Everything is ending “Here”

Here apertura“Di tanto in tanto arriva un artista che prende il potenziale accumulato dalla sua disciplina e lo rielabora in nuovi modi di vedere e sentire. Cézanne ci è riuscito nella pittura, Stravinskij nella musica, Joyce nella scrittura – e penso che Richard McGuire lo abbia fatto con i fumetti”.

Basterebbe questa frase di Chris Ware per capire l’importanza della prima incarnazione di Here di Richard McGuire, una storia di 6 pagine apparsa nel 1989 in Raw vol. 2 #1 e che è possibile leggere qui. Era quello il famoso fumetto – rivoluzionario, stracitato, oggetto di saggi, convegni e persino di un cortometraggio – in cui l’artista statunitense – copertinista del New Yorker, bassista della band Liquid Liquid, autore di libri per bambini e film d’animazione, grafico e altro ancora – raccontava con un approccio estetico essenziale la storia di un angolo di mondo in diversi momenti storici,  definiti di volta in volta da una data. Ma la caratteristica principale di Here erano le finestre che apparivano e si affastellavano creando il caos nelle sei ordinate vignette di ogni pagina, dando vita a passaggi temporali repentini che portavano il lettore a spostarsi in meno di un batter d’occhio dalla preistoria al futuro, mostrandoci per lo più l’angolo di una stanza ma a volte anche cosa c’era e cosa ci sarà in quell’angolo, come uno scenario lavico nel 500.957.406-073 a.C., l’edificio ancora in costruzione nel 1902, pompieri che spengono un incendio nel 2029, una cerimonia all’aperto nel 2033.

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“Avevo realizzato due strisce che erano state pubblicate poco prima di Here – ha raccontato McGuire in un’intervista a Thierry Smolderen pubblicata sull’ottavo numero di Comic Art del 2006, dove è stato ristampato anche il fumetto originale e dove è apparso il saggio di Ware citato in apertura – in un piccolo magazine chiamato Bad News, curato da Mark Newgarden e Paul Karasik. L’idea iniziale mi venne dall’appartamento in cui mi ero appena trasferito. Pensavo a chi aveva vissuto lì prima di me. Feci alcuni sketch di una pagina divisa in due parti verticali, dove sulla sinistra il tempo si muoveva avanti, mentre sulla destra si muoveva all’indietro. All’epoca, stavo frequentando delle lezioni tenute da Newgarden e Karasik sul fumetto (dopo una serie di conferenze di Spiegelman che avevo già seguito poco prima), e loro mi incoraggiarono ad andare oltre i semplici sketch per svilupparli in una storia. Un giorno ero in giro con un mio amico, Ken Claderia – con cui andavo a scuola e che adesso è uno scienziato che lavora per la Stanford University – e fu un suo commento che fece a proposito di Windows che mi portò a pensare che poteva trattarsi di una vista multipla piuttosto che di uno split screen. Fu quello il momento “eureka”. L’idea è basata su una concezione multi-dimensionale del tempo – nel pensare il tempo non come lineare, ma come se tutto il tempo esistesse simultaneamente. Volevo che lo spettatore pensasse all’immagine più ampia, al fatto che noi entriamo in contatto soltanto con una parte della realtà. I dinosauri stanno ancora camminando da qualche parte in questo spazio ma in un altro tempo”.

Da allora il fumetto di McGuire è stato paragonato a tante opere che hanno rivoluzionato la forma delle arti, ognuna ovviamente a suo modo. Ware lo paragona all’Ulisse di Joyce o anche a Fuoco pallido di Nabokov, citato per l’uso delle note a pié pagina, soluzione poi portata alle estreme conseguenze da David Foster Wallace. Matt Seneca in una bellissima recensione per The Comics Journal del nuovo Here utilizzava Il pasto nudo di William Burroughs e Viaggio nella luna di Méliès come opere altrettanto fondamentali per la loro ambizione formale. L’uso dello split screen nel cinema ha avuto sicuramente un ruolo importante nello sviluppo dell’idea iniziale di Here: esempi celebri sono Lo strangolatore di Boston, Il caso Thomas Crown, Carrie – Lo sguardo di Satana, probabilmente ben noti a McGuire. Per rimanere ai fumetti, invece, lo stesso Ware citava come possibili ispirazioni di McGuire The Malpractice Suite di Art Spiegelman e A Short History of America di Robert Crumb, il primo per la scomposizione quasi cubista della vignetta, il secondo per il modo in cui mostra l’evoluzione di uno stesso punto dello spazio nel corso del tempo. Di seguito le due opere citate (quella di Crumb è nella sua versione più recente, con l’aggiunta delle ultime tre vignette).

Malpractice Suite

A short history of America

A me, innanzitutto appassionato dei comics nella loro declinazione anglo-americana, quando per la prima volta lessi Here venne banalmente in mente il quarto capitolo di Watchmen di Alan Moore e Dave Gibbons, non solo per il modo in cui la memoria del Dottor Manhattan salta da un anno all’altro, ma anche per come Moore dava veste divulgativa a quel concetto di simultaneità poi diffusissimo nella cultura popolare degli ultimi vent’anni, dal cinema al fumetto alle serie tv. Sicuramente le conoscerete già a memoria, ma queste sono le due pagine iniziali di Watchmen #4.

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Subito dopo assistiamo alla scena del 7 agosto 1945 in cui il padre del Dottor Manhattan, dopo aver mostrato al protagonista la prima pagina del New York Times con la notizia della bomba atomica su Hiroshima, prende gli ingranaggi di un orologio e li butta dalla finestra. “Questo cambierà tutto. Ci saranno altre bombe. Sono loro il futuro. E mio figlio dovrà proseguire il mio lavoro obsoleto? (…) La scienza atomica… E’ di questo che il mondo ha bisogno! Basta con gli orologi! Il professor Einstein dice che il tempo varia da luogo a luogo. Hai idea? Se il tempo non è reale, a che servono gli orologiai, eh?”. Se il tempo è obsoleto nella realtà, figuriamoci nel fumetto, dove poco ci vuole a rompere il concetto tradizionale secondo cui i fatti raccontati in una vignetta siano precedenti a quelli che si vedranno nella successiva. E lo stesso vale nella letteratura, dove ci vuole ancor meno ad abbandonare l’idea di romanzo come successione di eventi per raccontare la storia di un luogo, come tra gli altri ha fatto lo stesso Alan Moore con la sua bellissima e sghemba storia di Northampton contenuta in La voce del fuoco.

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Prima ho usato in modo un po’ criptico l’aggettivo “nuovo” riferendomi a Here. Ma d’altronde ormai ben saprete che McGuire ha rivisitato il concept originale in una nuova edizione, che dopo una lunga gestazione è uscita lo scorso anno sotto forma di un libro a colori di oltre 300 pagine pubblicato da Pantheon Books e arrivato anche in Italia da qualche settimana grazie a Rizzoli Lizard con il prevedibile titolo di Qui. Se qualche fedele lettore di queste pagine si fosse chiesto perché non avevo incluso il volume nella lista dei migliori fumetti del 2014, è perché all’epoca ancora non avevo letto il nuovo Here, dato che una copia spedita in anteprima grazie a qualche aggancio oltreoceano si era perduta nei meandri del sistema postale mondiale e si era infine palesata dopo mesi di attesa, quando il libro era già da un bel po’ di tempo nelle librerie.

Here parla dell’essere umano, sia nel senso di “umanità” che in quello di “uomo” e l’opposizione o meglio la giustapposizione di questi due concetti è ancora più evidente nella versione graphic novel. Se le sei pagine originali sfoggiavano una narrazione convulsa, veloce, dinamica, rappresentando come nessun fumetto aveva mai fatto prima le dinamiche del pensiero, le 300 pagine della versione 2014 sono lente, pacate, a tratti malinconiche nel modo di accostare l’inesorabilità del Tempo e della Storia alle piccole vicende quotidiane delle persone comuni, a ricordarci, come diceva McGuire, che noi sperimentiamo soltanto una parte delle possibilità di questo mondo, che quello che accade nel nostro piccolo è niente rispetto alle ere geologiche, all’estinzione delle specie, a un futuro che – almeno secondo quanto dicono queste pagine – riporterà la Terra indietro, verso le sue origini. Il tutto è ovviamente riportato secondo la sensibilità di un uomo occidentale che ha vissuto e vive tra il XX e il XXI secolo, ma non potrebbe essere altrimenti, dato che pur trattando di temi universali si tratta sempre di un’opera personale, in cui l’autore ci ha inevitabilmente messo del suo.

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Il solito Chris Ware è tornato su Here per parlare delle sua nuova incarnazione, dicendo che “con quelle prime sei pagine nel 1989, McGuire ha introdotto un modo nuovo di fare una striscia a fumetti, ma con questo volume, nel 2014, ha introdotto un nuovo modo di fare un libro”. Ma cosa c’è, dunque, dentro queste 300 pagine? Innanzitutto c’è una visione più ampia di quel famoso spicchio di realtà. Se nella striscia infatti l’unità narrativa era rappresentata dalla vignetta, qui è costituita dalla doppia pagina, cosa che permette all’autore di allargare la prospettiva mostrandoci non solo quell’angolo in alto a sinistra (secondo la nostra percezione) ma anche altre porzioni delle stanza. Per esempio guardando la prima versione non avevamo mai visto il camino, lo specchio, quel tavolino, quell’abat-jour. Inoltre non avevamo mai visto i colori, realizzati grazie all’aiuto di Min Choi, Maëlle Doliveux, Keren Katz, definiti come “Team Here” perché hanno aiutato l’autore negli aspetti più tecnici del processo creativo, portando alla realizzazione di un affascinante ibrido tra matite, computer grafica, colori digitali e splendidi acquerelli. L’uso del colore cambia l’estetica della storia e anche se la tavolozza cromatica è molto ampia, a prevalere sono i temi tenui del giallo/marrone/ocra, che ricreano un mood simile a quello dei quadri di Edward Hopper. E spesso, vedendo quel salotto e le sue evoluzioni nel corso del Novecento, sembra di stare in un libro di qualche maestro del racconto americano come Richard Yates o Raymond Carver.

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D’altronde Here è a suo modo un libro di racconti, in cui brevi storie si accumulano, si sviluppano e a volte si intrecciano. Ma è anche un susseguirsi di associazioni di idee, di temi che vengono trattati per qualche pagina per poi lasciare spazio ad altri, mentre le finestre si aprono e si incastrano tra loro e gli anni vanno avanti, indietro, avanti e ancora indietro. Dentro c’è la rappresentazione di panorami astratti dai colori vivacissimi nel 3.000.500.000 a.C., di animali preistorici nel 10.000 a.C., di splendidi e incontaminati scenari lacustri nell’8000 a.C. come nel 1203 e nel 1307, di due indigeni che fanno l’amore nel 1609, di Benjamin Franklin che discute di politica con il figlio nel 1775, di case che vengono costruite nel 1907, della vita secondo le forme ben conosciute del XX secolo (poi raccontata da una guida turistica nel 2213), del mondo dopo un non meglio identificato evento catastrofico nel 2313, di animali a noi sconosciuti che vagano nell’oscurità del 10175, di forme di vita nuove e colorate che appaiono nel 22175. Ci sono foto di famiglia fatte in anni diversi sullo stesso divano, madri che tengono in braccio i loro figli nel 1924 come nel 1945, nel 1949 e nel 1988, feste di carnevale, party, bambine che ballano. C’è una bellissima pagina ambientata nel 1949 in cui lo specchio sopra al camino cade e mentre una vignetta più grande ci mostra l’acqua che entra in casa dalla finestra in una notte del 2111, ci sono tantissime finestrelle che ci mostrano piatti e bicchieri che si rompono e insulti che volano letteralmente in aria, neanche fossimo in un trattato sociologico sull’evoluzione del linguaggio. E poi c’è la storia della stanza, con la carta da parati che viene sostituita nel 1949 per poi essere coperta dalla pittura nel 1960, lo specchio sopra al camino che lascia spazio a un quadro, poi sostituito da un altro specchio, quindi da un televisore da parete che diventerà obsoleto nel 2050 davanti alle nuove tecnologie da salotto. C’è anche il dramma in Here, dato che nelle prime pagine siamo nel 1989 e un uomo dopo aver ascoltato una barzelletta inizia a ridere, quindi a tossire e infine cade a terra, anche se per vedere la reazione dei familiari dovremo aspettare di arrivare quasi a metà volume, in una pagina ambientata sempre nel 1989 ma in cui c’è anche una donna che nel 1960 dice “Did you lose something?”, collegandosi alla morte dell’uomo e contemporaneamente dando il via a una sequenza di diverse pagine con personaggi che perdono oggetti personali oppure la testa, la vista, l’udito.

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Capita raramente di trovare delle opere formalmente innovative che siano in grado al tempo stesso di parlare al cuore del lettore. Here è una di queste e l’effetto ottenuto da McGuire è ancora più straordinario se pensiamo che riesce a pungolare, a emozionare, a stupire senza fare uso di trame né di protagonisti, ma semplicemente raccontando la Storia e le storie, il grande e il piccolo, il grave e l’irrilevante, il serio e il faceto. La metafora più efficace di tutto ciò è nelle pagine iniziali, quando nel 1957, l’anno da cui partiva la versione originale di Here, una donna entra nella stanza e si chiede “Hmm… Now why did I come in here again?”. La domanda – autobiografica e metanarrativa – rimane in sospeso mentre leggiamo e la risposta arriva soltanto alla fine: la donna è entrata per prendere un libro. E – come cantavano i Pavement – tutto finisce qui.

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