“Misguided Love” di Raquelle Jac
L’antologia Now di Fantagraphics si è affermata nel corso degli ultimi 3 anni come il luogo in cui capire, scoprire, apprezzare ed eventualmente anche disprezzare le tendenze più recenti del fumetto alternativo. O meglio, della frangia più mainstream del fumetto alternativo, quella di autori che utilizzano per lo più un segno accattivante e graficamente vendibile, raramente sgraziato o underground. Lungi dall’essere perfetta, l’antologia è figlia dei suoi tempi, dato che spesso ospita autori che riflettono l’inconsistenza di tanto fumetto contemporaneo. Inconsistenza a sua volta figlia del minimalismo, un minimalismo non più pregno di vuoto esistenziale, nichilismo o addirittura violenza ma che ormai usa la scusa della sospensione della narrazione per fare quello che c’è di più facile per un autore: non dire assolutamente niente. Per fortuna che tra i vari esempi di questo funesto filone, imitatori tout court di autori “di moda”, nonché svariate copie delle copie delle copie, ogni tanto si fa strada qualcosa di buono. Anzi, direi che alla fine in ogni numero di Now c’è qualcosa di buono, a partire dalle storielle di Noah Van Sciver, sempre più intriganti per struttura e contenuti. Prendiamo per esempio Now #8: nell’autobiografica Saint Cole Van Sciver riesce a raccontare in sette pagine quello che Adrian Tomine non è riuscito a fare in un intero volume (The Loneliness of the Long-Distance Cartoonist ovviamente, una delle cagate più pazzesche che la storia del fumetto recente ricordi). Oppure possiamo citare i contributi delle italiane Roberta Scomparsa e Zuzu, che da queste parti fanno un figurone. O i fumetti muti di Maggie Umber, splendidi saggi sulle potenzialità e la potenza del segno. E probabilmente dimentico tante altre cose, anche perché sui vari numeri di Now sono stati pubblicati fior fior di storie a firma di fior fior di autori.
Ma certo, forse finora non si era visto niente come Misguided Love dell’esordiente Raquelle Jac, sorta di graphic novel nell’antologia uscito sul #9 di Now, con tanto di copertina dedicata. 41 pagine che sono quanto di più azzardato l’editor Eric Reynolds abbia fatto nella sua gestione della rivista: autrice esordiente, sconosciuta, a cui viene dedicato un lunghissimo pezzo di apertura che è tutto il contrario di dove sta andando il fumetto oggi. 41 pagine scritte scritte scritte in cui – colpo di scena! – invece di non dire niente, la giovane Raquelle dice semplicemente tutto, raccontandoci in uno stampatello densissimo una storia autobiografica che parte dai traumi di infanzia per arrivare a ciò che di più forte ci possa essere, ossia la fatidica prima volta, per proseguire con il dettagliato resoconto della relazione a distanza con un uomo di vent’anni più grande di lei. Ed è una storia in cui, finalmente oserei dire, invece di vedere per l’ennesima volta sguardi imbarazzati, espressioni impacciate, messaggini sul cellulare e minchiate varie, torniamo a rifarci gli occhi con un po’ di roba vecchio stile, tipo droga, sesso, orgasmi, lacrime, vomito, Amsterdam, disperazione. Attenzione però, perché tutto questo materiale sensibile non viene utilizzato per provocare o scandalizzare come succedeva nei comix underground ma è piuttosto parte integrante della narrazione. La Jac, per quanto abbia chiaramente una sensibilità attuale, è in questo debitrice ad artiste come Aline Kominsky, Phoebe Gloeckner (citata nelle pagine iniziali), Debbie Drechsler e Julie Doucet, che sicuramente le hanno aperto la strada. La sua scrittura è sopraffina, strutturata su un flusso di coscienza incalzante e avvincente che riporta in modo analitico quanto succede nella testa della protagonista, scandagliando i suoi pensieri e le dinamiche relazionali in cui si trova coinvolta con una profondità psicologica che ha pochi eguali nel fumetto contemporaneo. Ai testi si accompagna un disegno graffiante nonché amante dello sporco che più sporco non si può, con il bianchetto che corregge il lettering, le parole che vengono sommerse dalle immagini e insomma un grafismo selvaggio e totalizzante capace di ricordare My Favourite Thing is Monsters di Emil Ferris per come ogni cosa è disegnata. Ho letto Misguided Love soltanto a inizio anno, altrimenti sarebbe stato meritamente tra i migliori fumetti del 2020. E vi invito a questo punto a recuperarlo, anche perché qualche copia di Now #9 è ancora reperibile nel webshop di Just Indie Comics.
Dieci fumetti del 2020
Dieci titoli, le copertine, poche chiacchiere. Questo il mio Best Of 2020, assolutamente parziale e senza nessuna pretesa di obiettività, tanto leggo quello che dico io e quando lo dico io. Sono semplicemente dieci fumetti che mi sono piaciuti quest’anno, in ordine alfabetico. Spero di incuriosirvi almeno un po’ e di spingervi a cercare maggiori notizie sui titoli in questione. Buona lettura.
Cowboy di Rikke Villadsen (Fantagraphics Books) – Piccolo grande fumetto della danese Rikke Villadsen, ospite purtroppo soltanto virtuale di BilBOlbul, dove sarebbe stata protagonista di una mostra. Speriamo di rifarci presto, perché le sue tavole sono spesso entusiasmanti e Cowboy (uscito in Danimarca nel 2014 con il titolo Et Knald Til) è un gioiello trasversale pieno di inventiva, contenuti e ironia. Ne ho parlato meglio in questo post.
Cryptoid di Eric Haven (Fantagraphics Books) – Riletto oggi questo breve ma intenso fumetto di Eric Haven sembra quasi una profezia di quanto accaduto nel 2020, dato che metteva in scena sia l’umiliazione di Donald Trump ad opera di una supereroina con la testa di aquila che il dispiegarsi di una misteriosa energia negativa per il mondo intero. Cryptoid è l’ennesima dimostrazione che nel fumetto non è necessario scrivere tanto per raccontare bene, anzi… Ne avevo già parlato in questa recensione.
Five Perennial Virtues #11 di David Tea (autoprodotto) – Mettere un fumetto così sporco e “mal disegnato” nella lista dei migliori dell’anno sembra quasi una provocazione, ma dopo le recenti ristampe come non celebrare un nuovo inedito numero del Five Perennial Virtues di David Tea? Seguiamo dunque ancora una volta le avventure e le dissertazioni del protagonista, che si concentra in modo particolare sui misteri della banconota da un dollaro. Vi avviso: rischia di essere una roba che piace solo a me e a pochi altri amanti del bizzarro.
Grip di Lale Westvind (Perfectly Acceptable Press) – Non ho toccato con mano il volume in questione, avendo già la versione in due episodi stampata in risograph. Questa è in realtà una raccolta (in offset), ma visto che pochi sono riusciti a procurarsi i precedenti limitatissimi volumetti conta come un fumetto nuovo. Grip è interamente muto ma riesce a essere lo stesso una parabola femminista ben più potente di tanti fumetti didascalici che popolano le librerie oggigiorno.
The Puerto Rican War di John Vasquez Mejias (autoprodotto) – Al di là della storia in sé, interessante nei contenuti ma senza grossi picchi nello svolgimento, The Puerto Rican War è il classico miracolo artistico che viene fuori dal nulla. Interamente realizzato in xilografia, è un oggetto singolare rilegato a mano e stampato su carta nera che sporca le mani. E all’interno ci sono alcune tavole impressionanti per intensità e composizione. E’ stato uno dei fumetti del Just Indie Comics Buyers Club 2020, come potete leggere da queste parti, e qualche copia è ora disponibile nel webshop.
Tears of the Leather-Bound Saints (Tad Martin #8) di Casanova Frankenstein (Fantagraphics Underground) – Casanova Frankenstein è il fumettista un tempo noto come Al Frank, autore di The Adventures of Tad Martin per la Caliber, di cui uscirono 5 numeri all’inizio degli anni ’90. Rivitalizzata nel 2015 con il #6 uscito per Profanity Hill e Teenage Dinosaur, la serie è poi passata con il #7 a Domino Books ed è ora giunta con questo ottavo numero all’etichetta “underground” di Fantagraphics. Frankenstein, se così vogliamo chiamarlo, raggiunge in questo albo i suoi vertici grafici raccontando storie di lavori massacranti, violenze domestiche, punizioni corporali, incontri notturni, corse in bicicletta. Fumetti per perdenti, fuori moda, punk, che parlano di cose vere, lontani da ogni moda e tendenza.
Tinfoil Comix #1 di AA. VV. (autoprodotto) – In questo mondo così social e interconnesso, sembra quasi impossibile che arrivi all’improvviso un’antologia che non ha nemmeno un sito internet, piena di autori sconosciuti e di fumetti pazzissimi. E invece eccola qui, direttamente da San Francisco, si chiama Tinfoil Comix, ne sono usciti tre numeri e presto saranno (di nuovo) disponibili nel webshop di Just Indie Comics. Il #1 è per ovvi motivi quello che va a finire in questa lista, ma anche gli altri non sono da meno. Maggiori informazioni a quest’indirizzo.
Ultima goccia di Andrea De Franco (Eris Edizioni) – Finalmente dopo tanti fumetti su personaggi famosi, eventi storici, temi sociali qualcuno che decide di approcciare un argomento serio: il caffè. Ormai sapete tutti che sono un fan di Andrea De Franco, dato che l’ho invitato anche alla terza edizione del Just Indie Comics Fest, da cui è venuta fuori questa chiacchierata con tanto di anticipazioni su Ultima goccia. Il fumetto è stato posticipato per i problemi noti a tutti, ma alla fine ha trovato la strada delle librerie e ne è valsa davvero la pena, perché al di là dell’apparenza sperimentale contiene al suo interno alcune bellissime sequenze di “puro fumetto”. Per non parlare delle implicazioni concettuali e metafisiche del tutto. Che bestia ‘sto De Franco.
Vision di Julia Gfrörer (Fantagraphics Books) – Vi capita mai di leggere qualcosa e poi, passato un po’ di tempo, vi ricordate che vi è piaciuta ma non sapete più il perché? Penso proprio di sì, vero? A me capita sempre più spesso. E allora cerchiamo di rinfrescarci tutti le idee rileggendoci questa bella recensione di Vision di Julia Gfrörer!
William Softkey & The Purple Spider di CF (Anthology Editions) – Pierrot Alterations, il precedente albo di CF per Anthology, era finito meritatamente (mi sembra ovvio) nella mia lista del 2019. Non può essere da meno questa nuova uscita dell’autore di Powr Mastrs, che dopo un periodo segnato soltanto da brevi contributi ad antologie e progetti estemporanei sembra essere tornato in pianta stabile nel panorama del fumetto contemporaneo. Bene così, perché di uno come CF c’è sempre bisogno. William Softkey ha l’apparenza di un fumetto fatto in fretta, come se fosse uscito da uno sketchbook, ma in realtà tutto torna in un affresco della contemporaneità davvero azzeccato e oserei dire – addirittura! – metaforico. Ne trovate ancora alcune copie disponibili nel webshop.
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Just Indie Comics Buyers Club 2021
Bat-Man conquista il Just Indie Comics Buyers Club! Che cosa è successo, direte voi? Mi sono venduto anche io al mondo delle corporation? Le spedizioni alterneranno Wonder Man e Blue Beetle trasformando il Buyers Club in una riunione di supereroi degna di Crisis e Secret Wars? Assolutamente no, e infatti ho detto Bat-Man e non Batman! Quel trattino volto a evitare problemi di copyright (come se bastasse) la dice già tutta sul primo fumetto della sesta edizione del Buyers Club, ossia Bat-Man is Lost in a Woods di David Enos, pubblicato dalla microetichetta California Clap e che è in sostanza una rilettura in chiave vintage e meditativa del mito dell’uomo pipistrello. E quale migliore idea di far scontrare il nostro Bat-Man con un King-Cat? Mi sto riferendo ovviamente a una delle testate storiche del fumetto indipendente e autoprodotto d’oltreoceano, ossia King-Cat Comics di John Porcellino, di cui sta per uscire il #80 che gli abbonati si ritroveranno prontamente nelle loro case. E quindi diciamolo, soltanto chi si abbona ENTRO IL 31 DICEMBRE 2020 al Just Indie Comics Buyers Club potrà assistere allo scontro dell’Uomo-Pipistrello contro il Re-Gatto!
Ok, dopo il solito inizio trionfale vediamo di chiarire meglio le cose, soprattutto per chi non conosce questa simpatica iniziativa collegata al negozio on line di Just Indie Comics. E vado come al solito di copia e incolla, quindi chi già sa può anche saltare a piè pari quanto segue. Chi aderirà al Buyers Club entro il prossimo giovedì 31 dicembre riceverà uno o due fumetti ogni tre mesi, a seconda della tipologia di abbonamento scelto, e avrà inoltre diritto a uno sconto del 10% su tutto il materiale acquistato dal sito e ai festival (se ci saranno) nel corso del 2021. La prima spedizione sarà a fine gennaio, le successive ad aprile, luglio e ottobre.
Esistono due soluzioni per aderire al Just Indie Comics Buyers Club. La prima, quella più economica, costa 45 euro e dà diritto a ricevere un albo a trimestre, spese di spedizione tramite piego di libro ordinario incluse. La seconda, che invece è la versione estesa dell’abbonamento, consentirà di avere in ogni invio due fumetti, per un totale di otto albi annui, e costa 75 euro, con la spedizione sempre inclusa. Se invece della spedizione ordinaria preferite quella tracciata dovete aggiungerla nello shop on line, ovviamente con un inevitabile sovrapprezzo. I sottoscrittori LARGE riceveranno con il primo invio Bat-Man is Lost in a Woods di David Enos e King-Cat #80 di John Porcellino, mentre gli abbonati SMALL potranno scegliere uno tra i due fumetti. Ah, a dire il vero esistono anche altre opzioni, che sono destinate a chi vive fuori dall’Italia, ma solamente in Europa. In tal caso vi rimando alla pagina del Just Indie Comics Buyers Club 2021 Europe.
Gli altri fumetti verranno selezionati nel corso dell’anno, saranno in lingua inglese e pubblicati da piccoli editori nord-americani o europei, oppure autoprodotti. Come già successo nel 2020, tutti i fumetti saranno uguali per tutti, non ci saranno più variazioni di sorta. Questo mi permetterà di avere una maggiore cura nella selezione e soprattutto di evitare doppioni se già avete comprato qualcosa per conto vostro. Infatti prima di ogni spedizione gli abbonati riceveranno una mail che annuncerà i fumetti in via di spedizione, e se già li hanno acquistati potranno richiedere l’invio di un altro albo. Vi anticipo che comunque difficilmente ciò succederà, perché nel Buyers Club cerco di selezionare fumetti sempre nuovi e/o di difficile reperibilità, dicendo NO alle scelte scontate.
Potrete trovare degli spillati di piccolo o grande formato, volumi, volumetti, graphic novel, antologie, tabloid e così via, autoprodotti o pubblicati da case editrici più o meno piccole. Per darvi un’idea l’anno scorso gli abbonati del Just Indie Comics Buyers Club SMALL hanno ricevuto i seguenti albi: Sunday #1 di Olivier Schrauwen, Masquerade di Tana Oshima, The Driver di Isobel Neviazsky, The Puerto Rican War di John Vasquez Mejias. Oltre a questi gli abbonati LARGE hanno ricevuto: Code 3;5 di Lale Westvind, My Dog Ivy di Gabrielle Bell, Amateur Hour #1 di Chris Kohler e Living Nightmare di Pete Faecke.
Come vedete si tratta per lo più di materiale di nicchia, che vi costerebbe un occhio della testa comprare separatamente, tra spese di spedizione, dogana, ecc. ecc. Il Buyers Club serve appunto per fare “gruppo d’acquisto” e ordinare le cose tutti insieme, risparmiando sui costi e provando ovviamente – attraverso un paziente lavoro di ricerca – a tenere sempre alta la bandiera della qualità. Dunque non sventolate bandiera bianca e abbonatevi cliccando sul link qui sotto. E per qualsiasi altra richiesta, informazione ecc. scrivete a justindiecomics [at] gmail [dot] com e vedremo il da farsi. Dunque non esitate e fate subito il vostro (e il mio) gioco, che quest’anno c’è tempo solo fino al 31 dicembre!
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Speciale “Hate” / “The Complete Hate”
Concludo questo lungo lunghissimo speciale, il più approfondito che la “storia” di Just Indie Comics ricordi, con uno sguardo al cofanetto pubblicato da Fantagraphics all’inizio di dicembre e contenente (quasi) tutto Hate, dal primo numero del comic book del 1990 fino al nono Hate Annual. Innanzitutto mi sembra doveroso premettere che, avendo tutto il materiale contenuto all’interno, non ho comprato The Complete Hate, pertanto non sono in grado di dare giudizio su carta, copertine ecc. ma solo sui contenuti, che ho potuto sfogliare nel freddo formato pdf. E allora vediamo cosa contiene questo cofanetto celebrativo, fatto uscire per il trentennale della serie e lanciato dall’editore come “an archival collection of one of the bestselling alternative comic book series — arguably, the Great American Grunge novel — complete for the first time”. Essì, il grande romanzo americano grunge, avete letto bene!
La raccolta è venduta a un prezzo decisamente importante, dato che per portarsela a casa ci vogliono $119.99, ma mi sembra inevitabile visto che si parla di un totale di quasi 1000 pagine (938 per l’esattezza) di cui buona parte a colori. A rendere sensato il prezzo finale c’è anche la confezione, dato che The Complete Hate si presenta in tre volumi hardcover incastonati in un cofanetto, la cui copertina raffigura Buddy con bottiglia di birra in mano e sigaretta in bocca davanti alla sua “poliomobile”. Il primo volume è dedicato alle storie in bianco e nero di Buddy, tratte da Hate #1 fino a Hate #15. Il secondo raccoglie invece tutte le storie a colori, quelle uscite sui numeri dal 16 al 30 della testata. Il terzo mette insieme tutti i fumetti con protagonista Buddy e soci tratti dagli annual e una serie di contenuti speciali, come le backup story del comic book (Prisoners of Hate Island da Hate #1, Let’s Give Fascism a Chance da Hate #11 e via dicendo), i concorsi, qualche illustrazione e così via.
Il primo volume si apre con un cover che raffigura George chino sulla scrivania circondato da libri, riviste e cartacce, mentre alle spalle arriva Valerie. Entrambi hanno lo sguardo imbarazzato, come se non fossero più abituati a farsi guardare dai lettori. Si girano le pagine e parte un’introduzione di Bagge, piuttosto sintetica a dire il vero. Niente a che vedere con Hate: A Love Story, il lungo articolo che apriva lo special Hate Jamboree del 1998 e che sarebbe stato bello ristampare in questa sede. L’apparato iconografico dell’intro alterna una foto d’epoca con gli uomini della famiglia Bagge al poster dell’HateBall Tour del 1993, un’istantanea raffigurante il cartoonist con la figlia appena nata a un suo ritratto a firma Daniel Clowes. Da segnalare anche copertina e trafiletto di un Entertainment Weekly datato aprile 1991, in cui Bagge era annoverato tra le “fresh faces” della cultura americana. Partono quindi i contenuti, ossia le copertine dei primi 15 numeri della testata e poi ovviamente le storie del periodo in bianco e nero di Hate, quello ambientato a Seattle. Da sottolineare che, se si eccettuano le seconde di copertina del #1 e del #15 del comic book riproposte per dare un contesto ai fumetti, non ci sono i redazionali né la pagina delle lettere. Probabilmente si è deciso in questo senso per non aumentare in maniera eccessiva la foliazione dei volumi (e di conseguenza il costo dell’opera) e anche per non riproporre contenuti datati, che se possono essere succulenti per i fissati come me sarebbero risultati poco interessanti a un pubblico contemporaneo, più abituato alla dimensione del grapic novel che dei comic book. Aggiungo che di recente Bagge si è soffermato su questo argomento in un’intervista video con Noah Van Sciver, pubblicata sul canale YouTube dell’autore di Fante Bukowski (la potete vedere qui), spiegando che la possibilità di inserire la posta è stata scartata anche per via dei contenuti di alcune lettere, che erano piuttosto assurdi e che avrebbero potuto infastidire gli stessi autori, magari diventati nel frattempo rispettabili impiegati di banca, padri di famiglia o fan della Madonna (o magari tutte queste cose insieme). Il primo volume è chiuso dalla famosa vignetta di Hate #8 con la band dei Kurt che urla “I scream, you scream, we all scream for heroin” rivisitata in lingue e modi diversi, e quindi da una quarta di copertina con Stinky nei panni di cantante dei Leonard and the Love Gods.
E siamo al secondo volume, che contiene i restanti numeri della serie regolare, ossia quelli dal 16 al 30, a colori e ambientati nel New Jersey. La copertina raffigura Jimmy Foley, Pencils, Jake The Snake e Joel intenti a fumare, bere e mangiare patatine, mentre dietro Tommy Kaufman, l’ex compagno di scuola di Buddy diventato poliziotto, fa finta di non vedere e non sentire. Dopo un sommario accompagnato da un Buddy fuori dal tempo intento a farsi un selfie, troviamo la galleria di copertine e quindi le storie, fino al gran finale di Hate #30. Non ci sono le collaborazioni di Bagge con altri cartoonist, come Alan Moore, Robert Crumb, Gilbert Hernandez e via dicendo (maggiori dettagli in questo post), ma c’era da aspettarselo, visto che si tratta di storie che non hanno niente a che vedere con le vicende di Buddy Bradley e oltretutto disponibili nella raccolta Other Stuff (fuori catalogo ma di facile reperibilità on line). Il volume è chiuso dalla classica grafica I Like Hate and I Hate Everything Else e da una quarta di copertina con gli altri della famiglia Bradley intenti a fare ciò che sanno fare meglio, ossia bere birra (Butch), dormire sul divano (Brad “Pops” Bradley), litigare (i pestiferi nipotini Alexis e Tyler), incazzarsi con i figli (Babs) e andare fuori di testa (Betty la madre di Buddy).
Volume tre, dunque. Allora, so che c’è gente che magari sta leggendo queste righe e che ha già consumato TUTTO Hate, come so anche che c’è gente che magari sta leggendo quest’articolo ma non leggerà mai Hate, ma poi soprattutto qualcuno sta leggendo?!? Pronto? Mi sentite??? Scherzi a parte, nel dubbio di rovinare la lettura a qualcuno ho evitato di dare fastidiose anticipazioni sugli sviluppi della serie nell’articolo principale e quindi non mi tradirò certo nel post conclusivo di questo speciale. Evito dunque di rivelarvi cosa c’è sulla copertina del terzo volume del lotto, anche se qualcosa avrei da dire sulla discutibile acconciatura del personaggio in questione. All’interno, dopo la quarta di Hate #11 (che in realtà era tutt’uno con la cover vera e propria ma vabbè, facciamo finta di niente) e un autoritratto di Bagge, troviamo l’illustrazione di copertina e il paginone interno di Hate Jamboree, con tanto di identikit di tutti i personaggi pronti a celebrare Buddy. Seguono le cover e le storie di Buddy tratte dagli Annual, con il dittico conclusivo Heaven e Hell pubblicato sul nono Annual del marzo 2011. Manca inspiegabilmente Fuck It, pubblicata in Buddy Buys a Dump nel 2014 e che è almeno per ora l’ultima storia di Buddy Bradley. Peccato, perché tra le storie post-Hate era senz’altro la migliore, ed escluderla ha davvero poco senso in una raccolta che si definisce “completa” sin dal titolo (EDIT: Il lettore Paolo G. mi informa via e-mail che nel cofanetto “in carne e ossa” Fuck It è presente, quindi la sua assenza è limitata al pdf mandatomi da Fantagraphics, che evidentemente non era definitivo. A tal proposito anche l’ordine delle illustrazioni e delle quarte di copertina potrebbe essere diverso. Se state valutando l’acquisto, tenete dunque conto che questa versione di Hate è veramente “complete”, senza assenti ingiustificati).
Il terzo volume fa un buon lavoro nel mettere insieme una serie di contenuti speciali, dalle storie brevi fino a quelle di una pagina pubblicate sulle quarte di Hate, con qualche chicca come Buddy, Buddy, Quite Contrary tratta dalla zine I Like Comics (ne ho parlato qui). Non mancano nemmeno le copertine delle precedenti raccolte di Hate, le illustrazioni per tre cover dell’edizione tedesca della serie e addirittura una copertina per l’Especial Nuevo Comix Underground della rivista spagnola El Vibora. Seguono i materiali dei due concorsi Win a Date with Stinky e Buddy Bradley Look-Alike Contest (maggiori informazioni in questo post), le immagini del merchandising (dai preservativi ai pupazzetti di Buddy) e addirittura un questionario psicologico a cui si sottopose Bagge nel 1993. In chiusura ecco le dettagliate schede dei personaggi, la biografia dell’autore e una quarta di copertina che ci mostra Jay al lavoro nella discarica.
A questo punto vorrete sapere se vale la pena di comprare The Complete Hate. La risposta è semplice: se non avete i comic book e non vi volete lanciare nell’affannosa (ma non impossibile!) ricerca di tutti e 30 i numeri della serie più gli Annual sì, perché con un colpo solo vi potete leggere tutte le avventure di Buddy Bradley e soci; se già ce li avete no, perché il cofanetto poco aggiunge a quanto già noto. E con questo è tutto, lo speciale Hate finisce qui, e arrivederci a questo punto allo speciale Eightball, previsto per la prossima pandemia. ‘Nuff Said…
Speciale “Hate” / “Peter Bagge: Conversations”
Da diversi anni la University Press of Mississippi si sta distinguendo per una serie di collane dedicate agli studi culturali più diversi, tra cui appunto il fumetto, che viene trattato nei suoi molteplici aspetti, da fenomeno di massa e di mercato a veicolo di storie e contenuti. In particolare l’ottima serie Conversations curata da M. Thomas Inge si caratterizza per riunire in rigorosi volumi monografici alcune interviste rilasciate da un singolo autore nel corso degli anni, accompagnate da introduzione, biobibliografia e – ove possibile – una chiacchierata inedita realizzata apposta per l’occasione. Uscita dopo uscita la serie ha ospitato autori diversissimi tra loro come Ben Katchor, Chester Brown, Jim Shooter, Steve Gerber, Michael Allred, Daniel Clowes e tanti altri. E tra questi altri c’è appunto Peter Bagge, cui è stato dedicato nel 2015 un volume a cura di Kent Worcester che – dietro una cover francamente terribile – mette insieme interviste rilasciate nell’arco di 26 anni, da quella datata 1988 e pubblicata originariamente nel #8 della fanzine Chemical Imbalance a quella appunto condotta dallo stesso Worcester nel 2014 per la pubblicazione del libro.
Gli argomenti trattati sono ovviamente assai variegati, e vanno dalla gioventù nei sobborghi dello stato di New York al periodo della School of Visual Arts, passando per le fonti di ispirazione, le tecniche utilizzate, le sue opinioni (via via sempre meno lusinghiere) sul fumetto alternativo e toccando di volta in volta particolari periodi della carriera di Bagge, così che il lettore si trova a ripercorrere le sue diverse opere. Intervista dopo intervista si parla così di Comical Funnies, Neat Stuff, Weirdo, Hate, The Megalomaniacal Spider-Man, Sweatshop, Apocalypse Nerd, le strisce per Reason, Woman Rebel: The Margaret Sanger Story e altro ancora, in un viaggio che mostra le mille sfaccettature del cartooning di Bagge e le diverse avventure editoriali e artistiche. In tutto ciò un ruolo importante riveste ovviamente Hate, opera centrale della carriera dell’autore e che torna costantemente nel volume, con qualche curiosità degna di nota. Per esempio nella trascrizione dell’incontro pubblico con Guy Lawley del 1992, ripreso dal #2 della rivista Comics Forum, rispondendo a un lettore Bagge già anticipava i suoi piani di chiudere la serie con ben 6 anni di anticipo, e quando all’epoca erano usciti soltanto una manciata di numeri. “Ho sempre visto Hate come una serie di 25 numeri o giù di lì. Non ho un’idea precisa di quando finirà, è solo che… Mi dà davvero fastidio vedere i fumettisti rimanere incastrati con un personaggio di successo, come se dovessero fare le stesse cose per sempre. Dal canto mio sono sicuro che non voglio disegnare Buddy Bradley per il resto della mia vita”.
Non è una semplice intervista il pezzo Peter Bagge Leads the Way to Seattle Comics Riches di Kit Boss, pubblicato nel 1994 sul quotidiano The Seattle Times e che indaga proprio il fenomeno Hate dissotterrandolo dall’underground per presentarlo a un pubblico generalista. Con spirito da giornalista di inchiesta, Boss spiega il successo del comic book elencando fatti su fatti e interpellando le parti in causa, dallo stesso Bagge a Gary Groth, dalla moglie di Bagge Joanne all’amico e collega J.D. King. E’ tratta invece dal “comic issue” di Ben Is Dead l’intervista con Brian Doherty che racconta un po’ di curiosità sui tentati adattamenti cinematografici e televisivi delle vicende di Buddy Bradley. Lo stesso tema è ripreso in parte in un’intervista con Brian Heater del 2005, in cui alla domanda “quale attore di Hollywood sarebbe adatto per interpretare Buddy?” Bagge risponde: “John Cusack ha fatto davvero un ottimo lavoro in Alta fedeltà nell’interpretare un personaggio simile a Buddy, anche se credo che ormai sia troppo vecchio per il ruolo”. E un’altra chiacchierata del 2007 con Heater approfondisce contenuti e retroscena degli annual, su cui però non mi dilungo per evitare fastidiosi spoiler.
Ma facciamo un passo indietro, e in particolare torniamo al 1998, e cioè all’intervista pubblicata sul sito ink19.com con il titolo Psychotic Pop Picasso. E’ qui che si legge una lunga digressione di Bagge sulle differenti interpretazioni di Hate negli USA e all’estero. “Hate ha un pubblico internazionale – gli chiede Charles D.J. Deppner – I tuoi lettori d’oltreoceano si identificano lo stesso con i tuoi personaggi, o li vedono piuttosto come una rappresentazione della vita in America?”. “Entrambe le cose, a quanto sembra – risponde Bagge – Inizialmente Hate, e il mio lavoro dagli anni ’80 in poi, è stato venduto e tradotto soprattutto nei paesi scandinavi, in Inghilterra ovviamente, e poi in Germania. E anche se questi paesi mi sembrano piuttosto simili all’America, anche se hanno meno fucili di noi, tutti questi lettori non facevano che dire quanto fossero ‘americani’ i miei fumetti. ‘E’ così americano’ dicevano sempre. ‘Il tuo lavoro è davvero un’aspra condanna della cultura americana’. Ma questa non è mai stata una mia intenzione. Non volevo dire niente a proposito della cultura americana. E sicuramente non avevo intenzione di criticarla. A me piace la cultura americana. Ma questo è il modo in cui interpretavano i miei fumetti. Poi negli ultimi tre o quattro anni Hate è stato finalmente tradotto in spagnolo, e sta andando molto bene. Sta vendendo un sacco. E quando sono andato in Spagna e ho fatto i firmacopie, tutto ciò di cui le persone parlavano era di come ci si ritrovavano. E ho sentito poco e niente frasi tipo ‘Oh, il tuo fumetto è una rappresentazione perfetta di tutto ciò che c’è di sbagliato in America’. Anzi, direi che in Spagna non ho proprio sentito dire certe cose. La gente diceva semplicemente ‘Mi identifico nei tuoi fumetti. Sono davvero divertenti. Mi riconosco veramente in Buddy Bradley’. E andavo a questi firmacopie e trovavo duecento Buddy Bradley spagnoli, dei tizi che a prima vista sembravano proprio identici a lui”. L’intervista pubblicata da Scott Nickel sul suo blog nel 2009 parla invece dei personaggi di Bagge e in particolare di uno che ci riguarda. “Di tutti i tuoi personaggi, qual è il tuo preferito? Chi non sopporti?”. “Tra il cast di Hate – risponde Bagge – la mia preferita è Lisa. E’ un personaggio molto complesso, e c’è una certa coerenza nella sua incoerenza. Ed è anche la più imprevedibile del gruppo. Se invece guardo ai miei personaggi al di fuori di Hate, sono orgoglioso soprattutto del cast di Sweatshop, una serie che ho creato per la DC e che è stata cancellata troppo presto. Avevo tantissime idee per quei personaggi. Uno che ho sempre ‘odiato’ è Junior, ma dopotutto è nato per essere ripugnante. Quando l’ho concepito rappresentava tutti i lati del mio carattere che non mi piacevano e l’ho disegnato in parte per ‘esorcizzarlo’ da me stesso!”.
Anche l’intervista di Worcester che chiude il volume, fornendo un valido sunto di tutta la carriera del cartoonist, torna a più tratti sul periodo Hate. Ma invece di dilungarmi ulteriormente su ciò, vi saluto lasciandovi a un altro interessante estratto. E vi do appuntamento nei prossimi giorni su queste pagine con quello che sarà l’ultimo post dello Speciale Hate.
Kent Worcester: “Chi erano i tuoi eroi personali da ragazzino?”
Peter Bagge: “Adoravo quella che una volta Gilbert Hernandez chiamò la ‘Santa Trinità’, che probabilmente condividevo con un sacco di ragazzi della metà degli anni ’60: i Beatles, Willy Mays e Charles M. Schulz. Tutti gli altri erano davvero lontani da questi qui”.
KW: “E’ stato difficile capire che cosa volevi dalla vita durante l’adolescenza o avevi le idee chiare su quello che volevi fare?”
PB: “Considerando chi ho appena indicato come miei eroi, mi sembra ovvio che il mio sogno fosse diventare un giocatore di baseball, un musicista o un fumettista. Ma come atleta ero davvero scarso, dato che ero un nanerottolo, e come musicista ero mediocre, a voler essere generosi (e all’epoca ero anche troppo timido per salire su un palco). E dunque mi rimaneva soltanto una delle tre possibilità”.
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Speciale “Hate” / “I Like Comics”
Nel #1 di Hate Buddy Bradley ammetteva di essere interessato – tra le mille idee pazze che gli proponeva il suo amico Stinky – al progetto di mettere su una fanzine. E portava ad esempio Motorbooty, una di quelle fanzine/riviste di una volta che hanno lasciato il segno, e di cui magari scriverò un giorno o l’altro su queste stesse pagine. L’idea evidentemente piaceva allo stesso Bagge, che al contrario di Buddy riuscì realmente a metterla in pratica qualche anno più tardi. Era infatti il 1993 quando vide la luce il primo e purtroppo unico numero di I Like Comics, una fanzine interamente concepita da Bagge e messa su grazie alla collaborazione di Helena G. Harvilicz (in passato editor di The Comics Journal) e del fumettista Pat “Big Mouth” Moriarity nei panni di art director.
Lo dico subito prima di scendere nei dettagli: per me I Like Comics è una delle fanzine più belle che siano mai state fatte. Incentrato quasi tutto sulla scena di Seattle, questo corposo spillato di 120 pagine mette insieme articoli e interviste su tutto il meglio del fumetto dell’epoca. Nel suo editoriale Bagge scriveva di essersi sentito in dovere di fare una fanzine dedicata al fumetto per contrastare l’incredibile quantità di pubblicazioni dedicate alla musica che riceveva. L’autore di Hate aveva infatti uno spazio nel suo comic book in cui parlava di fumetti, riviste e fanzine, che recensiva in breve mettendo anche l’indirizzo per ordinare, come si usava all’epoca. “In questo periodo ricevo una caterva di fanzine autoprodotte. Alcune sono belle, la gran parte fa schifo, ma il 99,999% si occupano per lo più di musica – e non qualsiasi tipo di musica ma di questa orribile e totalmente inutile ‘musica’ ‘underground’ ‘alternativa’ ‘rock’, la peggior forma di rumore mai inventata. (…) Sentendomi molto frustrato per tutto ciò, qualche anno fa annunciai che avrei fatto la mia fanzine, che si sarebbe occupata soltanto della Più Grandiosa e Importante Forma d’Arte del Tardo 20esimo Secolo! (Sto parlando dei fumetti alternativi, se ve lo state chiedendo). Dopo tutto, qualcuno doveva pur farlo!”.
Tra i contenuti di I Like Comics spiccano le numerose interviste, condotte interamente da Bagge, aiutato in alcuni casi dalla Harvilicz. Sfilano così uno dietro l’altro Jim Woodring, Julie Doucet, Michael Dougan, Dennis Eichhorn e Gary Groth, tutti all’epoca residenti a Seattle e quindi facili da intervistare, tanto bastava prendere la macchina e andare a scovarli a casa o in ufficio… Pat Moriarity guarda invece fuori dai confini cittadini chiamando in causa la californiana Mary Fleener. Ma la dimensione local è subito ripristinata dalla Harvilicz, che si diverte a pubblicare una lunga chiacchierata con i suoi… coinquilini, ossia lo stesso Moriarity, J.R. Williams (qualcuno ricorderà la sua serie Crap per Fantagraphics) e R.L. Crabb. Il tono è colloquiale a dir poco, nel senso che spesso i quattro finiscono a discutere delle pulizie più che di fumetti, ma è questo l’approccio di tutto il fascicoletto, che fa di tutto per non prendersi sul serio e per usare un tono “basso”, riuscendo comunque (o forse proprio per questo) a rivelare un sacco di curiosità sulla vita e sull’arte dei cartoonist chiamati in causa. E la dimensione casalinga, artigianale oserei dire, è rafforzata dai titoli e dai sommari, spesso letterati dallo stesso Bagge con la sua inconfondibile calligrafia.
Oltre alle interviste c’è molto altro in questo numero di I Like Comics. Cito per esempio l’approfondimento di Frank Young su Steven, striscia cult di Doug Allen raccolta in alcuni spillati da Kitchen Sink Press (recuperatela se riuscite), un fumetto disegnato da Joe Sacco al liceo, un articolo di Bagge sul cartoonist B.N. Duncan (noto anche per le sue imprese epistolari, come potete leggere qui), un pezzo su Bagge a firma del fantomatico Sidney Mellon, una serie di disegni richiesti per l’occasione ai più svariati cartoonist dell’epoca (da Robert Crumb a Justin Green, da Daniel Clowes ad Art Spiegelman), uno spazio dedicato alla fiction e alle poesie scritte da fumettisti, e poi classifiche, giochi e altre amenità che non devono mai mancare in una fanzine che si rispetti. La quarta di copertina è invece un fumetto inedito di Bagge intitolato Buddy, Buddy, Quite Contrary, in cui vediamo il protagonista di Hate soffrire l’ambiente ormai alla moda di Seattle e meditare una fuga in direzione Denver. Ultima curiosità, il tizio fotografato in copertina è Bruce Chrislip, fumettista, editore e storico dei mini comics ben conosciuto a Seattle, tanto da meritarsi anche il paginone centrale, ovviamente mentre se ne sta sdraiato a leggere circondato da svariati comic book. “Hey, I like comics! – esclama sulla cover – Do you like comics, too?”. Beh, se la risposta è sì, e soprattutto se vi piace il genere di fumetto di cui abbiamo parlato finora, mettetevi immediatamente alla ricerca di una copia di I Like Comics perché – come dico spesso a qualcuno – non può davvero mancare nella vostra collezione.
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Speciale “Hate” / Gli Annual e “Buddy Buys a Dump”
Chiusa l’avventura di Hate nel 1998, Bagge aveva intenzione di proseguire le storie di Buddy e soci su una nuova antologia intitolata Let’s Get It On!, che doveva essere non troppo diversa dagli ultimi numeri del suo comic book, ma con un maggiore spazio per altri autori, giovani e non. L’idea fu ampiamente discussa da Bagge e Gary Groth nell’intervista pubblicata su The Comics Journal #206 dell’agosto 1998 ma finì per non realizzarsi, anche perché di lì a poco Bagge si sarebbe impegnato in una serie all-ages durata soltanto 9 numeri per l’etichetta Homage della DC. Scritta da Bagge per i disegni del suo “idolo” Gilbert Hernandez, Yeah! rifletteva la discutibile fissazione del nostro per le band alla Spice Girls, ricollocata in un’ambientazione fantascientifica. Bisognerà aspettare la fine di questa nuova avventura editoriale per assistere al ritorno di Buddy Bradley, celebrato in nove annual di Hate usciti tra il 2001 e il 2011.
Diciamolo subito, il più delle volte non c’è granché di significativo in questi albetti antologici, tanto che la presenza di Buddy sembra una scusa per continuare a usare il titolo della vecchia serie. Prendiamo ad esempio il primo numero: Are You Nuts?, la storia che riprende i temi e i personaggi di Hate, è di appena otto pagine, mentre il resto del comic book è occupato da ristampe di altro materiale di Bagge uscito in precedenza su internet o riviste, soprattutto sul sito suck.com. In questo caso troviamo dunque articoli giornalistici (riccamente illustrati) sugli oscar degli Infomercial, la campagna elettorale di Alan Keyes e l’inaugurazione del museo EMP di Seattle, una dissertazione sulla band The Hollies, un fumetto su Matrix, un’illustrazione uscita per la versione spagnola del magazine GQ. Insomma, sembra che Bagge abbia un po’ raschiato il fondo del barile per mettere insieme questa personale antologia, con pezzi che letti ora (ma forse anche allora) suscitano al lettore medio un inevitabile “sticazzi”. Unico contributo originale, oltre appunto alla storiella di apertura con Buddy, sono le vicissitudini di un nuovo personaggio femminile, Lovey, che però lasciano anch’esse il tempo che trovano. Non è un periodo creativamente felice questo per Bagge, e anche la stessa Yeah! faceva capire che il nostro aveva perso lo smalto dei bei tempi. Qui c’è anche l’aggravante dei disegni, che ricercano una sintesi grafica eccessiva, e dei colori che sembrano scelti a caso, tanto che di numero in numero i capelli dello stesso personaggio (non vi dirò chi) possono diventare senza motivo biondi, viola o verdi.
Vi evito dunque la cronaca minuto per minuto degli altri annual, segnalandovi soltanto i contenuti più interessanti: la collaborazione con Johnny Ryan in Dildobert Joins The Al-Qaeda (parodia di Dilbert pubblicata nell’annual #3), l’azzeccatissima quarta di copertina intitolata What Was Wrong With Us? (#3), un curioso special sulle teen band in cui Bagge tesse le lodi di Spice Girls, B*witched, A-Teens e via dicendo (#4), la storia di tre pagine East Coast, West Coast, Blah, Blah, Blah… in cui vengono ripresi, personalizzati e derisi luoghi comuni sulla classica contrapposizione tra le due coste statunitensi (#7). Tornando a Buddy, raccontare quanto succede in queste pagine vuol dire rivelare fastidiosi particolari sulle vicende passate e future del personaggio. Evito quindi di scendere troppo nei dettagli, anticipandovi soltanto che il sempre scazzatissimo protagonista cerca tra le altre cose di rilanciarsi come corriere dell’Ups e decide di cambiare totalmente look rasandosi a zero e indossando una benda da pirata. Insomma, Buddy ha smesso di avercela con il mondo intero e ha deciso di assecondarne il totale nonsense, diventando uno svitato degno di un film di John Waters. Peccato però che le sue avventure manchino di verve e di inventiva, non avvicinandosi nemmeno alle vette raggiunte da Bagge in passato.
Fortunatamente le cose vanno meglio negli ultimi due albetti della serie, dove si rivede lo spirito che ci aveva fatto amare Hate. Le situazioni spesso statiche e con personaggi sin troppo immutabili trovano nuova linfa nell’Annual #8 con l’introduzione di nuovi characters e con l’avventura musicale di Lisa, che forma un duo al femminile finendo per esibirsi in uno strip club. E il #9 vede di nuovo come scenario Seattle, in una storia inedita di 24 pagine in cui facciamo per la prima volta conoscenza della famiglia di Lisa. Nel frattempo Buddy ha comprato una discarica, e questo giustifica il titolo del volume pubblicato da Fantagraphics nel 2014. Buddy Buys a Dump contiene, oltre a tutte le storie del personaggio uscite sugli Annual, anche l’inedita Fuck It, che mette da parte la ricerca del paradosso per approfondire temi come il rapporto con i genitori, la vecchiaia, l’educazione dei figli, il razzismo, i problemi sul lavoro e via dicendo, facendosi notare come il miglior episodio del Buddy post-Hate. Un buon modo per chiudere – forse per sempre – le avventure di Buddy Bradley, almeno in senso cronologico. E’ infatti di questi giorni la notizia che il personaggio sta per tornare in una storia ambientata ai bei vecchi tempi di Seattle, di prossima pubblicazione sul New Yorker.
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Speciale “Hate” / Da Fantagraphics a MTV
Già dopo un paio di anni dal debutto di Hate, Bagge aveva ricevuto segnali di interessamento da parte di alcuni produttori cinematografici, desiderosi di sfruttare il boom non tanto del fumetto quanto di Seattle e del grunge. In realtà Bagge non si immaginava la sua serie trasposta in un film alla Singles. Per il suo creatore Buddy e soci dovevano diventare i dissacranti personaggi di un cartone animato per adulti, come i Simpson o Beavis and Butt-Head. Ma quando qualche anno dopo il suo amico Aaron Lee, tra l’altro curatore della rubrica Kickin’ Ass pubblicata negli ultimi numeri di Hate, gli propose un’idea per un trattamento cinematografico, Bagge la trovò azzeccata e si convinse finalmente a lavorarci sopra. Costituito un team composto anche dal regista Terry Zwigoff (quello di Crumb e di Ghost World) e da due suoi collaboratori, i cinque prepararono una sceneggiatura per un lungometraggio che – dopo diversi tentativi – arrivò sulle scrivanie di MTV. Peccato che i creativi di MTV videro subito Hate come… una serie animata! Aveva dunque ragione Bagge, che d’altronde conosceva meglio di tutti la sua creatura. O forse no, visto che il progetto si inabissò dopo sei mesi di intenso lavoro che videro l’autore fare la spola tra Seattle e New York, tra lussuose camere d’albergo e interminabili riunioni.
Erano i tempi degli ultimi numeri di Hate, che Bagge disegnava alacremente mentre era a casa preparandosi all’ennesimo viaggio con destinazione MTV. Che alla fine, appunto, si tirò indietro. Decisivo fu il giudizio del focus group a cui venne fatto vedere uno storyboard animato di otto minuti (il cosiddetto animatic) che riproduceva grosso modo la storia del primo numero del comic book. Molti partecipanti al gruppo trovarono il personaggio di Buddy Bradley noioso o addirittura antipatico, tanto da rendere inevitabili alcune modifiche. Tutta invidia, forse, come suggerì Bagge in “Focus” This!, una vendicativa strip a tema uscita poco dopo su Entertainment Weekly? Chi lo sa, fatto sta che il nostro preparò una nuova sceneggiatura che non venne prese neanche in considerazione, perché nel frattempo a MTV erano cambiate alcune figure dirigenziali e l’attenzione si era ormai spostata su nuovi progetti. Come per esempio Daria, che fu sviluppata proprio nello stesso periodo. Ma se la nerd snob e occhialuta riuscì a ritagliarsi il suo spazio trovando la via del debutto nel 1997, Buddy Bradley non ebbe la stessa fortuna. Bagge fu rispedito definitivamente a Seattle e addio cartone animato di Hate.
Un nuovo tentativo fu fatto con HBO qualche anno dopo, ma anche in quel caso il cartone rimase solo un progetto. Nel 2007 MTV tornò alla carica per realizzare The Bradleys, una serie animata incentrata su tutta la famiglia di Buddy, riprendendo alcune situazioni di Neat Stuff. Il progetto non ebbe un seguito e passò poco dopo in casa Fox, come riportarono alcuni siti internet nel 2009. Ma anche in quel caso l’idea non sfociò in niente di concreto, con buona pace di Bagge, che comunque nel corso degli anni ha potuto almeno beneficiare delle opzioni sulle sue creature, pagate a caro prezzo dagli studios.
Speciale “Hate” / Doofus, Alan Moore e gli altri
Il primo autore ospitato da Bagge sulle pagine di Hate fu Rick Altergott, che arrivò dal #21 con Doofus, personaggio di culto dalle fattezze del tipico messicano e che all’epoca – memori anche le letture di gioventù – associavo mentalmente al Cico di Zagor. Le sue avventure, spesso al fianco del fido Henry Hotchkiss, tendono spesso all’assurdo e al nonsense, sfoggiando quello che gli americani chiamano – in un’espressione secondo me intraducibile – un irresistibile deadpan humor. Ma bisognerebbe parlarne a parte, e magari prima o poi lo farò. Per ora basti dire che considero Doofus uno dei fumetti più divertenti di sempre, in cui il protagonista e il suo fido compare fanno i lavori più assurdi, sognano impossibili storie d’amore, cercano di odorare indumenti intimi femminili e si confrontano con la realtà quotidiana della cittadina in cui tutto ciò è ambientato, ossia Flowertown, U.S.A.
Dal #26, pur mantenendo il formato comic book, Hate si trasformò in una sorta di magazine e a Doofus si unirono altri fumetti e persino rubriche a cura dei fanzinari recensiti da Bagge nel corso degli anni, rafforzando il legame tra la testata e il mondo dell’autoproduzione e della controcultura anni ’90. Negli ultimi cinque numeri troviamo così le fumettiste Dame Darcy e Ariel Bordeaux, Lisa Carver della fanzine Rollerderby, un giovane Ivan Brunetti, altri columnist come Arron Lee e Selwyn Harris e via dicendo. Ma il piatto forte sono le collaborazioni di Bagge con altri autori, delle vere chicche come la storia breve Me splendidamente disegnata da Gilbert Hernandez (Hate #26, 3 pagine), la parodia della strip Cathy ribattezzata Caffy e realizzata a quattro mani con Robert Crumb in persona (#27, 7 pagine), le avventure di una piovra fumettista raccontate da Bagge e disegnate da Adrian Tomine in Shamrock Squid: Autobiographical Cartoonist! (#28, 7 pagine), The Hasty Smear of My Smile con Bagge alle matite e addirittura Alan Moore ai testi, che si diverte a ripercorrere le improbabili vicissitudini di una mascotte in stile Kool-Aid, dalla pubblicazione di una raccolta di poesie in stile beat generation all’incontro con il reverendo Jim Jones (#30, 4 pagine). Nello stesso numero chiude definitivamente le danze What’s in a Name?, in cui Bagge ricorda – con i disegni di Danny Hellman – il suo incontro a New York nel 1983 con Harvey Kurtzman. Se non avete i comic book originali, potete ripescare il tutto nell’antologia Other Stuff, pubblicata nel 2013 da Fantagraphics e in cui trovano spazio anche altri fumetti “minori” di Bagge. Nel frattempo godetevi qui di seguito una galleria di immagini.
Speciale “Hate” / “I’m no right-winger”
“Nonostante sia stato parte integrante della scena punk di New York e sia ora un cronista dello stile di vita della controcultura, nella vita reale Peter Bagge si è lentamente allontanato dalle sue radici bohémien, tanto da non avere ormai problemi a definirsi una persona di destra”. Questa la premessa dell’intervista a Bagge pubblicata sul numero 159 di The Comics Journal del maggio 1993. Una frase che all’epoca fece strabuzzare gli occhi ai lettori del Journal e allo stesso Bagge, che fu costretto a inviare una secca smentita al magazine pubblicato dalla sua stessa casa editrice. Ma andiamo con ordine. In appendice al #11 di Hate (dicembre 1992) appariva un’auto-parodia di tre pagine intitolata Let’s Give Fascism a Chance, in cui Bagge si raffigurava terrorizzato da barboni e gang giovanili mentre portava a spasso la figlia Hannah.
Al di là delle situazioni paradossali e del titolo provocatorio, la storia era una breve riflessione su quanto si può essere paranoici, conservatori, e a volte appunto reazionari, una volta diventati genitori. “Non credo realmente nel fascismo! E quando esco di casa per portare mia figlia a fare una passeggiata, non sono pieno di odio per il prossimo. Ma diventare un genitore ti dà una prospettiva molto diversa. Ti rende automaticamente una persona più conservatrice e meno tollerante. Ed è così che deve essere. E’ una cosa biologica. Cerchi semplicemente di creare l’ambiente più sicuro per la tua progenie. E’ quello che devi fare, no? Chiunque non lo faccia, non fa il suo lavoro come genitore”. Se queste frasi lasciavano qualche sospetto sul pensiero di Bagge, un paio di pagine dopo arrivava la stoccata. Mentre parlava del personaggio di Studs Kirby in Neat Stuff, Bagge affermava di essere stato “un progressista sfrenato” ai tempi del liceo. “Le cose sono cambiate adesso? – incalzava Carole Sobocinski, autrice dell’intervista – Non sei più quella persona progressista di una volta?”. E Bagge: “Sono diventato più equilibrato e realistico, ma mi definirei un right-winger”. Ecco qua dunque il virgolettato ripreso nell’introduzione, e poi smentito da Bagge nel numero successivo della rivista. The Comics Journal #160 apriva infatti la tradizionale pagina delle lettere Blood & Thunder con una lettera di Peter Bagge da Seattle, Washington intitolata senza troppe smancerie I’m No Right Winger. Secondo Bagge la frase da lui pronunciata era infatti “sono diventato più equilibrato e realistico, ma non mi definirei un right-winger”. “Sono preoccupato dall’aura di negatività che questa frase sbagliata ha dato a tutta l’intervista – aggiungeva – e probabilmente a tutto ciò che ho mai detto e scritto”.
Nella sua lettera Bagge criticava anche un’altra parte dell’introduzione, quella in cui veniva definito “parte integrante della scena punk di New York”. “I was quite simply a nobody in my New York days” chiariva anche qui l’autore. Insomma, la Sobocinski non aveva esattamente centrato il punto, per usare un eufemismo. E non fu quella l’unica pecca della sua gestione del Journal come managing editor, tanto che fu brutalmente allontanata dal ruolo con il #161 per aver interferito nell’acquisizione della casa editrice Tundra da parte della Kitchen Sink… Ma questa è un’altra storia. Tornando a Bagge, il cartoonist usò toni ancora più duri nel 2014, sollecitato da Kent Worcester. “Non sono stato semplicemente mal interpretato – dice nell’intervista inedita che chiude il volume Peter Bagge: Conversations – penso di essere stato diffamato. La Sobocinksi mi chiese se fossi una persona di destra. E io risposi di no. Ma mi ricordo che ripeté la stessa domanda diverse volte – come se a forza di insistere io sarei potuto crollare dicendole ‘la verità’. E a sentire lei riuscì a farmi confessare alla fine, visto che quando l’intervista fu pubblicata non solo il mio ‘no’ si trasformò in un ‘sì’, ma fu anche utilizzato come una citazione in bella vista e ripetuto nell’introduzione. (…) Sono sempre stato al 100% pro-choice. Mi sono opposto praticamente a tutti gli interventi militari statunitensi a cui ho assistito nel corso della mia vita. Sono sempre stato per la legalizzazione delle droghe e della prostituzione, e per i diritti degli omosessuali. Sono per l’apertura delle frontiere. Evito la chiesa come la peste. Odio il giuramento alla bandiera e ‘In God We Trust’ scritto sulle nostre banconote, e detesto stare in piedi durante il nostro orrendo inno nazionale agli eventi sportivi. Ti sembrano cose da ‘right-winger’ queste?”.
Tra l’altro l’autore di Hate è ormai un dichiarato sostenitore del Libertarian Party, partito statunitense che sostiene la totale limitazione dell’intervento statale in qualsiasi campo, unendo sfrenato liberismo economico e anarchismo, possesso di armi da fuoco e liberalizzazione delle droghe. Se vi interessa approfondire il suo punto di vista, il libro giusto è Everybody is Stupid Except for Me: And Other Astute Observations, raccolta delle sue strisce per Reason, la principale rivista “libertaria” statunitense.