Definire uno stile: One Percent Press

(English text)

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Ci sono, e ancor più c’erano, etichette discografiche che definivano uno stile, accompagnando contenuti musicali classificabili in un genere specifico con una precisa estetica delle copertine e degli LP: un paio di esempi a me cari sono la Factory e la Sarah Records, ma se ne potrebbero citare tanti altri. Nel campo del fumetto, questo fenomeno non può certo esistere secondo gli stessi canoni, perché se nella musica è già difficile demarcare le linee tra un genere e l’altro, figuriamoci in una forma d’arte così articolata e complessa come la nostra. La distinzione classica che viene fatta nel fumetto statunitense è molto più generica e riguarda la suddivisione tra prodotti mainstream, legati economicamente al mondo delle corporation ed esteticamente a contenuti apprezzati dal grande pubblico, e quelli “indie”, che invece nascono fuori dalla produzione di massa. Va da sè che il mondo indie dovrebbe anche veicolare contenuti alternativi a quelli mainstream, cosa che ormai non è più vera perché etichette indipendenti come l’Image sono dei colossi che producono sì materiale diverso dai fumetti di supereroi della Marvel o della Dc, ma tutt’altro che rivoluzionario o anticonvenzionale. Ecco dunque che “indie” e “alternative” non sono più sinonimi, tanto che per cercare prodotti fuori dagli schemi bisogna per forza esplorare l’underground, intenso non più come genere nato negli anni ’60 e caratterizzato dalla satira dello status quo, dalla presenza di sesso, droghe e oscenità varie, ma letteralmente come un sottobosco di micro-produzioni che nella realtà nord-americana è sempre più florido e interessante.

Tra le tante piccole case editrici di cui ho parlato su Just Indie Comics, ce n’è una, la One Percent Press, che non solo pubblica fumetti senza preoccuparsi dell’eventuale riuscita commerciale, ma che ha anche il merito di fare le proprie cose secondo il modus operandi di un’etichetta discografica di altri tempi. E non a caso oltre a pubblicare e distribuire fumetti il marchio fondato nel 2004 da Stephen Floyd e JP Coovert pubblica e distribuisce anche LP e CD di band come Wooden Waves e Tin Armor, in uno spirito che prende pieno spunto dalla filosofia Do It Yourself. E questo con una certa continuità, dato che in questi dieci e passa anni i due hanno fatto uscire oltre 50 fumetti e 25 dischi.

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A definire il sound dei fumetti made in One Percent Press non è né la confezione, diversa a seconda dei casi, né la linea pulita dei disegni, che eppure costituisce una costante. Il punto di contatto tra un’uscita e l’altra riguarda piuttosto la tematica, dato che la gran parte degli albi si propone come una rilettura del genere “romanzo di formazione”, esplorando le inquietudini di bambini e adolescenti oppure mostrandoci dei venti-trentenni che cercano ancora la loro strada nel mondo. In questo senso l’albo migliore per capire l’idea dietro a questo progetto editoriale è Salad Days di JP Coovert. Brandon arriva a Minneapolis per incontrare un vecchio amico e passare un weekend di “movies, videogames, and pizza”. Uno è costretto a indossare la cravatta per il lavoro di designer in una corporation,  l’altro ancora non sa bene che tipo di carriera intraprendere, ma entrambi hanno ormai famiglia e non riescono più a dedicarsi alle loro passioni.  Il ricordo dei tempi passati li spinge a uscire dalla solita routine, a fare qualcosa di diverso, tanto che si ritrovano inseguiti da una macchina della polizia.

Salad Days

Non so quanto di autobiografico ci sia dietro le linee spigolose e il tratto essenziale di Coovert, ma uno dei due personaggi potrebbe essere proprio l’autore, ansioso di rimanere fedele ai sogni dell’adolescenza, di coltivare le proprie passioni e di non diventare una persona come tante. D’altronde la storia della One Percent Press è più o meno questa, cioè quella di due ragazzi che si sono conosciuti a vent’anni e che vivendo sempre in città diverse (la sede dell’etichetta è attualmente tra Minneapolis e Buffalo) hanno creato questa micro-realtà per rimanere in contatto e fare qualcosa insieme. Per quanto riguarda il nome, One Percent Press si riferisce al fatto che soltanto l’1% della vita è veramente eccezionale, soltanto l’1% del cibo è buonissimo e solo l’1% dei fumetti e della musica è realmente degno di nota: un concetto che per ammissione dello stesso Stephen Floyd è da ventenni, da giovani che cercano la propria affermazione non tanto nel mondo, ma contro il mondo.

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L’opera più rilevante uscita finora è la versione inglese de L’Âge Dur di Max de Radiguès, tradotta con il titolo Rough Age che purtroppo perde il bel gioco di parole dell’originale. Il contenuto però non cambia e così anche i lettori americani hanno potuto godersi in questo volumetto datato 2014 il materiale pubblicato dal cartoonist belga tra il 2009 e il 2010. Lo stile è apparentemente pulito ma sotto sotto nervoso, mostra delle deviazioni dai contorni rassicuranti della ligne claire, come se i tremolii del pennino riflettessero le inquietudini dei protagonisti, ragazzi in età scolastica che pensano soprattutto ai rapporti con l’altro sesso e che litigano, fanno a botte, copiano i compiti, sparlano gli uni degli altri. Una serie di storie si intrecciano tra loro con un susseguirsi continuo di personaggi, come Roman, che è preso di mira da un compagno e inventa una fidanzata immaginaria, oppure Gary, che sta con Louise ma è segretamente innamorato di Marc, o anche Ron, che viene lasciato dalla ragazza ma mostra un’aria da duro pur soffrendo in segreto. Con leggerezza ci si avvicina al finale, quando i ragazzi arrivano a posare per la fotografia di classe con i nasi rotti, i musi imbronciati, gli occhi neri dopo tutto quello che è successo nelle pagine del volume. Rough Age è per molti versi un classico fumetto franco-belga ma per l’aspetto minimalista si avvicina alle produzioni “indie” statunitensi: alla fine ne viene fuori una storia universale, che potrebbe raccontare le vicende dei bambini della gran parte del mondo occidentale.

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L’albo della One Percent Press che più rappresenta il genere “romanzo di formazione” è però Immovable Objects di James Hindle, autore che finora conoscevo per la breve Yellow Plastic pubblicata sul quarto numero dell’antologia Irene (qui la mia recensione). E i punti in comune tra le due storie non mancano, dato che entrambe fanno ampio uso di didascalie a mò di voce fuori campo per raccontare un rapporto tra un ragazzo impacciato e una ragazza ben più sveglia di lui, sicura nei modi di fare ma comunque tormentata. Qui in particolare seguiamo le ordinarie avventure di Steven Price, un tipo “anonimo”, “cresciuto dalla madre in una casa perfettamente normale in una città di medie dimensioni nel New England”. Steven “ha ricevuto voti decenti a scuola ed è stato ammesso in un accettabile college privato soltanto a un’ora da dove è cresciuto”, un college che era “adeguatamente piccolo e senza pretese”. Isolato dai compagni di scuola, solitario e meditabondo nonché con il pensiero ricorrente rivolto a un padre che non ha mai conosciuto, Steven è inizialmente raffigurato seduto sulla panchina di un parco, da solo, mentre le foglie degli alberi gli si poggiano sulla spalla. Le cose cambiano quando incontra Caroline, una compagna di scuola con cui costruisce un rapporto confidenziale ma privo di ogni risvolto sessuale. Come succede spesso in questi casi, l’amicizia si sfalda quando entra in gioco una terza persona, un professore di disegno da cui Caroline è sempre più attratta. Le battute e i cenni di intesa lasciano spazio a gelosie e desideri repressi, così che Steven è costretto a superare il facile appiglio della relazione con la ragazza per guardare dentro se stesso, acquisire sicurezza e forse maturare.

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Anche Hindle come i già citati Coovert e de Radiguès ha un tratto semplice e pulito, anche se più rotondo rispetto a quello dei colleghi. Al di là del disegno in se stesso, ciò che colpiscono in Immovable Objects sono le soluzioni grafiche, spesso ottenute con la contrapposizione del bianco, del nero e del verde chiaro. La madre di Steven è raffigurata attraverso una sagoma bianca con contorni neri, ma non è definita come i protagonisti, rimane un personaggio sullo sfondo. Anche la figura del padre è indefinita, ma questa volta è nera, ancora più misteriosa. E quando la vicenda arriva alla sua conclusione anche la figura di Steven è diventata indefinita, del verde chiaro che costituisce l’altro colore dell’albo. Il cerchio si è chiuso e anche il protagonista non è più nulla per noi. Eppure Hindle è riuscito a farcelo diventare familiare in 36 pagine, regalandoci una storia profonda e piena di sfumature.

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Altri titoli recenti pubblicati dalla One Percent Press sono Hollow In The Hollows del canadese Dakota McFadzean, un racconto che vede protagonisti due bambini alle prese con oscuri presagi (ne avevo parlato l’anno scorso), e Present Tense dell’illustratrice e fotografa di Buffalo Emily Churco, che raccoglie storie di una pagina autobiografiche, tra momenti di riflessione e gag estemporanee. Le prossime novità sono attese per la Small Press Expo di Bethesda del 19-20 settembre, quando debutteranno la raccolta del Jeremiah di Cathy G. Johnson (tra l’altro vincitrice dell’Ignatz come miglior talento emergente proprio all’ultima SPX) e il ventesimo numero della serie Simple Routines di JP Coovert, oltre alla ristampa dell’esaurito The Aeronaut di Alexis Frederick-Frost, autore visto in Italia con il libro Avventure tra le nuvolette pubblicato da Proglo.

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