“Pantera Nera” di McGregor, Buckler, Graham

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Dopo aver gettato le basi del suo universo negli anni ’60, la Marvel esplorò nel decennio successivo nuovi territori, affidando le proprie testate ad autori che facevano della creatività e dell’innovazione i loro punti di forza. E’ stato probabilmente Jim Steranko alla fine dei ’60 a mostrare cosa si potesse fare con un fumetto di “supereroi” o simili, raccontando le avventure della superspia Nick Fury sospesa in una realtà incredibilmente sexy, fatta di film di James Bond, pop-art e sfondi optical. Da quel momento l’universo Marvel non è stato più lo stesso e ha cominciato a descrivere foreste dai colori irreali, trip cosmici, santuari buddisti, fughe on the road, paperi fuori di testa. Serie come Jungle Action di McGregor, Captain Marvel e Warlock di Jim Starlin, Shang-Chi del duo Moench-Gulacy, Howard The Duck di Steve Gerber hanno fatto la storia dei comics e oggi sono fonte di ispirazione più per fumettisti di provenienza indie che per i nuovi scrittori di casa Marvel. Per questo ho deciso di occuparmi di tanto in tanto di questo materiale, ampliando il mio usuale raggio d’azione. La mia opinione è che in certi fumetti di 40 o più anni fa si trovino elementi molto più rivoluzionari di quelli che si vedono oggi in tanti prodotti apparentemente alternativi ma in realtà pieni di stereotipi e manierismi. Quindi non storcete il naso se leggete su un sito che si chiama “Just Indie Comics” recensioni di fumetti Marvel d’annata. Anche perché il pallone è mio e decido io.

Dopo questa doverosa premessa, veniamo dunque al volume Pantera Nera (352 pagg. a colori, 29.90 euro) uscito di recente per Panini Comics e che ristampa le storie scritte da Don McGregor per la serie Jungle Action, dal numero 6 (settembre 1973) fino al 24 (novembre 1976), con disegni prima di Rich Buckler e poi di Billy Graham, con una breve parentesi a firma Gil Kane. Piatto forte del volume è la maxi-saga Panther’s Rage (La rabbia della pantera), 13 episodi in cui McGregor rompe più di un tabù dei fumetti Marvel dell’epoca. Come racconta Sean Howe in Marvel Comics – The Untold Story (in Italia sempre per Panini con il titolo Marvel Comics – Una storia di eroi e supereroi), in quel periodo parecchi scrittori erano anche correttori di bozze. Lo stesso McGregor era entrato alla Marvel come redattore e poteva avvalersi di un tacito accordo con altri colleghi: tu non tocchi le mie storie, io non tocco le tue. In più Jungle Action era un titolo poco considerato, che prima dell’avvento di McGregor ristampava brevi storie degli anni ’50 ambientate nella giungla e anche piuttosto razziste. Ecco dunque che prendendone le redini, il nuovo scrittore poteva farne più o meno ciò che voleva. E ciò significava ambientare tutta l’azione nello stato africano ma tecnologicamente avanzato del Wakanda, scrivere interminabili didascalie in cui non mancavano contenuti politici, avvalersi di un cast di soli neri (ad eccezione di Venomm, uno dei nemici con cui se la deve vedere il protagonista), creare una velata gay story interraziale, raccontare la crisi del suo matrimonio attraverso i problemi familiari di W’Kabi – uno dei consiglieri del re – e la moglie Chandra.

La serie si presenta rivoluzionaria sin dall’incipit, in cui  il re/eroe è messo duramente in discussione dai suoi sudditi, che lo accusano di averli abbandonati per trasferirsi a New York e unirsi ai Vendicatori. Anche la donna che T’Challa porta con sé come sua compagna, la cantante Monica Lynne, è osteggiata dagli abitanti del Wakanda come esponente di una cultura diversa e nemica. Le matite dinamiche di Rich Buckler, impreziosite dal sempre efficace lavoro di Klaus Janson alle chine, portano subito Pantera Nera al centro dell’azione, impegnato a combattere Killmonger, l’arcinemico che costituirà la nemesi del protagonista per tutti e tredici gli episodi della saga. Ma prima dello scontro definitivo con lo stesso Killmonger, T’Challa dovrà vedersela con i suoi tirapiedi, oltre che con una natura selvaggia e ribelle che gli causerà più di un problema. E per fare questo, non potrà contare sull’aiuto di altri eroi, ma soltanto su quello dei suoi sudditi e compagni, neri e africani come lui.

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Nonostante le pressioni di alcuni influenti membri del Marvel Bullpen, McGregor si rifiutò infatti di coinvolgere altri personaggi dell’universo Marvel. “In sostanza – scrive l’autore nella lunga postfazione al volume – volendo ambientare le storie nel Wakanda, tutti i personaggi principali avrebbero dovuto essere wakandiani. E questo significava che tutti i personaggi, tranne uno, sarebbero stati neri. Fu una decisione sofferta, durante la stesura di La rabbia della pantera. Un cast interamente nero in un fumetto di un’importante società, proprio in quel periodo? Impossibile. Credetemi: nessuno, nelle sacre sale della redazione, approvava quell’approccio. Anzi, non ricordo nemmeno una parola di incoraggiamento da parte della redazione durante tutto il ciclo. (…) Numero dopo numero, la redazione voleva sapere dove fossero i bianchi in quelle storie. Mi chiedevano sempre: “Dove sono i bianchi?”. E la mia risposta era: “Questa è una nazione africana segreta e tecnologicamente avanzata. Cosa c’entrano i bianchi?”. Volevano dei Vendicatori. Volevano che i bianchi aiutassero i neri. Di sicuro pensavano che, con degli ospiti d’onore bianchi, le vendite sarebbero schizzate in alto. Non so se fosse vero o meno. Forse sì. Forse no. Ma il punto è che stavamo facendo qualcosa senza precedenti nei fumetti e quelle testate tiravano avanti anziché chiudere come era stato previsto. E forse, soltanto forse, a qualcuno, da qualche parte, stavamo dando qualcosa in più. Avevo la sensazione che quello che facevamo fosse importante. Era una mia decisione. Non volevo che l’eroe nero dovesse affidarsi agli eroi bianchi per salvarsi. Restai saldo sulla mia posizione allora, e lo resto tuttora”.

Al di là dell’assenza di altri eroi Marvel e del cast “all black”, la struttura di queste storie risulta fortemente innovativa. Più che ricalcare le impostazioni dei fumetti dell’epoca, McGregor inscena un viaggio catartico della Pantera Nera nel Wakanda e dentro se stesso, che ricorda non tanto i fumetti di supereroi quanto le più classiche saghe fantasy. Al tempo stesso, con il susseguirsi di pittoreschi nemici con cui il protagonista deve confrontarsi prima di arrivare alla resa dei conti finale con Killmonger, McGregor anticipa i meccanismi dei giochi di ruolo e dei videogame, linguaggi incorporati vent’anni più tardi dal fumetto statunitense grazie alla scuola underground di Fort Thunder. Episodio dopo episodio T’Challa si trova di fronte il viscido Venomm, la sensuale Malice, lo scheletrico Barone Macabro, il mostruoso Re Cadavere (“E’ una vista spaventosa, un ammasso di carne rigonfio, un volto osceno, con ghiandole simili a sacche!”), il minaccioso Lord Karnaj, l’ultraterreno Sombre, il deforme Salamander K’Ruel, oltre a una vasta schiera di lupi, gorilla bianchi, coccodrilli, dinosauri, pterodattili. Superate queste prove potrà finalmente regolare i conti con Killmonger, colui che vuole spodestarlo dal trono per instaurare un regime del terrore su tutto il Wakanda. Ci si aspetterebbe una gloriosa vittoria del protagonista, una distruzione totale del nemico, ma nelle ultime pagine della saga la Pantera è messo a dura prova e sembra sul punto di soccombere. Sarà un bambino, il piccolo Kantu, a salvarlo dalla morte e a sancire la fine di Killmonger, determinando in questo modo il trionfo di tutta una nazione e non dell’unico “superuomo”. La rabbia della pantera è la storia di un uomo alla ricerca di se stesso e delle prove che deve superare per ritrovare la sua identità pubblica e privata, ma senza tutto il cast di comprimari, senza i suoi sudditi, Re T’Challa non sarebbe niente.

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La prosa di McGregor è densa di raffinati aggettivi, dettagliate descrizioni, momenti poetici. Prendiamo ad esempio And All Our Past Decades Have Seen Revolutions! (Tutti i decenni del passato hanno conosciuto rivoluzioni!), disegnato da Billy Graham. Le prime cinque pagine sono tutte dedicate all’idillio tra T’Challa e Monica. L’eroe è tornato a pezzi da un viaggio al centro del Wakanda, in cui ha dovuto affrontare nemici e prove di ogni tipo. Ora si può concedere un momento di relax insieme all’amata Monica. Lei è in un costume color giallo, lui nella divisa nera d’ordinanza. Nella prima pagina il titolo scolpito sui monti del Wakanda va a cadere in acqua, mentre i due cavalcano tartarughe marine. In alto un sole rosso infuocato, in basso il mare blu e poi verde smeraldo. “Certi amanti abbisognano di rivoluzioni! Certi amanti forgiano il proprio impegno reciproco con lo stesso fervore compulsivo che mettono nel raggiungimento dei propri obiettivi. I cori e gli slogan sono le loro canzoni d’amore. La Pantera Nera e Monica Lynne sentono l’acqua calda chiudersi sopra le loro teste, mentre le maestose tartarughe scendono in profondità, ignare della presenza di quei bizzarri cavalieri. La corrente vortica in allettanti tesori turchesi dalle striature scarlatte. E’ una scena da cartolina, di idilliaca purezza, combinata alla realizzazione di fantasie romantiche”. A pag. 2 Graham realizza una tavola unica che raffigura i due protagonisti tornare in superficie trainati dalle tartarughe marine, mentre bolle d’acqua mostrano i particolari dei loro corpi e dei loro volti. Usciti dall’acqua, a pag. 3, T’Challa e Monica iniziano a parlare, seduti su uno scoglio, mentre si asciugano al sole. E’ il prologo del bacio che occupa le pagg. 4 e 5, su uno sfondo bianco in cui sono mostrate prima le silhouette dei due, poi in alternanza i particolari dei loro volti e una natura sconosciuta all’uomo occidentale. “Il Wakanda diventa uno sfondo palpabile – scrive McGregor – una tela che segna il percorso di un sole color rame, una mappa per uno zaffiro di mezzogiorno che flirta con gli alberi. Si tengono per mano, come a confermare l’esistenza concreta dell’altro”. Seguono pulsioni sessuali neanche troppo nascoste, corpi umidi, desiderio.

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Graficamente la coppia Buckler-Janson unisce a una grande resa delle scene d’azione e delle anatomie dei personaggi soluzioni grafiche di grande impatto, come il titolo a doppia pagina dell’episodio Malice by Crimson Moonlight (Crudeltà sotto una luna cremisi), ispirato chiaramente alle trovate di Steranko su Nick Fury (e ovviamente anche ai titoli dello Spirit di Will Eisner). Ma anche Billy Graham è autore di pagine mai banali, dal tratteggio più sporco ma spesso costruite su layout fantasiosi e di grande impatto visivo, che raggiungono il culmine in Of Shadows and Rages (Ombre e furie). Sui colori il lavoro di Glynis Wein è eccezionale, perché riesce sia a rappresentare le meraviglie selvagge del Wakanda che a creare delle atmosfere irreali, spesso con l’uso di toni sul rosso/rosa/cremisi che costituiscono il contraltare del verde di alberi e foreste. Un plauso anche alla Marvel che ristampando queste storie in volume non ha manipolato i colori con effetti che ne avrebbero fatto perdere il fascino retrò.

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Non ho ancora parlato della seconda storyline inclusa nel volume, in cui la Pantera se la deve vedere direttamente con il Ku Klux Klan, finendo addirittura crocifisso. Ambientata in Virginia, La Pantera contro il Klan vede T’Challa tornare negli Stati Uniti per indagare sulla morte della sorella di Monica, il cui apparente suicidio nasconde in realtà un legame con lo stesso Klan e con un’altra misteriosa setta di incappucciati, il Cerchio del Drago. Gli scenari naturali del Wakanda lasciano spazio a un’ambientazione urbana ma comunque lontana dalla Manhattan degli altri supereroi Marvel. Ora Pantera Nera non deve più affrontare esseri mutanti e deformi da cartoon ma le vere minacce dell’America del tempo. Come sottolinea Grant Morrison nel suo per molti versi discutibile Supergods, il realismo di questa nuova saga raggiunge il suo culmine nella scena del supermarket di Jungle Action 20 (intitolato They Told Me a Myth I Wanted to Believe), nella quale Pantera Nera viene ferito alla testa con una scatoletta di cibo per gatti da una vecchietta bianca. “Era una sequenza impressionante – scrive Morrison – dopo anni trascorsi ad assistere a scontri tra pianeti, il realistico e terribile taglio di cinque centimetri sul cranio di Pantera aveva un impatto così viscerale che i fragorosi e fin troppo familiari pugni spaccamontagne di Kirby non potevano più reggere il confronto”.

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McGregor non ebbe però la possibilità di andare oltre il quinto episodio di La Pantera contro il Klan, lasciando la storia incompiuta. Jungle Action fu infatti cancellato per lasciare spazio a una nuova testata di Pantera Nera realizzata da Jack Kirby e in cui veniva spazzato via tutto il lavoro di McGregor sul personaggio. Poco incline a scendere a compromessi e tormentato dai tanti problemi personali (in primis la crisi del suo matrimonio), lo scrittore non ebbe la possibilità di opporsi a questa decisione, motivata sia dalle scarse vendite che dalle pieghe che stavano prendendo le storie: alla Marvel non vedevano di buon occhio l’introduzione del Ku Klux Klan in un loro fumetto, che andava a toccare temi considerati delicati e inopportuni. A poco servirono i disperati appelli alla libertà di espressione del giornalista Kevin Trublood, personaggio introdotto proprio in queste pagine come alter ego dello stesso McGregor: Jungle Action chiuse con il numero 24 del novembre 1976. Più di dieci anni dopo, McGregor tornò a lavorare sul personaggio per altre due saghe, Panther’s Quest e Panther’s Prey, in cui poté sviluppare con maggiore libertà alcune delle idee che era stato costretto a mettere da parte in precedenza. Ma questa, appunto, è un’altra storia.

“The Best American Comics 2015”

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In un mercato ormai dominato dal formato graphic novel, da volumi a fumetti di almeno 200 pagine “altrimenti non te li pubblico”, un libro di quasi 400 pagine come l’edizione 2015 di The Best American Comics è al tempo stesso una conferma di come il mercato librario abbia inglobato il mondo del fumetto e un oggetto alieno, capace di portare una ventata di aria fresca. La serie probabilmente la conoscete già, dato che fa parte di una disparata schiera di antologie pubblicata da Houghton Mifflin Harcourt che ha preso il via esattamente cento anni fa con The Best American Short Stories. Il best dedicato al fumetto esiste dal 2006 ed è stato curato nel corso degli anni da Anne Elizabeth Moore, dalla coppia Matt Madden & Jessica Abel e infine da Bill Kartalopoulos, che ne ha preso le redini a partire dall’edizione 2014. Ogni anno l’editor della serie sceglie i migliori fumetti di cartoonist americani pubblicati nel periodo 1 settembre – 31 agosto (in questo caso si tratta del periodo 1 settembre 2013 – 31 agosto 2014) e sottopone una lista degli stessi al guest editor di turno (stavolta lo scrittore Jonathan Lethem), che decide quali pubblicare e quali relegare a una semplice menzione in chiusura nella sezione Notable Comics.

Ma veniamo appunto al volume di quest’anno, che esce martedì 6 ottobre ma che ho già potuto leggere in anteprima. Pur sotto il digeribile formato di corposo hardcover, necessario per renderlo appetibile al mondo delle librerie, The Best American Comics 2015 è in realtà una celebrazione del linguaggio del fumetto nelle sue forme più naturali e spontanee. “I fumetti non combinano solamente il testo e l’immagine – scrive Kartalopoulos nell’introduzione – ma sono il prodotto dell’interazione tra le procedure formali che stanno alla base del testo e dell’immagine: una reazione chimica che attiva e consuma i suoi elementi sostanziali per produrre una terza cosa, del tutto differente. Per questo non è giusto aspettarsi che i fumetti entrino con naturalezza nel mondo dell’editoria letteraria. Spesso i fumetti sono libri, ma lo sono anche Depero Futurista o Une semaine de bonté di Max Ernst. I fumetti sono in grado di mettere insieme la lezione della narrativa e delle arti visive. Come tali, i fumetti devono continuare ad avere la capacità di sembrare alieni e difficili da assimilare all’interno dell’editoria libraria. Questa è un’espressione di ciò che sono. Aspettarsi che i fumetti siano semplicemente dei parenti stretti della narrativa letteraria è soltanto un modo per negarne le vere potenzialità”.

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R. Sikoryak, “Sadistic Comics”

Il sommario dell’antologia è una diretta diramazione del concetto espresso qui sopra. Ed è un piacere trovare sotto la dicitura The Best American Comics lavori di cartoonist che vengono dal mondo della micro-editoria o addirittura dell’autoproduzione. C’è così Josh Bayer con un estratto da Theth pubblicato da Retrofit Comics, R. Sikoryak con le copertine seriali di Sadistic Comics edite da Rotland Press, Julia Gfrörer con l’autoprodotto Palm Ash, Andy Burkholder di cui ho già parlato da queste parti a proposito di Qviet (qui con una storia breve tratta dal magazine Believed Behavior), Mat Brinkman con la prima parte di Cretin Keep On Creep’n Creek uscito sull’antologia Under Dark Weird Fantasy Grounds dell’italiana Hollow Press, Alabaster con Mimi and the Wolves (prima autoprodotto e poi ristampato da Hic & Hoc), A. Degen con Crime Chime Noir visto sul primo numero dell’antologia Felony Comics della Negative Pleasure, Kevin Hooyman con estratti dalla serie Conditions on the Ground (recentemente ristampata in volume da Floating World). E la lista degli autori che vengono dal mondo dell’underground non è finita qui, perché potrei citarne molti altri.

A. Degen, "Crime Chime Noir"

A. Degen, “Crime Chime Noir”

Senz’altro la sensibilità di Lethem ha contribuito a selezionare dei fumetti formalmente innovativi, fantasiosi, volutamente irregolari e fuori dagli schemi, non necessariamente e tradizionalmente narrativi. Fumetti che non sono romanzi illustrati ma che guardano più al mondo dell’arte che a quello della letteratura. Non a caso l’autore della copertina è Raymond Pettibon, artista che troviamo anche all’interno del volume e che si inserisce in una preciso modus operandi dell’arte contemporanea, volto a utilizzare il fumetto come linguaggio non da plagiare (come faceva Lichtenstein) ma da inglobare e magari violentare. Kartalopoulos si riferisce alle opere di questa pseudo-corrente nota come paracomics e cita a tale proposito artisti come Sol Lewitt, Ida Applebroog, Jennifer Bartlett, Keith Haring, Duane Michals, Joe Brainard. Io aggiungerei anche il collettivo The Hairy Who, a cui Dan Nadel ha dedicato di recente l’antologia The Collected Hairy Who Publications 1966-1969, di cui spero di riuscire a parlarvi un giorno o l’altro.

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Raymond Pettibon, no title (The credits rolled…)

Per completezza di informazione bisogna dire che tra i vari Best American Comics ce ne sono alcuni tratti da lavori più noti e convenzionali, spesso sotto forma di estratti. Come per le edizioni passate di questa antologia, non è certo il massimo leggere solamente il capitolo 8 di una voluminosa graphic novel, ma d’altronde non credo ci siano altre soluzioni per includere fumetti “lunghi”. E anche nella lista dei Notable Comics ce ne sono parecchi che avrei visto meglio rispetto ad altri qui pubblicati, ma si sa che il gioco del dentro o fuori è valido per ogni “best of” che si rispetti, quindi inutile soffermarsi più di tanto su questo. Oltre agli autori già citati, gli altri sono Roz Chast, Jules Feiffer, Diane Obomsawin, Ben Duncan, Farel Dalrymple, Anders Nilsen, Megan Kelso, Eleanor Davis, Gabrielle Bell, Henriette Valium, Ron Regé Jr., David Sandlin, Rosaire Appel, Ed Piskor, Peter Bagge, Joe Sacco, Jim Woodring, Cole Closser, Jesse Jacobs, Adam Buttrick, Anya Ulinich, Gina Wynbrandt, Esther Pearl Watson, Matthew Thurber, Noel Freibert, Blaise Larmee, Anya Davidson, Erik Nebel. Ah, Lethem dopo essersi già cimentato con la scrittura di un fumetto (con Omega The Unknown per la Marvel), qui si lancia anche nel disegno realizzando le brillanti introduzioni a ogni capitolo del libro. Elemento che aggiunge ulteriore valore a un volume caldamente consigliato, soprattutto se poco conoscete gli autori coinvolti.

Anders Nilsen, "Prometheus"

Anders Nilsen, “Prometheus”

“The Meeting” di Andrea Chronopoulos

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Da quando ho rinnovato il sito, una delle mie principali intenzioni era quella di pubblicare brevi storie a fumetti che a me erano particolarmente piaciute, a firma di autori che meriterebbero di essere conosciuti a un pubblico più vasto. Purtroppo finora ci sono riuscito poco, dato che questo è soltanto il secondo appuntamento con la rubrica Comic/Art. Mi sono però particolarmente impegnato per riuscire a farvi leggere questo The Meeting di Andrea Chronopoulos, uscito originariamente in un limitatissimo albetto stampato in 30 copie per Studio Pilar. Quando l’ho comprato alla scorsa Lucca Comics è stato un’assoluta rivelazione, perché raramente capita di leggere qualcosa di così brillante. The Meeting ha tutti gli elementi della storia breve perfetta, con una trama ben strutturata sin dall’inizio, un momento visionario nel mezzo, una notevole dose di ironia e un finale che chiude il cerchio. In più restituisce in maniera incredibilmente fedele un’atmosfera anni ’70 americana, tra teorie del complotto, ossessioni e paranoia, che ben si sposa con lo stile minimale sfoggiato dall’autore in questa occasione. Ok, la sto facendo più lunga del dovuto. Prima di lasciarvi alla lettura vi dico solo che Andrea Chronopoulos è un illustratore freelance nato nel 1990 ad Atene. Trasferitosi a Roma per studiare illustrazione e animazione, è membro fondatore di Studio Pilar, collettivo di illustrazione, etichetta di autoproduzioni editoriali e da poco anche bookshop. Di recente ha collaborato all’antologia Cocktails After-Dinner e ha acconsentito alla pubblicazione di questo fumetto su Just Indie Comics. Grazie a lui e buona lettura a voi.

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“Blammo” #8 1/2 di Noah Van Sciver

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Dimenticate i tipici racconti alla Van Sciver, quelli che vedono protagonisti i suoi loser brutti, sfigati e rovinati dalla vita e che erano la principale attrattiva dei precedenti numeri di Blammo, nonché il cuore dell’antologia Youth Is Wasted (ne ho parlato qui). Come la numerazione lascia intendere, questo ottavo numero e mezzo dell’antologia è un albo atipico, che mette insieme in un bella confezione impreziosita dall’uso del colore una serie di contenuti eterogenei, già pubblicati altrove oppure realizzati per l’occasione.

Il “cuore” di questo albetto, come al solito pubblicato da Kilgore Books, è costituito dai contenuti autobiografici, a partire dai diary comics già visti on line e che, riprendendo la struttura del comic book I Don’t Hate Your Guts uscito per 2d Cloud, ne proseguono anche la storia. Se in quell’occasione il sarcasmo spietato e l’ironia affilata di Van Sciver lasciavano spazio al romanticismo, qui assistiamo all’epilogo di quella relazione amorosa, in una serie di pagine dai colori pastello in cui a prevalere è la malinconia. Van Sciver non si mette completamente a nudo, non rivela particolari intimi come farebbero altri autori, ma raccontando piccoli fatti della quotidianità riesce a raggiungere il lettore, a stabilire un’empatia. Disegnati in fretta sul suo sketchbook, questi diari sono per me una delle cose preferite della produzione di Van Sciver e in un’ipotetica classifica dei molteplici “generi” affrontati dall’autore statunitense li metterei al secondo posto, subito dopo le storie dei perdenti di cui dicevo sopra. La tematica della rottura con la sua ex è ripresa in un paio di fumetti che fanno da cornice alle sei pagine di diario, in cui si passa da una malinconia ancora più toccante (in una spendida tavola in cui l’autore ritrova a casa le forcine per capelli della ragazza), alla saggezza dell’amico e collega John Porcellino (nel resoconto di una conversazione telefonica) fino alla disperazione (in una tavola che ritrae l’autore a letto).

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Se tutto questo vi sembra troppo intimista siete fuori strada, perché in questo numero di Blammo c’è molto altro, come un’apparizione speciale di Fante Bukowski (protagonista dell’omonimo libro fatto uscire qualche mese fa da Fantagraphics), un divertente fumetto con protagonista un killer di comunisti – che uccide demoni con la falce e martello stampata sul petto al grido di “better dead than red” – una storia marinara (o presunta tale) piena di mostri, due pagine biografiche (una dedicata addirittura ai Limp Bizkit, chissà perché) e una doppia tavola che ci riporta alle atmosfere del graphic novel The Hypo. Citazione a parte merita la ristampa di alcune strisce uscite per il giornale di Denver Westword, in cui possiamo notare l’abilità di Van Sciver anche come autore di newspaper strip, qui incentrate su temi di volta in volta diversi come la solitudine, i dischi preferiti, la depressione, le sbornie e via dicendo. Tra tutte la mia preferita è quella dedicata all’inverno, con l’inizio cult “I hope this winter is the coldest and darkest on record. I hope the sun goes down at noon and everybody stays indoors and reads”. Come non essere d’accordo?

Ah, se qualcuno ancora non lo sapesse Van Sciver sta per debuttare in Italia con il volume Saint Cole, in uscita in questi giorni per Coconino Press.

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Un primo sguardo a “Dog City” #4

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Non è proprio una preview perché il volume ha già debuttato qualche giorno fa alla Small Press Expo, ma quelle che trovate di seguito sono comunque alcune tavole dal quarto numero di Dog City, interessantissima antologia statunitense di cui ho già parlato in passato recensendo la terza uscita. In quel caso si trattava ancora del vecchio formato, una scatola di cartone contenente mini-comics di dimensioni e autori diversi, insieme a poster, riviste e stampe: una formula senz’altro originale ed esteticamente attraente, ma che presentava anche delle controindicazioni logistiche, dato che rendeva praticamente impossibile spedire il tutto fuori dagli Stati Uniti a causa dei costi decisamente elevati. Con questo quarto numero si è passati al più classico formato paperback, potenziato dall’utilizzo della piattaforma print-on-demand CreateSpace di Amazon che ha reso possibile una distribuzione facile e istantanea anche in Europa. E infatti Dog City #4 – come sempre curato da Simon Reinhardt, Luke Healy e Juan Fernández – è già disponibile su Amazon.it a un prezzo decisamente competitivo. All’interno troverete 7 fumetti, tutti frutto di collaborazioni a 4 mani tra 14 cartoonist e cioè Disa Wallander & Matt Davis, Luke Healy & Sasha Steinberg, Sarah Bowie & Iris Yan, Ed Cheverton & Dan Rinylo, Simon Reinhardt & Whit Taylor, Aaron Cockle & Juan Fernández, Caitlin Rose Boyle & Jennifer Lisa. Di seguito una tavola da ogni contributo.

 

Untitled Correspondence by Disa Wallander & Matt Davis

“Untitled Correspondence” by Disa Wallander & Matt Davis

Luke Healy and Sasha Steinberg’s Berghain, Berlin

Luke Healy and Sasha Steinberg’s “Berghain, Berlin”

Crossed Memories, a collaboration between Sarah Bowie and Iris Yan

“Crossed Memories” by Sarah Bowie and Iris Yan

The Summits and Valleys of Illusion by Ed Cheverton and Dan Rinylo

“The Summits and Valleys of Illusion” by Ed Cheverton and Dan Rinylo

Gestures by Simon Reinhardt and Whit Taylor

“Gestures” by Simon Reinhardt & Whit Taylor

Lists for Departure by Aaron Cockle and Juan Fernández

“Lists for Departure” by Aaron Cockle and Juan Fernández

Snack Time, a collaboration between Caitlin Rose Boyle and Jennifer Lisa

“Snack Time” by Caitlin Rose Boyle and Jennifer Lisa

Il meglio del Web – 21/9/2015

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Si è conclusa ieri negli Usa la Small Press Expo, il principale evento dedicato al fumetto indie nord-americano. Dei vincitori degli Ignatz Awards ho già parlato in questo post, qui vi do invece qualche dritta se volete approfondire le novità che hanno debuttato a Bethesda. Una lista più o meno completa la trovate sul sito ufficiale dell’evento, mentre Sequential State dà qualche consiglio sugli acquisti e Panel Patter riepiloga tutti i post sulla SPX pubblicati nelle scorse settimane. Fino a stanotte Comixology offre uno sconto del 50% sulle versioni digitali di alcuni titoli di editori o artisti presenti all’evento (io ne ho approfittato per recuperare qualche titolo della Oily Comics di Chuck Forsman), mentre il cartoonist ed editore americano Box Brown ha reso gratuitamente disponibile su Gumroad il suo albo An Entity Observes All Things, candidato agli Ignatz nella categoria Outstanding Anthology or Collection.

E a proposito di fumetti americani, un estratto da Cretin: Keep on Creep’n Creek, la storia a puntate di Mat Brinkman per l’antologia Under Dark Weird Fantasy Grounds dell’italiana Hollow Press, sarà uno dei piatti forti del nuovo volume di The Best American Comics, in uscita il 6 ottobre e che oltre a Brinkman ospiterà lavori di Gabrielle Bell, Anya Davidson, Ed Piskor, Blaise Larmee, Josh Bayer e tanti altri. Un cast davvero notevole, messo in piedi dall’editor Bill Kartalopoulos e dal guest editor di quest’anno, lo scrittore Jonathan Lethem. A firmare la copertina addirittura Raymond Pettibon. Wow!

 

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Un paio di crowdfunding in giro per il mondo. Negli Usa la 2d Cloud di Minneapolis ha inaugurato una raccolta fondi su Kickstarter per finanziare le pubblicazioni autunnali, tra cui si segnala una nuova rivista di critica e interviste, Altcomics Magazine. Disponibili anche a un prezzo speciale le ottime uscite primaverili, come 3 Books di Blaise Larmee, Salz & Pfeffer di Émilie Gleason e Qviet di Andy Burkholder. Peccato per le spese di spedizione inevitabilmente salate per noi europei.

 

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Intanto in Italia La Trama lancia una nuova serie di Coppie miste, incentrata questa volta sulle collaborazioni tra Silvia Rocchi e Anna Deflorian, Alice Milani e Tuono Pettinato, Viola Niccolai e Federico Manzone, Francesca Lanzarini e Matteo Berton, Luca Caimmi e Victor Lejeune. Le prime tavole pubblicate da Fumettologica sembrano decisamente interessanti e in particolare mi incuriosce la singolare coppia Alice Milani-Tuono Pettinato, mentre Rocchi e Deflorian sembrano davvero perfette per lavorare insieme.

Sempre su Fumettologica segnalo l’anteprima di Sunday, nuova antologia di Delebile, questa volta sotto forma di spillato di 36 pagine a colori di grande formato, con tavole sul tema della domenica a opera di Bianca Bagnarelli, Paolo Cattaneo, Max de Radiguès, Aisha Franz, Roman Muradov, Nicolò Pellizzon, Alice Socal, Mickey Zacchilli. Sunday è ordinabile qui a prezzo scontato fino al 25 settembre e sarà in mostra al Treviso Comic Book Festival, evento che come al solito propone mostre e ospiti di livello dall’Italia e dall’estero, con focus sul fumetto olandese rappresentato da Joost Swarte e sull’inglese Nobrow.

 

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Tra gli ospiti del TCBF c’è anche Paolo Cattaneo, che pubblica in questi giorni per Canicola L’estate scorsa. Sempre il colletivo bolognese fa uscire la prima storia lunga di Vincenzo Filosa, Viaggo a Tokyo. Sono molto curioso di leggerli entrambi.

 

L'estate scorsa

 

Intanto date un’occhiata a questi due nuovi fumetti dell’argentino Berliac su Vice: Myrra e I Never Was In Mexico.  Ho detto da tempo a Berliac che parlerò di lui più approfonditamente su Just Indie Comics: spero di riuscirci presto, così smetterò di sembrare un fanfarone.

 

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Sul sito di comics journalism Graphic News, Pietro Scarnera disegna XO, An Introduction to Elliott Smith, incentrata sul pezzo Waltz #2. Leggete, guardate e ascoltate, ne vale la pena.

Rob Clough recensisce Truth Is Fragmentary di Gabrielle Bell, J. Caleb Mozzocco parla di Terror Assaulter: O.M.W.O.T. (One Man War On Terror) di Benjamin Marra, Joe McCulloch analizza dettagliatamente il progetto Electricomics che vede tra gli ideatori Alan Moore, Robert Kirby intervista Josh Simmons, Annie Koyama parla dei suoi libri preferiti.

E a proposito di Koyama Press, la primavera canadese sembra decisamente fiorente, con il nuovo libro di Patrick Kyle, una raccolta di zine di Aidan Koch e altre interessanti novità.

 

Patrick Kyle Don't Come In Here

Assegnati gli Ignatz Awards 2015

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Trionfano le donne agli Ignatz Awards 2015, consegnati ieri sera all’annuale Small Press Expo. Le cartoonist nominate non hanno lasciato nemmeno un premio ai colleghi uomini e in alcuni casi hanno davvero fatto incetta del prezioso mattoncino, praticamente l’oscar del fumetto indie nord-americano. Sophia Foster-Dimino si è aggiudicata ben tre premi, mentre Sophie Goldstein, che già l’anno scorso aveva vinto un Ignatz per House of Women (come potete vedere da questa foto che avevo scattato in loco), ha portato a casa ben due riconoscimenti per il suo The Oven. Sophia e Sophie insomma, nemmeno a farlo apposta. Peccato che sia rimasto fuori ancora una volta Noah Van Sciver, che un premio l’avrebbe meritato. E il titolo di “oustanding anthology” sarebbe stato il giusto riconoscimento per il librone celebrativo della Drawn and Quarterly. Ma con i premi funziona così, si sa. Di seguito la lista completa, che può essere anche un’ottima occasione per recuperare materiale che avevamo tutti sottovalutato al momento dell’uscita.

 

Outstanding Artist
Emily Carroll, Through The Woods
Ed Luce, Wuvable Oaf
Roman Muradov, (In a Sense) Lost and Found
Jillian Tamaki, SuperMutant Magic Academy
Noah Van Sciver, Saint Cole

 

Outstanding Anthology or Collection
Drawn and Quarterly, 25 Years of Contemporary Cartooning, Comics, and Graphic Novels, edited by Tom Devlin, Chris Oliveros, Peggy Burns, Tracy Hurren and Julia Pohl-Miranda
An Entity Observes All Things by Box Brown
How To Be Happy by Eleanor Davis
Pope Hats #4 by Ethan Rilly
SuperMutant Magic Academy by Jillian Tamaki

 

Outstanding Graphic Novel
Beauty by Kerascoët and Hubert
The Oven by Sophie Goldstein
Rav by Mickey Zacchilli
Saint Cole by Noah Van Sciver
Wendy by Walter Scott

 

Outstanding Story
Doctors by Dash Shaw
Me As a Baby by Michael DeForge (from Lose #6)
Nature Lessons by Marguerite Van Cook and James Romberger (from The Late Child and Other Animals)
Sex Coven by Jillian Tamaki (from Frontier #7)
Weeping Flower, Grows in Darkness by Kris Mukai

 

Promising New Talent
M. Dean, K.M. & R.P. & MCMLXXI (1971)
Sophia Foster-Dimino, Sphincter, Sex Fantasy
Dakota McFadzean, Don’t Get Eaten by Anything
Jane Mai, Soft
Gina Wynbrandt, Big Pussy

 

Outstanding Series
Dumb by Georgia Webber
Frontier edited by Ryan Sands
March by John Lewis, Andrew Aydin and Nate Powell
Pope Hats by Ethan Rilly
Sex Fantasy by Sophia Foster-Dimino

 

Outstanding Comic
Borb by Jason Little
The Nature of Nature by Disa Wallander
The Oven by Sophie Goldstein
Pope Hats #4 by Ethan Rilly
Weeping Flower, Grows in Darkness by Kris Mukai

 

Outstanding Minicomic
Devil’s Slice of Life by Patrick Crotty
Epoxy #5 by John Pham
King Cat #75 by John Porcellino
Sex Fantasy #4 by Sophia Foster-Dimino
Whalen: A Reckoning by Audry

 

Outstanding Online Comic
The Bloody Footprint by Lilli Carré
Carriers by Lauren Weinstein
Mom Body by Rebecca Roher
O Human Star by Blue Delliquanti
Witchy by Ariel Ries

 

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Anteprima di “Irene” #6

(English text)

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Debutterà questo weekend alla Small Press Expo di Bethesda, nel Maryland, il sesto numero di Irene, curato come sempre da Andy Warner, dw (autore della cover qui sopra) e Dakota McFadzean. In passato ho già parlato di questa antologia, di cui ho recensito il terzo e il quarto numero, e già allora l’ho definita come una delle realtà più interessanti nell’attuale panorama del fumetto indie nord-americano. In attesa di avere tra le mani il nuovo volumetto, vi propongo di seguito alcune immagini di quella che si preannuncia come l’uscita più imponente della serie, dato che avrà ben 216 pagine e ospiterà i contributi di autori da tutti i continenti, incluso l’Antartide. Buona visione.

Andy Warner

Ben Juers

Ben Passmore

Carolyn Nowack

Dakota McFadzean

dw

Frøydis Sollid Simonsen

Jackie Roche

Jai

Jai Granofsky

Katie Parrish

Kevin Uehlein

Leif Goldberg

Lena Merhej

Lucy Bellwood

Luke Howard

Marta Chudolinska

Marc Bell

Natsuko Yoshino

Nick Cartwright

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No Tan Parecidos

SeanK

Sean Knickerbocker

Shennawy

Shennawy

Tillie Walden

“Drawn Onward” di Matt Madden

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Drawn Onward è un comic book di Matt Madden pubblicato inizialmente come 182esimo numero della rivista One Story nel novembre 2013 e ristampato qualche mese fa da Retrofit Comics. Una donna incontra nei sotterranei della metropolitana uno sconosciuto, che ogni volta sembra riconoscerla tanto da implorare la sua attenzione e da dirle che non può vivere senza di lei. Detta così la storia potrebbe sembrare un mystery, costruito sul misterioso legame tra i due personaggi. In realtà Drawn Onward non è un fumetto incentrato sul plot ma sulla forma. Madden, che ai lettori italiani sarà familiare soprattutto per Esercizi di stile. 99 modi di raccontare una storia pubblicato da Black Velvet, realizza qui il suo ennesimo saggio in forma di fiction. D’altronde le sue opere sono spesso esperimenti che analizzano le strutture del fumetto e questo suo approccio alla narrativa disegnata ha trovato ancora più sfogo da quando il cartoonist statunitense si è trasferito ad Angoulême con la moglie Jessica Abel. Così, quando la protagonista comincia a ricambiare le attenzioni dello sconosciuto, il loro interesse diventa reciproco e sfocia nel bacio che occupa le pagine centrali dell’albo. Subito dopo, la prospettiva si ribalta. Ora è la donna a cercare l’uomo, che dal canto suo inizia a ignorarla e pian piano a respingerla. Ogni tavola della seconda metà del comic book diventa così speculare alla tavola corrispondente della prima parte, in un gioco di rimandi che ribalta i ruoli e trasforma quello che sembrava inizialmente un thriller in un sottile gioco da Settimana Enigmistica. L’alternarsi studiato di tavole disegnate con uno stile pulito e leggero e di altre caratterizzate da linee corpose fa il resto, rendendo a tutti gli effetti Drawn Onward un fumetto incentrato sulla struttura più che sulla narrazione.

Drawn_Onward_09-copy_originalNella versione originale la storia usciva con il sottotitolo di “star-crossed comic”, evidenziando il rapporto maledetto dal destino che lega i due protagonisti, mentre la nuova edizione è stata presentata come un fumetto palindromo. Tra le due definizioni la seconda è vera soltanto in parte, perché le pagine di apertura e chiusura contestualizzano la lettura e la rendono pienamente comprensibile soltanto se fatta “in avanti”, come suggerisce il titolo. Risulta invece azzeccatissima la definizione originale, dato che Drawn Onward si fa apprezzare più che per la dimensione formale – sinceramente un po’ fine a se stessa e neanche troppo originale – per il suo significato di parabola sui rapporti sentimentali, mostrando come a volte la sintonia duri soltanto per lo spazio di un bacio, dato tra le pagine centrali di un fumetto.

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Drawn Onward è disponibile qui nel negozio di Just Indie Comics.

Drawing in the sky – Un’intervista con Mardou

(English text)

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Ho scoperto i fumetti di Sacha Mardou (in arte solo Mardou) con il secondo numero di Sky In Stereo, pubblicato da Yam Books dopo l’esordio autoprodotto. Quel mini-comic conteneva la scena in cui la protagonista prendeva l’acido e cominciava a vedere strani segni nel cielo, iniziando un vagabondaggio quasi liberatorio per le strade di Manchester, Inghilterra, dove era ambientato il fumetto e dove è cresciuta l’autrice. Quel momento così libero, quella fuga, quell’assolo proposto con tanta abilità da Mardou mi fece capire che avevo davanti agli occhi un talento cristallino. La lettura del primo numero mi confermò quell’impressione: le vicende di Iris erano raccontate con un’abilità nella costruzione dei dialoghi, una leggerezza e una scorrevolezza difficili da trovare altrove, soprattutto se si tiene conto che dietro a quella leggerezza si nascondevano temi importanti come amore (soprattutto per il collega di fast-food Glenn), droga (dall’ecstasy agli acidi fino all’eroina) e adesso anche religione. Dico “adesso” perché Sky In Stereo sta finalmente tornando in pista, ma non con il terzo numero che ci potevamo aspettare, quanto con un’edizione definitiva in due volumi pubblicati da Revival House Press. Il primo esce in questi giorni e contiene un lungo prologo inedito, i due mini-comics e quello che doveva essere il terzo numero, per un totale di 182 pagine. L’ho letto in anteprima e ne ho parlato con l’autrice.

Ciao Sacha, dato che questa intervista è in qualche modo un’anteprima del vol.1 di Sky In Stereo, lascerei a te l’onore di introdurre il libro a chi non lo conosce.

Ciao Gabriele, Sky In Stereo è un graphic novel in due parti che parla di un’adolescente chiamata Iris, del suo lavoro schifoso, della sua vita scolastica e infine del suo esaurimento nervoso. Sembra deprimente ma non lo è. Ci sono diversi momenti positivi lungo il percorso.

La prima cosa che mi viene in mente parlando di Sky In Stereo è che diversi elementi possono sembrare autobiografici, a partire dal fatto che la storia è ambientata a Manchester, in Inghilterra, dove sei nata e cresciuta. Ma al di là del sapere quanto c’è di autobiografico nelle vicende di Iris, a me piacerebbe chiederti se il materiale di Sky In Stereo parte da qualcosa che hai scritto o disegnato durante gli anni del college, per esempio un diario o uno sketchbook, perché alcune parti sono veramente accurate e realistiche.

No, non tenevo un diario a quei tempi. Molti degli eventi più importanti sono tratti dalla mia vita, ma ho fatto la scelta di trasformarli in fiction. Inoltre questo materiale guarda parecchio indietro, a più di venti anni fa. Non posso ricordare conversazioni fatte all’epoca, e così diventa invenzione. La fiction mi ha dato molta più libertà nell’esplorare da una prospettiva diversa gli aspetti più complicati della vita reale, comprimendoli in qualcosa di più semplice, una storia che inizia e finisce.
Molti personaggi sono inventati, come per esempio Doug, il patrigno di Iris. Mia madre era sposata con un tipo, ma era molto diverso da Doug. Mi piace molto quel personaggio in realtà, è stato divertente scriverlo e i continui battibecchi tra lui e la mamma di Iris aiutano a rivelare i motivi delle decisioni di Iris nella storia. Mia mamma è una Testimone di Geova nella vita reale, ma non è come Gina. Gina è abbastanza devota e conservatrice, l’ho descritta così per renderla funzionale alla storia. Mia mamma invece è adorabile e ho un rapporto molto stretto con lei. L’ho sempre avuto.
Sono contenta che la storia sembri vera comunque, mi piace l’idea che la gente ci si possa riconoscere.

Sì, tutta la storia sembra reale e alcune parti sono molto vivide, penso per esempio alla rottura tra Iris e John, che ha una dimensione emotiva molto forte…

Grazie. Penso che crescendo dimentichiamo quanto è intenso l’amore da giovani. Lì ho cercato proprio di catturare l’intensità e la futilità di quel sentimento.

Questa prima parte, in cui esplori l’ambiente familiare e l’educazione religiosa di Iris, è inedita, infatti Sky In Stereo #1 si apriva con quello che adesso è il secondo capitolo, quando Iris è in macchina con le amiche prima di entrare in un locale. Come ti è venuta l’idea di realizzare questa specie di prequel?

Ho sempre avuto l’intenzione di raccontare la storia dall’inizio, ma quando ho disegnato i mini-comics ho pensato che sarebbe stato più interessante cominciare direttamente nel mezzo dell’azione. Nel secondo libro (ho già le bozze pronte e lo disegnerò e inchiostrerò in autunno), il tema religioso tornerà nel periodo trascorso da Iris all’ospedale psichiatrico. Il manoscritto originale era molto più voluminoso e andava anche più indietro, a quando Iris aveva sette anni e i sui genitori stavano divorziando. La storia com’è adesso è venuta fuori durante l’editing. Ho tagliato due interi capitoli di circa 100 pagine totali, di cui avevo già fatto le bozze e che mi piacevano molto. “Evvai, almeno non devo disegnare tutta questa roba!”. E penso che alla fine il libro sia venuto meglio così.

A questo proposito un momento importante è quando Iris scopre L’età della ragione di Sartre e le sue certezze religiose vengono meno, mi ci sono ritrovato molto in quella parte, dato che a parecchie persone è capitato, intorno ai 14-15 anni, di mettere in discussione gli insegnamenti tramandati dalla famiglia e dalla società dopo essersi avvicinato a certi romanzi o testi filosofici.

Sì, ho letto un libro veramente importante per me, Confessions of a Teenage Jesus Jerk di Tony Du Shane ed è esattamente quello che succede a lui: dopo aver letto un libro dalla cattiva reputazione ha cominciato a mettere in discussione la sua famiglia di Testimoni di Geova. A dire il vero ho letto il libro dopo aver scritto Sky In Stereo, ma l’ho trovato molto vicino.

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Un’altra scena centrale è quella in cui Iris prende l’acido, non a caso le sue visioni del cielo danno il titolo al libro. All’inizio è fatta, felice, esaltata, ma con il passare del tempo è come se questa esperienza le abbia dato non solo “buone vibrazioni” ma anche una nuova consapevolezza, come se l’acido le avesse mostrato la strada per lasciare da parte la sua insicurezza…

E’ come si sente il giorno dopo, si sente speciale e positiva. Ma poi nei giorni seguenti non ha dormito né mangiato… La fiducia in se stessi quando è euforica non dura. Non può durare.

E infatti questo apre la strada al suo esaurimento, che sarà il tema del secondo volume…

Sì, il secondo volume avrà le stesse pagine del primo e vedrà Iris rinchiusa durante l’estate. C’è un estratto di tre pagine alla fine di questo libro che dà l’idea di cosa succederà. Per certi versi mi sono lasciata influenzare da La campana di vetro di Sylvia Plath.

Iris ascolta un sacco di musica dei primi anni ‘90, ci sono riferimenti ai Pixies, ai Blur, ai Pavement, agli Orbital, al Nick Cave solista… Ma ci sono anche David Bowie e i Velvet Underground… Tu cosa ascoltavi al college?

Tutta questa roba, tranne gli Orbital. La techno e la dance ancora andavano forte a Manchester, anche se il boom c’era stato all’inizio degli anni ’90. Non sono mai stata coinvolta in quelle scene. La canzone dei Pulp Sorted For E’s & Wizz era molto realistica, non per me magari, ma vedevo quel tipo di cultura intorno a me. Mi ricordo di aver letto un’intervista a Nick Cave degli anni ’90 e lui raccontava di aver iniziato a fare a botte con qualcuno dopo aver provato l’ecstasy. Ahah, è lui il mio tipo!

E che mi dici degli Smiths? Non so se ti piacevano, ma ci sono alcuni momenti che potrebbero essere tratti da un testo di Morrissey, per esempio quando alla fine del primo capitolo Iris pensa “He was my first… Being young feels like a curse. All this time ahead of me… Blank and grey”. E sono di Manchester anche loro…

Erano in giro un po’ prima di me e non sono mai stata una fan. Le chitarre di Johnny Marr mi hanno sempre urtato i nervi. Mi piacciono i Joy Division e i New Order, che erano altri due gruppi importanti di Manchester. Quando ero al liceo andavano forte gli Happy Mondays e i James. Alla fine il fumetto è ambientato a Manchester, e la musica è in qualche modo strettamente legata alla città. Era un posto dove suonavano tante band e da lì sono nati grandissimi gruppi. E questo ha dato a questa città altrimenti poco importante un senso di se stessa.
E’ difficile da spiegare ma ho cercato di rendere la musica parte del tessuto del libro nello stesso modo il cui la musica è intrecciata alla cultura della città di Manchester.

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Facendo un passo indietro, purtroppo ho conosciuto i tuoi lavori soltanto con gli albetti di Sky In Stereo, ma so che prima hai realizzato parecchi lavori, come Anais In Paris e Manhole. Ho visto on line qualche storia breve tratta dall’antologia tutta al femminile Whores of Mensa e sono molto diverse, si tratta di brevi racconti più estemporanei, mentre le tue ultime cose sono molto incentrate sulla narrazione. C’è qualche artista a cui ti ispiravi in modo particolare ai tempi di Whores of Mensa e come sei arrivata poi a sviluppare uno stile così narrativo?

Dan Clowes e Julie Doucet erano due delle mie fonti di ispirazioni. Ma erano entrambi degli artisti incredibili. Ho capito che la mia forza era la scrittura e così trovare uno stile grafico da mettere al servizio delle mie storie diventò il mio obiettivo di lungo termine. E lo è ancora!

In tal senso questa prima raccolta di Sky In Stereo segna una crescita dal punto di vista stilistico, mi sembra che le parti inedite poi siano più curate, come se con il passare del tempo il tuo stile stesse diventando più meticoloso…

Sono molto più a mio agio con il mio stile adesso, e penso che si veda. Scoprire il lavoro di Gabrielle Bell circa dieci anni fa è stato veramente importante per me. Non che io stia cercando di imitarla, ma c’è quella rassicurante sensazione di scorrevolezza nel suo disegno che mi ha davvero ispirato. E non si sforzava di disegnare, le bastava essere se stessa. Mi ha formato!
Inoltre penso di aver inconsapevolmente preso alcune cose da Ted May, mio marito. E’ un artista incredibilmente bravo, io non sono al suo livello. Ma stavo guardando al modo in cui disegno gli occhi adesso e ho capito che l’ho ripreso da Ted in tutto e per tutto.
Beh, siamo sposati quindi sono autorizzata, o almeno credo.

Beh, non credo che ti farà causa. Il paragone con Gabrielle Bell è perfetto, lei è una delle mie cartoonist preferite e sia le tue storie che quelle di Gabrielle sono scorrevoli, leggibili e mai noiose. Inoltre siete due artiste molto abili nel rendere il linguaggio del corpo…

Grazie, mi piace veramente tanto il suo lavoro, e poi ha avuto una vita così interessante. Hai notato che Gabrielle raramente usa i primi piani? Nella maggior parte delle sue vignette disegna figure intere o a tre quarti. Mi ricorda Ozu, i suoi film erano così.

Ok, siamo quasi alla fine dell’intervista e ne approfitto per chiederti se c’è qualcosa che ti è piaciuto davvero negli ultimi tempi, qualche fumetto oppure un romanzo o un film.

Everywhere Antennas di Julie Delporte è meraviglioso, l’ho adorato. E Paul Joins the Scouts di Michel Rabagliati è formidabile. Lui è uno scrittore e un cartoonist davvero bravo. Mi piace molto anche il lavoro di Melissa Mendes.
Ted sta lavorando al prossimo numero di Men’s Feelings e ne sto leggendo qualche pezzo quando mi avvicino di nascosto alla sua scrivania. E’ grandioso!

E per quanto riguarda la narrativa? Ho letto che hai studiato letteratura inglese al college, quindi sarei curioso di sapere se c’è qualche romanzo che hai apprezzato di recente o qualcosa a proposito dei tuoi autori preferiti.

Mi piace leggere tutto di un autore, partendo da qualsiasi cosa abbia scritto per passare poi alla sua biografia o autobiografia. Negli ultimi due anni ho letto tutta Doris Lessing, è probabilmente la mia persona preferita di sempre. O comunque è nella top five. Il suo libro Shikasta è diverso da qualsiasi cosa io abbia letto in precedenza.
Mi piace molto anche John Updike, alcuni lo hanno accusato di sessismo perché era un gran donnaiolo ma in realtà descriveva i suoi personaggi femminili in modo molto realistico. Cioè, se leggi le cose di Erica Jong scritte negli stessi anni i personaggi sembrano datati e stucchevoli. Invece le casalinghe di Updike sembrano reali e riescono a commuovere.
Leggo parecchi libri per bambini con mia figlia. Adoriamo la serie The Borrowers e in questo momento stiamo per finire i romanzi dei Moomins, Tove Jansson era grandiosa. Quei libri hanno ispirato i miei sogni. L’altra notte ho sognato un’altra volta tesori sommersi, quindi grazie Tove!

A proposito di sogni, in Italia abbiamo un famoso presentatore, Gigi Marzullo, che faceva un programma televisivo notturno in cui intervistava a lungo i suoi ospiti, spesso facendo domande abbastanza assurde. E una di queste era proprio “la vita è un sogno o i sogni aiutano a vivere meglio?”. Concludeva ogni intervista con la classica “si faccia una domanda e si dia una risposta”. Mi piacerebbe provare quest’ultima, che ne dici?

D- Hai visto qualcosa di fico di recente?
R- Ieri ho disturbato due coccinelle che si stavano accoppiando nel mio giardino. Stavo guardando le mie piante di cetriolo per vedere se ce n’era qualcuno pronto per essere colto e ho trovato questa coppia che si era appartata, si erano infilate in un angolo nascosto vicino a un cespuglio, coperte da una foglia. Una era giallognola con un sacco di macchie e la femmina era rossa con due chiazze. E mi è sembrata davvero una cosa fica.

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