JICBC pt. 2: “Masquerade” e “My Dog Ivy”
Al via la seconda spedizione del Just Indie Comics Buyers Club 2020, che almeno per ora riesce a superare il momento difficile che stiamo tutti vivendo. In settimana partiranno dunque i pacchetti per gli abbonati, che conterranno Masquerade di Tana Oshima e – per chi ha scelto la versione Large dell’abbonamento – anche un secondo albo, ossia My Dog Ivy di Gabrielle Bell.
Su Masquerade non mi soffermo più di tanto, dato che ne ho già parlato con toni entusiastici qualche tempo fa. Vi rimando dunque a questo post per avere qualche notizia in più sul lavoro dell’autrice di stanza a New York, che spero vi piaccia quanto è piaciuto a me. Non a caso subito dopo averlo letto ho deciso di scegliere questo albetto autoprodotto per la seconda spedizione del Buyers Club, sperando di trovare altri appassionati come me e di continuare a proporre i fumetti della Oshima in Italia attraverso la distribuzione di Just Indie Comics.
Anche su My Dog Ivy, in realtà, c’è poco da dire, dato che ho parlato più e più volte di Gabrielle Bell da queste parti e che gli abbonati “storici” del Buyers Club hanno già ricevuto nel 2017 il suo Get Out Your Hankies. Campionessa del fumetto autobiografico, l’autrice di Lucky e del recentissimo Inappropriate ha nel corso degli anni realizzato anche degli ottimi fumetti di fiction, come quelli contenuti nel mai troppo celebrato Cecil and Jordan in New York, forse uno dei miei fumetti da isola deserta (anche se la lista sarebbe lunga…). Qui la troviamo impegnata nell’autobiografia più spinta, dato che My Dog Ivy è – proprio come Get Out Your Hankies appunto – uno dei diari del mese di luglio che la Bell ha tenuto con cadenza giornaliera da qualche anno a questa parte. Se di solito troviamo la cartoonist/protagonista in quel di New York, in questa estate 2019 le vicende si svolgono a Minneapolis, a casa dell’editore di Uncivilized Books Tom Kaczynski, dove si è trasferita di per prendersi cura del suo cane (Ivy, appunto) mentre lui è in vacanza. Le vicende personali si uniscono all’osservazione della realtà circostante e a fantasticherie varie, creando quel solito perfetto mix che sono i fumetti di Gabrielle Bell.
“Sono un pavido nella vita vera”: un pomeriggio con Andrea De Franco
Meglio tardi che mai, come si suol dire. Sono passati mesi dalla terza edizione del Just Indie Comics Fest ma soltanto adesso riesco a trascrivere e quindi pubblicare la lunga chiacchierata con Andrea De Franco di sabato 19 ottobre 2019, che ha accompagnato la mostra organizzata a Roma presso Studio Co-Co. Per fortuna l’intervista non è invecchiata nel frattempo, anche perché si tratta di temi universali come il rapporto tra scrittura e disegno, il lettering, l’autoproduzione, la musica, la pre-logica, i funghi allucinogeni e la caffeina. E anche le anticipazioni sul fumetto di Andrea che uscirà prossimamente per Eris Edizioni sono rimaste tali, dato che la pubblicazione prevista inizialmente nei primi mesi del 2020 è stata rimandata a settembre e potrebbe subire un ulteriore rinvio vista l’emergenza sanitaria in corso. Prima di lasciarvi alla lettura, vi segnalo che per altre informazioni sul Just Indie Comics Fest 3 potete vedere questo post, mentre se siete interessati ad approfondire il lavoro di De Franco potete dare un’occhiata al suo sito, al webshop di De Press e alla sua recente uscita da musicista sotto lo pseudonimo Fera. Le foto migliori sono di Vittorio Antonacci, che ringrazio per la collaborazione, mentre mi scuso per la qualità delle altre, scattate di fretta con un cellulare da quattro soldi.
Gabriele Di Fazio: Allora, avevo pensato di iniziare con la tua biografia ma lascio perdere perché quella che hai scritto tu per la mostra, lì dietro sul muro, è insuperabile, come il tonno… Quindi vi invito a leggere quella, che poi è un’autobiografia in realtà, visto che l’hai scritta da solo…
Andrea De Franco: No, non l’ho scritta io… L’ha scritta la matita.
GDF: Beh beh, grande umorismo… Comunque, preparando questo incontro non mi sono limitato all’inutile sforzo di ricomporre una tua biografia ma sono anche andato indietro nel tempo cercando quello che ci eravamo scritti su Facebook quando ci eravamo conosciuti, anche se in realtà ci eravamo già conosciuti di persona ma non lo sapevamo, o forse non lo sapevo io. Ho ritrovato anche la prima cosa che hai fatto e che ti sei pubblicato da solo con il marchio De Press, che si chiama Scusa, una raccolta più che altro di disegni… Che c’è, non ti fa piacere rivederla?
ADF: No no, è che ho notato che qui c’è il primissimo logo di De Press, e quindi questa è una delle prime dieci copie che avevo fatto…
GDF: Ah, quindi è rarissimo…
ADF: Sì, vale 7 euro ma è rarissimo…
GDF: E poi c’è anche la dedica che mi hai fatto, e me lo hai anche regalato oltretutto, quindi insomma, un trionfo per me… Dicevamo appunto che in realtà ci eravamo conosciuti di persona al Ratatà del 2016 quando avevi comprato da me Safe Space #1 di Alessandro Galatola e un libro di DeForge, A Body Beneath se non sbaglio. Infatti poi su questo messaggio che ci siamo scambiati su Facebook dicevi: “Anche se penso che Alessandro sia molto più bravo di me mi sento nel suo campionato, giovani irruenti amanti del Canada peggiore”.
ADF: Davvero ho scritto questa cosa?
GDF: Sì esatto, ma non ti imbarazzare dai… Comunque con “Canada peggiore” intendevi sicuramente DeForge, Jesse Jacobs, Patrick Kyle, tutte influenze che hanno a che vedere con Scusa. Io ti rispondevo, e poi rileggendo questa risposta mi sono sentito davvero uno stronzo, “Hey Andrea, ho letto e visto tutto, la roba che fai mi piace e secondo me sei sulla buona strada per sviluppare uno stile tutto tuo e personale perché se devo trovare un difetto – che poi non so che necessità avevo di trovare un difetto ma vabbè – le tue cose sono ancora un po’ derivative”. Insomma, non so se mi hai odiato all’epoca, comunque ho usato il termine “derivativo” perché questa era ancora una prima raccolta di disegni, anche se comunque sequenziali, influenzati da artisti poi citati nelle note, come Tara Booth, Jesse Jacobs, Michael DeForge, Patrick Kyle, Olivier Schrauwen, Brecht Vandenbroucke ecc. Tra l’altro nelle note ci sono tantissimi altri riferimenti, non solo di fumettisti ma anche di artisti, musicisti, ecc. Al di là di tutto ciò, adesso vorrei capire come sei arrivato a questa prima pubblicazione, e forse mi viene da pensare che c’entra qualcosa un’altra tua biografia, che ho letto da qualche parte on line, in cui si diceva che “Andrea De Franco si costringe a disegnare ogni giorno e dal 22 giugno del 2015 non ne ha saltato nemmeno uno”. Quindi ti volevo chiedere se magari quello che è successo il 22 giugno del 2015 ha a che fare con la pubblicazione di Scusa…
ADF: Dunque, non mi ricordo dove ho scritto quella roba però è un po’ acerba, perché “si costringe a disegnare” è veramente brutto, a me piace disegnare ogni giorno in realtà, forse non mi piaceva allora, o forse facevo soltanto il tormentato… Il 22 giugno del 2015 ho intervistato Manuele Fior a Londra per un articolo che doveva uscire su un blog di una libreria pugliese, di proprietà del mio migliore amico, e lui mi disse delle cose alla Manuele Fior appunto, a proposito del disegno, dell’abitudine a disegnare sempre, del fatto che quello di disegnare è un esercizio come quello musicale. E la cosa mi ha fatto fare un clic, nel senso che ho pensato che magari disegnare ogni giorno potesse essere utile. Non a caso tutto quello che ho fatto fino al 2015 faceva schifo, perché io avevo tentato sin dal 2009, quando avevo vent’anni, di fare qualcosa che potesse essere assimilabile al fumetto, ma senza successo. Quello che cercavo di fare all’inizio era una roba alla Gipi, poi alla Chris Ware, comunque il graphic novel, anche se in realtà da ragazzino avevo letto soprattutto manga in fumetteria, e PK, tantissimi PK. Però mi piaceva l’idea altezzosa di fare questi fumetti con una scrittura “miao” e questi disegni belli, come appunto quelli di Fior, che per me è proprio l’esempio di uno che sa superdisegnare. Finché ho tentato di scimmiottare questo approccio ho fatto soltanto cose che sono finite nel cestino, e quando ho smesso ho fatto Scusa, perché venivo da Londra dove avevo intervistato appunto Manuele Fior che mi aveva ispirato con le sue parole. E questa cosa è successa all’Elcaf, un festival di Londra che per me è stato fondamentale. Io l’ho scoperto nel 2015 grazie a un docente dell’Isia di Urbino, Steven Guarnaccia – bravissimo, con cui ho fatto un corso di una settimana per me molto importante – che appunto ci disse di andare lì perché era un festival fico e lui ci faceva una mostra. Ma avevamo gli esami una settimana dopo e quindi io fui l’unico ad andare della mia classe – perché tanto ‘sti cazzi degli esami e della scuola – così mi ritrovai lì senza sapere niente, perché all’epoca mi piaceva Manuele Fior, mi piaceva Watchmen, mi piacevano cose un po’ generiche insomma, e invece lì beccai Michael DeForge, Brecht Vandenbroucke, Jillian Tamaki, la Breakdown Press, tutte cose che non sapevo minimamente esistessero, perché ero molto ignorante – e sono ancora ignorante su un sacco di cose – però andai lì e dissi proprio il classico “ah che bello, lo faccio anch’io”. Così tornai a casa e feci Scusa, che sarebbe in sostanza composto da tre storie molto labili e poi disegni disegni disegni, e avevo già pensato questa cosa arrogante – siccome Londra mi era piaciuta e mi sembrava che Londra fosse fica e l’Italia no – di farlo senza parole per portarlo poi a Londra, appunto. E infatti il primo festival che ho fatto è stato l’Elcaf dell’anno dopo, perché io i festival in Italia non volevo farli. Poi invece ho deciso di farli tutti, perché le cose che faccio e che dico non sono coerenti. E mi serviva un nome da mettere sotto, perché solo il nome dell’autore, il titolo e nient’altro sei un poveraccio, mentre nome autore, titolo, edizione di questo e quello, wow, hai un editore, e siccome mi chiamo Andrea De Franco fare De Press era troppo bello per essere vero – e mi sembrava assurdo che nessuno l’avesse fatto prima – così dissi “lo devo fare prima che lo faccia qualcun altro”. E così è nata De Press, in cui ho pian piano cominciato a coinvolgere degli amici, per un po’ è stato quasi un collettivo, poi ha cambiato varie forme, a breve farò un’altra trasformazione e la farò diventare un micro-editore, nel senso che sarò io De Press e basta. Cioè, sono ancora amico dei miei amici eh, però io faccio De Press e gli altri zitti, compratevi i fumetti e basta. E che altro, credo di aver detto tutto…
GDF: Sì sì, hai risposto sicuramente alla mia domanda direi… Comunque, riprendendo il discorso, dopo che in quel famoso messaggio ti dicevo delle cose derivative eccetera eccetera, aggiungevo: “però i fumetti sono fichi – usando proprio questo linguaggio dei giovani – e secondo me hai una voce originale in mezzo alla solita roba italiana”. E insomma vorrei sottolineare questo discorso, cioè che pur essendo una prima prova, derivativa eccetera eccetera, era comunque qualcosa di originale sulla scena italiana. E secondo me hai mantenuto questa originalità anche nei fumetti successivi, anzi l’hai aumentata e migliorata. Ciò che vedo soprattutto nel tuo fumetto è che lavori tantissimo sul disegno, che è fondamentale e non in senso virtuoso, ma in quanto unito strettamente alla narrazione. E questo succede sempre nelle tue cose, perché scrittura e disegno sono inscindibili nel tuo lavoro. A questo proposito avevo preparato all’inizio un’analisi cronologica delle cose che hai fatto ma poi in questi giorni ho visto quest’albetto qui, Giro intorno al sole, e mi sembra l’esempio perfetto per farti capire quello che intendo. Si tratta di un fumetto che hai disegnato il 23 settembre scorso da Modo Infoshop, c’è scritto proprio qui, dalle 20.21 alle 21.07, in 46 minuti. E in questo fumetto è molto importante l’elemento comico – come in molte altre tue cose – ma persino la comicità è legata al disegno, nel senso che la risata non arriva attraverso la scrittura mentre il disegno è soltanto funzionale a essa, ma avviene anche e soprattutto attraverso il disegno stesso. Di solito i fumetti che fanno ridere lo fanno con la scrittura, che ne so, se penso a Tom Gauld, che è uno che fa ridere – o almeno fa ridere me – mi rendo conto che rido quasi sempre per quello che c’è scritto, i disegni descrivono e basta, accompagnano. Invece tu hai questa dimensione grafica del fumetto – direi artistica, se mi passi il termine – che non abbandoni mai, nemmeno quando vuoi far ridere il lettore. Ed è una dimensione che non è mai una posa, non è mai fine a se stessa, anzi è molto spontanea, automatica, selvaggia. E a questo proposito vorrei capire quanto c’è di ricercato o no in queste situazioni, che tipo di mediazione fai – per esempio quando lavori a una cosa del genere in 46 minuti – tra quello che pensi e quello che disegni, quanto c’è di deciso prima e quanto quello che ottieni è invece realizzato attraverso un flusso di coscienza espresso attraverso il disegno.
ADF: Allora, il flusso di coscienza… Dunque, intanto tu fai sempre queste analisi, sei tipo una delle tre persone che capiscono veramente tutto sui fumetti…
GDF: Vabbè non esageriamo…
ADF: No no, ma è così… Comunque, questa dimensione calligrafica della mia opera… grafica, scusate il gioco di parole, c’è, è vero. Ho fatto anche delle cose con il lettering inserito successivamente, digitale, e lì sul banchetto c’è una cosa che ho solo scritto, DOGGKGKK, e per una volta – dato che non lo avevo disegnato io ma Chiara Polverini – quando lei ha finito di disegnarlo ho eliminato il testo che avevo scritto a mano e l’ho sostituito con un font, intanto perché così veniva un po’ punk e mi piaceva, e poi perché lì non c’era il mio disegno, non c’era il mio tratto ed era un’altra questione, forse si poteva fare. Invece quando lo faccio io c’è sempre questa coincidenza tra disegno e lettering, tra parola e immagine, perché nei miei 7 anni di vuoto, quando volevo essere un “graphic novelist” e non ce la facevo, la cosa che riuscivo a fare – oltre al gruppo metal, la camera oscura, le fotografie erotiche, il recensore musicale – era il calligrafo giapponese. Ho fatto un sacco di calligrafia e pensavo che sarei diventato Luca Barcellona, però più bravo… A casa ho anche un pennello comprato dalla Cina lungo 1 metro e 20. E questa cosa dell’atto della scrittura mi è rimasta, perché anche se io leggo i fumetti a caso e delle cose che mi piacciono devo sapere anche il gruppo sanguigno dell’autore, poi magari ho dei buchi enormi su altre cose interessantissime, e questo mi distingue da chi ha studiato fumetto, perché io ho studiato altro e non ho la checklist “ok, hai letto questo questo questo questo questo”. Pompeo di Pazienza per esempio l’ho letto tardissimo, ho visto il film quand’ero ragazzino e poi ai fumetti ci sono arrivato quando mi ero già trasferito a Bologna. Ero più influenzato da altro, per esempio da artisti visivi che lavoravano sul concetto che la scrittura e la creazione di immagini sono la stessa cosa, come Cy Twombly, che è il mio pittore preferito. E dunque questa relazione tra arte e scrittura è una cosa che mi porto dietro da tempo e che ho voluto mettere nelle mie cose. Io in generale sono un po’ contrario alla distinzione rigida tra fumetti commerciali e fumetti “artistici”, se così vogliamo chiamarli, perché secondo me è brutto avere un’impostazione mentale che i fumetti da fumetteria, come PK che citavo prima, fanno schifo mentre quelli che leggiamo noi che andiamo al BilBOlbul e al Just Indie Comics sono belli. Però è anche vero che i fumetti da fumetteria hanno delle meccaniche diverse, come la distinzione tra scrittore, disegnatore e letterista. E a volte il lettering lì è addirittura digitale, una cosa che mi fa quasi sempre soffrire, o è così brutto che diventa bello prendendo una sua espressività, oppure per me non ha senso guardare una cosa che ha un testo proveniente da tutt’altro ambito. Mi ricordo per esempio questo libro Marvel assurdo su Loki che sconfigge Thor, fatto da questo disegnatore famoso perché fa i dipinti a olio…
GDF: Ah, Ribić forse…
ADF: Mmm non ricordo, però era un libro (Thor & Loki Blood Brothers di Robert Rodi ed Esad Ribić, ndr) completamente dipinto con queste tavole bellissime, anatomie incredibili eccetera, e per i testi avevano usato un font di Photoshop che imita il lettering dei fumetti, con i caratteri tutti della stessa dimensione messi al centro delle vignette… E tu mi hai distrutto la vita, editore che hai deciso di fare questa cosa qua. Il caso diametralmente opposto è Pompei di Frank Santoro tradotto in italiano, con Silvia Rocchi che ha fatto il lettering, e ovviamente è una cosa che ha bisogno di un certo tipo di risorse e qualità, perché altrimenti è quasi impossibile entrare graficamente con il testo in un disegno di un altro autore. Io ho pensato di risolvere il problema alla radice usando la stessa penna per disegnare e per scrivere e quindi a volte sento il bisogno di cominciare dai testi, così faccio queste vignette vuote, con tante lettere in giro che dovrebbero essere i dialoghi e le parole, e poi da lì vedo cosa bisogna disegnare. Altre volte disegno tavole su tavole su tavole e poi ci metto il testo, perché quando ho fatto Scusa ho scoperto che se non c’è il testo dentro la gente non capisce bene che è un fumetto e io vendo metà delle copie, e invece se fai una cosa con tanto testo la gente pensa “ah, è proprio un fumetto” e lo compra. E quindi siccome io ho un’ambizione commerciale, perché la mia roba è progettata per rivolgersi al pubblico più ampio possibile e fare soldi… No vabbè, voi ridete, ma anche questa questione delle autoproduzioni sperimentali, di fare questi libri completamente come li voglio fare, senza che qualcuno possa rompermi le scatole, comprende comunque un obiettivo commerciale, per così dire. Io non voglio andare ai festival e perdere soldi, non voglio pagare il banchetto, pagare il treno, offrire la cena all’amico che mi ha ospitato e poi tornare a casa che ho speso 20 euro per vendere le mie cose. Io voglio una forma di capitalismo individuale, che considero buono, almeno quando riguarda me… In realtà è un micro-capitalismo, però secondo me ha senso, perché se tutti spendono soldi per bere, divertirsi, mangiare, eccetera non capisco perché gli autori devono essere gli unici a fare questo sacrificio di andare in perdita, sempre. Capisco che il mondo dell’editoria italiano ha questa cosa tipo “Andrete in perdita, sempre” scritto sulla porta, che tu sia Mondadori, De Press o chiunque, sanno tutti che è una situazione insostenibile economicamente. Ok, adesso questa diventa una presentazione sul realismo capitalista, però ecco, ci tengo a dirlo che bisogna venderli questi fumetti. Per esempio in questo ambito micro-capitalista funzionano bene le cose piccole che faccio, tipo Giro intorno al sole. Quando l’ho disegnato ero nel laboratorio di Modo Infoshop a Bologna, vicino alla stampante laser che stava stampando altre cose mie. E sapevo di avere poco tempo, per quello ci ho messo 40 minuti. Appena l’ho finito ne ho fatte un po’ di copie e quando sono uscito da Modo c’era una serata che coinvolgeva molti giovani fumettisti… E così ho venduto 15 copie semplicemente dicendo agli amici “Hey, ho appena fatto questo”. Avrò fatto circa 15 euro e con quei soldi ho bevuto qualcosa oppure ho preso un libro in libreria – ora non mi ricordo – e ok, i soldi sono finiti subito, ma comunque ho creato qualcosa dal nulla. E questo è il lato bello dei soldi, che si trasformano in cose. Quindi l’obiettivo, alla fine della fiera, è cercare di fare ciò che voglio fare, divertirmi, vendere e spendere subito tutti i soldi che faccio.
GDF: Bene, abbiamo dunque scoperto che in qualche modo questi sono fumetti commerciali…
ADF: Forse potremmo dire commerciabili…
GDF: Ok, commerciabili… Poi ne hai fatti veramente tanti, qui ne ho un po’ da far vedere, ma non sono neanche tutti. Questo è un altro dei primissimi, il secondo che hai fatto credo, Errata corrige, poi hai fatto questo Immaterial Issues per l’Elcaf, una specie di albo illustrato con testi stampati e in inglese, quest’altro è una chicca che non si trova più con foto fatte con un cellulare con la fotocamera rotta e insomma tantissime cose e tantissime idee, in poco se non pochissimo tempo. Mi ricordo una volta che ci siamo visti a Treviso e ho comprato un fumetto e mi hai detto “questo l’ho fatto stanotte”. Comunque, andando avanti, volevo parlare un po’ di questo albo qui, La meraviglia carnosa che ho perduto nel bosco, penso che sia il primo in cui hai raccolto in maniera organica il lavoro che avevi fatto fino a quel momento. Ed è anche un fumetto un po’ atipico nella tua produzione, perché è quasi poesia, forse anche senza quasi. Se fossi negli Stati Uniti rientrerebbe nella corrente Comics as Poetry, in cui i fumettisti illustrano le poesie che scrivono. E’ un amore che è vissuto nel bosco, un amore anche con il bosco…
ADF: Per il bosco!
GDF: Esatto! E’ una roba quasi dannunziana… Però quello che mi interessava è come sei arrivato a questa dimensione poetica e a fare il passaggio da tutti i vari frammenti che abbiamo visto prima a qualcosa di più organico, a un fumetto lungo vero e proprio.
ADF: Beh, c’entra anche con il discorso di prima… Io poi ho un po’ svicolato, parlando di soldi – ed è sempre brutto parlare di soldi – e non mi sono più soffermato sulla scrittura. Tu dicevi che la mia è una scrittura che parte dal disegno e che c’entra sempre con il disegno, che nei miei fumetti ci sono scrittura e disegno allo stesso livello… E per me è verissimo e anzi è proprio un complimento, perché non è automatico che un bravo disegnatore sia anche un buon scrittore. Oddio, ora non mi voglio dire da solo che sono un bravo scrittore, però almeno posso dire di non aver mai fatto un errore di punteggiatura in un libro. E sono molto fiero di questo. E poi sì, compro e leggo tanti fumetti, ma non sono così vorace con i fumetti come lo sono con i libri, cioè nel senso di libri senza disegni e quindi saggistica, narrativa, poesia. Scrivo da più tempo di quanto disegno, perché sono tre/quattro anni scarsi che riesco a disegnare in un modo che trovo soddisfacente, come dicevo prima ho avuto sette anni di vuoto in cui non raggiungevo risultati dignitosi. Invece ho scritto per un sacco di anni i testi dei gruppi in cui suonavo, ho fatto le recensioni musicali e altre cose da giornalista culturale come articoli, interviste e via dicendo. E poi ho portato avanti anche esperienze di scrittura autonome da tutto, racconti, mini-saggi eccetera, cose che ho fatto e poi ho bruciato subito, infatti non esistono più. E la scrittura mi richiede un esercizio diverso da quello del disegno, perché disegnare ogni giorno lo faccio, i disegni me li lancio dietro, non mi ricordo quanti ne ho fatti, ho riempito quaderni su quaderni, e invece nei quaderni non scrivo tantissimo, a volte ci sono dei testi ma magari vengono fuori dal fatto che sto facendo piccoli fumetti. Ma non mi metto a scrivere la poesia sul quaderno…
GDF: Anche se ne leggevo prima una a tema anale in uno sketchbook.
ADF: Sì, c’è l’elenco anale… Però mi tengo oliato su questa cosa, è una pratica che richiede un certo esercizio, ci ho messo un po’ ad arrivare a scrivere una cosa come La meraviglia carnosa. All’inizio ho fatto direttamente dei fumetti senza parole, perché mi sembrava che i testi non fossero validi quanto i disegni – non che i disegni fossero inarrivabili – ma comunque i testi erano nettamente peggiori. Errata corrige è stata la prima cosa che ha funzionato come testo, è stato il primo fumetto istantaneo che ho fatto, mi sono seduto perché avevo un’idea e di lì a qualche ora ho finito, mettendoci anche dei testi perché avevo bisogno di una voce. E ne La meraviglia carnosa ho continuato con questa questione della voce, però una voce singola, infatti il fumetto non ha balloon, il testo è un po’ sospeso e ci sono una serie di ambiguità per cui la storia d’amore con il bosco, per il bosco che abbiamo detto ha tutta una serie di letture. Certo, c’è la chiave di lettura realistica, e io so quello che succede veramente se così vogliamo dire, ma comunque non mi interessa raccontarlo a nessuno, perché non è quello il punto. Come i due famosi episodi finali di Evangelion che sono tutti nella testa di Shinji ma poi hanno fatto il film in cui si vede quello che succede veramente mentre lui ha questi trip mentali…
GDF: Mmm no, non so di che parli…
ADF: Questa serie che potremmo definire di robot e problemi personali si conclude con due episodi completamente dentro al cervello del personaggio perché erano finiti i soldi e quindi non potevano disegnare mille robottoni che si schiantavano sulla terra. Però quando la serie è diventata famosa, i fan hanno chiesto a gran voce di sapere cosa fosse successo davvero perché non gliene fregava niente di quello che vedeva il tizio nella sua testa. E il film che ne è venuto fuori è comunque bello, però questa cosa di dover dire le cose come stanno mi sembra un po’ un fallimento, perché è come ammettere che la dimensione completamente mentale non esiste, come se i viaggi mentali di Shinji non fossero così veri come i robottoni che si schiantano. E invece per me tutto è super-reale, sempre. E’ come il fatto che dal fumetto ci si aspetta per forza – soprattutto con la tradizione molto forte di fumetto popolare che c’è in Italia – che sia una sorta di storyboard, che abbia un’impostazione cinematrografica, con una storia, i dialoghi, gli ambienti, i personaggi che provano delle emozioni e compiono delle azioni, agendo in un paesaggio che viene ripreso con certe tecniche e certi espedienti formali. Io ho cercato subito di non chiudermi in quella roba lì, perché prima facevo fotografia e allora a questo punto avrei fatto i fotoromanzi, i cortometraggi, il cinema. E il fumetto è fumetto, non è cinema disegnato, non è letteratura disegnata… Il fumetto è fumetto, stacce. Quindi, che cos’è, come funziona, quali cose si possono fare? Una cosa che si può fare con il fumetto è una specie di voce fuori campo, o anche una voce dentro il campo, che si stende nelle pagine facendo da collante tra i disegni. La meraviglia carnosa è venuto fuori da queste riflessioni, perché tra l’altro oltre ad averci messo più tempo del solito è anche un fumetto che ho disegnato in maniera completamente disordinata e l’ordine tra testo, parole, sequenze e tavole è avvenuto tutto impaginando. Quindi è una storia disegnata a penna ma in realtà fatta con Adobe InDesign. E infatti non sembra ma ci sono dei disegni che si ripetono, dei disegni che si ricompongono, dei disegni che si incorniciano uno nell’altro e c’è questo testo che ha necessitato di più tempo rispetto ai disegni, perché è difficile scrivere i testi. E quella roba dei fumetti disegnati bene con il testo così così perché sei meno bravo succede, ma secondo me è una cosa schizofrenica che secondo me non aggiunge niente. E quindi è molto più interessante cercare la propria strada, intestardirsi sul fatto che nessuno ha deciso una gerarchia che riguarda i testi e le immagini nel fumetto, perché ci sono delle tradizioni, ci sono delle scuole, ci sono delle abitudini ma tutto è trasgredibile. E a me piace molto trasgredire… nei fumetti, perché poi sono un pavido nella vita vera.
GDF: Agganciandomi a questo discorso, se invece devo trovare un fumetto più “fumetto” nel senso classico, o comunque quello più classico tra i tuoi – in cui come dicevi ci sono i personaggi, una storia, un’ambientazione – è Intonarumori, che hai scritto direttamente in inglese per poterlo proporre sul mercato internazionale. Però per arrivare a Intonarumori partirei da un passaggio di Piccolo niente, un altro tuo albetto che forse non parla di niente, anzi parla del niente, tanto che viene ripetuta la parola “niente” non so quante volte…
ADF: Forse troppe…
GDF: E qui c’è questa tavola in cui si legge: “Dicevo di diventare sensibile ai rumori / (quando non faccio niente) sono un fruscìo / acqua sottoterra / le urla lontane / due fidanzati arrabbiati giù in strada? / cos’è un “fidanzato”?”. Questa secondo me è una tavola chiave per capire quello che fai tu, alla fine c’è questa domanda “cos’è un “fidanzato”?” con la parola “fidanzato” tra virgolette. Siamo a un livello in cui alcune cose che vengono date per scontate da tutti – anche dei termini semplicissimi – non sono poi così scontate. E anche in Intonarumori ci sono una logica, una sequenzialità e uno sviluppo ma non sono quelli della narrazione classica a cui siamo abituati. E’ una logica tutta tua, che anzi potremmo definire una pre-logica. Provando a riassumere la trama, il fumetto è basato su una continua metamorfosi del protagonista, un personaggio che all’inizio sembra un uomo, poi diventa una specie di cavallo, quindi si scompone in una serie di forme astratte e poi torna a una dimensione antropomorfa. E non è finita qui, perché si trasforma in un ramoscello, finisce dentro a un vaso, viene usato per fare un tè e si scinde quindi in due diverse entità, una delle quali è una pozzanghera. E così abbiamo la parte finale del fumetto in cui il protagonista è una pozzanghera. Ci sono anche delle situazioni classiche, come una sorta di contrapposizione tra due personaggi nella prima parte, o una storia d’amore nella seconda, anche se molto sui generis perché riguarda la pozzanghera di cui dicevo prima. Ma al di là dei dettagli è stupefacente come in tutta questa assurdità ci sia una logica e tutto funzioni. Nelle pagine iniziali ha un ruolo centrale una scatoletta, che è appunto un intonarumori, da cui questo gioco di trasformazioni si sviluppa grazie alla musica. E non a caso tu sei anche musicista, infatti. La suggestione musicale è preponderante in una serie di sequenze che sembrano astratte ma che in realtà rappresentano la trasformazione del protagonista. E quindi sono astratte fino a un certo punto, anche perché come hai scritto lì nella tua autobiografia il tuo lavoro viene “bollato superficialmente come astratto”. La mia principale curiosità adesso è capire da dove sei partito per tutto ciò, se sei partito dalla musica – perché ci sono dei movimenti che sono proprio musicali in questo fumetto – dall’idea della trasformazione del protagonista – e dunque dalla provocazione di raccontare una storia che avesse un formato graphic novel ma con un personaggio che apparisse in una forma diversa ogni tot pagine – oppure dal disegno puro e semplice, visto che ci sono dei passaggi in cui il disegno non è gratuito ma sicuramente ti prende un po’ la mano…
ADF: Con Intonarumori volevo fare una cosa lunga, il graphic novel se vogliamo chiamarlo così, e volevo fare un fumetto con i personaggi che parlano in un ambiente. Mi piaceva e mi piace ancora molto il lirismo però sentivo di aver già ottenuto dei risultati a quel livello – per quanto discutibili – e così mi sono detto “ok, proviamo quest’altra cosa”. D’altronde perché diventare bravi in una cosa sola se puoi essere scarso in tutte? Piccolo niente è stato un po’ il banco di prova per Intonarumori, una sorta di ponte tra le due cose. In Intonarumori volevo lavorare su più personaggi e situazioni, è vero che il fumetto è ancorato a questo protagonista ma in realtà tutti parlano, ci sono dei prati che parlano, il sole che parla, le foglie di tè che parlano. E la questione musicale è andata di pari passo, perché mentre sto cercando di ottenere dei risultati con il fumetto sto cercando di ottenerli anche con la musica, anche perché la musica è meglio dei fumetti nella gerarchia delle arti: per me c’è la musica e poi sotto ci sono tutte le altre arti, che la musica guarda dall’alto in basso. La riprova è che tutti i fumettisti o sono anche dei bravi musicisti o comunque hanno la chitarra a casa. Musica e fumetto si sono alimentati a vicenda nel mio caso, anche con la musica parto spesso dal grado zero, dalla pre-logica come hai detto tu, che è una cosa molto vera… Anzi l’hai capito meglio di me questo tentativo di cercare di rimuovere l’eccesso di assunti iniziali e vedere cosa succede costruendo tutto con delle regole che si definiscono nel mentre. Io a 13 anni ero un ragazzino un po’ metal-fantasy-fantascienza-Tolkien e mi sono fatto dei giri gravi con Tolkien, Asimov e altri autori così. E poi ho capito che non sono belli i romanzi o le storie ma questa cosa di costruire un mondo, delle lingue, delle leggende, delle tradizioni. Il Signore degli Anelli è ovviamente quello che è, ma per me è Il Silmarillion quello veramente figo, perché sono tutte le leggende di quel mondo. Questa cosa che riesci a essere così dissociato dalla realtà che hai attorno, così fuori di testa da decidere che te la devi fare tu una realtà, per me è bellissima. Io sogno un mondo in cui la devianza mentale è abbracciata come un dato naturale di tutte le persone, per cui se le strade sono piene di pazzi che dicono di essere Napoleone è pieno di Napoleoni in giro… Non è che sono tutti pazzi, sono tutti Napoleone. La musica mi ha aiutato molto da questo punto di vista, soprattutto quella fatta da musicisti che si creano le loro regole mentre suonano. E alla fine escono fuori le robe più inascoltabili, antipatiche, snob, da critico musicale, che però per me sono bellissime e addirittura divertentissime. Per esempio c’è questo quartetto norvegese di musicisti tutti molto bravi e molto spocchiosi che normalmente fanno jazz, folk, dark ambient ma che insieme hanno un progetto in cui suonano senza parlarsi mai: non hanno nessun altro tipo di comunicazione al di fuori della musica. E’ una band fondata sul fatto che l’unica comunicazione possibile tra i membri della band è quella che avviene suonando. Quindi ogni loro disco in realtà è un live, e quando vanno in studio è un concerto. Questa band si chiama Supersilent, sono molto insopportabili se non ti interessa questo tipo di discorso ma per me sono stati molto importanti per questo concetto di… pre-logica, ora lo userò sempre, o anche grado zero, come dicevo prima di oggi. Anche prima di cominciare queste cose sono andato in palla con l’OuLiPo, i francesi come Perec e Queneau, e con quel saggio di Roland Barthes sul grado zero della scrittura in cui manipolando completamente le intenzioni degli autori evidenzia che questo tipo di ricerca sulla scrittura non è un discorso di rottura o di primitivismo, ma è un discorso di calcolo in un certo senso, di voler veramente cercare un foglio bianco.
GDF: Anche nel fumetto qualcuno ha provato a riportare i concetti dell’OuLiPo, penso ad autori francesi come Trondheim, o anche a Matt Madden, che è americano ma ha fatto molti fumetti basandosi su delle regole auto-imposte. Poi tornando alla musica ci sono tantissime citazioni nei tuoi fumetti, basti pensare a In quel posto che è stato realizzato tutto ascoltando un disco di Tim Hecker, Konoyo.
ADF: Sì, anche quello era molto veloce, non ai livelli di Giro intorno al sole, ma comunque l’ho fatto al volo, di notte, mentre stampavo il fumetto di Dario Sostegni…
GDF: Ah, era quello il fumetto che avevi fatto prima di Treviso, che dicevamo prima… Ok, senti, visto che siamo stretti con i tempi ti faccio scegliere tra due domande. O ti faccio un’altra domanda “filosofica” che prende spunto da una sequenza di Parallel Lives di Olivier Schrauwen, oppure parliamo dei classici “progetti per il futuro” così ci anticipi qualcosa del tuo fumetto che uscirà nel 2020 per Eris Edizioni…
ADF: Ok, facciamo quella sul libro nuovo così poi la gente se lo ricorda e lo compra. Allora, quella con Eris è una storia lunga, perché Scusa lo avevo fatto anche per farlo vedere a Eris a Treviso nel settembre del 2016. E già allora pensavo di non aver altra scelta in Italia oltre a Eris, che magari non è neanche vero ma poi mi sono affezionato, da lì è partito tutto un rapporto di amore viscerale con Fabio Tonetto, un casino… Insomma, gli ho portato Scusa e loro tra sé e sé avranno detto “ecco qui un altro ragazzino che si è visto DeForge”. Poi gli ho portato altre cose ad altri festival, e ho fatto anche diverse figure di merda con loro, per cui se hanno deciso di fare un libro con me o sono loro dei grandi o io un idiota molto fortunato. Una volta sono andato da loro e gli ho portato 5 quaderni pieni di disegni fronte retro, tutti disegnati come un fumetto ma senza nessun testo, e ho cercato di dirgli “ho disegnato questa cosa di 300 pagine, non si capisce niente perché non c’è il testo ma io farei dei testi per far finta che ci sia una storia e se vi piace, visto che i disegni sono belli, lo pubblicherei”… Poi gliel’ho spiegato anche peggio di così, tanto che Sonny di Eris mi ha detto in maniera pacata “metti ordine nella tua vita e vieni a dirci qualcosa di sensato”. Così gli ho portato Intonarumori e loro avevano quasi deciso di pubblicarlo in italiano ma poi abbiamo optato per fare una cosa nuova ed effettivamente ha senso, anche perché io faccio i disegni, le storie eccetera, il libro lo fa l’editore. E per questo nuovo fumetto ho pensato di prendere quello che avevo cercato di fare con Intonarumori ma di farlo meglio, anche perché Intonarumori l’ho disegnato in meno di 2 mesi, con l’aiuto dei funghi…
GDF: Non champignon…
ADF: Ehm no, psilocibina… Mai esagerato perché dovevo disegnare, ma comunque Intonarumori è un fumetto con la droga, anche se non sulla droga. E invece questo fumetto lo sto facendo senza i funghi, anche se parla comunque di intossicazione, questa volta da caffeina. La scorsa estate ho fatto una residenza di una settimana a Berlino per partecipare a Clubhouse #10 di Colorama, in cui c’è un mio racconto breve fatto in una settimana con protagonista una tazzina di caffè cosciente, con corpo, braccia e gambe. Da allora ho cominciato a disegnare delle cose stupide sui quaderni, delle situazioni da cinema muto alla Buster Keaton. Il personaggio aveva qualcosa da dire, e la caffeina è una droga valida proprio a livello di effetto psicoattivo, se te ne bevi quanta me ne bevo io. E quindi l’idea che ho proposto a Eris era fare una roba tipo Intonarumori ma con questa tazzina antropomorfa, che vive un sacco di disavventure e che soprattutto è piena di caffè, quindi chi è che fa camminare questo corpo, la tazzina o il caffè, o sono due cose diverse. E c’è tutta questa finta psicanalisi, tutte questioni che riguardano la natura della volontà dell’uomo, da dove vengono l’esperienza, la memoria, le emozioni. E’ una roba che io chiamo il problema di Ghost in the Shell, nel senso del film del ’95, in cui c’è questo personaggio artificiale che chiede a un altro robot “chi lo sa che cos’è il mio cervello, ma tu ti sei mai guardato”. Però io non lo faccio con i robot ma con la tazzina di caffè, perché… fa ridere. Fa ridere una tazzina di caffè gigante che barcolla perché è piena di caffè, poi inciampa per terra e cade, cerca di rialzarsi e rischia di cadere dall’altra parte… C’è del comico, che io non so gestire bene perché non sono un autore comico. Mi stanno venendo fuori più di 300 pagine, vediamo quante me ne tagliano perché mi sto dilungando troppo ma insomma speriamo bene…
Free Shit VS Free Shit
Recupero dagli ultimi mesi del 2019 Free Shit di Charles Burns, un tascabile che andrebbe veramente in tasca (è grande all’incirca 14 x 11 cm) se non fosse per il fatto che è un hardcover e conta 208 pagine. Insomma, mettetelo in libreria che è più comodo e arricchisce anche la vostra collezione, con la sua bella copertina e la costa arancione con una F e una S “organiche” (da notare che solo all’interno viene riportato il titolo e che anche sul sito della Fantagraphics il volume viene presentato come Free S**t, perché se aspiri a una distribuzione di massa negli USA certe cose non puoi proprio dirle). Ma – vi chiederete a questo punto – che differenza c’è tra questo volume, a sinistra nell’immagine in alto, e quello che invece vedete a destra e di cui avevo parlato nel sesto episodio della compianta rubrica Misunderstanding Comics nell’ormai lontano 26 ottobre 2016? Beh, innanzitutto complimenti perché conoscete tutti i post del sito a memoria, poi vediamo di rispondere alla vostra gentile domanda. Anzi, grazie per avermela posta.
Free Shit è il titolo di una fanzine che Burns realizza di tanto in tanto regalandola ai festival, alle sessioni di autografi o alle mostre. Raccoglie schizzi, disegni, appunti, abbozzi di fumetti ma anche elaborazioni grafiche di materiale già pubblicato, foto tratte da b-movie, collage, strisce a fumetti di altri autori: insomma, si tratta degli sketchbook di Burns – o almeno degli sketchbook che il cartoonist statunitense ha voglia di far vedere ad amici e fan – con l’aggiunta di altro materiale che l’autore di Black Hole trova interessante o che l’ha ispirato. Il volumetto di Le Dernier Cri, pubblicato nel 2016 in edizione limitata e con copertina serigrafata, allargava il pubblico della fanzine burnsiana ai 1000 fortunati che l’hanno prontamente acquistato. Infatti, come capita spesso quando si tratta di certi autori, la tiratura andò velocemente esaurita e così tre anni dopo arriva Fantagraphics a ristampare l’opera, aggiungendo giusto un paio di centimetri nelle dimensioni, una copertina rigida e soprattutto 24 pagine. Perché nel frattempo Burns ha continuato a partorire (ma forse non è il termine esatto) la sua “free shit”: se infatti il volume francese raccoglieva i primi 22 numeri della fanzine, quello targato Fantagraphics arriva al #25, con nuove illustrazioni di cui vi fornisco un paio di anteprime qui sotto.
Il volume di Le Dernier Cri si chiudeva con una nota di Burns che diceva: “You got any free shit? Sì… Sì, ce l’ho. Ma c’è soltanto un piccolo problema… Questa volta non è gratis. Che ci posso fare? Le cose vanno così e basta. E’ come mi diceva mia madre quando ero un ragazzino: Niente è gratis a questo mondo“. La nota posta in chiusura del volume Fantagraphics fa invece un po’ di storia: “Dunque… Come è iniziato tutto ciò? Da quel che mi ricordo ero a un firmacopie, un bel po’ di tempo fa, verso la fine degli anni ’90, e un tizio è venuto da me e mi ha chiesto: You got any free shit? E io non ce l’avevo. E mi dispiaceva… Ma Free Shit mi è sembrato un nome perfetto per un fumetto o una rivista. E così poco dopo ho iniziato a mettere insieme una piccola fanzine di otto pagine… Ne stampo ogni volta una cinquantina di copie e la do ai festival e ai firmacopie agli amici o a chiunque è interessato ad avere un po’ di… free shit. Questa è una raccolta dei primi 25 numeri”.
Disponibile “L’età d’oro” di Chris Reynolds
In occasione della mostra di Chris Reynolds a BilBOlbul 2019, la rivista online di critica e approfondimento sul fumetto Banana Oil si è fatta carico di pubblicare un albo dell’autore britannico complementare all’antologia Un mondo nuovo edita da Tunué. L’età d’oro, che ora è finalmente disponibile on line nel webshop di Just Indie Comics, conta 32 pagine e contiene all’interno cinque brevi fumetti rimasti fuori dal volume curato da Seth per la New York Review Comics. Se la storiella di apertura con protagonista Monitor funge da introduzione, gli altri racconti si concentrano su un particolare tassello dell’universo narrativo di Reynolds, ossia quella dimensione che viene definita appunto L’età d’oro. Chi ha letto Un mondo nuovo sa già di cosa stiamo parlando, perché lì si trova un episodio che vede protagonisti Robert e il Signor Ranger, personaggi che appaiono anche qui, insieme al pestifero Cwiss e alla direttrice della scuola di Robert. Proprio il rapporto, insolitamente romantico, tra il ragazzo e la direttrice è il tema centrale di queste storie, raggiungendo il suo culmine in una gara di corsa che è metafora spietata di parecchie storie d’amore. Ma gli spunti non finiscono qui, perché il lavoro di Reynolds è come sempre sfaccettato e profondo, e ogni particolare è utile sia a svelare misteri che a crearne altri. In questo caso poi la scrittura è ancora più sperimentale del solito, se non altro per il modo improvviso in cui inserisce episodi di violenza e particolari visionari, come gli archi scintillanti e le scale dorate che ricorrono in un paio d’occasioni.
L’albo è arricchito dal saggio Mauretania: la realtà fuori asse. Il mondo nuovo di Matteo Gaspari, deus ex machina di Banana Oil che si occupa anche di traduzione e lettering. Per la cronaca, L’età d’oro è stato venduto al BilBOlbul e in alcune sporadiche occasioni da Tunué, ma finora non era disponibile on line. E per approfondire il lavoro di Reynolds vi rimando alla trascrizione dell’incontro con l’autore britannico avvenuto lo scorso dicembre presso Risma Bookshop.
“Mister Morgen” di Igor Hofbauer
Non vi dirò dell’atmosfera decadente tra degrado metropolitano e futuro post-apocalittico, né dei corpi mutanti à la Cronenberg, o degli inevitabili riferimenti all’estetica delle avanguardie e dei movimenti del primo ‘900 (costruttivismo ed espressionismo in primis). E non vi dirò nemmeno di cosa parlano le storie di Mister Morgen di Igor Hofbauer, finalmente arrivato in Italia lo scorso novembre per Tabularasa Edizioni in collaborazione con Strane Dizioni, Bisso Edizioni Palermo e Teké Gallery, perché lo fa benissimo l’introduzione di Vittore Baroni: “I rituali di sangue di una donna in rosse vesti sacerdotali individuano allineamenti di monumenti sepolcrali sormontati da sculture aliene, dove anche lei verrà inumata; una non più giovane chanteuse, un tempo celebre, vive rinchiusa nella gabbia di uno zoo e, con la complicità di un inserviente dalle fattezze mostruose, compie crimini efferati; un gruppo di musicisti rock con teste da cani lupo allestisce per strada un eversivo concerto per voce, chitarra, auto e mazza da baseball; un irsuto controllore di contatori elettrici ha un incontro sessuale a tre con la coppia che vive nella sua casetta-barometro; un virus trasforma in feroci zombi antropofagi i passeggeri di un treno e si diffonde rapidamente nei diroccati hotel della costa; una cospirazione di condomini fa incolpare un anziano scrittore di un delitto che non ha commesso, mentre la cavia umana di un ipnotico light show vomita un calamaro nero parlante”.
Di cosa vi dirò, dunque? E perché Mister Morgen è un libro così importante oggi, nel 2020, anche se in Italia è uscito l’anno scorso e io arrivo come spesso succede in ritardo? Citando ancora l’introduzione, Mister Morgen è un libro importante perché sa distinguersi in quello che Baroni definisce “l’attuale panorama di produzioni fumettistiche largamente standardizzate e prevedibili”. Viviamo in un’epoca in cui, anche e soprattutto “grazie” alla rete e ai social media, persino i contenuti “altri” – quelli che abitualmente avremmo chiamato “alternativi”, “indie” o “underground” – si sono standardizzati. Ecco dunque che guardare ad altri riferimenti, a un immaginario lontano nel tempo, che parte appunto dalle avanguardie storiche per arrivare alla new wave anni ’80 – musicale e non – passando per l’estetica dell’autoproduzione dell’Europa dell’Est, è una boccata d’aria fresca. Hofbauer è Hofbauer, ha il suo stile e va per la sua strada, non pensa a promuoversi ma anzi promuove gli altri, soprattutto i gruppi musicali per cui ha realizzato dozzine di manifesti. Sarebbe potuto stare benissimo su Raw o Alter Alter ma è anche attuale: guardando le sue tavole non riesci a capire esattamente di che anno è, potrebbe risalire ai primi anni ’80 come all’altro ieri, e infatti Mister Morgen è stato pubblicato in Francia e in Croazia nel 2016. Quelle di Hofbauer sono pagine che raccontano degrado, disfacimento, deformazioni, spesso in chiave fantastica, ma in cui si sente anche il peso della Storia, perché gli scenari fanno inevitabilmente pensare all’ex Jugoslavia post-bellica.
Un’altra cosa la direi sul linguaggio utilizzato dall’autore croato, che è il vero collante del libro, lo strumento che unisce i diversi racconti, anche quelli che non si collegano in maniera esplicita tra loro. La cifra stilistica di Hofbauer è il frammento, come si capisce sin dall’Intro, sei tavole che racchiudono pezzi di intrecci che torneranno poco dopo e che ci fanno entrare nel suo mondo con poche essenziali inquadrature cinematografiche. La pagina d’apertura di Branko, il racconto che inaugura il volume, è invece puro fumetto: nella prima vignetta orizzontale un uomo piscia da un ponte e il liquido diventa la linea di demarcazione tra le due vignette sottostanti – dove vediamo dei topi sbranare un uccello – per poi finire in acqua nell’ultima striscia. E che dire dei dettagli rossi che colorano di tanto in tanto il bianco e nero, utilizzati per mettere in risalto personaggi, luoghi, indumenti, secrezioni corporee? Li ritroviamo quando appare Mister Morgen in persona, un vecchio sdentato che dorme per terra in un palazzone fatiscente e va a procurarsi il suo pezzo di carne insieme a dei poveracci come lui (a essere fatta a pezzi da macellai senza volto è l’enorme carcassa di un cetaceo). E pensare che Mister Morgen è in realtà il soprannome di Ivo Robić, un sorridente Sinatra croato con l’aspetto di un impiegato della canzone, ingenuo profeta di tempi migliori. Tempi migliori che, evidentemente, nelle storie di Hofbauer non sono ancora arrivati.
Mister Morgen è disponibile nelle “migliori librerie”, sul sito dell’editore (dove trovate anche un’edizione limitata con copertina serigrafata) e anche nel webshop di Just Indie Comics, dove potete acquistarlo insieme ad altri fumetti anomali, stupefacenti e di difficile reperibilità.
“Hammerspace” #1 pre-order
Hammerspace è una nuova rivista pubblicata da Eyeworks, un festival itinerante (nel 2019 si è svolto a Los Angeles, Chicago e New York) dedicato all’animazione sperimentale e astratta, a cura di Alexander Stewart e di Lilli Carré, quest’ultima fumettista nota per Heads or Tails pubblicato da Fantagraphics nonché, dalle nostre parti, per la mostra che BilBOlbul le ha dedicato nel 2015. Leggendo la descrizione che ne forniscono i due autori (e coniugi), “il termine hammerspace deriva dal cliché di un personaggio dei cartoni animati che solleva un oggetto, come un grosso martello, da dietro la sua schiena” e si riferisce più in generale al concetto di “spazio” nel senso di luogo in cui gli oggetti possono muoversi o essere riposti. A dire la loro su questo tema sono stati chiamati scrittori, fumettisti e designer, in un magazine dedicato per lo più all’animazione ma che spazia anche tra altre forme d’arte come il fumetto, la grafica, i videogiochi. Nel primo numero troviamo così lo scrittore e video-artista Steve Reinke con un saggio sul pioneristico Asparagus di Suzan Pitt (1979), un’intervista di Mary Beams alla filmmaker Annapurna Kumar, immagini sequenziali realizzate del fumettista John Hankiewickz (autore di Asthma ed Education), un articolo di Austin English sul rivoluzionario editor Dc Comics Mort Weisinger, illustrazioni tratte dagli inventari dei classici adventure game. Oltre ai già citati, la lista dei collaboratori include Scott Bukatman, Margaux Duseigneur, Stefanie Leinhos e Sonnenzimmer. Il design e il layout sono di Dakota Brown.
Hammerspace #1 è stampato in risograph in sole 400 copie e conta 76 pagine. Dato il costo elevato (25 euro per noi italiani), la rivista sarà disponibile soltanto in pre-oder fino a venerdì 7 febbraio al link qui in basso.
Al via “Fuori gli autori” da Risma
Segnalo qui un appuntamento che prenderà il via mercoledì 5 febbraio alle 19:30 presso la libreria Risma, in via Augusto Dulceri 51 a Roma. Si chiamerà Fuori gli autori – Un ciclo di presentazioni in absentia e sarà un format in cui critici, librai, idraulici, blogger, impiegati di banca, editor, editori, youtuber, facchini di Santa Rosa, grafici, massaggiatori, pizzaioli, montatori video, intellettuali, influencer e chi più ne ha più ne metta parleranno di fumetti alla non-presenza degli autori. E a volte ci saranno anche fumettisti… Ma mai i fumettisti di cui si parla.
Per il primo incontro, che abbiamo deciso di dedicare allo scottante e attualissimo tema “animali antropomorfi”, potevamo avere ospiti Jason e Simon Hanselmann ma abbiamo detto NO! Altrimenti perché l’evento si chiamerebbe Fuori gli autori? Saranno quindi Alessio Trabacchini e il sottoscritto a parlare di Ho ucciso Adolf Hitler e altre storie d’amore edito da 001 Edizioni e di Bad Gateway pubblicato da Coconino Press. E vi assicuro che non sarà una presentazione come le altre, perché alle chiacchiere si alterneranno proiezioni video (con spezzoni tratti dai film preferiti di Jason), reperti audio dalla recente intervista-fiume di Hanselmann a The Comics Journal e ospiti a sorpresa. Di più non dico per non svelarvi troppo, e non entro nemmeno nel merito dei libri, dato che su Just Indie Comics si è già parlato di entrambi. Vi lascio dunque a qualche link e, per chi è a Roma, vi do appuntamento al prossimo 5 febbraio.
JASON TORNA SUGLI SCAFFALI D’ITALIA
RECENSIONE DI “BAD GATEWAY” DI SIMON HANSELMANN
EVENTO FACEBOOK FUORI GLI AUTORI – JASON E SIMON HANSELMANN RACCONTATI DA RISMA
Ora in pre-order Cobra II, Act 2
Nonostante la sceneggiatura di Sylvester Stallone in persona, la regia “visionaria” di George Pan Cosmatos, la colonna sonora tipicamente eighties e una sfavillante Brigitte Nielsen, il film Cobra non ebbe mai un seguito. Ma, come i più informati di voi già sapranno, ci ha pensato l’artista israeliano Teddy Goldenberg a raccontarci un’altra avventura – questa volta a fumetti – del tenente Marion Cobretti (che rima, eh?). La prima parte di Cobra II uscì verso la fine del 2018 e fu il quarto fumetto di quell’edizione del Just Indie Comics Buyers Club. Adesso, dopo poco più di un anno, Goldenberg pubblica un nuovo albo di 48 pagine, capitolo conclusivo della storia.
Alla fine del primo atto avevamo lasciato Cobretti alle prese con un nuovo maniaco assassino, forse dotato di artigli e capace persino di decapitare le sue vittime. Gli indizi lo avevano portato a cercare il “mostro” nel Virtual Maze, un luogo misterioso in cui si svolge l’inizio di questo secondo atto. Per chi non ha letto quel primo capitolo, vi assicuro che le atmosfere sono esattamente quelle del film: siamo ancora in una Los Angeles devastata dalla criminalità, la polizia brancola nel buio, Cobra spara le sue frasi sintetiche e reazionarie con estrema facilità e sullo sfondo si sentono le note di sax e tastiera. E chissà che magari in questo secondo atto vedremo il nostro eroe mangiare una mela o magari accompagnarsi con la bionda Ingrid Knudsen…
Volete avere la soddisfazione di dire agli amici che avete ordinato Cobra II 2? O addirittura volete ordinare 2 Cobra II 2 uno per voi e uno per vostro zio? Bene, avete tempo fino a lunedì 3 febbraio. Dato che si tratta di un secondo capitolo e che venderlo da solo risulterebbe decisamente complicato, ho deciso infatti di mettere on line l’albo soltanto in pre-order. Per chi non si fosse ancora procurato il primo capitolo della storia, è disponibile anche un pack, sempre e soltanto in pre-order fino al 3 febbraio, contenente entrambi i volumetti. Seguono i link e un po’ di immagini. This is where the graphic novels stop… and Just Indie Comics starts!
COBRA II ACT 2 BY TEDDY GOLDENBERG PRE-ORDER
Una serata con Chris Reynolds
Pubblico di seguito la trascrizione dell’incontro con Chris Reynolds che si è tenuto lo scorso 3 dicembre a Roma da Risma Bookshop, in occasione del tour italiano dell’autore britannico. Ad accompagnare il testo, oltre a un paio di foto scattate in quell’occasione, alcune immagini tratte dalla mostra che il festival bolognese BilBOlbul ha dedicato a Reynolds presso Spazio B5. Prima di lasciarvi all’intervista, ringrazio Stefano A. Cresti per il sempre ottimo lavoro di interpretariato e Tunué per la collaborazione. Buona lettura.
Gabriele Di Fazio: Un mondo nuovo è un’antologia del lavoro di Chris Reynolds, uscita in Italia per Tunuè in concomitanza con la mostra a lui dedicata da BilBOlbul, dove Chris è stato ospite nel weekend. Il libro raccoglie i lavori pubblicati a partire dal 1986 negli albi autoprodotti Mauretania Comics e nella fondamentale rivista inglese Escape, oltre all’intero graphic novel Mauretania uscito per Penguin nel 1990. Tra l’altro Mauretania fu anche pubblicato in Italia da Feltrinelli nel 1992 in uno dei primi tentativi degli editori generalisti di portare fumetti “diversi” nelle librerie di varia. La versione originale di questa antologia, intitolata The New World e uscita nel 2018 per la New York Review Comics, è curata – sia nella scelta delle storie che nel design – da un altro autore di fumetti, il canadese Seth, di cui è stato pubblicato di recente da Coconino Clyde Fans. Seth aveva già scritto nel 2005 un apprezzamento della serie Mauretania per la rivista The Comics Journal, un testo che ancora oggi è a mio parere l’esame più azzeccato e profondo del lavoro di Chris (potete leggerlo qui, ndr).
Allora, dato che abbiamo qui con noi Chris cerchiamo di capire innanzitutto cos’è la Mauretania, cioè il mondo – non necessariamente in senso geografico – in cui si svolgono questi fumetti, per lo più storie brevi interconnesse tra loro. Apprendiamo in una di queste storie che siamo nel futuro, ossia nel 2087, ma non è chiaro se questa collocazione temporale è comune anche agli altri racconti, né sono chiarissimi i legami tra i diversi episodi, dato che una cosa che succede in una storia non influenza necessariamente quanto accade agli stessi personaggi nella successiva. Mauretania in particolare è un termine che andava ad indicare una provincia romana dell’Africa, territori che oggi corrispondono più o meno all’Algeria e al Marocco, ma qui non c’è un’ambientazione esotica, anzi sembra di essere nel Regno Unito, dunque in uno scenario più familiare all’autore, che è nato in Galles e si è trasferito in Inghilterra per il college. Ma c’è comunque qualcosa di diverso, qualcosa di rotto, come succede quando siamo appunto in una distopia. Quindi vorrei chiederti a questo punto perché Mauretania e com’è nata l’idea di utilizzare questo termine.
Chris Reynolds: Iniziai a fare questi fumetti insieme al mio amico Paul Harvey e un giorno venne a casa mia e cominciammo a parlare di come avremmo dovuto chiamare il nostro comic book. Alla fine della serata scegliemmo come titolo Mauretania, ma adesso nessuno dei due si ricorda chi se ne uscì con quel nome.
GDF: Nell’introduzione al volume Ed Park azzarda l’ipotesi che l’oscurità di queste storie, che sono caratterizzate da un bianco e nero molto pesante, possa collegarsi in qualche modo al nome Mauretania, che a sua volta deriva dalla tribù dei Mauri, un termine che significa appunto “scuri” riferendosi al colore della loro pelle… Non so se questa connessione fu determinante per la scelta…
CR: In realtà non era una scelta consapevole, anzi, si tratta soltanto di una coincidenza, perché non sapevamo in realtà dove si trovasse la Mauretania. Scegliemmo questo nome perché era misterioso, antico, e lo collegavamo più alla famosa nave che fu varata nel 1906 che alla provincia romana.
GDF: Nella storia che apre il volume, The Dial, c’è il protagonista che torna dalla guerra, infatti tra le righe si capisce che c’è stato un conflitto tra la Terra e gli alieni, con questi ultimi che hanno avuto la meglio. Reg arriva a casa e trova degli scavi minerari tutt’intorno, inoltre non c’è traccia della sua famiglia. Scopre anche che ha preso piede una religione, il Dial appunto, i cui adepti sono uomini incappucciati, di cui adesso nota la presenza anche nelle sue foto da bambino, come se la sua famiglia fosse sempre stata in qualche modo collegata al Dial. Alla fine di questa storia c’è una scheda in cui vengono date una serie di informazioni, e si parla anche dell’ambientazione temporale degli eventi, il 2087. Ma questi elementi non tornano nelle storie seguenti. Noi magari diamo per scontato – per le nostre abitudini di lettori e per una serie di convenzioni – che anche le altre storie siano ambientate nello stesso mondo di The Dial, invece non è necessariamente così. La cosa bella di tutto ciò è che alcuni di questi elementi inizialmente oscuri si connettono in maniera chiara tra loro e quindi leggendo e rileggendo il libro si capisce che siamo in un mondo del tutto autoreferenziale, con le sue regole e la sua logica. Si tratta di un mondo al tempo stesso oscuro e intellegibile, perché il lettore riesce ad afferrare solo in parte il senso di quanto sta accadendo, con una sensazione simile a quando abbiamo una parola sulla punta della lingua. E comunque i personaggi si sviluppano, succedono delle cose – e succede anche che i morti tornano in vita, senza che possiamo davvero capirne il perché. Tra i vari personaggi il più iconico è sicuramente Monitor, una sorta di supereroe se possiamo chiamarlo così, probabilmente un bambino anche se la cosa non è chiara. Mi chiedevo come fosse venuto fuori questo singolare personaggio… Ho letto da qualche parte che è stato ispirato dal fumetto Billy the Cat.
CR: Quando avevo 14 anni scrissi un romanzo e uno dei personaggi era Monitor. All’epoca Billy the Cat era molto popolare e sicuramente mi influenzò. Quando poi iniziai a fare i fumetti riutilizzai questo personaggio – semplificando notevolmente il costume rispetto a quello di Billy The Cat – perché mi sembrava davvero un buon personaggio, innanzitutto perché può avere qualsiasi età tra gli 8 e i 30 anni, come se l’età fosse determinata dal tipo di storie in cui si trova. E’ un personaggio che non ha caratteristiche specifiche, molto generico, e quindi perfetto per questo tipo di storie. Se fosse stato una persona “normale”, avrei dovuto dare più informazioni sul suo background, su chi fosse e perché stesse facendo quelle cose lì, invece se tu metti in una storia un personaggio che sembra vagamente un astronauta si danno molte cose per scontate, quindi si può andare avanti direttamente con la storia.
GDF: Sì, sembra un astronauta perché indossa sempre un casco, e poi sappiamo che ha un astronave e che ha incontrato gli alieni, anche se ci sono degli episodi in cui lo vediamo impegnato in faccende del tutto ordinarie, come lavorare in un bar, fare il pubblicitario, aprire un’azienda di frigoriferi, ereditare una casa e via dicendo…
Ok, adesso vorrei cercare un po’ di capire in che ambiente nascevano questi fumetti e da cosa sono stati influenzati, nel senso che mi sembrano molto in sintonia con altre cose che uscivano all’epoca in Inghilterra, per esempio su riviste come Warrior e 2000 AD, ma ci sono anche dei riferimenti letterari – inevitabilmente vengono in mente opere come 1984 di Orwell e Brave New World di Huxley – e persino televisivi, perché a me alcune tematiche, alcune atmosfere e anche un certo modo di raccontare che va avanti per scarti, per indizi, spesso per elementi del tutto assurdi mi ha ricordato parecchio la serie The Prisoner. Ti chiederei a questo punto se queste sono state per te delle influenze oppure se ne hai avute altre in particolare.
CR: Per quanto riguarda The Prisoner c’è una coincidenza significativa da citare, cioè che fu girato in un paesino a 9 miglia dalla casa in cui sono cresciuto da bambino. Ma in realtà l’ho visto soltanto dopo aver concluso i fumetti che si trovano in Un mondo nuovo, perché i canali televisivi che prendevamo a casa non lo trasmettevano. Per quanto riguarda il resto, ci sono delle similitudini con 1984 o Brave New World ma non credo che siano state delle vere influenze, perché io non ho mai trattato certi temi, nel senso che la trama dei miei fumetti è un pretesto per creare una certa atmosfera. Ed è l’atmosfera che mi interessa veramente, più della storia in sé.
GDF: E infatti l’atmosfera è molto importante in questi fumetti, anche e soprattutto nelle storie brevi. Ce ne sono alcune di una pagina – penso per esempio a Una nuova sera o a Giorni nuovi e migliori – in cui domina un mood malinconico e nostalgico. Sono dei “pezzi”, più che delle storie, che a livello testuale assomigliano a una canzone o a una poesia e in cui sembrano avere una certa rilevanza dei ricordi di infanzia, dei sogni, delle esperienze personali in genere. Quanto è stato importante il tuo vissuto per la costruzione del tuo mondo?
CR: Beh, alcuni ricordi personali hanno avuto sicuramente il loro peso durante la creazione di queste storie, ma sinceramente non sono interessato ai ricordi in quanto tali ma solamente all’atmosfera che essi possono evocare, proprio come possono fare altri elementi come gli alieni, lo spazio, il futuro, le guerre. Quindi anche i ricordi sono solamente uno strumento per ricreare l’atmosfera a cui sono interessato. A volte il mio scopo è quello di ricreare un’atmosfera che io stesso ho sperimentato, quindi utilizzo dei ricordi di atmosfere addirittura, e se è vero che spesso non sono riuscito a ricreare esattamente le atmosfere che avevo in mente, devo riconoscere che con questo tentativo ho creato qualcosa di nuovo, forse anche più interessante. E l’utilizzo del bianco e nero è stato fondamentale per rendere al meglio queste atmosfere.
GDF: A proposito del bianco e nero, citerei ancora l’introduzione di Ed Park, che scrive: “Dire che questi fumetti sono in bianco e nero suona riduttivo, sono più come un bianco e nero e ancora nero”. Infatti il libro è pieno di neri, persino i contorni delle vignette sono delle linee ondulate molto spesse, calcate, pesanti. Inoltre ci sono tantissime silhouette. So che hai studiato pittura all’Accademia di Belle Arti e quindi avrai avuto dei riferimenti anche classici, se non delle esperienze pratiche con vari stili e tecniche, per esempio penso alla xilografia, a cui i tuoi disegni sono vicini. Ti chiederei dunque di raccontarci come ti sei formato artisticamente e quanto a tuo parere la tua formazione abbia contribuito a plasmare il tuo stile.
CR: Anche lo stile si è sviluppato in maniera non del tutto conscia, io scrivevo queste storie e a un certo punto pensai che sarebbe stato interessante utilizzare un metodo che restituisse l’impressione di guardare un vecchio film in bianco e nero, dove le immagini sono indistinte, poco chiare, consumate, perché avrebbe aiutato a dare alla storia un’impressione di distanza. Per lo stesso motivo ho spesso utilizzato le didascalie al posto dei dialoghi, sempre per creare una certa distanza da quanto veniva raccontato. E c’era bisogno di creare questa sensazione di distacco per raccontare al meglio le storie che avevo in testa.
GDF: Un altro elemento fondamentale è il paesaggio, che può essere considerato il protagonista di alcune di queste storie e che contribuisce a creare questo mood malinconico e nostalgico. Si tratta di un paesaggio per lo più contemplativo, del tutto diverso da quello che potremmo aspettarci da fumetti o film distopici. L’uso che fai del paesaggio tra l’altro non è univoco, perché è vero che si vedono soprattutto campi, colline, fiumi, nuvole che si muovono in cielo – c’è molta insistenza su questo, ci sono intere pagine di paesaggi in questo libro – al contrario nella prima parte del graphic novel Mauretania ci sono degli scenari urbani stranianti e a volte angoscianti. Quanto è importante il paesaggio nelle tue storie e che importanza hanno avuto i panorami dei posti dove sei cresciuto e hai studiato da giovane?
CR: Il ruolo del paesaggio nelle mie storie è quello di generare certe atmosfere. Il paesaggio è estremamente importante perché io sono convinto che luoghi differenti generino atmosfere differenti. Inoltre in alcune delle mie storie quasi non si vedono personaggi: i loro pensieri vengono mostrati attraverso delle didascalie e gli elementi del paesaggio diventano importantissimi per creare le atmosfere, anche più dei personaggi stessi.
GDF: La seconda metà del volume è occupata dal graphic novel Mauretania, che rappresenta il climax emotivo di tutto il libro, perché in effetti storia dopo storia il lettore comincia a sentire qualcosa per i personaggi, una sorta di affezione. Per quanto noi adesso abbiamo parlato di paesaggio o di altri elementi oggettivi, per quanto possiamo leggere delle analisi dei tuoi fumetti in cui i riferimenti che si utilizzano sono per lo più non narrativi – si citano per esempio De Chirico, Hopper, Tarkovskij – nel tuo lavoro c’è comunque un forte senso della narrazione e Mauretania è un po’ la conferma di questo elemento. La storia racconta una sorta di contrapposizione tra i protagonisti del libro, Jimmy e Susan, e questa organizzazione che si chiama Rational Control, Polizia Mentale nella traduzione italiana. Al di là della trama, si tratta di una storia che tratta temi importanti come la dicotomia tra intuizione e razionalità e quella tra libertà e controllo. Quello che mi viene da chiederti è l’insistenza sul tema delle corporation, che è centrale in Mauretania e in realtà in tutto il libro, che è pieno di uomini che fanno lavori inutili, che lavorano per lavorare, non per se stessi ma nemmeno per i datori di lavoro a quanto sembrerebbe. Mi chiedevo perché hai scelto di trattare questo tema, se ti è venuto dalle esperienze lavorative personali, da quelle dei tuoi amici o se vedevi qualcosa che si sviluppava in quegli anni nella società intorno a te.
CR: Beh, la verità è che la storia Mauretania fu commissionata da un editore. La Penguin mi disse che volevano 120 pagine simili a quelle dei racconti brevi e così dovetti introdurre dei nuovi elementi per creare una storia sensata di quel tipo. E dato che ero interessato a questi temi ho deciso di utilizzarli. Nel complesso penso di essere riuscito a unirli abbastanza bene con gli elementi delle storie che avevo scritto in passato. Ma se non mi fosse stato commissionato il graphic novel, probabilmente non avrei inserito questi temi nelle mie storie.
GDF: Mmm, ok… (risate). Beh, ti chiederei a questo punto se ti è piaciuta la scelta di Seth di mettere Mauretania alla fine del volume e se in generale sei soddisfatto della selezione delle storie, dato che ce ne sono tante altre che sono rimaste fuori.
CR: Sì, questa è un’antologia e quindi non ci sono tutte le mie storie ma un gruppo di fumetti selezionati da Seth, che ha anche curato il design del volume. Penso che sia un’ottima introduzione al mio lavoro e che Seth abbia fatto una selezione coerente, prendendo delle storie che si sostengono a vicenda. Ma ci sono anche altre storie simili o comunque che sono connesse a quelle pubblicate, e che potrebbero benissimo stare nel libro. Ma questa è la selezione di Seth, lui ha scelto i fumetti che riteneva migliori e io sono molto contento del risultato finale, anche se bisogna dire che c’è molto altro materiale.
GDF: Sicuramente in questo modo il libro funziona davvero bene… Dunque, ti faccio un’ultima domanda e chiudiamo. All’inizio il “mondo nuovo” sembra essere quello dove si svolgono le vicende narrate ma poi, una volta conclusa la lettura, si cambia idea e si capisce che in realtà la novità appartiene al futuro, a quello che non vediamo, cioè al mondo che i personaggi del libro hanno contribuito a creare con le loro azioni, un mondo probabilmente migliore di quello in cui si muovono Reg, Monitor, Jimmy, Susan e via dicendo. C’è un progresso nel corso del tempo – i personaggi riescono a cambiare la società in cui vivono in effetti – e quindi c’è una ventata di ottimismo in storie che hanno comunque dei connotati distopici e che tradizionalmente vengono viste come pessimistiche, se non post-apocalittiche. Ma anche in questo senso nelle tue storie non esageri mai, anzi ce ne sono alcune, soprattutto quelle di ambientazione più bucolica, in cui c’è un senso di pace e di serenità, nonostante le guerre, gli alieni ecc. Tu pensi che ci sia un messaggio di ottimismo nel tuo lavoro e in genere consideri le tue storie più ottimistiche o pessimistiche?
CR: Le considero sicuramente ottimistiche. Sarebbe molto facile scrivere una distopia negativa e disperata ma è un genere che proprio non mi interessa. Inoltre mi piace sviluppare dei finali che si discostino dalla direzione in cui sembra andare la storia nel corso del racconto, così che possano risultare inaspettati, per quanto ovviamente debbano sempre avere un legame con la storia che ho raccontato. In realtà non penso molto in chiave di ottimismo o pessimismo, penso più a cosa mi interessa veramente raccontare. E probabilmente una storia pessimistica non mi darebbe grossa soddisfazione. Ma forse nemmeno una storia solamente piena di gioia…
“Masquerade” di Tana Oshima
Quanto conta il testo in un fumetto? Ovviamente tanto, anche se di solito non è la prima cosa su cui ci si sofferma. Se quando teniamo tra le mani un romanzo ci viene subito da leggere l’incipit, il fumetto di solito viene sfogliato, guardato, visto e non letto. La prima impulsiva sensazione è dunque legata alla sfera visiva, cioè al disegno, alla costruzione della pagina, ai colori. Ed è un’abitudine che forse bisognerebbe combattere. Per esempio, quando le ho viste on line, le immagini di Masquerade di Tana Oshima mi hanno incuriosito ma non immediatamente conquistato, al punto che, una volta che mi è arrivato l’albo tramite la solita benemerita distribuzione della Domino Books, l’ho lasciato lì a maturare per un bel po’ di tempo, settimane direi, anzi mesi. Fino a quando l’altro giorno ho iniziato a leggerlo… Ed è stato subito amore.
Come Five Perennial Virtues #6 di David Tea di cui parlavo qualche giorno fa, Masquerade è un fumetto inclassificabile e starebbe benissimo in un’ipotetica e splendida antologia di fumetti inclassificabili. E’ composto da una storia principale di 11 pagine e un epilogo di 4 che insiste su temi come l’amore, la vita di coppia, l’istinto, i confini e il sentirsi fuori posto ma sempre in chiave astratta, senza nemmeno un legame troppo stretto con quanto visto in precedenza. Inizia come se fosse un sogno, con la frase “Everything I wanted was there, in a beautiful lie”, e continua con la protagonista che attraversa continenti, fiumi, montagne, incontra delle persone, fino a quando si legge “There where nights of love and mornings of friendship” e si capisce che non è un sogno puro e semplice ma qualcos’altro. Cosa, non lo sapremo mai fino in fondo. E ci sarebbe un’altra domanda da fare, oltre a quella d’apertura, cioè cosa ci cattura in modo particolare in un testo. Perché certe volte si trovano delle opere che ci parlano direttamente, come se usassero il nostro stesso linguaggio o fossero memorie che ci appartengono. O come se le parole ce ne ricordassero altre, che abbiamo apprezzato e amato. E in questo caso il fenomeno è ancora più strano, perché si tratta di un testo in inglese scritto da un’autrice giapponese di madre spagnola (e letto da un italiano, tra l’altro). Ma il linguaggio poetico della Oshima supera tutte queste barriere (i confini, appunto) e incanta, facendoci apprezzare ancor di più il disegno, tant’è che non siamo più soltanto incuriositi ma definitivamente conquistati, come succede con i migliori fumetti. Il pranzo è servito.