamente a dover fare riferimento al proprio corpo – anche solo per correlazione e disponibilità – nel tracciare le figure, usandolo variamente come modello e modulo. Infine, questo processo viene qui descritto con un’immagine drammaticamente carnale, che sarebbe fuorviante interpretare come esclusivamente dolorosa. In questo sangue si mescolano le due facce dell’arte di AKC: disgusto e desiderio. E se il processo può essere doloroso, l’obiettivo è il piacere, attraverso la trasmutazione del trauma coi mezzi del fumetto.

Rimanendo al livello del disegno, c’è senza dubbio un piacere liberatorio – e in qualche misura provocatorio – nella deformazione, ma ancora di più si nota nella meticolosità ossessiva, apparentemente randomica, di certi particolari e certe texture. Ad esempio, nella resa dei capelli, dove la linea sottile si moltiplica laboriosamente per creare una massa ondulata e volumetrica, laddove il resto del corpo si stacca appena dallo sfondo. E poi c’è la dichiarata ricerca del piacere, che in prima istanza è quello erotico e sessuale, che AKC pone come sfondo e obiettivo delle sue storie, dove le fantasie sadomasochistiche strutturano il quotidiano mentre il corpo è insieme origine del disagio e campo da gioco.

AKC sarebbe rimasta per poco sulle pagine di Wimmen’s Comix, vessata dalle critiche di molte compagne di strada e insoddisfatta dell’immagine idealizzata delle donne che ai suoi occhi si stava cristallizzando nella rivista: “Non voglio romanticizzare la vita, e non penso che romanticizzare le donne le faccia sentire meglio”. Soprattutto, il problema era quell’attitudine confessionale così ostinatamente perseguita e, per l’epoca, difficile da accettare. Un confessionalismo, come si è detto, disforico – tutto sbalzi, crudezze, malinconie, risate, aggressività e vergogna – che si poneva agli esatti antipodi delle eroine di Trina Robbins.

Nel corso degli anni, AKC perfezionerà i suoi errori, li renderà più precisi. Un nuovo alter ego, “The Bunch”, assumerà il ruolo di Goldie, e quel primo abbozzo di storia prenderà la forma di una vasta saga biografica che, mentre implacabilmente scava nel passato, racconta il presente, quasi il traguardo di un’educazione sentimentale, dove la rivendicazione del proprio masochismo trionfante viene offerta come un’affermazione di agentività.

Aline Kominsky-Crumb, dall’edizione Drawn & Quarterly di Love That Bunch (2018)

Lo stile grafico evolve in funzione del corpo, sempre instabile e proteiforme nella sua rappresentazione, compresa l’occasionale presenza, all’interno del suo corpo, di un alter ego maschile, che non rovescia la dinamica della degradazione ma ne estende lo spettro. Intanto gli sfondi si riducono spesso a una sorta di sgranato occhio di bue che, cominciando da una cornice nera dai bordi della vignetta, procede verso il centro in un pulviscolo diradante di puntini: il corpo è sempre più in evidenza, quasi una sfida al lettore.

Non si tratta di trasgressione fine a se stessa, che pure è una parte costitutiva degli Underground Comix. Il gusto per la provocazione è anche una maschera, un’esca per il lettore. L’arte di Robert Crumb, compagno e dal 1978 marito di AKC, è interamente devota al suo desiderio e da esso guidata, tutto gli è subordinato. È una poetica tanto potente, e indefinitamente generativa, quanto immediatamente comprensibile. AKC naviga in acque più incerte, nella zona grigia del desiderio, dove il piacere rischia sempre di cozzare con il disgusto, dove la forza ha continuamente bisogno di confrontarsi con la fragilità e dove la vergogna diventa uno strumento di conoscenza. O meglio, non la vergogna in sé, ma l’atto di superarla ogni volta, il mostrarla, il raccontarla e il viverla in un movimento, che ambisce a essere unico, di vita-arte.

Aline Kominsky-Crumb & Robert Crumb, The Complete Dirty Laundry Comics (1993)

Un territorio rischioso, comunque lo si guardi: alle critiche più o meno circostanziate delle femministe si aggiungono gli insulti degli uomini. E non staremo a chiederci se questi fossero più disturbati dall’autonomia estetica del disegno o dall’affermazione perentoria di una soggettività padrona del suo sguardo, anche perché qui le due cose coincidono.

AKC, che pare veramente riuscita a “vivere nel suo stile”, alza le spalle. E il fatto di avere al fianco un gigante del fumetto, per di più accusato di misoginia, non solo non pare essere per lei un problema, ma diventa uno stimolo creativo. Aline e Robert creano insieme Dirty Laundry Comix, progetto aperiodico dove ognuno disegna se stesso e insieme raccontano la loro provocatoria, potenzialmente imbarazzante e in definitiva tenera quotidianità. Ancora, più che le storie, è la strana armonia che si crea tra i due segni teoricamente incompatibili, ognuno un corpo nello stesso spazio condiviso, che stabilisce e racconta la relazione. I due desideri, per via del disegno narrativo, s’intrecciano.

Mettere il corpo sulla pagina, seguendo l’espressione di Hillary Chute (Hillary Chute, Graphic Women. Life Narrative and Contemporary Comics, Columbia University Press, 2010), è per AKC un processo di liberazione orientato verso l’esterno, non una semplice terapia, ma qualcosa che chiede di essere condiviso. Per i lettori di qualunque genere, è un impegno che inizialmente può richiedere fiducia e tempo, ma apre numerose strade. Dove conducono?

Aline Kominsky, copertina per Twisted Sisters (1976)