“Vision” di Julia Gfrörer

Non vi illudete, in questo libro non c’è né la Visione né Scarlet e forse si poteva già capire dal fatto che a pubblicarlo è Fantagraphics e non la Marvel. Non ci sono colori dunque, e nemmeno vendicatori, mutanti, Ultron, Tony Stark, Calabrone, Wonder Man, Tigra, Kang il Conquistatore, Korvac, Wasp, Costa Est e Costa Ovest. L’unica concessione al fantastico e al soprannaturale è uno specchio che parla, per il resto l’ambientazione è ottocentesca e realistica.

Già uscito a puntate in albetti autoprodotti, Vision è il terzo libro di Julia Gfrörer per la Fantagraphics, dopo Black is The Color del 2013 e Laid Waste del 2016. Confesso di non essere un grande fan di quei due libri lì. Per quanto la Gfrörer, cartoonist del New Hampshire classe 1982, abbia mostrato sin dall’inizio uno stile e una poetica originali, lontani dalle tendenze del fumetto alternativo contemporaneo, ho sempre considerato i suoi fumetti in qualche modo incompiuti. Con Vision la musica cambia, ovviamente in meglio. Innanzitutto il disegno, che come i precedenti lavori usa una griglia fissa di vignette: in Black is the Color erano 6, in Laid Waste 4, qui sono 9 e la scelta porta i suoi benefici, perché l’autrice rende meglio con le vignette piccole, che risultano più dettagliate e lavorate rispetto al passato. Il suo è un segno scarno, che sicuramente non fa gridare al miracolo, ma se nei lavori precedenti risultava a volte sin troppo sciatto qui è assai suggestivo nonché efficace, soprattutto nel rappresentare le diverse espressioni dei personaggi, quasi sempre ripresi in primo piano o comunque con inquadrature ravvicinate. E poi c’è la storia. Intensa, metaforica, pregna di contenuti, evita il facile escamotage del finale aperto e si compie nella sua interezza lasciando al tempo stesso tante domande sulle motivazioni dei personaggi che la animano.

La protagonista è Eleanor, che ha perso il fidanzato in guerra e ora è rimasta sola, tanto da dover dividere la pur grande casa con il fratello Robert e sua moglie Cora, gravemente malata. Le dinamiche tra i tre sono il fulcro della vicenda. Ma oltre a ciò che accade nella realtà, c’è una dimensione ulteriore e fondamentale nel libro, ossia quella della “visione” appunto. Già in apertura vediamo uno specchio parlare alla protagonista, lusingarla, sedurla, e poi pian piano convincerla a spogliarsi e a masturbarsi. Se è illusione o realtà non è dato saperlo e non è questo il punto, ciò che è certo è che lo specchio spinge Eleanor a considerare la propria sessualità, ad affermare se stessa, a mettere in discussione la realtà familiare a cui le circostanze (e il fratello) l’hanno costretta. A guardarsi, insomma. Un’ulteriore svolta avviene dopo un intervento alla cataratta, che cambierà ulteriormente la sua “visione” delle cose, portandola ad attraversare lo specchio, a uscire dalla sua cameretta e dal suo solipsismo fino a farsi regalare un orgasmo in carrozza dal suo medico, il dottor Bishop. Ma il mondo della Gfrörer è nero e spietato, e non facilmente consolatorio. La ribellione della donna – particolarmente significativa vista la realtà ottocentesca in cui vive – per quanto potente e simbolica non è una facile marcia verso il riscatto e la felicità. L’abisso è sempre dietro l’angolo nei fumetti della cartoonist statunitense, ed è un buco nero popolato di demoni interiori.

Ricco di spunti quanto affilato nello storytelling, Vision è un fumetto di 89 pagine che nella sua relativa brevità riesce a dire anche troppo: senz’altro una delle cose migliori – se non proprio la migliore – lette finora in questo strano 2020.

“Tinfoil Comix” #1

(English text)

Arriva da San Francisco una nuova antologia piena di autori sconosciuti ai più e che vince senza troppi problemi il confronto con simili iniziative ben più blasonate. Da un bel po’ non mi capitava di vedere una tale combinazione di talento, stranezza, urgenza e lucidità al tempo stesso: quasi tutti gli autori di Tinfoil Comix sanno cosa fare e come farlo, hanno qualcosa da dire e non hanno il tappo sulla penna. I fumetti mostrano temi e stili disparati ma hanno significativi punti in comune. Il primo che viene in mente è soprattutto uno sguardo altro al mondo, esemplificato in modo più diretto da una tavola di Jade Mar, in cui si legge: “Everything was one/We ate things/We farm things/We wait in lines/We advance/Were all these screens always here?/I’ve moved into this cave. The rent is incredibly affordable and/I feel at home”. I disegni sono semplici, indie ma quasi infantili. Lo stesso autore rincara la dose qualche pagina più tardi: “I can only tell a story from my perspective/I could try to tell one from yours but/I don’t think it would feel right”.

Tinfoil fa questo, racconta storie dal punto di vista degli autori, e se questo è ovviamente vero per tutto è particolarmente vero qui, perché sono prospettive definite, forti, crude, decise. Prospettive diverse dal comune, spesso influenzate dall’uso di droghe o farmaci come nel contributo un po’ retrò di Fried Feet messo in apertura, oppure che descrivono stati alterati raggiunti attraverso la sofferenza, come nel caso delle potentissime cinque pagine a firma Virgil Warren dedicate al Subcomandante Marcos. L’arte di Warren è fatta di spesse linee nere che scalfiscono i colori creando un effetto anni ’70 che ben figurerebbe in un fumetto della linea All Time Comics.

L’impaginazione a volte non è perfetta e si mangia i bordi della storia di Hope Kogod (e anche di qualcun’altra) ma poco importa. Le due pagine si aprono in verticale e sembrano quasi un poster, e alla fine Hope ricorda: “It’s 2020, I deleted Instagram, email me”. In effetti quelli di Tinfoil fanno le cose vecchia maniera, tanto che on line si fa fatica a trovare le loro tracce. Più che di virtuale qui si parla di reale, e infatti sono tante le storie a tema urbano, come le quattro pagine di Nick Fowler con soluzioni alla Bill Sienkiewicz o il coloratissimo fumetto di Jeremy McBrian che guarda ai graffiti e ai videogiochi. E colorate sono anche le pagine di Floyd Tangeman, che per non dare niente per scontato ricorda: “This comic reads from left to right”.

E’ evidente che questi autori non guardano soltanto al fumetto contemporaneo come punto di riferimento, anzi, l’approccio è spesso naif, quasi da outsider art. Le conseguenze sono rigeneranti, perché finalmente non ci ritroviamo di fronte alla copia della copia di turno, che sia di Olivier Schrauwen, di Jesse Jacobs o di Tara Booth. L’impressione è che i signori Tinfoil abbiano altro da fare, piuttosto che starsene a casa a leggere l’ultima uscita di Fantagraphics. E da queste pagine scaturisce proprio questo, un’incredibile inarrestabile irresistibile voglia di FARE. In tal senso Olga Corcilius scrive il manifesto perfetto utilizzando dei semplici pennarelli colorati: “Instead of drawing just write a novel/Instead of writing a novel just piss in the snow”. E il disegno appare sul bianco, una faccina bianca fatta di pipì. Siamo di fronte a una nuova rivoluzionaria generazione di autori? L’impressione è questa, e speriamo che i numeri successivi (il secondo è già alle stampe) ci diano qualche conferma.

I fumetti si succedono uno dopo l’altro, c’è solo una lista di cartoonist in ordine di apparizione all’inizio ed è compito nostro capire dove finisce uno e inizia l’altro, un po’ come usava fare Sammy Harkham nei vecchi Kramers Ergot. Sul finire arriva un certo Lemonhed, che esteticamente fa una roba alla E.A. Bethea, che chi segue questo sito avrà presente: vignette piccole, quadrate, che alternano immagini e solo testo, con un disegno in bianco e nero tendente allo scarabocchio.

Se il paragone con la Bethea funziona a livello di modus operandi, ci sta meno per quanto riguarda i testi, che non sono a modo loro poetici come quelli dell’altra ma piuttosto nervosamente autobiografici, pur non riuscendo a mantenere un punto in particolare. La scrittura divaga, si scompone in semplici lettere o in serie numeriche, fino a quando l’autore confessa: “So heres the thing the year is two thousand and nineteen I was gonna do my laundry but instead I/ took some Adderal and decided to make this comic so that maybe I can figure some things out”. Il fumetto diventa una terapia, e forse Tinfoil Comix è una terapia per tutti noi, abituati a contenuti che non ci fanno più sgranare gli occhi. Qui, invece, si sta con gli occhi spalancati dall’inizio alla fine.

Tinfoil Comix è creato e curato da Floyd Tangeman, che è anche l’editor della rivista insieme a Virgil Warren. Qualche copia del #1 è disponibile nel webshop di Just Indie Comics. Buone visioni.

“Cowboy” di Rikke Villadsen

Dopo la traduzione di The Sea, fumetto del 2011 giunto un paio di anni fa negli USA, Fantagraphics arricchisce il suo catalogo con la traduzione di Et knald till della danese Rikke Villadsen, uscito in Danimarca nel 2014. Già The Sea aveva stupito per forma, contenuti, temi. In quelle pagine un vecchio pescatore con velleità da marinaio trovava in mare un pesce parlante e un neonato. Nel frattempo, a riva, una giovane donna metteva in scena un rito di fertilità. C’era qualcosa di misteriosamente ancestrale in The Sea, come poche volte capita con efficacia nei fumetti contemporanei e com’era capitato, per esempio, in The Amateurs di Conor Stechschulte (in italiano I dilettanti, 001 Edizioni). La rappresentazione era totalmente teatrale. Cowboy conferma questa dimensione da palco dei fumetti della Villadsen, che potremmo definire teatro disegnato. Pochi personaggi, un set ben delimitato, abbondanza di monologhi. E poi metanarrazione, realismo magico, rilettura dei generi. Questa volta spetta al western, territorio tradizionalmente maschile: la Villadsen non si limita a ribaltarlo, mettendo in scena un personaggio femminile (come accadeva in Coyote Doggirl di Lisa Hanawalt), ma lo deforma, lo espone alle intemperie, lo modella a suo piacimento. Come aveva già fatto, da tutt’altra angolazione, Christophe Blain nel suo magnifico Gus.

Da The Sea è passato qualche anno, e si vede. Se quel libro era potentissimo a livello narrativo e concettuale, meno lo era dal punto di vista estetico. Le matite della Villadsen mostravano qualche indecisione di troppo, con dei passaggi frettolosi rispetto ad altri più definiti e riusciti. Qui, invece, l’aspetto grafico è decisamente compiuto: le pennellate blu disegnano corpi carnosi, rugosi, voluttuosi. La scena di sesso tra The Smoker e The Whore è impressionante per ricchezza di dettagli. Come avrete intuito, i personaggi non hanno nome in Cowboy ma soltanto ruolo: oltre ai due già citati, ci sono The Wanted, The Sheriff, The Coward e soprattutto The Window. Sì, “la finestra”, non “the widow” ossia la vedova. Le donne sono tutte “finestre” nei western, stanno lì a guardare. Ma lei no, vuole fare la rivoluzione, come Sissy in Even Cowgirls Get the Blues di Gus Van Sant. E poi avete pensato che i “buchi” aperti dalle pallottole sui cadaveri sono l’equivalente di una vagina e dunque una rappresentazione di potere? Il tema centrale del libro è proprio questo, tanto che i personaggi maschili si esprimono solo attraverso frasi tratte dai film di Sergio Leone e soci. Intanto la gente inizia inspiegabilmente a levitare, i manifesti parlano e i corpi cambiano sesso.

Della trama meglio non dire troppo, anche perché non è fondamentale. Cowboy non ha un inizio e una fine, è un fumetto senza capo né coda nel miglior senso possibile, tanto che quando lo finisci la prima volta te lo rigiri tra le mani per capire bene cosa hai letto: un libro queer potremmo dire, viste anche le tematiche trattate e le vicende che vi si svolgono. E’ pieno di spunti, fa pensare, provoca, di tanto in tanto racconta, è concettuale ma non si prende sul serio, non è perfetto e non ha intenzione di esserlo. Cowboy non è un graphic novel. Evviva Cowboy.

JICBC pt. 3: “The Driver” e “Amateur Hour” #1

E’ tutto made in O Panda Gordo il nuovo capitolo del Just Indie Comics Buyers Club, il terzo della serie. Le spedizioni partiranno a fine mese ma vi rivelo già adesso i fumetti che gli abbonati si ritroveranno tra le mani nel giro di qualche settimana. Innanzitutto O Panda Gordo: i più affezionati seguaci del sito conoscono già bene questa realtà di base a Glasgow e gestita dal portoghese João Sobral. L’ho presentata dettagliatamente un paio di anni fa in questo post e da allora la seguo sempre con molta attenzione. Alla fine dell’anno scorso sono arrivate un bel po’ di nuove uscite e tra queste mi ha colpito in modo particolare The Driver di Isobel Neviazsky, autrice che si era già fatta notare per il bizzarro e al tempo stesso profondo Employee of the Month: The Life of a Pizza Chef.

The Driver è quanto di più attuale ci possa essere, la storia di “a man who works as a car”, portando a spasso un “clerk” che è di fatto il suo aguzzino. Per fare ciò, l’autista arriva letteralmente a deformarsi, piegando il suo corpo a 90 gradi e spostando gli occhi sulla fronte con la sola forza di volontà. E per trovare la spinta propulsiva si ficca – scusate il francese – una sigaretta nel culo, come se fosse una marmitta. Altro non vi dico, perché spero che leggerete da soli questo fumetto, dato che anche se non siete tra gli abbonati al Buyers Club ne trovate qualche copia in più nel webshop. Lo stile della Neviazsky è pura art brut, tende allo scarabocchio, con le linee che diventano spesso espressione di violenza e dolore, e i testi questa volta non più in uno sgraziato lettering ma appiccicati come ritagli di giornale sulla pagina. Potente e urgente come pochi fumetti che si vedono oggi, The Driver è un incubo allucinato che non offre facili vie di uscita ma solo spunti di riflessione.

Gli abbonati Large riceveranno oltre a The Driver anche Amateur Hour #1, debutto dell’antologia personale di Chris Kohler, autore di quel piccolo fumetto perfetto che è Living Room, sempre pubblicato da O Panda Gordo. Frammentario quanto ricco di trovate, Amateur Hour stupisce per come richiama atmosfere di altri tempi, sospeso tra ambientazioni a volte indefinibili e una costanze sensazione di caducità. Tra un episodio e l’altro, spesso anche di una sola pagina, appaiono in ordine sparso gli elementi stessi della narrazione, le lettere che dovrebbero raccontarci una storia, i corpi ormai ridotti a scheletri, gli oggetti appartenuti a un musicista, episodi di una vita inquadrata in pochi essenziali attimi.

Kohler distrugge la narrazione stessa, fa scomparire i suoi veri protagonisti ma non per un vezzo nichilista, quanto piuttosto per parlare dei massimi sistemi, dalla forza della natura – con racconti su vermi, corvi, gatti e topi – alla morte stessa. E mentre sperimenta ci regala con Leavetaking un altro esempio di narrazione cristallina, sei pagine perfette che lo confermano autore da seguire con la massima attenzione.

 

“Cabin in the Woods” #1 by Tara Booth

“Mi chiedo continuamente: cosa devo comprare? Chi devo incontrare? E dove devo andare per sentirmi davvero bene? Ho questo pensiero ricorrente che se potessi semplicemente scomparire e disconnettermi dal mondo esterno, riuscirei finalmente a trovare un po’ di pace interiore”. Così rifletteva qualche tempo fa Tara Booth sulle colonne di It’s Nice That, in un articolo che introduceva il suo nuovo lavoro Cabin in the Woods. L’albetto si presenta come prima parte di un’opera più lunga ed è uscito qualche mese fa in edizione limitata di 600 copie per la berlinese Colorama, small press che ci ha già abituato alle sue prodezze tipografiche e che questa volta supera se stessa con queste 36 coloratissime pagine tutte stampate in risograph (e tutte mute, come da tradizione dell’autrice).

Qualcuno di voi ricorderà Nocturne, volumetto di 64 pagine uscito per 2dcloud un paio di anni fa: ebbene, Cabin in the Woods potrebbe essere considerato il suo contraltare grafico, dato che la fumettista di Philadelphia rimpiazza l’onnipresente blu della precedente prova con colori ben più appariscenti, anche se sempre caldi e raffinati grazie all’abituale uso del gouache. Quella vicenda “notturna” tutta ambientata tra le mura domestiche già ci aveva lasciato una certa sensazione di claustrofobia, rafforzata dal nuovo lavoro. L’alter ego della Booth esce dallo psicologo in lacrime e prende un autobus per tornare a casa. Da lì si sviluppa la frenesia contemporanea che tutti conosciamo bene. Ha ricevuto dei pacchi ma non li apre, preferendo piuttosto guardare “Netflick” sulla tv mentre con lo smartphone dà un’occhiata a “Instabam” (o anche “Instabut”, “Instabone” e così via), dove le appaiono delle foto che ritraggono – come scopriremo voltando le pagine – proprio i libri che aveva ordinato. Quando si decide a scartare i pacchi e a darsi alla lettura vecchio stampo, ecco che si stanca dopo poche pagine e allora accende il computer per ascoltare un audiolibro (sì, proprio del romanzo che stava leggendo). Ma riuscirà a mantenere l’attenzione? Ovviamente no, perché che non te lo fai un giretto su “Pornbub”? E poi che c’entra la “casetta nel bosco” di cui parla il titolo? Beh, forse è meglio che lo scopriate da soli: Cabin in the Woods è infatti disponibile nel webshop di Just Indie Comics ed è l’ennesima ottima prova di una delle artiste più originali e divertenti in giro al momento.

“Cryptoid” di Eric Haven

Uscito agli inizi del 2020, vi segnalo Cryptoid di Eric Haven, cartoonist classe 1967 che è senz’altro – come dicono gli americani – “one of a kind”. Ve lo segnalo soprattutto perché non ho trovato grosse occasioni per parlare di Haven da queste parti, se non con un rapido accenno nella mia classifica dei migliori fumetti del 2015 al suo eccezionale, geniale e selvaggio Ur, pubblicato da Adhouse Books. E pur avendo avuto in catalogo la raccolta di storie varie ed eventuali Compulsive Comics (Fantagraphics 2018), non mi sono sprecato a scrivere due righe né su quella notevole antologia né sul precedente Vague Tales del 2017, opera originale concepita sempre per la casa editrice di Seattle. Il nuovo Cryptoid, a quasi tre anni appunto da Vague Tales, ne riprende formato e struttura ribadendo il rapporto di Haven con Fantagraphics, dopo una carriera raminga che lo aveva visto passare da Buenaventura Press con The Aviatrix per proseguire come detto con Adhouse Books, senza dimenticare le svariate collaborazioni (The Believer, LA Weekly, San Francisco Bay Guardian, Mad Magazine). Nel frattempo da non trascurare, in parallelo al fumetto, la più remunerativa avventura televisiva di Haven come collaboratore del programma MythBusters di Discovery Channel.

Ma veniamo appunto a Cryptoid, sottile hardcover di 72 pagine sul formato 23 x 16 cm in cui i mostri di Haven guadagnano per la prima volta una dimensione – scusate la parola – politica. Il cartoonist californiano (di adozione, visto che è nato nello stato di New York) da sempre porta nel nostro presente le invenzioni dei fumetti di una volta, partendo da Fletcher Hanks per passare in zona EC Comics (il titolo rimanda persino nel font a Tales from the Crypt) e quindi attraversare i più strambi fumetti della Silver Age e le visioni kyrbiane da Quarto Mondo, Eterni e dintorni. Questa volta però vediamo The Resister, una supereroina con la testa d’aquila e scudo a stelle e strisce sul petto, spuntare dall’obelisco del Washington Monument per arrivare alla Casa Bianca, far fuori un lovecraftiano Steve Bannon e poi affrontare Donald Trump in persona.

Ma non è questo l’unico eccitante sviluppo di Cryptoid, anzi, quello che vede protagonista The Resister è soltanto uno dei tanti episodi che compongono una serie di racconti interconnessi tra loro, ricchi di personaggi fantasiosi, spesso ibridi uomo-animale, e di vicende che oscillano tra il comico e il cosmico, con notevoli punte di black humor, nonsense e autentico nichilismo. Ci sono per esempio il Mankylosaurus, cioè un essere metà uomo e metà anchilosauro, l’Ant-Bat (uno degli sconosciuti pipistrelli che vivono tra noi, come l’Hand-Bat, il Penguin-Faced Bat o meglio ancora il Flightless Running Shreiking Bat), Roger “the human gnome”, il Box di Logan’s Run che va a fare la spesa al grido di “Fish! Plankton! Sea Greens! Protein from the Sea!” e una misteriosa entità che veglia sul mondo ma che forse non può salvarci dall’energia negativa messa in moto dal minaccioso Nightsword. Nel mondo di Haven queste entità sono realmente tra noi e giocano con i nostri destini condannandoci a un inspiegabile quanto inevitabile distruzione. Ma prima di essere avvolti tra le spire di una trascendentale antimateria, potremo giocare con l’immaginazione e farci quattro risate. Insomma, poteva anche andare peggio.

Qualche novità dal webshop

Torna on line come una volta, con un catalogo di circa 100 titoli ma destinato pian piano ad aumentare, il webshop di Just Indie Comics. Da quando ci eravamo accasati su Big Cartel lo avevamo fatto in tono minore, con una selezione ridotta (appena 25 titoli) dei fumetti che avevamo a disposizione, concentrandoci più che altro sulle novità. Qualche mese fa ho preso invece la decisione di far tornare il negozio ai fasti (se così vogliamo definirli) del passato ma il tempismo è stato a dir poco infelice, dato che ho finito di caricare i prodotti proprio in coincidenza dell’esplosione del coronavirus. L’emergenza sanitaria mi ha fatto passare la voglia di pubblicizzare la notizia, che mi sembrava superflua in mezzo a tante altre cose ben più importanti. E, quando ho capito che dovremo fare i conti ancora a lungo con questa situazione, mi sono dovuto scontrare con i problemi nelle spedizioni, dato che andare alla posta è diventato decisamente complesso visti gli orari ridotti (coincidenti per lo più con i miei orari di lavoro, per quanto “smart” come si dice oggi) e le lunghe file fuori dagli uffici. Ne è venuto fuori un ulteriore stallo, dato che pubblicizzare le novità del sito avrebbe probabilmente portato a un maggior numero di ordini e quindi ad altrettanti miei viaggi verso gli uffici postali. Viaggi che ho comunque dovuto fare e che mi hanno fatto capire l’estrema difficoltà della cosa.

Da qui, una serie di decisioni. Innanzitutto diamo il via ufficiale al “nuovo” sito, che rimarrà spero a lungo in questa versione estesa, anzi nei prossimi mesi si riempirà di altri titoli del catalogo storico di Just Indie Comics soprattutto di case editrici e autoproduzioni italiane che ultimamente erano poco rappresentate. E questa è un elemento destinato a restare, speriamo a lungo. Un’altra notizia è invece temporanea e rimarrà per un po’ di tempo, diciamo almeno fino a tutta l’estate. Vista l’impossibilità mia personale di recarmi alla posta per utilizzare il piego di libri, ho deciso per il momento di spedire soltanto via corriere. Non ho avuto ancora il tempo di organizzarmi economicamente per trovare tariffe convenienti, quindi le spedizioni in Italia – tenendo conto anche del confezionamento e delle commissioni trattenute da Stripe o PayPal al momento del pagamento – costeranno tutte 8 euro, a prescindere dall’importo speso. Ma, dato che siamo in tempi difficili e si cerca di aiutare tutti, chi spenderà almeno 50 euro potrà usufruire della spedizione gratuita (sempre via corriere) inserendo al momento del check-out il codice ITALIA50. E riceverà inoltre i fumetti nel giro di 3/4 giorni, senza aspettare i tempi e le incertezze del piego di libri e potendo avere anche la spedizione tracciata. Che dire, dunque, date un’occhiata al catalogo e vedete se c’è qualcosa di vostro interesse. E a risentirci a presto.

Ora disponibili i tre numeri di “Heelage”

Direttamente da Portland, Oregon, arrivano nel webshop di Just Indie Comics i tre numeri di Heelage, an anthology of high heel art. Era il 2013 quando il fumettista, illustratore, regista e attore Ian Sundahl – già noto ai più attenti lettori di questo sito per la sua serie Social Discipline – curava e pubblicava il primo numero di questa fanzine formato A4 tutta dedicata ai tacchi, con illustrazioni, fumetti, testi, dipinti, manifesti cinematografici, foto vintage e ritagli di riviste della sua collezione personale. Ad accompagnare Sundahl una serie di artisti, per lo più dell’Oregon ma non solo, a cui molti altri si sono aggiunti nei numeri successivi, datati rispettivamente 2017 e 2019. Tra i più assidui collaboratori si possono citare J.T. Dockery, Chris Cilla, Patrick Keck, Bobby Madness, Max Clotfelter, Leo Franks, Baal. Ma qua e là appaiono anche altri nomi che suoneranno familiari a chi conosce il mondo del fumetto alternativo statunitense, come Josh Simmons, Carlos Gonzalez, Jason T. Miles. La parte del leone la fa ovviamente il padrone di casa, con una serie di disegni realizzati nel suo solito inconfondibile stile, qualche fumetto breve in cui si sofferma sulla tassonomia dei tacchi o sul rumore che essi producono, approfondimenti sulle Nike Air Jordan High Heels (sì, esistono davvero) e anche un breve racconto, forse autobiografico, intitolato A Festish Star is Born. Il tono è sempre lo stesso dei fumetti di Sundahl, quindi scordatevi le passerelle o il sushi del sabato sera e pensate piuttosto a strip club malfamati, bar dei distributori di benzina, vecchi e sudici divani domestici, strade assolate, polverose e deserte all’ora di pranzo. Di seguito qualche esempio per rendere l’idea.

Vi rimando ai link seguenti per acquistare Heelage #1Heelage #2 e Heelage #3, ricordandovi come sempre che le quantità sono limitatissime e inoltre che in questo periodo particolare le spedizioni vengono effettuate tutte via corriere e quindi sono veloci ma anche piuttosto onerose. Per chi compra almeno 50€ di fumetti c’è però la possibilità di avere la spedizione totalmente gratuita inserendo il codice ITALIA50 al check-out.

JICBC pt. 2: “Masquerade” e “My Dog Ivy”

Al via la seconda spedizione del Just Indie Comics Buyers Club 2020, che almeno per ora riesce a superare il momento difficile che stiamo tutti vivendo. In settimana partiranno dunque i pacchetti per gli abbonati, che conterranno Masquerade di Tana Oshima e – per chi ha scelto la versione Large dell’abbonamento – anche un secondo albo, ossia My Dog Ivy di Gabrielle Bell.

Su Masquerade non mi soffermo più di tanto, dato che ne ho già parlato con toni entusiastici qualche tempo fa. Vi rimando dunque a questo post per avere qualche notizia in più sul lavoro dell’autrice di stanza a New York, che spero vi piaccia quanto è piaciuto a me. Non a caso subito dopo averlo letto ho deciso di scegliere questo albetto autoprodotto per la seconda spedizione del Buyers Club, sperando di trovare altri appassionati come me e di continuare a proporre i fumetti della Oshima in Italia attraverso la distribuzione di Just Indie Comics.

Anche su My Dog Ivy, in realtà, c’è poco da dire, dato che ho parlato più e più volte di Gabrielle Bell da queste parti e che gli abbonati “storici” del Buyers Club hanno già ricevuto nel 2017 il suo Get Out Your Hankies. Campionessa del fumetto autobiografico, l’autrice di Lucky e del recentissimo Inappropriate ha nel corso degli anni realizzato anche degli ottimi fumetti di fiction, come quelli contenuti nel mai troppo celebrato Cecil and Jordan in New York, forse uno dei miei fumetti da isola deserta (anche se la lista sarebbe lunga…). Qui la troviamo impegnata nell’autobiografia più spinta, dato che My Dog Ivy è – proprio come Get Out Your Hankies appunto – uno dei diari del mese di luglio che la Bell ha tenuto con cadenza giornaliera da qualche anno a questa parte. Se di solito troviamo la cartoonist/protagonista in quel di New York, in questa estate 2019 le vicende si svolgono a Minneapolis, a casa dell’editore di Uncivilized Books Tom Kaczynski, dove si è trasferita di per prendersi cura del suo cane (Ivy, appunto) mentre lui è in vacanza. Le vicende personali si uniscono all’osservazione della realtà circostante e a fantasticherie varie, creando quel solito perfetto mix che sono i fumetti di Gabrielle Bell.

Free Shit VS Free Shit

Recupero dagli ultimi mesi del 2019 Free Shit di Charles Burns, un tascabile che andrebbe veramente in tasca (è grande all’incirca 14 x 11 cm) se non fosse per il fatto che è un hardcover e conta 208 pagine. Insomma, mettetelo in libreria che è più comodo e arricchisce anche la vostra collezione, con la sua bella copertina e la costa arancione con una F e una S “organiche” (da notare che solo all’interno viene riportato il titolo e che anche sul sito della Fantagraphics il volume viene presentato come Free S**t, perché se aspiri a una distribuzione di massa negli USA certe cose non puoi proprio dirle). Ma – vi chiederete a questo punto – che differenza c’è tra questo volume, a sinistra nell’immagine in alto, e quello che invece vedete a destra e di cui avevo parlato nel sesto episodio della compianta rubrica Misunderstanding Comics nell’ormai lontano 26 ottobre 2016? Beh, innanzitutto complimenti perché conoscete tutti i post del sito a memoria, poi vediamo di rispondere alla vostra gentile domanda. Anzi, grazie per avermela posta.

Free Shit è il titolo di una fanzine che Burns realizza di tanto in tanto regalandola ai festival, alle sessioni di autografi o alle mostre. Raccoglie schizzi, disegni, appunti, abbozzi di fumetti ma anche elaborazioni grafiche di materiale già pubblicato, foto tratte da b-movie, collage, strisce a fumetti di altri autori: insomma, si tratta degli sketchbook di Burns – o almeno degli sketchbook che il cartoonist statunitense ha voglia di far vedere ad amici e fan – con l’aggiunta di altro materiale che l’autore di Black Hole trova interessante o che l’ha ispirato. Il volumetto di Le Dernier Cri, pubblicato nel 2016 in edizione limitata e con copertina serigrafata, allargava il pubblico della fanzine burnsiana ai 1000 fortunati che l’hanno prontamente acquistato. Infatti, come capita spesso quando si tratta di certi autori, la tiratura andò velocemente esaurita e così tre anni dopo arriva Fantagraphics a ristampare l’opera, aggiungendo giusto un paio di centimetri nelle dimensioni, una copertina rigida e soprattutto 24 pagine. Perché nel frattempo Burns ha continuato a partorire (ma forse non è il termine esatto) la sua “free shit”: se infatti il volume francese raccoglieva i primi 22 numeri della fanzine, quello targato Fantagraphics arriva al #25, con nuove illustrazioni di cui vi fornisco un paio di anteprime qui sotto.

Il volume di Le Dernier Cri si chiudeva con una nota di Burns che diceva: “You got any free shit? Sì… Sì, ce l’ho. Ma c’è soltanto un piccolo problema… Questa volta non è gratis. Che ci posso fare? Le cose vanno così e basta. E’ come mi diceva mia madre quando ero un ragazzino: Niente è gratis a questo mondo“. La nota posta in chiusura del volume Fantagraphics fa invece un po’ di storia: “Dunque… Come è iniziato tutto ciò? Da quel che mi ricordo ero a un firmacopie, un bel po’ di tempo fa, verso la fine degli anni ’90, e un tizio è venuto da me e mi ha chiesto: You got any free shit? E io non ce l’avevo. E mi dispiaceva… Ma Free Shit mi è sembrato un nome perfetto per un fumetto o una rivista. E così poco dopo ho iniziato a mettere insieme una piccola fanzine di otto pagine… Ne stampo ogni volta una cinquantina di copie e la do ai festival e ai firmacopie agli amici o a chiunque è interessato ad avere un po’ di… free shit. Questa è una raccolta dei primi 25 numeri”.