“Cowboy” di Rikke Villadsen
Dopo la traduzione di The Sea, fumetto del 2011 giunto un paio di anni fa negli USA, Fantagraphics arricchisce il suo catalogo con la traduzione di Et knald till della danese Rikke Villadsen, uscito in Danimarca nel 2014. Già The Sea aveva stupito per forma, contenuti, temi. In quelle pagine un vecchio pescatore con velleità da marinaio trovava in mare un pesce parlante e un neonato. Nel frattempo, a riva, una giovane donna metteva in scena un rito di fertilità. C’era qualcosa di misteriosamente ancestrale in The Sea, come poche volte capita con efficacia nei fumetti contemporanei e com’era capitato, per esempio, in The Amateurs di Conor Stechschulte (in italiano I dilettanti, 001 Edizioni). La rappresentazione era totalmente teatrale. Cowboy conferma questa dimensione da palco dei fumetti della Villadsen, che potremmo definire teatro disegnato. Pochi personaggi, un set ben delimitato, abbondanza di monologhi. E poi metanarrazione, realismo magico, rilettura dei generi. Questa volta spetta al western, territorio tradizionalmente maschile: la Villadsen non si limita a ribaltarlo, mettendo in scena un personaggio femminile (come accadeva in Coyote Doggirl di Lisa Hanawalt), ma lo deforma, lo espone alle intemperie, lo modella a suo piacimento. Come aveva già fatto, da tutt’altra angolazione, Christophe Blain nel suo magnifico Gus.
Da The Sea è passato qualche anno, e si vede. Se quel libro era potentissimo a livello narrativo e concettuale, meno lo era dal punto di vista estetico. Le matite della Villadsen mostravano qualche indecisione di troppo, con dei passaggi frettolosi rispetto ad altri più definiti e riusciti. Qui, invece, l’aspetto grafico è decisamente compiuto: le pennellate blu disegnano corpi carnosi, rugosi, voluttuosi. La scena di sesso tra The Smoker e The Whore è impressionante per ricchezza di dettagli. Come avrete intuito, i personaggi non hanno nome in Cowboy ma soltanto ruolo: oltre ai due già citati, ci sono The Wanted, The Sheriff, The Coward e soprattutto The Window. Sì, “la finestra”, non “the widow” ossia la vedova. Le donne sono tutte “finestre” nei western, stanno lì a guardare. Ma lei no, vuole fare la rivoluzione, come Sissy in Even Cowgirls Get the Blues di Gus Van Sant. E poi avete pensato che i “buchi” aperti dalle pallottole sui cadaveri sono l’equivalente di una vagina e dunque una rappresentazione di potere? Il tema centrale del libro è proprio questo, tanto che i personaggi maschili si esprimono solo attraverso frasi tratte dai film di Sergio Leone e soci. Intanto la gente inizia inspiegabilmente a levitare, i manifesti parlano e i corpi cambiano sesso.
Della trama meglio non dire troppo, anche perché non è fondamentale. Cowboy non ha un inizio e una fine, è un fumetto senza capo né coda nel miglior senso possibile, tanto che quando lo finisci la prima volta te lo rigiri tra le mani per capire bene cosa hai letto: un libro queer potremmo dire, viste anche le tematiche trattate e le vicende che vi si svolgono. E’ pieno di spunti, fa pensare, provoca, di tanto in tanto racconta, è concettuale ma non si prende sul serio, non è perfetto e non ha intenzione di esserlo. Cowboy non è un graphic novel. Evviva Cowboy.
JICBC pt. 3: “The Driver” e “Amateur Hour” #1
E’ tutto made in O Panda Gordo il nuovo capitolo del Just Indie Comics Buyers Club, il terzo della serie. Le spedizioni partiranno a fine mese ma vi rivelo già adesso i fumetti che gli abbonati si ritroveranno tra le mani nel giro di qualche settimana. Innanzitutto O Panda Gordo: i più affezionati seguaci del sito conoscono già bene questa realtà di base a Glasgow e gestita dal portoghese João Sobral. L’ho presentata dettagliatamente un paio di anni fa in questo post e da allora la seguo sempre con molta attenzione. Alla fine dell’anno scorso sono arrivate un bel po’ di nuove uscite e tra queste mi ha colpito in modo particolare The Driver di Isobel Neviazsky, autrice che si era già fatta notare per il bizzarro e al tempo stesso profondo Employee of the Month: The Life of a Pizza Chef.
The Driver è quanto di più attuale ci possa essere, la storia di “a man who works as a car”, portando a spasso un “clerk” che è di fatto il suo aguzzino. Per fare ciò, l’autista arriva letteralmente a deformarsi, piegando il suo corpo a 90 gradi e spostando gli occhi sulla fronte con la sola forza di volontà. E per trovare la spinta propulsiva si ficca – scusate il francese – una sigaretta nel culo, come se fosse una marmitta. Altro non vi dico, perché spero che leggerete da soli questo fumetto, dato che anche se non siete tra gli abbonati al Buyers Club ne trovate qualche copia in più nel webshop. Lo stile della Neviazsky è pura art brut, tende allo scarabocchio, con le linee che diventano spesso espressione di violenza e dolore, e i testi questa volta non più in uno sgraziato lettering ma appiccicati come ritagli di giornale sulla pagina. Potente e urgente come pochi fumetti che si vedono oggi, The Driver è un incubo allucinato che non offre facili vie di uscita ma solo spunti di riflessione.
Gli abbonati Large riceveranno oltre a The Driver anche Amateur Hour #1, debutto dell’antologia personale di Chris Kohler, autore di quel piccolo fumetto perfetto che è Living Room, sempre pubblicato da O Panda Gordo. Frammentario quanto ricco di trovate, Amateur Hour stupisce per come richiama atmosfere di altri tempi, sospeso tra ambientazioni a volte indefinibili e una costanze sensazione di caducità. Tra un episodio e l’altro, spesso anche di una sola pagina, appaiono in ordine sparso gli elementi stessi della narrazione, le lettere che dovrebbero raccontarci una storia, i corpi ormai ridotti a scheletri, gli oggetti appartenuti a un musicista, episodi di una vita inquadrata in pochi essenziali attimi.
Kohler distrugge la narrazione stessa, fa scomparire i suoi veri protagonisti ma non per un vezzo nichilista, quanto piuttosto per parlare dei massimi sistemi, dalla forza della natura – con racconti su vermi, corvi, gatti e topi – alla morte stessa. E mentre sperimenta ci regala con Leavetaking un altro esempio di narrazione cristallina, sei pagine perfette che lo confermano autore da seguire con la massima attenzione.
“Cabin in the Woods” #1 by Tara Booth
“Mi chiedo continuamente: cosa devo comprare? Chi devo incontrare? E dove devo andare per sentirmi davvero bene? Ho questo pensiero ricorrente che se potessi semplicemente scomparire e disconnettermi dal mondo esterno, riuscirei finalmente a trovare un po’ di pace interiore”. Così rifletteva qualche tempo fa Tara Booth sulle colonne di It’s Nice That, in un articolo che introduceva il suo nuovo lavoro Cabin in the Woods. L’albetto si presenta come prima parte di un’opera più lunga ed è uscito qualche mese fa in edizione limitata di 600 copie per la berlinese Colorama, small press che ci ha già abituato alle sue prodezze tipografiche e che questa volta supera se stessa con queste 36 coloratissime pagine tutte stampate in risograph (e tutte mute, come da tradizione dell’autrice).
Qualcuno di voi ricorderà Nocturne, volumetto di 64 pagine uscito per 2dcloud un paio di anni fa: ebbene, Cabin in the Woods potrebbe essere considerato il suo contraltare grafico, dato che la fumettista di Philadelphia rimpiazza l’onnipresente blu della precedente prova con colori ben più appariscenti, anche se sempre caldi e raffinati grazie all’abituale uso del gouache. Quella vicenda “notturna” tutta ambientata tra le mura domestiche già ci aveva lasciato una certa sensazione di claustrofobia, rafforzata dal nuovo lavoro. L’alter ego della Booth esce dallo psicologo in lacrime e prende un autobus per tornare a casa. Da lì si sviluppa la frenesia contemporanea che tutti conosciamo bene. Ha ricevuto dei pacchi ma non li apre, preferendo piuttosto guardare “Netflick” sulla tv mentre con lo smartphone dà un’occhiata a “Instabam” (o anche “Instabut”, “Instabone” e così via), dove le appaiono delle foto che ritraggono – come scopriremo voltando le pagine – proprio i libri che aveva ordinato. Quando si decide a scartare i pacchi e a darsi alla lettura vecchio stampo, ecco che si stanca dopo poche pagine e allora accende il computer per ascoltare un audiolibro (sì, proprio del romanzo che stava leggendo). Ma riuscirà a mantenere l’attenzione? Ovviamente no, perché che non te lo fai un giretto su “Pornbub”? E poi che c’entra la “casetta nel bosco” di cui parla il titolo? Beh, forse è meglio che lo scopriate da soli: Cabin in the Woods è infatti disponibile nel webshop di Just Indie Comics ed è l’ennesima ottima prova di una delle artiste più originali e divertenti in giro al momento.
“Cryptoid” di Eric Haven
Uscito agli inizi del 2020, vi segnalo Cryptoid di Eric Haven, cartoonist classe 1967 che è senz’altro – come dicono gli americani – “one of a kind”. Ve lo segnalo soprattutto perché non ho trovato grosse occasioni per parlare di Haven da queste parti, se non con un rapido accenno nella mia classifica dei migliori fumetti del 2015 al suo eccezionale, geniale e selvaggio Ur, pubblicato da Adhouse Books. E pur avendo avuto in catalogo la raccolta di storie varie ed eventuali Compulsive Comics (Fantagraphics 2018), non mi sono sprecato a scrivere due righe né su quella notevole antologia né sul precedente Vague Tales del 2017, opera originale concepita sempre per la casa editrice di Seattle. Il nuovo Cryptoid, a quasi tre anni appunto da Vague Tales, ne riprende formato e struttura ribadendo il rapporto di Haven con Fantagraphics, dopo una carriera raminga che lo aveva visto passare da Buenaventura Press con The Aviatrix per proseguire come detto con Adhouse Books, senza dimenticare le svariate collaborazioni (The Believer, LA Weekly, San Francisco Bay Guardian, Mad Magazine). Nel frattempo da non trascurare, in parallelo al fumetto, la più remunerativa avventura televisiva di Haven come collaboratore del programma MythBusters di Discovery Channel.
Ma veniamo appunto a Cryptoid, sottile hardcover di 72 pagine sul formato 23 x 16 cm in cui i mostri di Haven guadagnano per la prima volta una dimensione – scusate la parola – politica. Il cartoonist californiano (di adozione, visto che è nato nello stato di New York) da sempre porta nel nostro presente le invenzioni dei fumetti di una volta, partendo da Fletcher Hanks per passare in zona EC Comics (il titolo rimanda persino nel font a Tales from the Crypt) e quindi attraversare i più strambi fumetti della Silver Age e le visioni kyrbiane da Quarto Mondo, Eterni e dintorni. Questa volta però vediamo The Resister, una supereroina con la testa d’aquila e scudo a stelle e strisce sul petto, spuntare dall’obelisco del Washington Monument per arrivare alla Casa Bianca, far fuori un lovecraftiano Steve Bannon e poi affrontare Donald Trump in persona.
Ma non è questo l’unico eccitante sviluppo di Cryptoid, anzi, quello che vede protagonista The Resister è soltanto uno dei tanti episodi che compongono una serie di racconti interconnessi tra loro, ricchi di personaggi fantasiosi, spesso ibridi uomo-animale, e di vicende che oscillano tra il comico e il cosmico, con notevoli punte di black humor, nonsense e autentico nichilismo. Ci sono per esempio il Mankylosaurus, cioè un essere metà uomo e metà anchilosauro, l’Ant-Bat (uno degli sconosciuti pipistrelli che vivono tra noi, come l’Hand-Bat, il Penguin-Faced Bat o meglio ancora il Flightless Running Shreiking Bat), Roger “the human gnome”, il Box di Logan’s Run che va a fare la spesa al grido di “Fish! Plankton! Sea Greens! Protein from the Sea!” e una misteriosa entità che veglia sul mondo ma che forse non può salvarci dall’energia negativa messa in moto dal minaccioso Nightsword. Nel mondo di Haven queste entità sono realmente tra noi e giocano con i nostri destini condannandoci a un inspiegabile quanto inevitabile distruzione. Ma prima di essere avvolti tra le spire di una trascendentale antimateria, potremo giocare con l’immaginazione e farci quattro risate. Insomma, poteva anche andare peggio.
Qualche novità dal webshop
Torna on line come una volta, con un catalogo di circa 100 titoli ma destinato pian piano ad aumentare, il webshop di Just Indie Comics. Da quando ci eravamo accasati su Big Cartel lo avevamo fatto in tono minore, con una selezione ridotta (appena 25 titoli) dei fumetti che avevamo a disposizione, concentrandoci più che altro sulle novità. Qualche mese fa ho preso invece la decisione di far tornare il negozio ai fasti (se così vogliamo definirli) del passato ma il tempismo è stato a dir poco infelice, dato che ho finito di caricare i prodotti proprio in coincidenza dell’esplosione del coronavirus. L’emergenza sanitaria mi ha fatto passare la voglia di pubblicizzare la notizia, che mi sembrava superflua in mezzo a tante altre cose ben più importanti. E, quando ho capito che dovremo fare i conti ancora a lungo con questa situazione, mi sono dovuto scontrare con i problemi nelle spedizioni, dato che andare alla posta è diventato decisamente complesso visti gli orari ridotti (coincidenti per lo più con i miei orari di lavoro, per quanto “smart” come si dice oggi) e le lunghe file fuori dagli uffici. Ne è venuto fuori un ulteriore stallo, dato che pubblicizzare le novità del sito avrebbe probabilmente portato a un maggior numero di ordini e quindi ad altrettanti miei viaggi verso gli uffici postali. Viaggi che ho comunque dovuto fare e che mi hanno fatto capire l’estrema difficoltà della cosa.
Da qui, una serie di decisioni. Innanzitutto diamo il via ufficiale al “nuovo” sito, che rimarrà spero a lungo in questa versione estesa, anzi nei prossimi mesi si riempirà di altri titoli del catalogo storico di Just Indie Comics soprattutto di case editrici e autoproduzioni italiane che ultimamente erano poco rappresentate. E questa è un elemento destinato a restare, speriamo a lungo. Un’altra notizia è invece temporanea e rimarrà per un po’ di tempo, diciamo almeno fino a tutta l’estate. Vista l’impossibilità mia personale di recarmi alla posta per utilizzare il piego di libri, ho deciso per il momento di spedire soltanto via corriere. Non ho avuto ancora il tempo di organizzarmi economicamente per trovare tariffe convenienti, quindi le spedizioni in Italia – tenendo conto anche del confezionamento e delle commissioni trattenute da Stripe o PayPal al momento del pagamento – costeranno tutte 8 euro, a prescindere dall’importo speso. Ma, dato che siamo in tempi difficili e si cerca di aiutare tutti, chi spenderà almeno 50 euro potrà usufruire della spedizione gratuita (sempre via corriere) inserendo al momento del check-out il codice ITALIA50. E riceverà inoltre i fumetti nel giro di 3/4 giorni, senza aspettare i tempi e le incertezze del piego di libri e potendo avere anche la spedizione tracciata. Che dire, dunque, date un’occhiata al catalogo e vedete se c’è qualcosa di vostro interesse. E a risentirci a presto.
Ora disponibili i tre numeri di “Heelage”
Direttamente da Portland, Oregon, arrivano nel webshop di Just Indie Comics i tre numeri di Heelage, an anthology of high heel art. Era il 2013 quando il fumettista, illustratore, regista e attore Ian Sundahl – già noto ai più attenti lettori di questo sito per la sua serie Social Discipline – curava e pubblicava il primo numero di questa fanzine formato A4 tutta dedicata ai tacchi, con illustrazioni, fumetti, testi, dipinti, manifesti cinematografici, foto vintage e ritagli di riviste della sua collezione personale. Ad accompagnare Sundahl una serie di artisti, per lo più dell’Oregon ma non solo, a cui molti altri si sono aggiunti nei numeri successivi, datati rispettivamente 2017 e 2019. Tra i più assidui collaboratori si possono citare J.T. Dockery, Chris Cilla, Patrick Keck, Bobby Madness, Max Clotfelter, Leo Franks, Baal. Ma qua e là appaiono anche altri nomi che suoneranno familiari a chi conosce il mondo del fumetto alternativo statunitense, come Josh Simmons, Carlos Gonzalez, Jason T. Miles. La parte del leone la fa ovviamente il padrone di casa, con una serie di disegni realizzati nel suo solito inconfondibile stile, qualche fumetto breve in cui si sofferma sulla tassonomia dei tacchi o sul rumore che essi producono, approfondimenti sulle Nike Air Jordan High Heels (sì, esistono davvero) e anche un breve racconto, forse autobiografico, intitolato A Festish Star is Born. Il tono è sempre lo stesso dei fumetti di Sundahl, quindi scordatevi le passerelle o il sushi del sabato sera e pensate piuttosto a strip club malfamati, bar dei distributori di benzina, vecchi e sudici divani domestici, strade assolate, polverose e deserte all’ora di pranzo. Di seguito qualche esempio per rendere l’idea.
Vi rimando ai link seguenti per acquistare Heelage #1, Heelage #2 e Heelage #3, ricordandovi come sempre che le quantità sono limitatissime e inoltre che in questo periodo particolare le spedizioni vengono effettuate tutte via corriere e quindi sono veloci ma anche piuttosto onerose. Per chi compra almeno 50€ di fumetti c’è però la possibilità di avere la spedizione totalmente gratuita inserendo il codice ITALIA50 al check-out.
JICBC pt. 2: “Masquerade” e “My Dog Ivy”
Al via la seconda spedizione del Just Indie Comics Buyers Club 2020, che almeno per ora riesce a superare il momento difficile che stiamo tutti vivendo. In settimana partiranno dunque i pacchetti per gli abbonati, che conterranno Masquerade di Tana Oshima e – per chi ha scelto la versione Large dell’abbonamento – anche un secondo albo, ossia My Dog Ivy di Gabrielle Bell.
Su Masquerade non mi soffermo più di tanto, dato che ne ho già parlato con toni entusiastici qualche tempo fa. Vi rimando dunque a questo post per avere qualche notizia in più sul lavoro dell’autrice di stanza a New York, che spero vi piaccia quanto è piaciuto a me. Non a caso subito dopo averlo letto ho deciso di scegliere questo albetto autoprodotto per la seconda spedizione del Buyers Club, sperando di trovare altri appassionati come me e di continuare a proporre i fumetti della Oshima in Italia attraverso la distribuzione di Just Indie Comics.
Anche su My Dog Ivy, in realtà, c’è poco da dire, dato che ho parlato più e più volte di Gabrielle Bell da queste parti e che gli abbonati “storici” del Buyers Club hanno già ricevuto nel 2017 il suo Get Out Your Hankies. Campionessa del fumetto autobiografico, l’autrice di Lucky e del recentissimo Inappropriate ha nel corso degli anni realizzato anche degli ottimi fumetti di fiction, come quelli contenuti nel mai troppo celebrato Cecil and Jordan in New York, forse uno dei miei fumetti da isola deserta (anche se la lista sarebbe lunga…). Qui la troviamo impegnata nell’autobiografia più spinta, dato che My Dog Ivy è – proprio come Get Out Your Hankies appunto – uno dei diari del mese di luglio che la Bell ha tenuto con cadenza giornaliera da qualche anno a questa parte. Se di solito troviamo la cartoonist/protagonista in quel di New York, in questa estate 2019 le vicende si svolgono a Minneapolis, a casa dell’editore di Uncivilized Books Tom Kaczynski, dove si è trasferita di per prendersi cura del suo cane (Ivy, appunto) mentre lui è in vacanza. Le vicende personali si uniscono all’osservazione della realtà circostante e a fantasticherie varie, creando quel solito perfetto mix che sono i fumetti di Gabrielle Bell.
“Sono un pavido nella vita vera”: un pomeriggio con Andrea De Franco
Meglio tardi che mai, come si suol dire. Sono passati mesi dalla terza edizione del Just Indie Comics Fest ma soltanto adesso riesco a trascrivere e quindi pubblicare la lunga chiacchierata con Andrea De Franco di sabato 19 ottobre 2019, che ha accompagnato la mostra organizzata a Roma presso Studio Co-Co. Per fortuna l’intervista non è invecchiata nel frattempo, anche perché si tratta di temi universali come il rapporto tra scrittura e disegno, il lettering, l’autoproduzione, la musica, la pre-logica, i funghi allucinogeni e la caffeina. E anche le anticipazioni sul fumetto di Andrea che uscirà prossimamente per Eris Edizioni sono rimaste tali, dato che la pubblicazione prevista inizialmente nei primi mesi del 2020 è stata rimandata a settembre e potrebbe subire un ulteriore rinvio vista l’emergenza sanitaria in corso. Prima di lasciarvi alla lettura, vi segnalo che per altre informazioni sul Just Indie Comics Fest 3 potete vedere questo post, mentre se siete interessati ad approfondire il lavoro di De Franco potete dare un’occhiata al suo sito, al webshop di De Press e alla sua recente uscita da musicista sotto lo pseudonimo Fera. Le foto migliori sono di Vittorio Antonacci, che ringrazio per la collaborazione, mentre mi scuso per la qualità delle altre, scattate di fretta con un cellulare da quattro soldi.
Gabriele Di Fazio: Allora, avevo pensato di iniziare con la tua biografia ma lascio perdere perché quella che hai scritto tu per la mostra, lì dietro sul muro, è insuperabile, come il tonno… Quindi vi invito a leggere quella, che poi è un’autobiografia in realtà, visto che l’hai scritta da solo…
Andrea De Franco: No, non l’ho scritta io… L’ha scritta la matita.
GDF: Beh beh, grande umorismo… Comunque, preparando questo incontro non mi sono limitato all’inutile sforzo di ricomporre una tua biografia ma sono anche andato indietro nel tempo cercando quello che ci eravamo scritti su Facebook quando ci eravamo conosciuti, anche se in realtà ci eravamo già conosciuti di persona ma non lo sapevamo, o forse non lo sapevo io. Ho ritrovato anche la prima cosa che hai fatto e che ti sei pubblicato da solo con il marchio De Press, che si chiama Scusa, una raccolta più che altro di disegni… Che c’è, non ti fa piacere rivederla?
ADF: No no, è che ho notato che qui c’è il primissimo logo di De Press, e quindi questa è una delle prime dieci copie che avevo fatto…
GDF: Ah, quindi è rarissimo…
ADF: Sì, vale 7 euro ma è rarissimo…
GDF: E poi c’è anche la dedica che mi hai fatto, e me lo hai anche regalato oltretutto, quindi insomma, un trionfo per me… Dicevamo appunto che in realtà ci eravamo conosciuti di persona al Ratatà del 2016 quando avevi comprato da me Safe Space #1 di Alessandro Galatola e un libro di DeForge, A Body Beneath se non sbaglio. Infatti poi su questo messaggio che ci siamo scambiati su Facebook dicevi: “Anche se penso che Alessandro sia molto più bravo di me mi sento nel suo campionato, giovani irruenti amanti del Canada peggiore”.
ADF: Davvero ho scritto questa cosa?
GDF: Sì esatto, ma non ti imbarazzare dai… Comunque con “Canada peggiore” intendevi sicuramente DeForge, Jesse Jacobs, Patrick Kyle, tutte influenze che hanno a che vedere con Scusa. Io ti rispondevo, e poi rileggendo questa risposta mi sono sentito davvero uno stronzo, “Hey Andrea, ho letto e visto tutto, la roba che fai mi piace e secondo me sei sulla buona strada per sviluppare uno stile tutto tuo e personale perché se devo trovare un difetto – che poi non so che necessità avevo di trovare un difetto ma vabbè – le tue cose sono ancora un po’ derivative”. Insomma, non so se mi hai odiato all’epoca, comunque ho usato il termine “derivativo” perché questa era ancora una prima raccolta di disegni, anche se comunque sequenziali, influenzati da artisti poi citati nelle note, come Tara Booth, Jesse Jacobs, Michael DeForge, Patrick Kyle, Olivier Schrauwen, Brecht Vandenbroucke ecc. Tra l’altro nelle note ci sono tantissimi altri riferimenti, non solo di fumettisti ma anche di artisti, musicisti, ecc. Al di là di tutto ciò, adesso vorrei capire come sei arrivato a questa prima pubblicazione, e forse mi viene da pensare che c’entra qualcosa un’altra tua biografia, che ho letto da qualche parte on line, in cui si diceva che “Andrea De Franco si costringe a disegnare ogni giorno e dal 22 giugno del 2015 non ne ha saltato nemmeno uno”. Quindi ti volevo chiedere se magari quello che è successo il 22 giugno del 2015 ha a che fare con la pubblicazione di Scusa…
ADF: Dunque, non mi ricordo dove ho scritto quella roba però è un po’ acerba, perché “si costringe a disegnare” è veramente brutto, a me piace disegnare ogni giorno in realtà, forse non mi piaceva allora, o forse facevo soltanto il tormentato… Il 22 giugno del 2015 ho intervistato Manuele Fior a Londra per un articolo che doveva uscire su un blog di una libreria pugliese, di proprietà del mio migliore amico, e lui mi disse delle cose alla Manuele Fior appunto, a proposito del disegno, dell’abitudine a disegnare sempre, del fatto che quello di disegnare è un esercizio come quello musicale. E la cosa mi ha fatto fare un clic, nel senso che ho pensato che magari disegnare ogni giorno potesse essere utile. Non a caso tutto quello che ho fatto fino al 2015 faceva schifo, perché io avevo tentato sin dal 2009, quando avevo vent’anni, di fare qualcosa che potesse essere assimilabile al fumetto, ma senza successo. Quello che cercavo di fare all’inizio era una roba alla Gipi, poi alla Chris Ware, comunque il graphic novel, anche se in realtà da ragazzino avevo letto soprattutto manga in fumetteria, e PK, tantissimi PK. Però mi piaceva l’idea altezzosa di fare questi fumetti con una scrittura “miao” e questi disegni belli, come appunto quelli di Fior, che per me è proprio l’esempio di uno che sa superdisegnare. Finché ho tentato di scimmiottare questo approccio ho fatto soltanto cose che sono finite nel cestino, e quando ho smesso ho fatto Scusa, perché venivo da Londra dove avevo intervistato appunto Manuele Fior che mi aveva ispirato con le sue parole. E questa cosa è successa all’Elcaf, un festival di Londra che per me è stato fondamentale. Io l’ho scoperto nel 2015 grazie a un docente dell’Isia di Urbino, Steven Guarnaccia – bravissimo, con cui ho fatto un corso di una settimana per me molto importante – che appunto ci disse di andare lì perché era un festival fico e lui ci faceva una mostra. Ma avevamo gli esami una settimana dopo e quindi io fui l’unico ad andare della mia classe – perché tanto ‘sti cazzi degli esami e della scuola – così mi ritrovai lì senza sapere niente, perché all’epoca mi piaceva Manuele Fior, mi piaceva Watchmen, mi piacevano cose un po’ generiche insomma, e invece lì beccai Michael DeForge, Brecht Vandenbroucke, Jillian Tamaki, la Breakdown Press, tutte cose che non sapevo minimamente esistessero, perché ero molto ignorante – e sono ancora ignorante su un sacco di cose – però andai lì e dissi proprio il classico “ah che bello, lo faccio anch’io”. Così tornai a casa e feci Scusa, che sarebbe in sostanza composto da tre storie molto labili e poi disegni disegni disegni, e avevo già pensato questa cosa arrogante – siccome Londra mi era piaciuta e mi sembrava che Londra fosse fica e l’Italia no – di farlo senza parole per portarlo poi a Londra, appunto. E infatti il primo festival che ho fatto è stato l’Elcaf dell’anno dopo, perché io i festival in Italia non volevo farli. Poi invece ho deciso di farli tutti, perché le cose che faccio e che dico non sono coerenti. E mi serviva un nome da mettere sotto, perché solo il nome dell’autore, il titolo e nient’altro sei un poveraccio, mentre nome autore, titolo, edizione di questo e quello, wow, hai un editore, e siccome mi chiamo Andrea De Franco fare De Press era troppo bello per essere vero – e mi sembrava assurdo che nessuno l’avesse fatto prima – così dissi “lo devo fare prima che lo faccia qualcun altro”. E così è nata De Press, in cui ho pian piano cominciato a coinvolgere degli amici, per un po’ è stato quasi un collettivo, poi ha cambiato varie forme, a breve farò un’altra trasformazione e la farò diventare un micro-editore, nel senso che sarò io De Press e basta. Cioè, sono ancora amico dei miei amici eh, però io faccio De Press e gli altri zitti, compratevi i fumetti e basta. E che altro, credo di aver detto tutto…
GDF: Sì sì, hai risposto sicuramente alla mia domanda direi… Comunque, riprendendo il discorso, dopo che in quel famoso messaggio ti dicevo delle cose derivative eccetera eccetera, aggiungevo: “però i fumetti sono fichi – usando proprio questo linguaggio dei giovani – e secondo me hai una voce originale in mezzo alla solita roba italiana”. E insomma vorrei sottolineare questo discorso, cioè che pur essendo una prima prova, derivativa eccetera eccetera, era comunque qualcosa di originale sulla scena italiana. E secondo me hai mantenuto questa originalità anche nei fumetti successivi, anzi l’hai aumentata e migliorata. Ciò che vedo soprattutto nel tuo fumetto è che lavori tantissimo sul disegno, che è fondamentale e non in senso virtuoso, ma in quanto unito strettamente alla narrazione. E questo succede sempre nelle tue cose, perché scrittura e disegno sono inscindibili nel tuo lavoro. A questo proposito avevo preparato all’inizio un’analisi cronologica delle cose che hai fatto ma poi in questi giorni ho visto quest’albetto qui, Giro intorno al sole, e mi sembra l’esempio perfetto per farti capire quello che intendo. Si tratta di un fumetto che hai disegnato il 23 settembre scorso da Modo Infoshop, c’è scritto proprio qui, dalle 20.21 alle 21.07, in 46 minuti. E in questo fumetto è molto importante l’elemento comico – come in molte altre tue cose – ma persino la comicità è legata al disegno, nel senso che la risata non arriva attraverso la scrittura mentre il disegno è soltanto funzionale a essa, ma avviene anche e soprattutto attraverso il disegno stesso. Di solito i fumetti che fanno ridere lo fanno con la scrittura, che ne so, se penso a Tom Gauld, che è uno che fa ridere – o almeno fa ridere me – mi rendo conto che rido quasi sempre per quello che c’è scritto, i disegni descrivono e basta, accompagnano. Invece tu hai questa dimensione grafica del fumetto – direi artistica, se mi passi il termine – che non abbandoni mai, nemmeno quando vuoi far ridere il lettore. Ed è una dimensione che non è mai una posa, non è mai fine a se stessa, anzi è molto spontanea, automatica, selvaggia. E a questo proposito vorrei capire quanto c’è di ricercato o no in queste situazioni, che tipo di mediazione fai – per esempio quando lavori a una cosa del genere in 46 minuti – tra quello che pensi e quello che disegni, quanto c’è di deciso prima e quanto quello che ottieni è invece realizzato attraverso un flusso di coscienza espresso attraverso il disegno.
ADF: Allora, il flusso di coscienza… Dunque, intanto tu fai sempre queste analisi, sei tipo una delle tre persone che capiscono veramente tutto sui fumetti…
GDF: Vabbè non esageriamo…
ADF: No no, ma è così… Comunque, questa dimensione calligrafica della mia opera… grafica, scusate il gioco di parole, c’è, è vero. Ho fatto anche delle cose con il lettering inserito successivamente, digitale, e lì sul banchetto c’è una cosa che ho solo scritto, DOGGKGKK, e per una volta – dato che non lo avevo disegnato io ma Chiara Polverini – quando lei ha finito di disegnarlo ho eliminato il testo che avevo scritto a mano e l’ho sostituito con un font, intanto perché così veniva un po’ punk e mi piaceva, e poi perché lì non c’era il mio disegno, non c’era il mio tratto ed era un’altra questione, forse si poteva fare. Invece quando lo faccio io c’è sempre questa coincidenza tra disegno e lettering, tra parola e immagine, perché nei miei 7 anni di vuoto, quando volevo essere un “graphic novelist” e non ce la facevo, la cosa che riuscivo a fare – oltre al gruppo metal, la camera oscura, le fotografie erotiche, il recensore musicale – era il calligrafo giapponese. Ho fatto un sacco di calligrafia e pensavo che sarei diventato Luca Barcellona, però più bravo… A casa ho anche un pennello comprato dalla Cina lungo 1 metro e 20. E questa cosa dell’atto della scrittura mi è rimasta, perché anche se io leggo i fumetti a caso e delle cose che mi piacciono devo sapere anche il gruppo sanguigno dell’autore, poi magari ho dei buchi enormi su altre cose interessantissime, e questo mi distingue da chi ha studiato fumetto, perché io ho studiato altro e non ho la checklist “ok, hai letto questo questo questo questo questo”. Pompeo di Pazienza per esempio l’ho letto tardissimo, ho visto il film quand’ero ragazzino e poi ai fumetti ci sono arrivato quando mi ero già trasferito a Bologna. Ero più influenzato da altro, per esempio da artisti visivi che lavoravano sul concetto che la scrittura e la creazione di immagini sono la stessa cosa, come Cy Twombly, che è il mio pittore preferito. E dunque questa relazione tra arte e scrittura è una cosa che mi porto dietro da tempo e che ho voluto mettere nelle mie cose. Io in generale sono un po’ contrario alla distinzione rigida tra fumetti commerciali e fumetti “artistici”, se così vogliamo chiamarli, perché secondo me è brutto avere un’impostazione mentale che i fumetti da fumetteria, come PK che citavo prima, fanno schifo mentre quelli che leggiamo noi che andiamo al BilBOlbul e al Just Indie Comics sono belli. Però è anche vero che i fumetti da fumetteria hanno delle meccaniche diverse, come la distinzione tra scrittore, disegnatore e letterista. E a volte il lettering lì è addirittura digitale, una cosa che mi fa quasi sempre soffrire, o è così brutto che diventa bello prendendo una sua espressività, oppure per me non ha senso guardare una cosa che ha un testo proveniente da tutt’altro ambito. Mi ricordo per esempio questo libro Marvel assurdo su Loki che sconfigge Thor, fatto da questo disegnatore famoso perché fa i dipinti a olio…
GDF: Ah, Ribić forse…
ADF: Mmm non ricordo, però era un libro (Thor & Loki Blood Brothers di Robert Rodi ed Esad Ribić, ndr) completamente dipinto con queste tavole bellissime, anatomie incredibili eccetera, e per i testi avevano usato un font di Photoshop che imita il lettering dei fumetti, con i caratteri tutti della stessa dimensione messi al centro delle vignette… E tu mi hai distrutto la vita, editore che hai deciso di fare questa cosa qua. Il caso diametralmente opposto è Pompei di Frank Santoro tradotto in italiano, con Silvia Rocchi che ha fatto il lettering, e ovviamente è una cosa che ha bisogno di un certo tipo di risorse e qualità, perché altrimenti è quasi impossibile entrare graficamente con il testo in un disegno di un altro autore. Io ho pensato di risolvere il problema alla radice usando la stessa penna per disegnare e per scrivere e quindi a volte sento il bisogno di cominciare dai testi, così faccio queste vignette vuote, con tante lettere in giro che dovrebbero essere i dialoghi e le parole, e poi da lì vedo cosa bisogna disegnare. Altre volte disegno tavole su tavole su tavole e poi ci metto il testo, perché quando ho fatto Scusa ho scoperto che se non c’è il testo dentro la gente non capisce bene che è un fumetto e io vendo metà delle copie, e invece se fai una cosa con tanto testo la gente pensa “ah, è proprio un fumetto” e lo compra. E quindi siccome io ho un’ambizione commerciale, perché la mia roba è progettata per rivolgersi al pubblico più ampio possibile e fare soldi… No vabbè, voi ridete, ma anche questa questione delle autoproduzioni sperimentali, di fare questi libri completamente come li voglio fare, senza che qualcuno possa rompermi le scatole, comprende comunque un obiettivo commerciale, per così dire. Io non voglio andare ai festival e perdere soldi, non voglio pagare il banchetto, pagare il treno, offrire la cena all’amico che mi ha ospitato e poi tornare a casa che ho speso 20 euro per vendere le mie cose. Io voglio una forma di capitalismo individuale, che considero buono, almeno quando riguarda me… In realtà è un micro-capitalismo, però secondo me ha senso, perché se tutti spendono soldi per bere, divertirsi, mangiare, eccetera non capisco perché gli autori devono essere gli unici a fare questo sacrificio di andare in perdita, sempre. Capisco che il mondo dell’editoria italiano ha questa cosa tipo “Andrete in perdita, sempre” scritto sulla porta, che tu sia Mondadori, De Press o chiunque, sanno tutti che è una situazione insostenibile economicamente. Ok, adesso questa diventa una presentazione sul realismo capitalista, però ecco, ci tengo a dirlo che bisogna venderli questi fumetti. Per esempio in questo ambito micro-capitalista funzionano bene le cose piccole che faccio, tipo Giro intorno al sole. Quando l’ho disegnato ero nel laboratorio di Modo Infoshop a Bologna, vicino alla stampante laser che stava stampando altre cose mie. E sapevo di avere poco tempo, per quello ci ho messo 40 minuti. Appena l’ho finito ne ho fatte un po’ di copie e quando sono uscito da Modo c’era una serata che coinvolgeva molti giovani fumettisti… E così ho venduto 15 copie semplicemente dicendo agli amici “Hey, ho appena fatto questo”. Avrò fatto circa 15 euro e con quei soldi ho bevuto qualcosa oppure ho preso un libro in libreria – ora non mi ricordo – e ok, i soldi sono finiti subito, ma comunque ho creato qualcosa dal nulla. E questo è il lato bello dei soldi, che si trasformano in cose. Quindi l’obiettivo, alla fine della fiera, è cercare di fare ciò che voglio fare, divertirmi, vendere e spendere subito tutti i soldi che faccio.
GDF: Bene, abbiamo dunque scoperto che in qualche modo questi sono fumetti commerciali…
ADF: Forse potremmo dire commerciabili…
GDF: Ok, commerciabili… Poi ne hai fatti veramente tanti, qui ne ho un po’ da far vedere, ma non sono neanche tutti. Questo è un altro dei primissimi, il secondo che hai fatto credo, Errata corrige, poi hai fatto questo Immaterial Issues per l’Elcaf, una specie di albo illustrato con testi stampati e in inglese, quest’altro è una chicca che non si trova più con foto fatte con un cellulare con la fotocamera rotta e insomma tantissime cose e tantissime idee, in poco se non pochissimo tempo. Mi ricordo una volta che ci siamo visti a Treviso e ho comprato un fumetto e mi hai detto “questo l’ho fatto stanotte”. Comunque, andando avanti, volevo parlare un po’ di questo albo qui, La meraviglia carnosa che ho perduto nel bosco, penso che sia il primo in cui hai raccolto in maniera organica il lavoro che avevi fatto fino a quel momento. Ed è anche un fumetto un po’ atipico nella tua produzione, perché è quasi poesia, forse anche senza quasi. Se fossi negli Stati Uniti rientrerebbe nella corrente Comics as Poetry, in cui i fumettisti illustrano le poesie che scrivono. E’ un amore che è vissuto nel bosco, un amore anche con il bosco…
ADF: Per il bosco!
GDF: Esatto! E’ una roba quasi dannunziana… Però quello che mi interessava è come sei arrivato a questa dimensione poetica e a fare il passaggio da tutti i vari frammenti che abbiamo visto prima a qualcosa di più organico, a un fumetto lungo vero e proprio.
ADF: Beh, c’entra anche con il discorso di prima… Io poi ho un po’ svicolato, parlando di soldi – ed è sempre brutto parlare di soldi – e non mi sono più soffermato sulla scrittura. Tu dicevi che la mia è una scrittura che parte dal disegno e che c’entra sempre con il disegno, che nei miei fumetti ci sono scrittura e disegno allo stesso livello… E per me è verissimo e anzi è proprio un complimento, perché non è automatico che un bravo disegnatore sia anche un buon scrittore. Oddio, ora non mi voglio dire da solo che sono un bravo scrittore, però almeno posso dire di non aver mai fatto un errore di punteggiatura in un libro. E sono molto fiero di questo. E poi sì, compro e leggo tanti fumetti, ma non sono così vorace con i fumetti come lo sono con i libri, cioè nel senso di libri senza disegni e quindi saggistica, narrativa, poesia. Scrivo da più tempo di quanto disegno, perché sono tre/quattro anni scarsi che riesco a disegnare in un modo che trovo soddisfacente, come dicevo prima ho avuto sette anni di vuoto in cui non raggiungevo risultati dignitosi. Invece ho scritto per un sacco di anni i testi dei gruppi in cui suonavo, ho fatto le recensioni musicali e altre cose da giornalista culturale come articoli, interviste e via dicendo. E poi ho portato avanti anche esperienze di scrittura autonome da tutto, racconti, mini-saggi eccetera, cose che ho fatto e poi ho bruciato subito, infatti non esistono più. E la scrittura mi richiede un esercizio diverso da quello del disegno, perché disegnare ogni giorno lo faccio, i disegni me li lancio dietro, non mi ricordo quanti ne ho fatti, ho riempito quaderni su quaderni, e invece nei quaderni non scrivo tantissimo, a volte ci sono dei testi ma magari vengono fuori dal fatto che sto facendo piccoli fumetti. Ma non mi metto a scrivere la poesia sul quaderno…
GDF: Anche se ne leggevo prima una a tema anale in uno sketchbook.
ADF: Sì, c’è l’elenco anale… Però mi tengo oliato su questa cosa, è una pratica che richiede un certo esercizio, ci ho messo un po’ ad arrivare a scrivere una cosa come La meraviglia carnosa. All’inizio ho fatto direttamente dei fumetti senza parole, perché mi sembrava che i testi non fossero validi quanto i disegni – non che i disegni fossero inarrivabili – ma comunque i testi erano nettamente peggiori. Errata corrige è stata la prima cosa che ha funzionato come testo, è stato il primo fumetto istantaneo che ho fatto, mi sono seduto perché avevo un’idea e di lì a qualche ora ho finito, mettendoci anche dei testi perché avevo bisogno di una voce. E ne La meraviglia carnosa ho continuato con questa questione della voce, però una voce singola, infatti il fumetto non ha balloon, il testo è un po’ sospeso e ci sono una serie di ambiguità per cui la storia d’amore con il bosco, per il bosco che abbiamo detto ha tutta una serie di letture. Certo, c’è la chiave di lettura realistica, e io so quello che succede veramente se così vogliamo dire, ma comunque non mi interessa raccontarlo a nessuno, perché non è quello il punto. Come i due famosi episodi finali di Evangelion che sono tutti nella testa di Shinji ma poi hanno fatto il film in cui si vede quello che succede veramente mentre lui ha questi trip mentali…
GDF: Mmm no, non so di che parli…
ADF: Questa serie che potremmo definire di robot e problemi personali si conclude con due episodi completamente dentro al cervello del personaggio perché erano finiti i soldi e quindi non potevano disegnare mille robottoni che si schiantavano sulla terra. Però quando la serie è diventata famosa, i fan hanno chiesto a gran voce di sapere cosa fosse successo davvero perché non gliene fregava niente di quello che vedeva il tizio nella sua testa. E il film che ne è venuto fuori è comunque bello, però questa cosa di dover dire le cose come stanno mi sembra un po’ un fallimento, perché è come ammettere che la dimensione completamente mentale non esiste, come se i viaggi mentali di Shinji non fossero così veri come i robottoni che si schiantano. E invece per me tutto è super-reale, sempre. E’ come il fatto che dal fumetto ci si aspetta per forza – soprattutto con la tradizione molto forte di fumetto popolare che c’è in Italia – che sia una sorta di storyboard, che abbia un’impostazione cinematrografica, con una storia, i dialoghi, gli ambienti, i personaggi che provano delle emozioni e compiono delle azioni, agendo in un paesaggio che viene ripreso con certe tecniche e certi espedienti formali. Io ho cercato subito di non chiudermi in quella roba lì, perché prima facevo fotografia e allora a questo punto avrei fatto i fotoromanzi, i cortometraggi, il cinema. E il fumetto è fumetto, non è cinema disegnato, non è letteratura disegnata… Il fumetto è fumetto, stacce. Quindi, che cos’è, come funziona, quali cose si possono fare? Una cosa che si può fare con il fumetto è una specie di voce fuori campo, o anche una voce dentro il campo, che si stende nelle pagine facendo da collante tra i disegni. La meraviglia carnosa è venuto fuori da queste riflessioni, perché tra l’altro oltre ad averci messo più tempo del solito è anche un fumetto che ho disegnato in maniera completamente disordinata e l’ordine tra testo, parole, sequenze e tavole è avvenuto tutto impaginando. Quindi è una storia disegnata a penna ma in realtà fatta con Adobe InDesign. E infatti non sembra ma ci sono dei disegni che si ripetono, dei disegni che si ricompongono, dei disegni che si incorniciano uno nell’altro e c’è questo testo che ha necessitato di più tempo rispetto ai disegni, perché è difficile scrivere i testi. E quella roba dei fumetti disegnati bene con il testo così così perché sei meno bravo succede, ma secondo me è una cosa schizofrenica che secondo me non aggiunge niente. E quindi è molto più interessante cercare la propria strada, intestardirsi sul fatto che nessuno ha deciso una gerarchia che riguarda i testi e le immagini nel fumetto, perché ci sono delle tradizioni, ci sono delle scuole, ci sono delle abitudini ma tutto è trasgredibile. E a me piace molto trasgredire… nei fumetti, perché poi sono un pavido nella vita vera.
GDF: Agganciandomi a questo discorso, se invece devo trovare un fumetto più “fumetto” nel senso classico, o comunque quello più classico tra i tuoi – in cui come dicevi ci sono i personaggi, una storia, un’ambientazione – è Intonarumori, che hai scritto direttamente in inglese per poterlo proporre sul mercato internazionale. Però per arrivare a Intonarumori partirei da un passaggio di Piccolo niente, un altro tuo albetto che forse non parla di niente, anzi parla del niente, tanto che viene ripetuta la parola “niente” non so quante volte…
ADF: Forse troppe…
GDF: E qui c’è questa tavola in cui si legge: “Dicevo di diventare sensibile ai rumori / (quando non faccio niente) sono un fruscìo / acqua sottoterra / le urla lontane / due fidanzati arrabbiati giù in strada? / cos’è un “fidanzato”?”. Questa secondo me è una tavola chiave per capire quello che fai tu, alla fine c’è questa domanda “cos’è un “fidanzato”?” con la parola “fidanzato” tra virgolette. Siamo a un livello in cui alcune cose che vengono date per scontate da tutti – anche dei termini semplicissimi – non sono poi così scontate. E anche in Intonarumori ci sono una logica, una sequenzialità e uno sviluppo ma non sono quelli della narrazione classica a cui siamo abituati. E’ una logica tutta tua, che anzi potremmo definire una pre-logica. Provando a riassumere la trama, il fumetto è basato su una continua metamorfosi del protagonista, un personaggio che all’inizio sembra un uomo, poi diventa una specie di cavallo, quindi si scompone in una serie di forme astratte e poi torna a una dimensione antropomorfa. E non è finita qui, perché si trasforma in un ramoscello, finisce dentro a un vaso, viene usato per fare un tè e si scinde quindi in due diverse entità, una delle quali è una pozzanghera. E così abbiamo la parte finale del fumetto in cui il protagonista è una pozzanghera. Ci sono anche delle situazioni classiche, come una sorta di contrapposizione tra due personaggi nella prima parte, o una storia d’amore nella seconda, anche se molto sui generis perché riguarda la pozzanghera di cui dicevo prima. Ma al di là dei dettagli è stupefacente come in tutta questa assurdità ci sia una logica e tutto funzioni. Nelle pagine iniziali ha un ruolo centrale una scatoletta, che è appunto un intonarumori, da cui questo gioco di trasformazioni si sviluppa grazie alla musica. E non a caso tu sei anche musicista, infatti. La suggestione musicale è preponderante in una serie di sequenze che sembrano astratte ma che in realtà rappresentano la trasformazione del protagonista. E quindi sono astratte fino a un certo punto, anche perché come hai scritto lì nella tua autobiografia il tuo lavoro viene “bollato superficialmente come astratto”. La mia principale curiosità adesso è capire da dove sei partito per tutto ciò, se sei partito dalla musica – perché ci sono dei movimenti che sono proprio musicali in questo fumetto – dall’idea della trasformazione del protagonista – e dunque dalla provocazione di raccontare una storia che avesse un formato graphic novel ma con un personaggio che apparisse in una forma diversa ogni tot pagine – oppure dal disegno puro e semplice, visto che ci sono dei passaggi in cui il disegno non è gratuito ma sicuramente ti prende un po’ la mano…
ADF: Con Intonarumori volevo fare una cosa lunga, il graphic novel se vogliamo chiamarlo così, e volevo fare un fumetto con i personaggi che parlano in un ambiente. Mi piaceva e mi piace ancora molto il lirismo però sentivo di aver già ottenuto dei risultati a quel livello – per quanto discutibili – e così mi sono detto “ok, proviamo quest’altra cosa”. D’altronde perché diventare bravi in una cosa sola se puoi essere scarso in tutte? Piccolo niente è stato un po’ il banco di prova per Intonarumori, una sorta di ponte tra le due cose. In Intonarumori volevo lavorare su più personaggi e situazioni, è vero che il fumetto è ancorato a questo protagonista ma in realtà tutti parlano, ci sono dei prati che parlano, il sole che parla, le foglie di tè che parlano. E la questione musicale è andata di pari passo, perché mentre sto cercando di ottenere dei risultati con il fumetto sto cercando di ottenerli anche con la musica, anche perché la musica è meglio dei fumetti nella gerarchia delle arti: per me c’è la musica e poi sotto ci sono tutte le altre arti, che la musica guarda dall’alto in basso. La riprova è che tutti i fumettisti o sono anche dei bravi musicisti o comunque hanno la chitarra a casa. Musica e fumetto si sono alimentati a vicenda nel mio caso, anche con la musica parto spesso dal grado zero, dalla pre-logica come hai detto tu, che è una cosa molto vera… Anzi l’hai capito meglio di me questo tentativo di cercare di rimuovere l’eccesso di assunti iniziali e vedere cosa succede costruendo tutto con delle regole che si definiscono nel mentre. Io a 13 anni ero un ragazzino un po’ metal-fantasy-fantascienza-Tolkien e mi sono fatto dei giri gravi con Tolkien, Asimov e altri autori così. E poi ho capito che non sono belli i romanzi o le storie ma questa cosa di costruire un mondo, delle lingue, delle leggende, delle tradizioni. Il Signore degli Anelli è ovviamente quello che è, ma per me è Il Silmarillion quello veramente figo, perché sono tutte le leggende di quel mondo. Questa cosa che riesci a essere così dissociato dalla realtà che hai attorno, così fuori di testa da decidere che te la devi fare tu una realtà, per me è bellissima. Io sogno un mondo in cui la devianza mentale è abbracciata come un dato naturale di tutte le persone, per cui se le strade sono piene di pazzi che dicono di essere Napoleone è pieno di Napoleoni in giro… Non è che sono tutti pazzi, sono tutti Napoleone. La musica mi ha aiutato molto da questo punto di vista, soprattutto quella fatta da musicisti che si creano le loro regole mentre suonano. E alla fine escono fuori le robe più inascoltabili, antipatiche, snob, da critico musicale, che però per me sono bellissime e addirittura divertentissime. Per esempio c’è questo quartetto norvegese di musicisti tutti molto bravi e molto spocchiosi che normalmente fanno jazz, folk, dark ambient ma che insieme hanno un progetto in cui suonano senza parlarsi mai: non hanno nessun altro tipo di comunicazione al di fuori della musica. E’ una band fondata sul fatto che l’unica comunicazione possibile tra i membri della band è quella che avviene suonando. Quindi ogni loro disco in realtà è un live, e quando vanno in studio è un concerto. Questa band si chiama Supersilent, sono molto insopportabili se non ti interessa questo tipo di discorso ma per me sono stati molto importanti per questo concetto di… pre-logica, ora lo userò sempre, o anche grado zero, come dicevo prima di oggi. Anche prima di cominciare queste cose sono andato in palla con l’OuLiPo, i francesi come Perec e Queneau, e con quel saggio di Roland Barthes sul grado zero della scrittura in cui manipolando completamente le intenzioni degli autori evidenzia che questo tipo di ricerca sulla scrittura non è un discorso di rottura o di primitivismo, ma è un discorso di calcolo in un certo senso, di voler veramente cercare un foglio bianco.
GDF: Anche nel fumetto qualcuno ha provato a riportare i concetti dell’OuLiPo, penso ad autori francesi come Trondheim, o anche a Matt Madden, che è americano ma ha fatto molti fumetti basandosi su delle regole auto-imposte. Poi tornando alla musica ci sono tantissime citazioni nei tuoi fumetti, basti pensare a In quel posto che è stato realizzato tutto ascoltando un disco di Tim Hecker, Konoyo.
ADF: Sì, anche quello era molto veloce, non ai livelli di Giro intorno al sole, ma comunque l’ho fatto al volo, di notte, mentre stampavo il fumetto di Dario Sostegni…
GDF: Ah, era quello il fumetto che avevi fatto prima di Treviso, che dicevamo prima… Ok, senti, visto che siamo stretti con i tempi ti faccio scegliere tra due domande. O ti faccio un’altra domanda “filosofica” che prende spunto da una sequenza di Parallel Lives di Olivier Schrauwen, oppure parliamo dei classici “progetti per il futuro” così ci anticipi qualcosa del tuo fumetto che uscirà nel 2020 per Eris Edizioni…
ADF: Ok, facciamo quella sul libro nuovo così poi la gente se lo ricorda e lo compra. Allora, quella con Eris è una storia lunga, perché Scusa lo avevo fatto anche per farlo vedere a Eris a Treviso nel settembre del 2016. E già allora pensavo di non aver altra scelta in Italia oltre a Eris, che magari non è neanche vero ma poi mi sono affezionato, da lì è partito tutto un rapporto di amore viscerale con Fabio Tonetto, un casino… Insomma, gli ho portato Scusa e loro tra sé e sé avranno detto “ecco qui un altro ragazzino che si è visto DeForge”. Poi gli ho portato altre cose ad altri festival, e ho fatto anche diverse figure di merda con loro, per cui se hanno deciso di fare un libro con me o sono loro dei grandi o io un idiota molto fortunato. Una volta sono andato da loro e gli ho portato 5 quaderni pieni di disegni fronte retro, tutti disegnati come un fumetto ma senza nessun testo, e ho cercato di dirgli “ho disegnato questa cosa di 300 pagine, non si capisce niente perché non c’è il testo ma io farei dei testi per far finta che ci sia una storia e se vi piace, visto che i disegni sono belli, lo pubblicherei”… Poi gliel’ho spiegato anche peggio di così, tanto che Sonny di Eris mi ha detto in maniera pacata “metti ordine nella tua vita e vieni a dirci qualcosa di sensato”. Così gli ho portato Intonarumori e loro avevano quasi deciso di pubblicarlo in italiano ma poi abbiamo optato per fare una cosa nuova ed effettivamente ha senso, anche perché io faccio i disegni, le storie eccetera, il libro lo fa l’editore. E per questo nuovo fumetto ho pensato di prendere quello che avevo cercato di fare con Intonarumori ma di farlo meglio, anche perché Intonarumori l’ho disegnato in meno di 2 mesi, con l’aiuto dei funghi…
GDF: Non champignon…
ADF: Ehm no, psilocibina… Mai esagerato perché dovevo disegnare, ma comunque Intonarumori è un fumetto con la droga, anche se non sulla droga. E invece questo fumetto lo sto facendo senza i funghi, anche se parla comunque di intossicazione, questa volta da caffeina. La scorsa estate ho fatto una residenza di una settimana a Berlino per partecipare a Clubhouse #10 di Colorama, in cui c’è un mio racconto breve fatto in una settimana con protagonista una tazzina di caffè cosciente, con corpo, braccia e gambe. Da allora ho cominciato a disegnare delle cose stupide sui quaderni, delle situazioni da cinema muto alla Buster Keaton. Il personaggio aveva qualcosa da dire, e la caffeina è una droga valida proprio a livello di effetto psicoattivo, se te ne bevi quanta me ne bevo io. E quindi l’idea che ho proposto a Eris era fare una roba tipo Intonarumori ma con questa tazzina antropomorfa, che vive un sacco di disavventure e che soprattutto è piena di caffè, quindi chi è che fa camminare questo corpo, la tazzina o il caffè, o sono due cose diverse. E c’è tutta questa finta psicanalisi, tutte questioni che riguardano la natura della volontà dell’uomo, da dove vengono l’esperienza, la memoria, le emozioni. E’ una roba che io chiamo il problema di Ghost in the Shell, nel senso del film del ’95, in cui c’è questo personaggio artificiale che chiede a un altro robot “chi lo sa che cos’è il mio cervello, ma tu ti sei mai guardato”. Però io non lo faccio con i robot ma con la tazzina di caffè, perché… fa ridere. Fa ridere una tazzina di caffè gigante che barcolla perché è piena di caffè, poi inciampa per terra e cade, cerca di rialzarsi e rischia di cadere dall’altra parte… C’è del comico, che io non so gestire bene perché non sono un autore comico. Mi stanno venendo fuori più di 300 pagine, vediamo quante me ne tagliano perché mi sto dilungando troppo ma insomma speriamo bene…
Free Shit VS Free Shit
Recupero dagli ultimi mesi del 2019 Free Shit di Charles Burns, un tascabile che andrebbe veramente in tasca (è grande all’incirca 14 x 11 cm) se non fosse per il fatto che è un hardcover e conta 208 pagine. Insomma, mettetelo in libreria che è più comodo e arricchisce anche la vostra collezione, con la sua bella copertina e la costa arancione con una F e una S “organiche” (da notare che solo all’interno viene riportato il titolo e che anche sul sito della Fantagraphics il volume viene presentato come Free S**t, perché se aspiri a una distribuzione di massa negli USA certe cose non puoi proprio dirle). Ma – vi chiederete a questo punto – che differenza c’è tra questo volume, a sinistra nell’immagine in alto, e quello che invece vedete a destra e di cui avevo parlato nel sesto episodio della compianta rubrica Misunderstanding Comics nell’ormai lontano 26 ottobre 2016? Beh, innanzitutto complimenti perché conoscete tutti i post del sito a memoria, poi vediamo di rispondere alla vostra gentile domanda. Anzi, grazie per avermela posta.
Free Shit è il titolo di una fanzine che Burns realizza di tanto in tanto regalandola ai festival, alle sessioni di autografi o alle mostre. Raccoglie schizzi, disegni, appunti, abbozzi di fumetti ma anche elaborazioni grafiche di materiale già pubblicato, foto tratte da b-movie, collage, strisce a fumetti di altri autori: insomma, si tratta degli sketchbook di Burns – o almeno degli sketchbook che il cartoonist statunitense ha voglia di far vedere ad amici e fan – con l’aggiunta di altro materiale che l’autore di Black Hole trova interessante o che l’ha ispirato. Il volumetto di Le Dernier Cri, pubblicato nel 2016 in edizione limitata e con copertina serigrafata, allargava il pubblico della fanzine burnsiana ai 1000 fortunati che l’hanno prontamente acquistato. Infatti, come capita spesso quando si tratta di certi autori, la tiratura andò velocemente esaurita e così tre anni dopo arriva Fantagraphics a ristampare l’opera, aggiungendo giusto un paio di centimetri nelle dimensioni, una copertina rigida e soprattutto 24 pagine. Perché nel frattempo Burns ha continuato a partorire (ma forse non è il termine esatto) la sua “free shit”: se infatti il volume francese raccoglieva i primi 22 numeri della fanzine, quello targato Fantagraphics arriva al #25, con nuove illustrazioni di cui vi fornisco un paio di anteprime qui sotto.
Il volume di Le Dernier Cri si chiudeva con una nota di Burns che diceva: “You got any free shit? Sì… Sì, ce l’ho. Ma c’è soltanto un piccolo problema… Questa volta non è gratis. Che ci posso fare? Le cose vanno così e basta. E’ come mi diceva mia madre quando ero un ragazzino: Niente è gratis a questo mondo“. La nota posta in chiusura del volume Fantagraphics fa invece un po’ di storia: “Dunque… Come è iniziato tutto ciò? Da quel che mi ricordo ero a un firmacopie, un bel po’ di tempo fa, verso la fine degli anni ’90, e un tizio è venuto da me e mi ha chiesto: You got any free shit? E io non ce l’avevo. E mi dispiaceva… Ma Free Shit mi è sembrato un nome perfetto per un fumetto o una rivista. E così poco dopo ho iniziato a mettere insieme una piccola fanzine di otto pagine… Ne stampo ogni volta una cinquantina di copie e la do ai festival e ai firmacopie agli amici o a chiunque è interessato ad avere un po’ di… free shit. Questa è una raccolta dei primi 25 numeri”.
Disponibile “L’età d’oro” di Chris Reynolds
In occasione della mostra di Chris Reynolds a BilBOlbul 2019, la rivista online di critica e approfondimento sul fumetto Banana Oil si è fatta carico di pubblicare un albo dell’autore britannico complementare all’antologia Un mondo nuovo edita da Tunué. L’età d’oro, che ora è finalmente disponibile on line nel webshop di Just Indie Comics, conta 32 pagine e contiene all’interno cinque brevi fumetti rimasti fuori dal volume curato da Seth per la New York Review Comics. Se la storiella di apertura con protagonista Monitor funge da introduzione, gli altri racconti si concentrano su un particolare tassello dell’universo narrativo di Reynolds, ossia quella dimensione che viene definita appunto L’età d’oro. Chi ha letto Un mondo nuovo sa già di cosa stiamo parlando, perché lì si trova un episodio che vede protagonisti Robert e il Signor Ranger, personaggi che appaiono anche qui, insieme al pestifero Cwiss e alla direttrice della scuola di Robert. Proprio il rapporto, insolitamente romantico, tra il ragazzo e la direttrice è il tema centrale di queste storie, raggiungendo il suo culmine in una gara di corsa che è metafora spietata di parecchie storie d’amore. Ma gli spunti non finiscono qui, perché il lavoro di Reynolds è come sempre sfaccettato e profondo, e ogni particolare è utile sia a svelare misteri che a crearne altri. In questo caso poi la scrittura è ancora più sperimentale del solito, se non altro per il modo improvviso in cui inserisce episodi di violenza e particolari visionari, come gli archi scintillanti e le scale dorate che ricorrono in un paio d’occasioni.
L’albo è arricchito dal saggio Mauretania: la realtà fuori asse. Il mondo nuovo di Matteo Gaspari, deus ex machina di Banana Oil che si occupa anche di traduzione e lettering. Per la cronaca, L’età d’oro è stato venduto al BilBOlbul e in alcune sporadiche occasioni da Tunué, ma finora non era disponibile on line. E per approfondire il lavoro di Reynolds vi rimando alla trascrizione dell’incontro con l’autore britannico avvenuto lo scorso dicembre presso Risma Bookshop.