Speciale “Hate” / “Peter Bagge: Conversations”

Da diversi anni la University Press of Mississippi si sta distinguendo per una serie di collane dedicate agli studi culturali più diversi, tra cui appunto il fumetto, che viene trattato nei suoi molteplici aspetti, da fenomeno di massa e di mercato a veicolo di storie e contenuti. In particolare l’ottima serie Conversations curata da M. Thomas Inge si caratterizza per riunire in rigorosi volumi monografici alcune interviste rilasciate da un singolo autore nel corso degli anni, accompagnate da introduzione, biobibliografia e – ove possibile – una chiacchierata inedita realizzata apposta per l’occasione. Uscita dopo uscita la serie ha ospitato autori diversissimi tra loro come Ben Katchor, Chester Brown, Jim Shooter, Steve Gerber, Michael Allred, Daniel Clowes e tanti altri. E tra questi altri c’è appunto Peter Bagge, cui è stato dedicato nel 2015 un volume a cura di Kent Worcester che – dietro una cover francamente terribile – mette insieme interviste rilasciate nell’arco di 26 anni, da quella datata 1988 e pubblicata originariamente nel #8 della fanzine Chemical Imbalance a quella appunto condotta dallo stesso Worcester nel 2014 per la pubblicazione del libro.

Gli argomenti trattati sono ovviamente assai variegati, e vanno dalla gioventù nei sobborghi dello stato di New York al periodo della School of Visual Arts, passando per le fonti di ispirazione, le tecniche utilizzate, le sue opinioni (via via sempre meno lusinghiere) sul fumetto alternativo e toccando di volta in volta particolari periodi della carriera di Bagge, così che il lettore si trova a ripercorrere le sue diverse opere. Intervista dopo intervista si parla così di Comical Funnies, Neat Stuff, Weirdo, Hate, The Megalomaniacal Spider-ManSweatshopApocalypse Nerd, le strisce per Reason, Woman Rebel: The Margaret Sanger Story e altro ancora, in un viaggio che mostra le mille sfaccettature del cartooning di Bagge e le diverse avventure editoriali e artistiche. In tutto ciò un ruolo importante riveste ovviamente Hate, opera centrale della carriera dell’autore e che torna costantemente nel volume, con qualche curiosità degna di nota. Per esempio nella trascrizione dell’incontro pubblico con Guy Lawley del 1992, ripreso dal #2 della rivista Comics Forum, rispondendo a un lettore Bagge già anticipava i suoi piani di chiudere la serie con ben 6 anni di anticipo, e quando all’epoca erano usciti soltanto una manciata di numeri. “Ho sempre visto Hate come una serie di 25 numeri o giù di lì. Non ho un’idea precisa di quando finirà, è solo che… Mi dà davvero fastidio vedere i fumettisti rimanere incastrati con un personaggio di successo, come se dovessero fare le stesse cose per sempre. Dal canto mio sono sicuro che non voglio disegnare Buddy Bradley per il resto della mia vita”.

Non è una semplice intervista il pezzo Peter Bagge Leads the Way to Seattle Comics Riches di Kit Boss, pubblicato nel 1994 sul quotidiano The Seattle Times e che indaga proprio il fenomeno Hate dissotterrandolo dall’underground per presentarlo a un pubblico generalista. Con spirito da giornalista di inchiesta, Boss spiega il successo del comic book elencando fatti su fatti e interpellando le parti in causa, dallo stesso Bagge a Gary Groth, dalla moglie di Bagge Joanne all’amico e collega J.D. King. E’ tratta invece dal “comic issue” di Ben Is Dead l’intervista con Brian Doherty che racconta un po’ di curiosità sui tentati adattamenti cinematografici e televisivi delle vicende di Buddy Bradley. Lo stesso tema è ripreso in parte in un’intervista con Brian Heater del 2005, in cui alla domanda “quale attore di Hollywood sarebbe adatto per interpretare Buddy?” Bagge risponde: “John Cusack ha fatto davvero un ottimo lavoro in Alta fedeltà nell’interpretare un personaggio simile a Buddy, anche se credo che ormai sia troppo vecchio per il ruolo”. E un’altra chiacchierata del 2007 con Heater approfondisce contenuti e retroscena degli annual, su cui però non mi dilungo per evitare fastidiosi spoiler.

John “Buddy Bradley” Cusack in “Alta fedeltà” di Stephen Frears

Ma facciamo un passo indietro, e in particolare torniamo al 1998, e cioè all’intervista pubblicata sul sito ink19.com con il titolo Psychotic Pop Picasso. E’ qui che si legge una lunga digressione di Bagge sulle differenti interpretazioni di Hate negli USA e all’estero. “Hate ha un pubblico internazionale – gli chiede Charles D.J. Deppner – I tuoi lettori d’oltreoceano si identificano lo stesso con i tuoi personaggi, o li vedono piuttosto come una rappresentazione della vita in America?”. “Entrambe le cose, a quanto sembra – risponde Bagge – Inizialmente Hate, e il mio lavoro dagli anni ’80 in poi, è stato venduto e tradotto soprattutto nei paesi scandinavi, in Inghilterra ovviamente, e poi in Germania. E anche se questi paesi mi sembrano piuttosto simili all’America, anche se hanno meno fucili di noi, tutti questi lettori non facevano che dire quanto fossero ‘americani’ i miei fumetti. ‘E’ così americano’ dicevano sempre. ‘Il tuo lavoro è davvero un’aspra condanna della cultura americana’. Ma questa non è mai stata una mia intenzione. Non volevo dire niente a proposito della cultura americana. E sicuramente non avevo intenzione di criticarla. A me piace la cultura americana. Ma questo è il modo in cui interpretavano i miei fumetti. Poi negli ultimi tre o quattro anni Hate è stato finalmente tradotto in spagnolo, e sta andando molto bene. Sta vendendo un sacco. E quando sono andato in Spagna e ho fatto i firmacopie, tutto ciò di cui le persone parlavano era di come ci si ritrovavano. E ho sentito poco e niente frasi tipo ‘Oh, il tuo fumetto è una rappresentazione perfetta di tutto ciò che c’è di sbagliato in America’. Anzi, direi che in Spagna non ho proprio sentito dire certe cose. La gente diceva semplicemente ‘Mi identifico nei tuoi fumetti. Sono davvero divertenti. Mi riconosco veramente in Buddy Bradley’. E andavo a questi firmacopie e trovavo duecento Buddy Bradley spagnoli, dei tizi che a prima vista sembravano proprio identici a lui”. L’intervista pubblicata da Scott Nickel sul suo blog nel 2009 parla invece dei personaggi di Bagge e in particolare di uno che ci riguarda. “Di tutti i tuoi personaggi, qual è il tuo preferito? Chi non sopporti?”. “Tra il cast di Hate – risponde Bagge – la mia preferita è Lisa. E’ un personaggio molto complesso, e c’è una certa coerenza nella sua incoerenza. Ed è anche la più imprevedibile del gruppo. Se invece guardo ai miei personaggi al di fuori di Hate, sono orgoglioso soprattutto del cast di Sweatshop, una serie che ho creato per la DC e che è stata cancellata troppo presto. Avevo tantissime idee per quei personaggi. Uno che ho sempre ‘odiato’ è Junior, ma dopotutto è nato per essere ripugnante. Quando l’ho concepito rappresentava tutti i lati del mio carattere che non mi piacevano e l’ho disegnato in parte per ‘esorcizzarlo’ da me stesso!”.

Un’edizione spagnola di “Hate”

Anche l’intervista di Worcester che chiude il volume, fornendo un valido sunto di tutta la carriera del cartoonist, torna a più tratti sul periodo Hate. Ma invece di dilungarmi ulteriormente su ciò, vi saluto lasciandovi a un altro interessante estratto. E vi do appuntamento nei prossimi giorni su queste pagine con quello che sarà l’ultimo post dello Speciale Hate.

Kent Worcester: “Chi erano i tuoi eroi personali da ragazzino?”

Peter Bagge: “Adoravo quella che una volta Gilbert Hernandez chiamò la ‘Santa Trinità’, che probabilmente condividevo con un sacco di ragazzi della metà degli anni ’60: i Beatles, Willy Mays e Charles M. Schulz. Tutti gli altri erano davvero lontani da questi qui”.

KW: “E’ stato difficile capire che cosa volevi dalla vita durante l’adolescenza o avevi le idee chiare su quello che volevi fare?”

PB: “Considerando chi ho appena indicato come miei eroi, mi sembra ovvio che il mio sogno fosse diventare un giocatore di baseball, un musicista o un fumettista. Ma come atleta ero davvero scarso, dato che ero un nanerottolo, e come musicista ero mediocre, a voler essere generosi (e all’epoca ero anche troppo timido per salire su un palco). E dunque mi rimaneva soltanto una delle tre possibilità”.

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Speciale “Hate” / “I Like Comics”

Nel #1 di Hate Buddy Bradley ammetteva di essere interessato – tra le mille idee pazze che gli proponeva il suo amico Stinky – al progetto di mettere su una fanzine. E portava ad esempio Motorbooty, una di quelle fanzine/riviste di una volta che hanno lasciato il segno, e di cui magari scriverò un giorno o l’altro su queste stesse pagine. L’idea evidentemente piaceva allo stesso Bagge, che al contrario di Buddy riuscì realmente a metterla in pratica qualche anno più tardi. Era infatti il 1993 quando vide la luce il primo e purtroppo unico numero di I Like Comics, una fanzine interamente concepita da Bagge e messa su grazie alla collaborazione di Helena G. Harvilicz (in passato editor di The Comics Journal) e del fumettista Pat “Big Mouth” Moriarity nei panni di art director.

Lo dico subito prima di scendere nei dettagli: per me I Like Comics è una delle fanzine più belle che siano mai state fatte. Incentrato quasi tutto sulla scena di Seattle, questo corposo spillato di 120 pagine mette insieme articoli e interviste su tutto il meglio del fumetto dell’epoca. Nel suo editoriale Bagge scriveva di essersi sentito in dovere di fare una fanzine dedicata al fumetto per contrastare l’incredibile quantità di pubblicazioni dedicate alla musica che riceveva. L’autore di Hate aveva infatti uno spazio nel suo comic book in cui parlava di fumetti, riviste e fanzine, che recensiva in breve mettendo anche l’indirizzo per ordinare, come si usava all’epoca. “In questo periodo ricevo una caterva di fanzine autoprodotte. Alcune sono belle, la gran parte fa schifo, ma il 99,999% si occupano per lo più di musica – e non qualsiasi tipo di musica ma di questa orribile e totalmente inutile ‘musica’ ‘underground’ ‘alternativa’ ‘rock’, la peggior forma di rumore mai inventata. (…) Sentendomi molto frustrato per tutto ciò, qualche anno fa annunciai che avrei fatto la mia fanzine, che si sarebbe occupata soltanto della Più Grandiosa e Importante Forma d’Arte del Tardo 20esimo Secolo! (Sto parlando dei fumetti alternativi, se ve lo state chiedendo). Dopo tutto, qualcuno doveva pur farlo!”.

Tra i contenuti di I Like Comics spiccano le numerose interviste, condotte interamente da Bagge, aiutato in alcuni casi dalla Harvilicz. Sfilano così uno dietro l’altro Jim Woodring, Julie Doucet, Michael Dougan, Dennis Eichhorn e Gary Groth, tutti all’epoca residenti a Seattle e quindi facili da intervistare, tanto bastava prendere la macchina e andare a scovarli a casa o in ufficio… Pat Moriarity guarda invece fuori dai confini cittadini chiamando in causa la californiana Mary Fleener. Ma la dimensione local è subito ripristinata dalla Harvilicz, che si diverte a pubblicare una lunga chiacchierata con i suoi… coinquilini, ossia lo stesso Moriarity, J.R. Williams (qualcuno ricorderà la sua serie Crap per Fantagraphics) e R.L. Crabb. Il tono è colloquiale a dir poco, nel senso che spesso i quattro finiscono a discutere delle pulizie più che di fumetti, ma è questo l’approccio di tutto il fascicoletto, che fa di tutto per non prendersi sul serio e per usare un tono “basso”, riuscendo comunque (o forse proprio per questo) a rivelare un sacco di curiosità sulla vita e sull’arte dei cartoonist chiamati in causa. E la dimensione casalinga, artigianale oserei dire, è rafforzata dai titoli e dai sommari, spesso letterati dallo stesso Bagge con la sua inconfondibile calligrafia.

Oltre alle interviste c’è molto altro in questo numero di I Like Comics. Cito per esempio l’approfondimento di Frank Young su Steven, striscia cult di Doug Allen raccolta in alcuni spillati da Kitchen Sink Press (recuperatela se riuscite), un fumetto disegnato da Joe Sacco al liceo, un articolo di Bagge sul cartoonist B.N. Duncan (noto anche per le sue imprese epistolari, come potete leggere qui), un pezzo su Bagge a firma del fantomatico Sidney Mellon, una serie di disegni richiesti per l’occasione ai più svariati cartoonist dell’epoca (da Robert Crumb a Justin Green, da Daniel Clowes ad Art Spiegelman), uno spazio dedicato alla fiction e alle poesie scritte da fumettisti, e poi classifiche, giochi e altre amenità che non devono mai mancare in una fanzine che si rispetti. La quarta di copertina è invece un fumetto inedito di Bagge intitolato Buddy, Buddy, Quite Contrary, in cui vediamo il protagonista di Hate soffrire l’ambiente ormai alla moda di Seattle e meditare una fuga in direzione Denver. Ultima curiosità, il tizio fotografato in copertina è Bruce Chrislip, fumettista, editore e storico dei mini comics ben conosciuto a Seattle, tanto da meritarsi anche il paginone centrale, ovviamente mentre se ne sta sdraiato a leggere circondato da svariati comic book. “Hey, I like comics! – esclama sulla cover – Do you like comics, too?”. Beh, se la risposta è sì, e soprattutto se vi piace il genere di fumetto di cui abbiamo parlato finora, mettetevi immediatamente alla ricerca di una copia di I Like Comics perché – come dico spesso a qualcuno – non può davvero mancare nella vostra collezione.

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Speciale “Hate” / Gli Annual e “Buddy Buys a Dump”

Chiusa l’avventura di Hate nel 1998, Bagge aveva intenzione di proseguire le storie di Buddy e soci su una nuova antologia intitolata Let’s Get It On!, che doveva essere non troppo diversa dagli ultimi numeri del suo comic book, ma con un maggiore spazio per altri autori, giovani e non. L’idea fu ampiamente discussa da Bagge e Gary Groth nell’intervista pubblicata su The Comics Journal #206 dell’agosto 1998 ma finì per non realizzarsi, anche perché di lì a poco Bagge si sarebbe impegnato in una serie all-ages durata soltanto 9 numeri per l’etichetta Homage della DC. Scritta da Bagge per i disegni del suo “idolo” Gilbert Hernandez, Yeah! rifletteva la discutibile fissazione del nostro per le band alla Spice Girls, ricollocata in un’ambientazione fantascientifica. Bisognerà aspettare la fine di questa nuova avventura editoriale per assistere al ritorno di Buddy Bradley, celebrato in nove annual di Hate usciti tra il 2001 e il 2011. 

Diciamolo subito, il più delle volte non c’è granché di significativo in questi albetti antologici, tanto che la presenza di Buddy sembra una scusa per continuare a usare il titolo della vecchia serie. Prendiamo ad esempio il primo numero: Are You Nuts?, la storia che riprende i temi e i personaggi di Hate, è di appena otto pagine, mentre il resto del comic book è occupato da ristampe di altro materiale di Bagge uscito in precedenza su internet o riviste, soprattutto sul sito suck.com. In questo caso troviamo dunque articoli giornalistici (riccamente illustrati) sugli oscar degli Infomercial, la campagna elettorale di Alan Keyes e l’inaugurazione del museo EMP di Seattle, una dissertazione sulla band The Hollies, un fumetto su Matrix, un’illustrazione uscita per la versione spagnola del magazine GQ. Insomma, sembra che Bagge abbia un po’ raschiato il fondo del barile per mettere insieme questa personale antologia, con pezzi che letti ora (ma forse anche allora) suscitano al lettore medio un inevitabile “sticazzi”. Unico contributo originale, oltre appunto alla storiella di apertura con Buddy, sono le vicissitudini di un nuovo personaggio femminile, Lovey, che però lasciano anch’esse il tempo che trovano. Non è un periodo creativamente felice questo per Bagge, e anche la stessa Yeah! faceva capire che il nostro aveva perso lo smalto dei bei tempi. Qui c’è anche l’aggravante dei disegni, che ricercano una sintesi grafica eccessiva, e dei colori che sembrano scelti a caso, tanto che di numero in numero i capelli dello stesso personaggio (non vi dirò chi) possono diventare senza motivo biondi, viola o verdi. 

Vi evito dunque la cronaca minuto per minuto degli altri annual, segnalandovi soltanto i contenuti più interessanti: la collaborazione con Johnny Ryan in Dildobert Joins The Al-Qaeda (parodia di Dilbert pubblicata nell’annual #3), l’azzeccatissima quarta di copertina intitolata What Was Wrong With Us? (#3), un curioso special sulle teen band in cui Bagge tesse le lodi di Spice Girls, B*witched, A-Teens e via dicendo (#4), la storia di tre pagine East Coast, West Coast, Blah, Blah, Blah… in cui vengono ripresi, personalizzati e derisi luoghi comuni sulla classica contrapposizione tra le due coste statunitensi (#7). Tornando a Buddy, raccontare quanto succede in queste pagine vuol dire rivelare fastidiosi particolari sulle vicende passate e future del personaggio. Evito quindi di scendere troppo nei dettagli, anticipandovi soltanto che il sempre scazzatissimo protagonista cerca tra le altre cose di rilanciarsi come corriere dell’Ups e decide di cambiare totalmente look rasandosi a zero e indossando una benda da pirata. Insomma, Buddy ha smesso di avercela con il mondo intero e ha deciso di assecondarne il totale nonsense, diventando uno svitato degno di un film di John Waters. Peccato però che le sue avventure manchino di verve e di inventiva, non avvicinandosi nemmeno alle vette raggiunte da Bagge in passato.

Fortunatamente le cose vanno meglio negli ultimi due albetti della serie, dove si rivede lo spirito che ci aveva fatto amare Hate. Le situazioni spesso statiche e con personaggi sin troppo immutabili trovano nuova linfa nell’Annual #8 con l’introduzione di nuovi characters e con l’avventura musicale di Lisa, che forma un duo al femminile finendo per esibirsi in uno strip club. E il #9 vede di nuovo come scenario Seattle, in una storia inedita di 24 pagine in cui facciamo per la prima volta conoscenza della famiglia di Lisa. Nel frattempo Buddy ha comprato una discarica, e questo giustifica il titolo del volume pubblicato da Fantagraphics nel 2014. Buddy Buys a Dump contiene, oltre a tutte le storie del personaggio uscite sugli Annual, anche l’inedita Fuck It, che mette da parte la ricerca del paradosso per approfondire temi come il rapporto con i genitori, la vecchiaia, l’educazione dei figli, il razzismo, i problemi sul lavoro e via dicendo, facendosi notare come il miglior episodio del Buddy post-Hate. Un buon modo per chiudere – forse per sempre – le avventure di Buddy Bradley, almeno in senso cronologico. E’ infatti di questi giorni la notizia che il personaggio sta per tornare in una storia ambientata ai bei vecchi tempi di Seattle, di prossima pubblicazione sul New Yorker.

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Speciale “Hate” / Da Fantagraphics a MTV

Già dopo un paio di anni dal debutto di Hate, Bagge aveva ricevuto segnali di interessamento da parte di alcuni produttori cinematografici, desiderosi di sfruttare il boom non tanto del fumetto quanto di Seattle e del grunge. In realtà Bagge non si immaginava la sua serie trasposta in un film alla Singles. Per il suo creatore Buddy e soci dovevano diventare i dissacranti personaggi di un cartone animato per adulti, come i Simpson o Beavis and Butt-Head. Ma quando qualche anno dopo il suo amico Aaron Lee, tra l’altro curatore della rubrica Kickin’ Ass pubblicata negli ultimi numeri di Hate, gli propose un’idea per un trattamento cinematografico, Bagge la trovò azzeccata e si convinse finalmente a lavorarci sopra. Costituito un team composto anche dal regista Terry Zwigoff (quello di Crumb e di Ghost World) e da due suoi collaboratori, i cinque prepararono una sceneggiatura per un lungometraggio che – dopo diversi tentativi – arrivò sulle scrivanie di MTV. Peccato che i creativi di MTV videro subito Hate come… una serie animata! Aveva dunque ragione Bagge, che d’altronde conosceva meglio di tutti la sua creatura. O forse no, visto che il progetto si inabissò dopo sei mesi di intenso lavoro che videro l’autore fare la spola tra Seattle e New York, tra lussuose camere d’albergo e interminabili riunioni.

Erano i tempi degli ultimi numeri di Hate, che Bagge disegnava alacremente mentre era a casa preparandosi all’ennesimo viaggio con destinazione MTV. Che alla fine, appunto, si tirò indietro. Decisivo fu il giudizio del focus group a cui venne fatto vedere uno storyboard animato di otto minuti (il cosiddetto animatic) che riproduceva grosso modo la storia del primo numero del comic book. Molti partecipanti al gruppo trovarono il personaggio di Buddy Bradley noioso o addirittura antipatico, tanto da rendere inevitabili alcune modifiche. Tutta invidia, forse, come suggerì Bagge in “Focus” This!, una vendicativa strip a tema uscita poco dopo su Entertainment Weekly? Chi lo sa, fatto sta che il nostro preparò una nuova sceneggiatura che non venne prese neanche in considerazione, perché nel frattempo a MTV erano cambiate alcune figure dirigenziali e l’attenzione si era ormai spostata su nuovi progetti. Come per esempio Daria, che fu sviluppata proprio nello stesso periodo. Ma se la nerd snob e occhialuta riuscì a ritagliarsi il suo spazio trovando la via del debutto nel 1997, Buddy Bradley non ebbe la stessa fortuna. Bagge fu rispedito definitivamente a Seattle e addio cartone animato di Hate

Un nuovo tentativo fu fatto con HBO qualche anno dopo, ma anche in quel caso il cartone rimase solo un progetto. Nel 2007 MTV tornò alla carica per realizzare The Bradleys, una serie animata incentrata su tutta la famiglia di Buddy, riprendendo alcune situazioni di Neat Stuff. Il progetto non ebbe un seguito e passò poco dopo in casa Fox, come riportarono alcuni siti internet nel 2009. Ma anche in quel caso l’idea non sfociò in niente di concreto, con buona pace di Bagge, che comunque nel corso degli anni ha potuto almeno beneficiare delle opzioni sulle sue creature, pagate a caro prezzo dagli studios.

 

Speciale “Hate” / Doofus, Alan Moore e gli altri

Il primo autore ospitato da Bagge sulle pagine di Hate fu Rick Altergott, che arrivò dal #21 con Doofus, personaggio di culto dalle fattezze del tipico messicano e che all’epoca – memori anche le letture di gioventù – associavo mentalmente al Cico di Zagor. Le sue avventure, spesso al fianco del fido Henry Hotchkiss, tendono spesso all’assurdo e al nonsense, sfoggiando quello che gli americani chiamano – in un’espressione secondo me intraducibile – un irresistibile deadpan humor. Ma bisognerebbe parlarne a parte, e magari prima o poi lo farò. Per ora basti dire che considero Doofus uno dei fumetti più divertenti di sempre, in cui il protagonista e il suo fido compare fanno i lavori più assurdi, sognano impossibili storie d’amore, cercano di odorare indumenti intimi femminili e si confrontano con la realtà quotidiana della cittadina in cui tutto ciò è ambientato, ossia Flowertown, U.S.A. 

Dal #26, pur mantenendo il formato comic book, Hate si trasformò in una sorta di magazine e a Doofus si unirono altri fumetti e persino rubriche a cura dei fanzinari recensiti da Bagge nel corso degli anni, rafforzando il legame tra la testata e il mondo dell’autoproduzione e della controcultura anni ’90. Negli ultimi cinque numeri troviamo così le fumettiste Dame Darcy e Ariel Bordeaux, Lisa Carver della fanzine Rollerderby, un giovane Ivan Brunetti, altri columnist come Arron Lee e Selwyn Harris e via dicendo. Ma il piatto forte sono le collaborazioni di Bagge con altri autori, delle vere chicche come la storia breve Me splendidamente disegnata da Gilbert Hernandez (Hate #26, 3 pagine), la parodia della strip Cathy ribattezzata Caffy e realizzata a quattro mani con Robert Crumb in persona (#27, 7 pagine), le avventure di una piovra fumettista raccontate da Bagge e disegnate da Adrian Tomine in Shamrock Squid: Autobiographical Cartoonist! (#28, 7 pagine), The Hasty Smear of My Smile con Bagge alle matite e addirittura Alan Moore ai testi, che si diverte a ripercorrere le improbabili vicissitudini di una mascotte in stile Kool-Aid, dalla pubblicazione di una raccolta di poesie in stile beat generation all’incontro con il reverendo Jim Jones (#30, 4 pagine). Nello stesso numero chiude definitivamente le danze What’s in a Name?, in cui Bagge ricorda – con i disegni di Danny Hellman – il suo incontro a New York nel 1983 con Harvey Kurtzman. Se non avete i comic book originali, potete ripescare il tutto nell’antologia Other Stuff, pubblicata nel 2013 da Fantagraphics e in cui trovano spazio anche altri fumetti “minori” di Bagge. Nel frattempo godetevi qui di seguito una galleria di immagini.

Speciale “Hate” / “I’m no right-winger”

“Nonostante sia stato parte integrante della scena punk di New York e sia ora un cronista dello stile di vita della controcultura, nella vita reale Peter Bagge si è lentamente allontanato dalle sue radici bohémien, tanto da non avere ormai problemi a definirsi una persona di destra”. Questa la premessa dell’intervista a Bagge pubblicata sul numero 159 di The Comics Journal del maggio 1993. Una frase che all’epoca fece strabuzzare gli occhi ai lettori del Journal e allo stesso Bagge, che fu costretto a inviare una secca smentita al magazine pubblicato dalla sua stessa casa editrice. Ma andiamo con ordine. In appendice al #11 di Hate (dicembre 1992) appariva un’auto-parodia di tre pagine intitolata Let’s Give Fascism a Chance, in cui Bagge si raffigurava terrorizzato da barboni e gang giovanili mentre portava a spasso la figlia Hannah.

Al di là delle situazioni paradossali e del titolo provocatorio, la storia era una breve riflessione su quanto si può essere paranoici, conservatori, e a volte appunto reazionari, una volta diventati genitori. “Non credo realmente nel fascismo! E quando esco di casa per portare mia figlia a fare una passeggiata, non sono pieno di odio per il prossimo. Ma diventare un genitore ti dà una prospettiva molto diversa. Ti rende automaticamente una persona più conservatrice e meno tollerante. Ed è così che deve essere. E’ una cosa biologica. Cerchi semplicemente di creare l’ambiente più sicuro per la tua progenie. E’ quello che devi fare, no? Chiunque non lo faccia, non fa il suo lavoro come genitore”. Se queste frasi lasciavano qualche sospetto sul pensiero di Bagge, un paio di pagine dopo arrivava la stoccata. Mentre parlava del personaggio di Studs Kirby in Neat Stuff, Bagge affermava di essere stato “un progressista sfrenato” ai tempi del liceo. “Le cose sono cambiate adesso? – incalzava Carole Sobocinski, autrice dell’intervista – Non sei più quella persona progressista di una volta?”. E Bagge: “Sono diventato più equilibrato e realistico, ma mi definirei un right-winger”. Ecco qua dunque il virgolettato ripreso nell’introduzione, e poi smentito da Bagge nel numero successivo della rivista. The Comics Journal #160 apriva infatti la tradizionale pagina delle lettere Blood & Thunder con una lettera di Peter Bagge da Seattle, Washington intitolata senza troppe smancerie I’m No Right Winger. Secondo Bagge la frase da lui pronunciata era infatti “sono diventato più equilibrato e realistico, ma non mi definirei un right-winger”. “Sono preoccupato dall’aura di negatività che questa frase sbagliata ha dato a tutta l’intervista – aggiungeva – e probabilmente a tutto ciò che ho mai detto e scritto”. 

Nella sua lettera Bagge criticava anche un’altra parte dell’introduzione, quella in cui veniva definito “parte integrante della scena punk di New York”. “I was quite simply a nobody in my New York days” chiariva anche qui l’autore. Insomma, la Sobocinski non aveva esattamente centrato il punto, per usare un eufemismo. E non fu quella l’unica pecca della sua gestione del Journal come managing editor, tanto che fu brutalmente allontanata dal ruolo con il #161 per aver interferito nell’acquisizione della casa editrice Tundra da parte della Kitchen Sink… Ma questa è un’altra storia. Tornando a Bagge, il cartoonist usò toni ancora più duri nel 2014, sollecitato da Kent Worcester. “Non sono stato semplicemente mal interpretato – dice nell’intervista inedita che chiude il volume Peter Bagge: Conversations – penso di essere stato diffamato. La Sobocinksi mi chiese se fossi una persona di destra. E io risposi di no. Ma mi ricordo che ripeté la stessa domanda diverse volte – come se a forza di insistere io sarei potuto crollare dicendole ‘la verità’. E a sentire lei riuscì a farmi confessare alla fine, visto che quando l’intervista fu pubblicata non solo il mio ‘no’ si trasformò in un ‘sì’, ma fu anche utilizzato come una citazione in bella vista e ripetuto nell’introduzione. (…) Sono sempre stato al 100% pro-choice. Mi sono opposto praticamente a tutti gli interventi militari statunitensi a cui ho assistito nel corso della mia vita. Sono sempre stato per la legalizzazione delle droghe e della prostituzione, e per i diritti degli omosessuali. Sono per l’apertura delle frontiere. Evito la chiesa come la peste. Odio il giuramento alla bandiera e ‘In God We Trust’ scritto sulle nostre banconote, e detesto stare in piedi durante il nostro orrendo inno nazionale agli eventi sportivi. Ti sembrano cose da ‘right-winger’ queste?”.

Tra l’altro l’autore di Hate è ormai un dichiarato sostenitore del Libertarian Party, partito statunitense che sostiene la totale limitazione dell’intervento statale in qualsiasi campo, unendo sfrenato liberismo economico e anarchismo, possesso di armi da fuoco e liberalizzazione delle droghe. Se vi interessa approfondire il suo punto di vista, il libro giusto è Everybody is Stupid Except for Me: And Other Astute Observations, raccolta delle sue strisce per Reason, la principale rivista “libertaria” statunitense.

Speciale “Hate” / La musica

Hate è stato spesso associato a Seattle e alla sua musica, tanto che Bagge era considerato all’epoca il cantore a fumetti della grunge generation. Niente di più sbagliato, perché del grunge a Bagge non gliene poteva fregare di meno, e se si era trasferito a Seattle in tempi non sospetti era soltanto per seguire la moglie Joanne, che aveva avuto l’opportunità di aprire un ristorante insieme alla sorella sulla costa Ovest. Fino al 1991, dopo 7 anni circa tra i sobborghi di Seattle e la città, Bagge non era mai andato a vedere un concerto, semplicemente perché – come ammette candidamente in Hate Jamboree – “I don’t care for rock clubs or live music”. A dire il vero un po’ di concerti a New York li aveva visti, più che altro di gruppi new wave, che preferiva di gran lunga alle band punk. E a quelle esperienze si ispirò in parte per le vicende raccontate nel suo comic book. Dopo di allora la sua attività “live” fu praticamente inesistente, almeno fino a quando fu costretto a tornare in un club alla ricerca dell’ispirazione per Follow That Dream!, la storyline pubblicata in Hate #8 e #9 in cui Buddy e Stinky diventavano rispettivamente manager e cantante di una band. Bagge si fece così invitare dal boss della Sub Pop Bruce Pavitt a un live di The Dwarves e Supersuckers, in una serata che gli fu molto utile per l’ambientazione e i particolari della sua storia. E’ dunque totalmente infondato il legame tra Bagge e il grunge? In realtà non del tutto, perché il nostro era buon amico di Pavitt e conobbe anche Tad Doyle dei TAD, tanto da fargli fare una comparsata in Hate #17.

Bagge si trovò in quegli anni a disegnare anche numerose copertine e manifesti per dischi, radio, locali e riviste come The Rocket, definendo in qualche modo l’estetica cittadina. Ma certo, se pensiamo all’autore di Hate come uno della “scena” siamo proprio sulla strada sbagliata, perché in quegli anni Bagge era diventato un genitore che se ne stava tranquillamente a casa a disegnare e a cui poco interessavano il grunge, il rock e la vita mondana. E Buddy stesso, che del suo demiurgo è il più delle volte l’alter ego, in Follow That Dream! decide di diventare il manager dei Leonard and the Love Gods solamente quando percepisce le potenzialità economiche della vicenda, e non certo per amore del rock’n’roll. Mi immagino dunque Bagge che si guarda attorno con aria perplessa al concerto dei Supersuckers, quasi tappandosi le orecchie e sperando di poter tornare presto a casa per ascoltare la musica che ama, ossia i Beatles, i Beach Boys, The Hollies e persino le girl e boy band trash alla Spice Girls, di cui è un convinto sostenitore. O anche Perry Como, Frank Sinatra e le McGuire Sisters, che erano la sua playlist quotidiana alla fine degli anni ‘80, come ammise in un’intervista del 1988 pubblicata sul #8 della fanzine Chemical Imbalance.

La preferenza di Bagge per il pop si sente chiaramente – in versione bubblegum e un po’ sgangherata – nella musica degli Action Suits, la band in cui sostituì Al Columbia diventandone il batterista e disegnando le copertine dei quattro 7’’ usciti tutti nel 1996. Con lui c’era anche Eric Reynolds, di tanto in tanto suo inchiostratore nonché colonna portante di Fantagraphics (oggi è uno degli editori nonché curatore dell’antologia Now). Gli Action Suits si sono sciolti e riuniti più volte nel corso degli anni e nel 2008 Bagge ha formato anche un’altra band, i Can You Imagine?, per cui suona la chitarra e occasionalmente canta motivetti di pop cristallino. Su YouTube si trova un video in cui il nostro ammicca in modo piuttosto imbarazzante. Insomma, Bagge si è sempre dato da fare con la musica, ma il grunge non è mai stato la sua cup of tea.

Speciale “Hate” / I concorsi

Dicevo nel post precedente della pagina delle lettere di Hate. A proposito di interazione tra autore e pubblico, un discorso a parte meritano i concorsi lanciati da Bagge sul suo comic book. Già su Neat Stuff #5 l’autore aveva chiesto ai lettori di dare un nome a due personaggi ancora senza identità, ossia i due protagonisti della storia Life’s a Bitch and Then You Die!, che saranno poi battezzati Chet e Bunny Leeway da un certo Kev Monko da Philadelphia. E anche i primi numeri di Hate furono caratterizzati da un paio di concorsi, a partire da Win A Date with Stinky, la cui vincitrice sarebbe stata disegnata nel fumetto come occasionale partner dell’improbabile latin lover della serie.

Annunciato nel #3 con tanto di strillo in copertina, il concorso registrò la partecipazioni anche di una fumettista cult come Mary Fleener (con lo pseudonimo di Flair Meener) e delle allora emergenti Jessica Abel e Dame Darcy, come documenta lo speciale pubblicato in appendice al #5. E tutte e tre si ritroveranno di lì a poco a tu per tu con Stinky, la Abel nella quarta di copertina del #10, la Darcy in una storiella di una pagina nel #11 e la Fleener in Stinky Brown, Super Star pubblicata sul #12. La vera trionfatrice fu però una certa Linda Sue Murphy di San Francisco, che a suon di foto in pose e abiti vintage degni di una star si guadagnò in carne e ossa il retro fotografico del #5. Non pago di quanto già fatto, nel numero successivo Bagge lanciò un’altra sfida, in questo caso rivolta ai lettori uomini. Si cercava il sosia di Buddy Bradley e a vincere fu un tale Jon Horne, commesso della Tower Records di New York che sbaragliò la concorrenza guadagnandosi la copertina di Hate #10.

Speciale “Hate” / La pagina delle lettere

Ci siamo lasciati nel post precedente parlando di Prisoners of Hate Island!. Ebbene, quando nel #3 di Hate debutta la posta, ad aprire le danze è un certo Broos Campbell di San Jose, California, che definisce quella storia pubblicata in appendice al #1 “self-indulgent shit”. L’intervento di Mr. Campbell è rappresentativo delle lettere che verranno via via pubblicate sul comic book, dato che tra tanti inevitabili complimenti ci saranno anche un bel po’ di insulti, critiche e offese vere e proprie. E Bagge si diverte a dare spazio soprattutto alle lettere più ingiuriose, trovando quelle di complimenti assai noiose. L’atmosfera si scalda soprattutto dal #17, quando parecchi lettori cominciano a dare all’autore del “venduto” a causa del passaggio al colore avvenuto nel numero precedente. D’altronde in quegli anni le pagine delle lettere erano il territorio in cui gli appassionati si sfogavano senza mezzi termini, scrivendo agli autori tutto quello che pensavano e dandogli spesso degli sfigati, dei depressi e via dicendo, come ricorderanno i lettori di serie come Peepshow e Optic Nerve.

In tal senso è doveroso citare un certo Anton Hemus da Utrecht, che in Hate #12 si traveste da critico lanciandosi in un’approfondita analisi. “Mr Baggy, almeno le tue storie sono profonde e fanno pensare. Sfortunatamente non si può dire lo stesso per i disegni, che fanno schifo. Sì, sono caricaturali e strani, ma non sono splendidamente ripugnanti come quelli di Roy Tompkins, o non hanno la stranezza di Lloyd Dangle per esempio. Fanno schifo e basta. Non riesci proprio a disegnare un balloon a mani nude, o una cazzo di linea dritta senza un righello, eh? EH? Inoltre i tuoi disegni, che mi ricordano un incrocio tra VIP e un Burne Hogarth in acido, sono davvero statici e insignificanti – mancano di profondità. A parte la capacità di esagerare sentimenti come rabbia, ubriachezza o dissolutezza, per il resto sono mosci, senz’anima. E poi non capisco proprio cosa abbia a che fare il tuo eccessivo tratteggio incrociato con il tentativo di fare bei fumetti. Forse serve a catturare realisticamente la magia di luci e ombre? Stai frustando un cavallo morto, perché sei completamente incompetente in materia. La maggior parte delle volte il risultato finale è una vignetta illeggibile. Ma forse vuoi nascondere la tua incapacità di disegnare decentemente, eh? Va’ a studiare la ‘linea chiara’ della scuola di Tintin e cerca di cambiare. Oppure vaffanculo. O meglio ancora: scrivi e basta. La commedia, a mio parere, è il tuo vero campo”. Lapidaria la risposta di Bagge dopo questa tirata: “Anton, stai cercando di farmi piangere? – P.B.”. 

Ma questo olandese senza peli sulla lingua è niente rispetto al cartoonist B.N. Duncan, “personaggio” che sicuramente i lettori di Hate non potranno aver dimenticato e che Bagge ha celebrato anche nella sua fanzine I Like Comics (di cui potete leggere qui). Le sue lettere sono talmente assidue che nel #26 Bagge finisce per dedicargli una pagina intera, con tanto di suoi disegni originali a illustrarne i contenuti. Tra i temi trattati analisi approfondite delle storie, raffinate opinioni sul rapporto tra Buddy e Lisa (“Mi sembra che Lisa abbia davvero bisogno di essere presa a cinghiate, e anche di essere scopata con violenza…”), suggerimenti di sceneggiatura per i numeri successivi (“Jay potrebbe cacciarsi nei guai con una minorenne…”), citazioni da Le porte della percezione di Aldous Huxley e così via. Tutte cose che spesso facevano ridere ancor più dei fumetti e che ci ricordano la bellezza dei cari vecchi comic book. 

Speciale “Hate” / Il titolo

Nel 1989 Bagge decide di chiudere l’avventura di Neat Stuff per dedicarsi a qualcosa di nuovo. E proprio Neat Stuff #15 fa capire dove sta andando a parare, dato che l’albo è interamente occupato da Buddy the Weasel, una lunga storia con protagonisti Buddy Bradley e Stinky. “Nel 1990 avevo finito di lavorare a Neat Stuff – scrive Bagge qualche anno dopo nello speciale Hate Jamboree – e volevo fare qualcosa nel classico formato comic book: una serie che si incentrasse su un personaggio principale ma che avesse l’aspetto e l’atmosfera dei fumetti underground della fine degli anni ‘60. Nel corso di Neat Stuff mi stavo interessando sempre di più alle storie dei Bradley, che erano basate in gran parte sulla mia famiglia, e a Buddy Bradley in particolare. Buddy era senz’altro il personaggio più autobiografico che avessi mai creato e, mentre pian piano ‘invecchiava’ nel corso di Neat Stuff, vedevo sempre più potenziale in lui come una fonte di idee per le mie storie. E quindi sceglierlo come protagonista della mia prossima serie fu una decisione facile da prendere”.

Ma come chiamare questa nuova serie, dunque? La prima idea di Bagge fu Love & Hate, ma il fatto che Fantagraphics pubblicasse già Love & Rockets dei fratelli Hernandez poteva creare un po’ di confusione. E fu così Kim Thompson, allora editore dell’etichetta di Seattle insieme a Gary Groth, a suggerire di chiamare il comic book semplicemente Hate: un titolo che piacque subito a tutti, anche se Bagge non si arrese a trovarne un altro. “L’unico problema – racconta ancora in Hate Jamboree – è che non riusciva a venirmi in mente niente di meglio, e infatti più pensavo al fatto di chiamarlo soltanto Hate più mi piaceva! E’ breve, è accattivante, è facile da ricordare… E sì, è il titolo più negativo che ti possa venire in mente – ha persino delle connotazioni neo-nazi, dato che il linguaggio della stampa mainstream lasciava sempre più intendere che soltanto la gente di estrema destra fosse capace di odiare qualcosa, come se il resto di noi non fosse in grado di nutrire sentimenti o emozioni d’odio. Mi ricordo anche di aver ascoltato un talk show in cui un ipocrita ‘leader spirituale’ new age sosteneva che gli anni ‘90 sarebbero stati una decade di ‘amore e comprensione’, rispetto agli anni ‘80 che erano stati caratterizzati da divisione, avidità, ecc. ecc. e che questo avrebbe portato a un’unione di tutti i popoli e di tutte le idee, così che saremmo potuti entrare nel nuovo millennio come una cosa sola e blah blah blah… Ovviamente, questo concetto di ‘pace e amore’ – ossia che tutti dovremmo essere d’accordo su tutto, e che quindi dovremmo essere d’accordo con questo tizio sdolcinato alla radio – era il concetto più spaventosamente fascista che io avessi mai sentito (e il tipo sarebbe poi diventato una sorta di ‘consulente spirituale’ dei Clinton), così capii proprio in quel momento che dovevo chiamare il mio fumetto Hate, in modo da dare il mio contributo affinché gli anni ‘90 non passassero alla storia come una ‘decade dell’amore’ molle e senza cervello”.

Qualche retroscena sulla nascita di Hate, e di conseguenza sul titolo della testata, è riportato in una storiella di sette pagine intitolata Prisoners of Hate Island! e pubblicata in appendice a Hate #1, in cui lo stesso Bagge pianifica insieme a Groth e Thompson la sua nuova avventura editoriale. E ovviamente prende in giro tutti, compreso se stesso.