“Sabrina” di Nick Drnaso

E’ estate, fa caldo e le recensioni ultimamente mi sembrano solo parole. Quindi salto ogni preambolo e dico subito che Sabrina di Nick Drnaso, uscito da un paio di mesi per Drawn & Quarterly e di prossima pubblicazione in Italia per Coconino Press, non solo non delude le aspettative ma riesce addirittura a superare il precedente Beverly, per me una delle migliori raccolte di racconti brevi a fumetti di sempre. E visto che ci sto evito anche di dilungarmi su Beverly, tanto ne avevo già parlato qua.

Veniamo così alla trama, incentrata sulla sparizione della Sabrina del titolo, che vediamo soltanto nelle prime dieci pagine, prima di uscire misteriosamente di scena. Il suo ragazzo, Teddy, lascia Chicago per trovare ospitalità e conforto in un vecchio compagno di scuola, Calvin, militare in carriera in una base del Colorado. Tra i due nasce un rapporto algido e imbarazzato come solo certe amicizie maschili sanno essere. Se Teddy ha perso Sabrina, Calvin ha perso la moglie, che lo ha mollato per trasferirsi in Florida insieme alla figlioletta. Lo scenario sembra proprio quello di Beverly ed è lecito aspettarsi un’altra galleria di goffaggini, meschinità e indifferenza, scandita da pagine schematiche e da un disegno piatto, volutamente monocorde. Tutto ciò in effetti lo troviamo anche in Sabrina ma a un certo punto il libro si spinge oltre, passando dal privato al pubblico quando la sparizione della ragazza diventa un fatto di cronaca oggetto di servizi televisivi, programmi radiofonici cospirazionisti, discussioni sui forum. Drnaso non si limita a scavare nel vuoto interiore dei suoi personaggi, che ormai è già palese agli occhi dei lettore, e inizia a descrivere la sua nazione, tagliata a fette dall’odio, dalla paura dell’altro, dallo scetticismo a ogni costo.

Sabrina diventa così un’indagine in forma di fiction non tanto sull’era Trump – il libro conta ben 200 pagine ed era in gestazione da tempo – ma su tutti gli Stati Uniti post 11 settembre, con una particolare attenzione al mondo delle fake news e alle teorie del complotto, qui portate all’eccesso al punto da diventare retorica reazionaria, ossessione e soprattutto paranoia, una sensazione che cresce sottilmente ma inesorabilmente pagina dopo pagina. E non è un modo di dire, perché Drnaso riesce a coinvolgere come pochi, a trasmettere al lettore un’angoscia capace di penetrare nel suo tessuto nervoso e di rimanerci per un bel po’. La sua penna non cerca più come in precedenza il sorriso sardonico e la derisione che avevano fatto accostare i suoi fumetti al cinema di Todd Solondz, ma delinea un’umanità arrendevole e apatica con un’intensità finora inedita e quasi stupefacente se pensiamo alla freddezza dello stile e della composizione. Una freddezza che tuttavia comunica, con vignette e pagine costruite come un quadro di Hopper e dei personaggi che non sono semplici larve chiuse in se stesse ma che sembrano reali al punto da lasciare anche qualche speranza di redenzione. Infatti, pur nella negatività del quadro complessivo, a volte qualcuno fa addirittura una buona azione, mentre noi stiamo lì ad aspettarci – ormai paranoici, appunto – una violenza sessuale, un’efferatezza o almeno un goffo tentativo di far male. A tal proposito ci sono un paio di sequenze che varrebbe la pena prendere da esempio, ma di più non dico per non rovinarvi una lettura che vale assolutamente la pena di fare.
Nick Drnaso è nato nel 1989 a Palos Hills, nell’Illinois, e ora vive a Chicago con la moglie e tre gatti. A nemmeno 30 anni ha già smesso di essere una promessa del fumetto americano e ne è diventato una realtà, al livello dei suoi più blasonati colleghi.

JICBC pt. 3: “Roopert” di August Lipp

Dopo il primo numero dell’antologia Now della Fantagraphics e Book of Daze di E.A. Bethea edito da Domino Books, il terzo fumetto “uguale per tutti” del Just Indie Comics Buyers Club è Roopert di August Lipp, pubblicato da Revival House Press. Avevo inserito questo corposo spillato di 56 pagine già nel mio Best Of 2017 ma solo recentemente sono riuscito a procurarmene una quantità più massiccia e a renderlo così disponibile a tutti gli abbonati. Roopert è innanzitutto un fumetto divertentissimo ma ancor di più è un fumetto intelligente, apparentemente bizzarro e fuori di testa ma in realtà geniale nel modo in cui stravolge situazioni e convenzioni per stupire e far sorridere il lettore.

La storia, disegnata con tratti blu e cartoon su sfondo giallo, vede protagonisti buffi animali antropomorfi che tornano a scuola dopo le vacanze. C’è Roopert appunto, un orso insolente e leader carismatico del gruppo, il tasso Clyve segretamente innamorato di un suo compagno di classe, la volpe Hannah fissata con le mele giganti coltivate dal padre e così via. E soprattutto c’è la nuova insegnante del gruppo, l’unica umana di questa classe-zoo: si chiama Miss Julienne, parla un linguaggio forbito e usa toni zelanti ma non ne azzecca una, offendendo già nelle prime pagine la rana Timothy e la scimmia Anthony. Da lì i due studenti si “innervosiscono” e partono una serie di situazioni paradossali, con l’apparizione di altri personaggi fuori di testa come la svampitissima professoressa d’arte Miss Calomine, il preside T-F che ogni tanto sente il bisogno di abbaiare (è un cane, d’altronde), il coccodrillo Clarissa che ha mangiato una gamba a un compagno… Dietro tutto ciò si nasconde un sottotesto profondo che deride gli adulti mostrandoli sempre disattenti nei confronti dei bambini, stigmatizza il razzismo e l’autoritarismo e innalza un inno gioioso di libertà e diversità. Non vi dico altro per non togliervi il divertimento, anche perché presto chi è abbonato al Buyers Club potrà leggere l’albo nella sua interezza. Gli altri trovano invece qui sotto le prime pagine del fumetto, che si può anche ordinare nello shop on line di Just Indie Comics.

Una giornata al CAKE

Il CAKE (Chicago Alternative Comics Expo) è uno dei principali festival statunitensi dedicati al fumetto alternativo, indipendente, underground e che dir si voglia. Ne avevo già parlato da queste parti, con report e foto dalle edizioni 2015 e 2016 e un’intervista agli organizzatori, ma quest’anno sono invece andato lì di persona per vedere se era tutto vero. Con un po’ di ritardo, visto che il festival si è svolto sabato 2 e domenica 3 giugno scorsi, vi riporto un po’ di foto e impressioni della mia esperienza, con qualche nota sui fumetti comprati tra i tavoli del Center On Halsted, la comunità LGBTQ situata nel quartiere Boystown che ospita la manifestazione.

Il CAKE ha la tipica conformazione dei festival di fumetto americani, una grande sala in cui vengono disposti i tavoli messi a disposizione di case editrici, small press, collettivi e autori. L’ingresso è gratuito per i visitatori, mentre gli espositori pagano lo spazio. L’atmosfera è rilassata, spesso festosa, gli autori sono a diretto contatto con il pubblico senza sentire la necessità di darsi un tono. Dentro si trova di tutto, dall’area Fantagraphics con ospiti i vari Jim Woodring, Ivan Brunetti ed Emil Ferris (qui sotto in foto) al giovane cartoonist che ha iniziato a fare fumetti 6 mesi fa, passando per l’ospite d’onore Eddie Campbell, che ho visto ma non fotografato (presentava Bizarre Romance, realizzato con la moglie Audrey Niffenegger). Il livello medio è elevatissimo, i tavoli sono occupati in larghissima parte da fumetti anche se non mancano stampe, magliette, albi illustrati, fanzine fotografiche, esperimenti pop-up e quant’altro. Anche la cura delle edizioni è notevole e tra le varie tecniche domina di gran lunga la stampa in risograph.

Oltre a Fantagraphics, tra le case editrici maggiori del Nord America c’era al CAKE anche una rappresentanza Koyama Press, con alcuni titoli più recenti come A Western World di Michael DeForge, Soft X-Ray/Mindhunters di A. Degen e Winter’s Cosmos di Michael Comeau. Mancava invece la Drawn & Quarterly, anche se Nick Drnaso – conosciuto in Italia per Beverly pubblicato da Coconino – non si è lasciato sfuggire la possibilità di presentare e firmare nella sua città il nuovo Sabrina, così voluminoso che non sono ancora riuscito a leggerlo.

Tappa obbligata il tavolo della Domino Books di Austin English, che al CAKE portava il primo numero di But is it… Comic Aht?, rivista di critica fumettistica e non solo contenente tra le altre cose una lunga intervista a Megan Kelso, un reportage di Inés Estrada sulla scena messicana e un articolo di Matthew Thurber: per me assolutamente da non perdere, vista anche la difficoltà di trovare in giro al giorno d’oggi un magazine old school. Tra i titoli della distro Domino, che trovate elencati e illustrati qui, segnalo invece una nutrita selezione di fumetti recenti di Steve Ditko, il nuovo numero di Cosmic Be-Ing di Alex Graham e l’ultimo fumetto dello stesso English, The Enemy From Within edito da Sonatina, una riflessione su un tema più che una storia, decostruzione in immagini e parole dell’idea classica di fumetto. E a proposito di riflessioni e digressioni, altra chicca era la ristampa di Five Perennial Virtues #2 di David Tea, misconosciuto cartoonist (o pseudonimo?) che con questo albo spillato in bianco e nero utilizza disegno abbozzato, fotografie, pattern e intere pagine di testo per parlare di giardinaggio, numismatica e altro ancora. Davvero una delle cose migliori lette negli ultimi tempi, se vi piace il genere (anche se non saprei ben dire che genere è).

Altro must era Grip #1 di Lale Westvind, albo brossurato edito da Perfectly Acceptable di Chicago, 68 pagine senza testo stampate in risograph utilizzando blu, rosso e giallo. Il terreno è quello già tracciato da Hax, pubblicato qualche tempo fa per Breakdown, anche se la storia è qui lineare, con le origini di una moderna supereroina che dopo un inspiegabile incidente acquisisce la capacità di manipolare tutto con le proprie mani. Dopo tavole di assoluta meraviglia grafica e ipercinetismo, la nostra si lancia in un viaggio aereo che la porta in una foresta ricca di colori psichedelici, in cui – come accade spesso nei fumetti dell’autrice – la dimensione materiale lascia spazio al trascendente. Nelle due foto in basso la Westvind mentre firma la mia copia e alcune sue stampe in vendita al CAKE.

Ed eccoci così al tavolo della Spit and a Half di John Porcellino, che presentava il nuovo numero della sua serie autoprodotta King-Cat Comix, giunta alla 78esima uscita. In più la solita selezione della sua distribuzione, con i titoli di Kuš, Retrofit Comics, l’ultimo Mineshaft ecc. ecc. John è quello con il cappello, mentre vicino a lui troviamo il fumettista e musicista Zak Sally, che portava al CAKE il secondo numero del romanzo in forma di fanzine Folrath, contenente le sue avventure nei primi anni ’90, tra concerti, incontri con cartoonist, viaggi in Greyhound.

Questo qui sotto è invece Peter Faecke con le sue autoproduzioni e il materiale Hidden Fortress Press, la casa editrice di Paul Lyons nota per l’antologia Monster, che riprende l’eredità di Fort Thunder, e per la più recente Screwjob, tutta a tema wrestling. Se già avevo quasi tutti gli albi Hidden Fortress, mi sono invece aggiornato sui fumetti di Peter, che rileggono in maniera originale i generi classici del fumetto americano, dalla fantascienza supereroistica di The Hand of Misery al western rifatto in chiave gay di Pardners. Il suo progetto più pazzo è però The Werewolf Hunter, albo in cui l’autore disegna da capo una serie anni ’40 aggiungendo qualche “shit” e “ass” nei testi. L’approccio complessivo è a volte dissacrante, altre rispettoso ma sempre e comunque ok.

La 2d Cloud proponeva invece tutte le novità già presentate al Toronto Comic Art Festival a maggio, ancora esclusive americane dato che la distribuzione in Europa avverrà solo nei prossimi mesi. Tra queste segnalo Lost in the Fun Zone, ritorno al fumetto di Leif Goldberg, uno degli animatori di Fort Thunder nonché membro di Forcefield. Potremmo definirlo un buddy movie in forma di fumetto (buddy comic?), un romanzo picaresco sui generis o una serie di gag e giochi di parole spesso senza senso, il tutto disegnato splendidamente e messo insieme con una spontaneità tanto estrema da stordire il lettore. Forse ricorda un po’ Agony di Mark Beyer, anche se quello in confronto era un esempio di linearità. Da segnalare la malinconica introduzione a firma Brian Chippendale, piena di riferimenti alla scena di Providence. Altra novità 2d Cloud è Nocturne di Tara Booth, che insieme alla Westvind sta dando davvero dignità al genere fumetto muto, riuscendo come pochi altri a “raccontare con le immagini”. La Booth fa parte di quei fumettisti (un altro che mi viene in mente è Simon Hanselmann) che sembrano fare sempre la stessa cosa e invece no, riescono a stupirti ogni volta, anche se forse stanno veramente facendo la stessa cosa. O no? L’atmosfera appunto notturna comporta la netta predominanza dei toni del blu, resi con colori a tempera gouache, marchio di fabbrica della cartoonist statunitense. Sono solo 64 pagine ma confezionate in un bel cartonato.

Altra novità 2d Cloud era lo spillato It Felt Like Nothing di Fifi Martinez, artista debuttante (a destra nella foto qui sotto) che aveva anche un suo spazio insieme a Carta Monir (a sinistra). Carta è il 50% (insieme a Carolyn Nowak) di Diskette Press, minuscola etichetta che per il CAKE ha fatto uscire It’s You, Beautiful and Sad della stessa Fifi, un bell’albetto in bianco e blu in cui la giovane autrice tenta di descrivere le dinamiche di un rapporto ricorrendo a linee astratte dove la razionalità non riesce ad arrivare. Breve ma intenso.

Di seguito un po’ di foto varie scattate durante la giornata di sabato 2 giugno.

Il tavolo di Czap Books, con i numeri dell’antologia “Ley Lines”

Silver Sprocket

Cold Cube Press, casa editrice e tipografia di Seattle

Corinne Halbert ha scritto per Just Indie Comics il reportage del CAKE 2016… E ora eccola qua

Si potrebbe continuare a scrivere a lungo del CAKE, da dove ho portato in Italia anche altri bei fumetti oltre a quelli appena citati, come Blammo #10, nuovo fittissimo numero dell’antologia personale di Noah Van Sciver, Blue Onion #1, altro spillato di Chris Cilla per Revival House Press dopo Labyrinthectomy/Luncheonette (ne avevo parlato qui), Dead Flame di Chloë Perkis, mini-comic sperimentale, viscerale, a tratti horror per come deforma i volti, i capelli e anche i sentimenti della protagonista. Sicuramente dimentico e ometto molte altre cose, per esempio gli incontri con gli autori, che non ho visto nonostante un programma ben articolato. Ma sono stato al festival soltanto un giorno, sabato 2 giugno, mentre ho utilizzato la domenica per vedere altro, dato che Chicago è una città piena di punti d’interesse, con l’Art Institute, il museo di outsider art Intuit, la Roger Brown Study Collection, per non parlare di Quimby’s, delle librerie dell’usato, dei negozi di dischi… Ma questa è un’altra storia.

 

Le foto del CAKE sono di Serena Dovì

“La mia cosa preferita sono i mostri” vol. 1

di Emil Ferris, Bao Publishing, aprile 2018, brossurato, 416 pagine a colori, 20.5 x 25.7 cm, euro 29

Karen Reyes è una bambina di 10 anni che vive con la madre e il fratello più grande nella Chicago dei tardi anni ’60. Appassionata di film fantasy e horror, è affascinata dall’immaginario dei b-movie e delle riviste a tal punto da rappresentarsi nel suo diario illustrato come un lupo mannaro. Un giorno la bella vicina di casa Anka Silverberg viene trovata morta nell’appartamento al piano di sopra. La polizia parla di suicidio ma Karen non è per niente convinta. Inizia così un’indagine che la porterà ad esplorare il passato della donna, fino a scoprirne le sofferenze patite nella Germania pre-nazista, tra povertà, prostituzione minorile e deportazione in un campo di concentramento. Nel frattempo la mamma di Karen si ammala, il fratello va dietro a ogni donna che incontra, la stessa ragazzina comincia a comprendere la propria sessualità. E, nel finale di questo primo volume, viene ucciso Martin Luther King.

E’ questa a sommi capi la trama di La mia cosa preferita sono i mostri, il finto diario di Karen Reyes raccontato da Emil Ferris, autrice classe 1962 che ha debuttato con la prima opera lunga proprio con questo fumetto. Pubblicato dalla Fantagraphics Books di Seattle alla fine del 2016, il libro è rimasto bloccato per diverse settimane a causa di problemi legati alla spedizione delle copie dalla Corea, dove si trovava la tipografia. Uscito di fatto nel 2017, è stato il fumetto più citato nelle classifiche di fine anno scorso negli USA, oltreché un caso editoriale che ha portato Fantagraphics a ristampare più volte la prima tiratura. Ma di My Favorite Thing Is Monsters si è parlato anche per la tormentata storia della sua autrice, capace di realizzare una titanica opera di 400 pagine (in attesa del seguito, per giunta) dopo essere rimasta paralizzata a 40 anni in seguito a un pizzico di zanzara con cui ha contratto il virus del West Nile. Ma non vi tedierò ulteriormente con questa storia, che alcuni di voi già conosceranno (gli altri la possono leggere in questo fumetto realizzato dalla stessa Ferris).

Ho pensato più e più volte a come considerare La mia cosa preferita sono i mostri, sin dalla sua uscita negli USA. Ci ho pensato anche quando ho stilato il mio Best Of del 2017, in cui alla fine non ho inserito il libro di Emil Ferris perché la prima lettura mi aveva lasciato interdetto. Così quando, all’inizio di aprile, Bao Publishing lo ha pubblicato in Italia in un’edizione identica all’originale, mi è sembrata l’occasione giusta per rileggerlo e rivedere eventualmente il mio giudizio. E invece sono rimasto nuovamente interdetto, perché ai suoi innegabili pregi l’opera unisce più di qualche difetto.

In parte forse è un mio problema. Problema con quei fumetti che pur servendosi delle soluzione tipiche del medium – come le nuvolette, i dialoghi, le vignette – tendono a utilizzare le immagini più per accompagnare il testo che per raccontare. Da anni imperversa ormai il termine graphic novel, che i più utilizzano per dare maggiore dignità al fumetto, spesso per prodotti che di “novel” hanno ben poco. Qui per una volta si potrebbe utilizzare il termine a proposito perché siamo di fronte a un vero romanzo grafico, un’opera al cui centro c’è un fiume di parole e in cui le immagini sono al servizio di queste. Un romanzo di formazione che sembra rimandare più alla narrativa americana contemporanea che ad altri fumetti, anche se un riferimento diretto potrebbe essere Fun Home di Alison Bechdel, non a caso chiamata a dire la sua in quarta di copertina.

Ma anche provando a mettere da parte questa mia idiosincrasia per la narrativa a fumetti nel senso più stretto del termine – ed è una cosa del tutto personale, perché il fumetto può ovviamente essere anche questo – La mia cosa preferita sono i mostri non funziona sotto diversi punti di vista. E’ soprattutto il lungo flashback nella Germania pre e poi nazista a lasciare perplessi, tanto è pieno di luoghi comuni e di personaggi artificiosi. Il parallelismo tra la protagonista e la giovane Anka, suggerito dall’autrice, non regge. Tanto è ben delineata e interessante la prima, tanto risulta macchiettistica la seconda. E, pur volendo sospendere l’incredulità sull’io narrante nelle diverse fasi della storia, sembra difficile accettare che il punto di vista di Karen risulti in molte parti più maturo di quello di Anka, che racconta su nastro le traumatiche esperienze d’infanzia con il punto di vista di un’adulta, poco prima della sua morte. E’ forse lì che il racconto cede il passo, si appesantisce, smette di appassionare, come se l’autrice si trovasse a suo agio con il suo mondo – la Chicago dei tardi anni ’60 in cui è cresciuta – ma non con qualcosa a lei estraneo come la storyline sul passato di Anka, intrisa di atmosfere alla Dickens ma al tempo stesso di manierismo. Anche il disegno, che nella parte moderna unisce immaginario da b-movie, richiami a maestri dell’illustrazione come Sendak e splendido realismo nella rappresentazione dei volti umani, si concede momenti sin troppo ordinari nelle pagine ambientate in Germania, a volte naif nel senso peggiore del termine. E in realtà è tutto il libro che alterna a livello grafico momenti alti e bassi, tra tavole stupefacenti ed altre funzionali al racconto ma sin troppo abbozzate per risultare finite. Tra l’altro le più riuscite si trovano per lo più nella prima parte, come se a un certo punto per portare a termine la titanica impresa la Ferris sia stata costretta ad accelerare il passo e semplificare il disegno.

Detta così, La mia cosa preferita sono i mostri sembrerebbe uno di quei libri belli soltanto da sfogliare. Di sicuro la mole, l’iconografia e l’indiscutibile fascino di alcune tavole hanno influenzato la maggior parte di critici e lettori, che hanno gridato al capolavoro ancor prima di leggerlo. Eppure non è tutto qua, perché di cose positive il libro ne ha eccome. C’è innanzitutto il mondo visto dagli occhi di una bambina che in alcuni passaggi restituisce atmosfere di romanzi come Il Giovane Holden o Molto forte, incredibilmente vicino, con la riflessione finale su chi sono i veri mostri che solo una bambina può fare con tanta lucidità. C’è la riuscitissima sequenza onirica iniziale, con la protagonista che sogna di essere un lupo mannaro e una folla inferocita che la bracca per ucciderla. Ci sono i turbamenti sessuali di Karen, il suo difficile rapporto con il proprio corpo e le difficoltà relazionali che ogni ragazzo ha avuto in un momento o nell’altro della crescita. C’è l’atmosfera della Chicago anni ’60, le sue strade, i quartieri e la metropolitana, così vividamente realistici. C’è la riproduzione delle copertine di fumetti e riviste di genere, materiale con cui la Ferris è tremendamente a suo agio. Com’è a suo agio quando fa percorrere a Karen i corridoi dell’Art Institute, non limitandosi a ricreare brillantemente con penne e matite colorate alcuni classici della pittura, da Seurat a Delacroix, ma entrandoci dentro in modo da restituirne la magia al lettore. Tutte cose che valgono senz’altro il prezzo del biglietto ma che al tempo stesso lasciano anche un po’ di amaro in bocca. Come il sapore di un’occasione sprecata.

Ratatà 2018, un festival diagonale

Che cosa fa di un festival di fumetto un bel festival di fumetto? E soprattutto, qual è la missione di un bel festival di fumetto? A mio parere le risposte a quest’ultima domanda possono essere principalmente due: stimolare il pubblico, presentando una proposta culturale che sappia cogliere le migliori tendenze della contemporaneità e non, oppure assecondare chi al festival partecipa, lasciando libero spazio alla creatività e alle istanze di chi fa fumetto e illustrazione, spesso partendo dai bassifondi dell’autoproduzione. Il dubbio su quale strada scegliere è lecito e in Italia abbiamo festival che vanno chiaramente in una direzione o nell’altra, nel primo caso fornendo una visione dall’alto e a volte persino accademica, nel secondo non proponendo uno specifico punto di vista ma abbandonandosi piuttosto all’ispirazione di chi al festival partecipa da espositore e a volte da ospite. E poi c’è, come sempre, una terza via, che è quella di costruire un evento al tempo stesso verticale e orizzontale, insomma diagonale. Ed è questa terza via che ormai da qualche anno sceglie il Ratatà di Macerata, festival di illustrazione, fumetto ed editoria indipendente che a una proposta culturale di livello – con mostre sempre più curate, ricercate e variegate – unisce uno spirito spontaneo che mette alla pari organizzatori, espositori e pubblico. E questa non è sicuramente una cosa da poco, perché non è poi così facile essere diagonali.

La quinta edizione di Ratatà si è svolta dal 12 al 15 aprile a Macerata, tra il centro storico della città e il Mercato delle Erbe, dove da venerdì 13 hanno trovato spazio i banchetti di autoproduzioni, case editrici, illustratori e fumettisti. Premetto che le cose da vedere erano tante, che io sono arrivato soltanto il venerdì per l’apertura della mostra mercato e che per la gran parte della manifestazione sono stato incollato al tavolo di Just Indie Comics. Mi è difficile dunque scrivere un reportage completo, come sarebbe d’altronde difficile per chiunque fare un lavoro “oggettivo” vista la varietà della proposta, aperta ancor più che in passato a territori extra rispetto a quelli che rappresentano il cuore del festival e ricca di eventi collaterali. Cercherò dunque di raccontarvi, con l’aiuto di qualche foto in bassa fedeltà, ciò che più mi ha colpito per quello che ci ho capito.

Una delle mostre principali era Ogni traguardo porta con sé una perdita, personale di Matthias Lehmann organizzata presso lo spazio Duma in collaborazione con 001 Edizioni, in occasione della pubblicazione in Italia di un altro libro (dopo La favorita) dell’autore francese, Le lacrime di Ezechiele. La mostra spaziava nell’opera dell’autore, dalle tavole curatissime se non addirittura maniacali di HWY 115 a La favorita e Le lacrime d’Ezechiele, mostrando inoltre illustrazioni a colori, quaderni e sketchbook così perfetti da sembrare stampati. Dal vivo il lavoro di Lehmann impressiona per l’estrema cura, la quantità di linee, soprattutto della prima fase, caratterizzata da un gusto barocco poi abbandonato a favore di uno stile più arioso, in cui il bianco della pagina è territorio fertile per dare forma a soluzioni grafiche originali ma sempre funzionali alla narrazione. E a tal proposito Le lacrime d’Ezechiele si propone come interessante riflessione autobiografica e metanarrativa nel personaggio di Adelphi Gaillac, intento a lavorare da otto anni su un interminabile fumetto inciso interamente nel linoleum.

Oltre ai libri di 001, alla mostra erano disponibili anche i tre numeri della fanzine autoprodotta Lampiste, la serigrafia realizzata con Strane Dizioni come manifesto del festival e il vinile dei Raw Death, gruppo country in cui Lehmann e compari si divertono a coverizzare in versione scarna, anzi “death” potremmo appunto dire, brani country, blues e simili. Il vinile che vedete qui sotto, con cover del nostro stampata da Le Dernier Cri, mette insieme brani di Johnny Cash (Wayfaring Stranger, Ring of Fire), Tom Waits (Chocolate Jesus) e Ralph Stanley (O Death).

Altra mostra cult, ma di tutt’altro genere, era quella di Enrico Pantani, illustratore, scrittore e performer da Pomarance, provincia di Pisa. Presso la libreria Quodlibet erano raccolti i “libri d’autore” realizzati in copia unica nel corso degli anni, efficaci sin da titoli programmatici come La vita mi ha rotto i coglioni ma non mi ammazzo, Tette, Spacco tutto, Tempus fugit ma senza problemi e così via. Tra outsider art, artigianato creativo, provocazione e puro divertimento, il progetto riporta alla materialità del libro e si propone come esempio creativo di arte istintiva. C’era anche un’altra mostra di Enrico Pantani ma purtroppo l’ho persa (frase che potrebbe essere benissimo il titolo di un libretto di Enrico Pantani).

Autodafé, presso gli spazi degli Antichi Forni, era invece una collettiva che presentava lavori di artisti di diversi paesi con l’obiettivo di costruire un ponte tra loro, in un’epoca come la nostra (e come tante altre, purtroppo) in cui concetti come “identità” e “appartenenza” diventano motivo di scontro più che di dialogo. In questo contesto spiccava il bell’allestimento dell’Ufficio Misteri, il trio bolognese composto da Marco Bassi, Daniele Castellano e Bruno Zocca che si avvaleva per il loro Mistero n.5: Il Bosco dei Gatt’Orchi della collaborazione di Marco Taddei ai testi e della sonorizzazione di Steve Scanu e Carlo Aromando. Al festival era disponibile anche un catalogo della mostra, limitato a 50 copie con tanto di cofanetto e stampa a colori allegata. Le altre mostre, tra cui spiccava un’ampia retrospettiva del lavoro dell’illustratore spagnolo Isidro Ferrer, si tenevano invece nei luoghi più disparati penetrando nel tessuto pubblico e privato della città, tra gallerie, locali, spazi abbandonati e tanti tanti negozi che hanno collaborato ospitando i materiali espositivi sui loro scaffali. Di seguito un mix di foto, con qualche – ahimè – omissione, come ad esempio la personale di Giulia Conoscenti al Csa Sisma che tra una cosa e l’altra non sono riuscito a visitare.

Ufficio Misteri, collettiva Autodafé

Nicolas Zouliamis, collettiva Autodafé 

Ratigher, Sangue finto all’ex Mirionima in Piazza della Libertà

La retrospettiva su Isidro Ferrer ai Magazzini Uto

10 anni di Strane Dizioni

L’installazione di Gio Pastori

Tra un riflesso e l’altro le foto di Fontanesi da Tandem

Da Ibro la mostra di Milo, 8 anni e già artista

Lu Spiritu di Marco Taddei e Simone Manfrini alla Feltrinelli

Quelle che vedete qui sopra sono le tavole di Lu Spiritu, progetto scritto ancora da Marco Taddei, che al Ratatà è tipo Zerocalcare ma senza fila, e splendidamente illustrato da Simone Manfrini, fresco di stampa per Incubo alla Balena. L’albetto racconta una storia – storta come piace a noi – di un parroco di provincia tentato dal diavolo nelle sue diverse e soprattutto sinuose forme ed è stato uno dei titoli più acquistati alla mostra mercato. E, appunto, eccoci al cuore del festival, il Mercato delle Erbe, dove trovavano spazio i banchetti delle autoproduzioni ma non solo, dato che Ratatà ospita ormai anche realtà internazionali (citiamo per esempio gli spagnoli di Ediciones Valientes e i polacchi con base a Londra di Centrala) ed editori italiani (Eris, MalEdizioni, Hollow Press, Barta). Di seguito un po’ di foto varie ed eventuali senza modifiche o filtri, per rappresentare al meglio la realtà – a volte anche sfocata – dei fatti.

Ediciones Valientes

Doner Club

Centrala

Just Indie Comics

Bello il banchetto qua sopra, eh? Però se proprio vi devo dire la mia il tavolo che mi è piaciuto più di tutti è quello di De Press, la mini casa editrice guidata da Andrea De Franco che ha iniziato da qualche tempo a sfornare vorticosamente fumetti, albi illustrati, fanzine fotografiche e quant’altro. Al Ratatà i ragazzi di De Press erano coinvolti in due mostre, una tutta loro negli spazi dell’ex Copisteria che dava conto della gran parte della produzione del gruppo, l’altra nel negozio di fotografia Tandem dedicata invece a Fontanesi, oscuro magro di Instagram che ha visto raccolte le sue giustapposizioni di foto in vena di surrealismo in una fanzine edita appunto dal collettivo di base a Bologna. Tra le altre produzioni portate al Ratatà cito anche il recente Piccolo niente dello stesso De Franco, riuscitissimo esempio di minimalismo grafico intriso di poesia esistenzialista, un albo illustrato da Beatrice Bertaccini che mette insieme Van Gogh e i Puffi su testi di Fabio Cesaratto, il Trittico di Puccini riletto in ASCII da Chiara Polverini, una fanzine che raccoglie foto scattate da uno smartphone con fotocamera rotta ecc. ecc. Insomma, sembra una raccolta di bizzarrie ma in realtà si tratta di edizioni curate fatte con lo spirito giusto di chi vuole divertirsi e sperimentare, regalando al tempo stesso qualcosa di bello e interessante al pubblico. De Press è un progetto finalmente innovativo, d’avanguardia, sghembo come in Italia non se ne vedevano da tempo, che salutiamo con gioia aspettando nuovi pirotecnici sviluppi futuri.

Ci sarebbero tante altre cose da dire sul Ratatà ma molte sono già state dette in questa intervista agli organizzatori a cura di Andrea Provinciali, pubblicata su Minima & Moralia qualche giorno prima del festival. La quinta edizione ha confermato l’impegno degli organizzatori a interagire con la realtà di Macerata, sfociato nella parata di sabato pomeriggio per le strade del centro, e al tempo stesso la difficoltà nel portare avanti questa nobile missione. Gli eventi serali e le situazioni sociali vedono infatti la partecipazione di un pubblico vasto e interessato, che per fortuna va al di là dei soliti noti, ma una buona parte della popolazione maceratese sembra indifferente se non diffidente nei confronti del festival e dei suoi partecipanti. Nota ancora più dolente è la scarsa collaborazione delle istituzioni, che sta scoraggiando gli organizzatori a portare avanti la manifestazione. Ma sarebbe davvero un peccato, perché Ratatà è un festival unico in Italia, che non vogliamo e non dobbiamo perdere. E dunque appuntamento all’anno prossimo, speriamo.

JICBC pt. 2: “Book of Daze” di E.A. Bethea

Seconda spedizione dell’anno per il Just Indie Comics Buyers Club, l’abbonamento che dà modo di ricevere con cadenza trimestrale fumetti per lo più americani ma a volte anche europei di difficile reperibilità in Italia. Dopo il primo numero dell’antologia Now della Fantagraphics, inviato a gennaio, ad aprile toccherà a Book of Daze di E.A. Bethea, antologia monografica pubblicata alla fine dello scorso anno dalla Domino Books di Brooklyn. I più affezionati lettori di Just Indie Comics dovrebbero già conoscere il lavoro della Bethea, a cui ho dedicato ai tempi del blog, e precisamente nel luglio 2014, un articolo nella gloriosa (ben due puntate) rubrica Comics People. Allora si dava conto soprattutto del materiale apparso nella corposa raccolta Bethea’s Illustrated uscita nel 2009 per la Sad Kimono Books e nel primo numero della rivista a fumetti formato tabloid Tusen Hjärtan Stark, targata ancora Domino. Da allora la Bethea ha contribuito al secondo numero di Tusen e a svariate antologie, non solo a fumetti. Mancava però da tanto una pubblicazione interamente a suo nome e adesso è finalmente arrivata grazie alla volontà di Austin English, mente e braccio dietro Domino ed estimatore del lavoro dell’artista di Brooklyn (ma originaria di New Orleans).

Non credo ci siano tanti altri casi come questo in cui possiamo definire “unica” l’opera di una fumettista. Anzi, in questo caso non è nemmeno giusto definire E.A. Bethea semplice “fumettista”, dato che la sua scrittura al tempo stesso secca e musicale è più vicina alla letteratura e alla poesia, mentre la sua linea affilata e via via sempre meno grezza guarda al cinema e alla fotografia, con continui close-up su piccoli pezzi di mondo apparentemente insignificanti ma riempiti di volta in volta di malinconia, rabbia, meraviglia, ironia. Eppure testo e immagine dialogano, si arricchiscono l’un l’altro come accade proprio nei migliori fumetti.

In Book of Daze, che oltre a nuove opere per lo più datate 2017 raccoglie qualche pagina già vista in precedenza, non troverete storie nel senso più classico del termine, ma riflessioni, ricordi, biografie, polaroid, descrizioni, poesia beat, riferimenti letterari e cinematografici, il tutto fuso con pari dignità e spesso anche nella stessa pagina in uno stile e un registro unico, quello di E.A. Bethea. Un registro che sembra provenire dal passato, come una cartolina da un’altra America fatta di strade polverose, bar malandati, vecchie sale cinematografiche, libri tascabili, pacchetti di sigarette accartocciati e poca pochissima tecnologia. Non si tratta di materiale semplicissimo da proporre né da affrontare, non ha l’appeal scintillante di tanto fumetto a cui siamo abituati oggi, ma vi assicuro che sa affascinare. Buona lettura.

Misunderstanding Comics #10

Nuova puntata di Misunderstanding Comics, rubrica che si occupa di letture varie senza necessariamente parlarne con dovizia di particolari. Dato che siamo stanchi di novità, colgo l’occasione per recuperare qualche fumetto non proprio recentissimo.

I Never Promised You a Rose Garden è una serie a firma Annie Murphy di cui al momento sono stati pubblicati due soli numeri. La Murphy, classe 1978, è attivista queer, diplomata del Center for Cartoon Studies, autrice di una biografia di Achsa Sprague, curatrice dell’antologia Gay Genius e molto altro ancora. A vederli on line gli altri suoi fumetti sembrano più ordinari rispetto a questo, una cronaca politica e culturale incentrata sulla sua città, Portland. E anzi, I Never Promised non è nemmeno un fumetto nel senso più tradizionale del termine, dato che si tratta in realtà di un saggio illustrato, un quaderno in cui immagini sporche di inchiostro e dalle linee tremolanti si uniscono a lunghi testi trascritti a mano nella più idiosincratica tradizione del do-it-yourself.

Il primo numero, intitolato My Own Private Portland, si apre con la morte di River Phoenix e si sofferma inizialmente sulla carriera dell’attore, per arrivare ben presto alla genesi e all’analisi di My Own Private Idaho, ricca di interessanti retroscena. La Murphy descrive con abilità il clima culturale di quegli anni, la fine degli ’80, le storie di ragazzi di strada, prostituti, tossicomani che in alcuni casi avevano frequentato lo stesso liceo dell’autrice e da cui Van Sant rimase affascinato al punto da mescolarsi a loro nel quotidiano. L’eroina ha una parte importante in queste pagine, ed è solo uno dei tanti aspetti che ci fanno capire, come suggerisce il titolo, che almeno all’epoca la cosiddetta “City of the Roses” non era quella terra promessa che noi europei siamo soliti immaginare. Il primo numero si conclude con un parallelismo tra Phoenix e Kurt Cobain, ripreso senza soluzione di continuità nel secondo, in cui viene approfondita la biografia personale dell’attore e in particolare la sua educazione nella setta Children of God, dove gli abusi sessuali sui minori erano all’ordine del giorno. Murphy non risparmia nessuno, sviscera temi, fa domande, mettendo in dubbio anche l’operato di Van Sant, tacciato di “hispter racism”. Da lì si passa alla parte più politica del racconto, una rappresentazione critica del Pacific Northwest che si sofferma stavolta sui rigurgiti razzisti di una zona per tradizione tutt’altro che multietnica, come testimonia l’assassinio di Mulugeta Serraw, membro della comunità etiope di Portland ucciso nel 1988 da tre skinhead. Tra questi Kenneth “Ken Death” Mieske, personaggio noto nell’underground di strada della città dell’Oregon e fonte di ispirazione per Drugstore Cowboy. L’eco di quel fatto portò anche al processo contro Tom Metzger, militante razzista fondatore della White Aryan Resistance, documentato nell’ultima parte dello spillato.

Avrete capito a questo punto la densità dei fatti raccontati dall’autrice con scrittura piena, consapevole, dettagliata, appassionante ma mai eccessiva. La messa in scena trasuda spontaneità e ben si adatta a disegni che descrivono e a volte commentano con tono sardonico, come cartoline di un artista di strada disegnate sul momento, senza ripensamenti o rifiniture di troppo. Purtroppo non si hanno notizie se mai si vedrà un terzo numero, dato che l’ultimo risale al 2016 e che il blog dell’autrice è fermo allo stesso anno. Magari se mi decido a mandarle una mail scoprirò se questo piccolo gioiello nascosto avrà prima o poi un seguito.

Cambiamo totalmente mondo e passiamo a un autore che ha fatto del disegno – e che disegno – la sua peculiarità, dando forma a fumetti che difficilmente possono essere tradotti in soggetto, trama o semplicemente parole. Sto parlando di Walker Tate, cartoonist di Los Angeles abile nello scomporre pagine e vignette, a tracciare inusuali prospettive, ad accanirsi sui corpi con piglio cubista seppur con una linea pulita e tondeggiante. C’è qualcosa nelle sue creazioni, finora tutti comic-book autoprodotti autoconclusivi e di poche pagine, che ricorda Ruppert & Mulot, anche se non saprei dire se si tratta di un’influenza o di affinità elettiva. Del 2015 sono Waiting Room, rappresentazione di una sala d’attesa e degli oggetti che la abitano, ed Extract, storia paradossale di un uomo che decide di dividere il suo appartamento in tante porzioni diverse in modo da poterle affittare. Channel, del 2016, seguiva invece le evoluzioni di una pallina da golf. In tutti e tre i casi la trama – se così vogliamo chiamarla – era una scusa per dar vita a virtuosismi stilistici di ogni tipo, come le prospettive in movimento di Waiting Room e le scomposizioni di Extract, che interessavano prima l’appartamento (e di conseguenza la pagina) e poi il corpo del protagonista.

Ma è il più recente Procedural, uscito lo scorso anno, a cambiare le carte in tavola. I dialoghi stavolta hanno una parte importante nello sviluppo del racconto, le vignette sono regolari, il paradosso che prima ero per lo più visivo viene sviluppato in chiave narrativa. Un idraulico viene chiamato a fermare una perdita d’acqua proveniente dal soffitto, che ha costretto il proprietario di casa a portare il suo divano in un deposito. Lasciato a lavorare da solo, l’idraulico si accanisce contro la perdita senza successo, mentre il suo cliente non riesce più a trovare il divano, spostato di luogo in luogo per motivi sempre più assurdi. Nel frattempo un corriere deve consegnare delle confezioni di trota sott’olio… Lo so che detto così sembra puro nonsense, o un film di Alain Resnais, ma vi assicuro che Procedural funziona e lascia la curiosità di vedere che cosa si inventerà Tate la prossima volta.

Altra autrice che prosegue indefessa la sua ricerca stilistica è Lale Westvind, di cui avevo parlato brevemente qui in occasione del suo Hax uscito per Breakdown Press. I suoi fumetti meriterebbero ben altra attenzione di quella che gli sto dedicando io su Just Indie Comics e prima o poi sono convinto che riuscirò a parlarne meglio, magari insieme a lei. Qui mi limito a segnalare l’uscita del quarto numero di Hot Dog Beach, che trovo particolarmente interessante per una serie di motivi. Se infatti negli albi autoconclusivi e nelle storie per le antologie la Westvind adotta uno stile letterario denso e complesso, in cui il testo è spesso avvicinato all’immagine come descrizione, delirio, puro lirismo, in questa serie aperiodica autoprodotta troviamo invece uno stile più cartoon e dei dialoghi che spesso scelgono le vie della commedia.

Sia chiaro che le tematiche ricorrenti della Westvind – velocità, dinamismo, interazioni tra uomo e macchina, visioni lisergiche – rimangono costanti ma questa volta più che dalle parti di un futurismo cyberpunk siamo in un mondo alla Mad Max, con personaggi che si rincorrono senza ben sapere il perché verso la spiaggia del titolo. Ma la cosa che a me più interessa in questi quattro numeri qui è il modo in cui sono realizzati, ossia con un approccio spontaneo che non ha alle spalle una precisa pianificazione, una trama liquida che si può prendere da qualsiasi punto senza aver necessariamente letto il resto, i disegni che cambiano di volta in volta stile (e non potrebbe essere altrimenti, dato che il primo numero è datato 2010 e l’ultimo è dell’anno scorso). Anche la storia si evolve, inizia in un modo e prosegue in un altro, accelera, rallenta, riparte, prende deviazioni, tanto che probabilmente potrebbe durare all’infinito, soprattutto se l’autrice continuerà a costellarla di momenti visionari come le due spettacolari sequenze onirico-psichedeliche di questa quarta uscita. Hot Dog Beach ci riporta ai tempi in cui i fumetti non erano una cosa così seria e si poteva anche decidere di pubblicare qualcosa a puntate senza preoccuparsi della futura raccolta in volume. Ed è per questo una vera boccata di ossigeno.

Concludiamo con un’altra donna, se così si può dire, dato che Laura Pallmall è in realtà lo pseudonimo di Jason Lee, cartoonist (e non solo) trasferitosi di recente da Los Angeles – che rimane comunque lo scenario di riferimento dei suoi fumetti – a Pittsburgh. Lee pubblica da qualche tempo la serie di fanzine Nothing Left to Learn, caratterizzate dall’approccio do-it-yourself e dalla libertà con cui vengono messi insieme saggi, fiction, illustrazioni, poesie e ovviamente fumetti, come testimonia l’omonimo Tumblr. Nell’ambito del progetto ha trovato spazio anche una sotto-serie chiamata Sporgo e attribuita a tale Laura Pallmall, di cui sono usciti due numeri “rilegati” con l’elastico e caratterizzati da un tratto crudo, a volte sin troppo elementare nella sua semplicità, e da una divisione della tavola regolare.

Sporgo #1 si apre con Picaresque, realizzato per la Comics Workbook Composition Competition del 2015 e scelto tra i migliori fumetti dell’anno nell’ultima edizione di The Best American Comics, 16 pagine che rappresentano al momento il vertice dell’ancora limitata produzione dell’autore/autrice. L’apertura è un sogno dai contorni horror, che ci cala subito in un’atmosfera plumbea, oppressiva, angosciante. A pagina 2 un uomo viene svegliato dal suono del campanello, è un suo amico che è andato a trovarlo. Dal dialogo tra i due capiamo che il protagonista riempie le sue giornate di nulla, impegnato più che altro a comprare il cibo e a preparare i pasti per i vicini, che hanno deciso di passare la luna di miele chiusi in casa per smettere di fumare. Fuori le strade sono deserte, c’è solo un opossum sdraiato sul marciapiede che si dà per morto, oppure che è morto davvero. Doveva piovere quel giorno ma il sole continua a splendere. Forse prima o poi succederà qualcosa ma intanto si sta buttati sul divano o in strada, mentre si avvicina la notte. Non vi racconto tutto tutto anche perché c’è poco da raccontare ma il nulla di cui è fatta questa piccola riuscitissima storia risuona nella mente del lettore e lo avvolge in una spirale di inchiostro sempre più nera fino al suo notturno finale. E un’ombra nera, stavolta in senso non metaforico, è protagonista di From Eden to Hill, secondo racconto dell’albo, una ghost story meno efficace della precedente e che per trasmettere inquietudine sceglie strade non così originali. Eppure l’assonanza di temi e situazioni dà unità al tutto creando un corpus unico. Sporgo #2, pubblicato nel 2017 a due anni di distanza dal precedente, non si allontana molto da queste coordinate e segna l’inizio di una storia lunga intitolata Pyramid Inch, incentrata su un giovane filmmaker impegnato a scrivere sceneggiature puntualmente lasciate a metà. Anche qui mare, palme e grattacieli costituiscono lo sfondo di una vicenda che dal reale scivola nell’onirico, con sequenze simili a quelle già viste in From Eden to Hill. In più qui troviamo riflessioni sull’industria culturale che nei dialoghi finali dell’albo assumono quasi i contorni del saggio. Pur con qualche approssimazione nel disegno, Pyramid Inch si fa leggere con curiosità e lascia un senso di inquietudine e paranoia che è vera cifra stilistica.

Just Indie Comics Day a Roma

Dopo il festival dello scorso giugno, continua la collaborazione tra Just Indie Comics e lo studio Co-Co con una giornata dedicata al fumetto underground. Il nuovo evento, che si terrà sabato 24 febbraio a Roma dalle 16 alle 21 in via Ruggero d’Altavilla 10 (zona Pigneto), si chiama Just Indie Comics Day ed è organizzato insieme al Crack! festival, con Valerio Bindi che alle 19 presenterà Daniel Benitez, fumettista messicano classe 1990 oltreché editore di WorstSeller Ediciones. L’incontro si incentrerà in particolare sull’ultima fatica di Daniel, l’albetto Puto el ce lo lea, pubblicato in spagnolo con traduzione inglese allegata e firmato con lo pseudonimo di Dr. Intransferible. Inoltre saranno disponibili per la prima volta una serie di novità della distribuzione di Just Indie Comics, da Twilight of the Bat di Josh Simmons e Patrick Keck ai fumetti di Lale Westvind, dagli albi autoprodotti di Laura Pallmall alle ultime novità targate kuš!.

Anche se vede come protagonista il fratello dell’autore, Puto el ce lo lea racconta in realtà una storia corale, che guarda non solo alla famiglia di Daniel ma all’intero sobborgo di Città del Messico dove è ambientata. Non c’è una trama nel senso più tradizionale del termine ma piuttosto una serie di personaggi che passano da una situazione all’altra, tra scherzi, risse, feste in giardino, concerti punk. Temi come la violenza di strada e la famiglia disfunzionale sono rappresentati con un tratto leggero e cartoon, i colori sono irreali nei toni del blu e del fucsia, l’approccio ironico tiene lontano ogni dramma. Anche l’inserto El Chorri, spillato all’interno dell’albo, rafforza la dimensione corale del fumetto con la descrizione del personaggio omonimo, in sostanza un tossico del posto fissato con la forma fisica e, come ci informa l’autore nelle note, appassionato di colla (da sniffare).

Oltre che dei fumetti di Daniel si parlerà anche delle altre produzioni WorstSeller, una piattaforma creata da Daniel insieme a Anahi Hernández Galaviz e dedita non solo alla pubblicazione di fanzine e fumetti, ma anche all’organizzazione di workshop, festival e altri eventi legati al mondo del fumetto e dell’arte. L’uscita finora più importante è stata Zine Censura: Fanzine Makers from Mexico, un catalogo del primo festival di WorstSeller del 2015, in cui vengono presentate le opere di oltre 50 artisti della scena alternativa messicana sul tema della censura. Il libro è stato anche protagonista di una mostra alla DobraVaga, una galleria d’arte di Lubiana, in Slovenia.

Anche le altre produzioni WorstSeller saranno ovviamente disponibili per l’acquisto, oltre ai libri editi da Crack! e Fortepressa, come La Caïda e Coyota di Juliette Bensimon Marchina, e le pubblicazioni di Studio Co-Co con Dio di me stesso di Alessandro Galatola (edito insieme a Just Indie Comics in occasione del festival dell’anno scorso) e fumetti e stampe di Serena Schinaia.

Ma vediamo adesso nel dettaglio i titoli della distribuzione che saranno disponibili in anteprima per l’evento, con il bookshop che sarà aperto dalle 16 fino alle 21. Iniziamo da un bel carico di novità dalla Lettonia, con le ultimissime uscite di kuš!, ossia il #31 dell’antologia š! intitolato Visitors e i nuovi mini a firma Abraham Diaz (altro fumettista messicano, di cui avevo già parlato qui in occasione del suo Suicida), Pedro Franz, Francisco Sousa Lobo e Roman Muradov. E con l’occasione potrete anche trovare le altre recenti pubblicazioni di kuš!, ossia il #30 di š! tutto dedicato ai fumettisti di Brooklyn, i volumi Fearless Colors di Samplerman e Fenix di Zane Zlemeša, gli altri quattro mini di Paula Bulling/Nina Hoffmann, Noah Van Sciver, Tomasz Niewiadomski, Aidan Koch.

Dagli USA e precisamente da Seattle arrivano invece le produzioni Cold Cube Press, a partire dall’antologia di fumetto, illustrazione e poesia Cold Cube 003, tutta stampata in risograph e ricca di contenuti di grande impatto visivo. Sempre da Cold Cube è edito Twilight of the Bat, ossia il bel bootleg di Batman scritto da Josh Simmons e disegnato da Patrick Keck di cui ho già parlato in questa recensione.

Dall’ovest degli States passiamo a est con due autori che mi piacciono molto e che da tempo volevo portare in Italia, almeno con i loro fumetti. Di Lale Westvind avevo già distribuito (e recensito in questa puntata di Misunderstanding Comics) il suo Hax pubblicato da Breakdown Press. Adesso sono finalmente disponibili alcuni dei suoi fumetti autoprodotti, ossia l’albo in edizione limitata di 300 copie Mary e i numeri dal 2 al 4 di Hot Dog Beach. Se non conoscete ancora lo stile unico, denso, visionario, cyberpunk e ballardiano della Westvind magari è l’occasione giusta per farlo, dato che i suoi fumetti si distinguono con facilità da quasi tutto ciò che siamo abituati a vedere oggi.

E chiudiamo dunque con Laura Pallmall, cartoonist statunitense al momento poco conosciuta ma da tenere d’occhio. La fanzine Sporgo, di cui saranno disponibili i due numeri usciti finora, mette insieme rigorosità e sporcizia, come più o meno scrivevo parlando della sua storia breve Picaresque, selezionata per l’antologia The Best American Comics 2017. Proprio Picaresque è il piatto forte di Sporgo #1, mentre il secondo numero segna l’inizio della storia lunga Pyramid Inch, ambientata a Los Angeles e con protagonista un giovane filmmaker.

E con questo è tutto, non vi resta che venirci a trovare al Just Indie Comics Day e magari ingannare l’attesa dando un’occhiata alla pagina Facebook dell’evento, dove trovate altre immagini e notizie.

“Twilight of the Bat” di Simmons & Keck

La rilettura del fumetto di supereroi in chiave underground e spesso satirica è un filone che ha sempre trovato spazio nella scena alternativa statunitense, cosa piuttosto scontata vista la rilevanza culturale, simbolica ed economica delle produzioni Marvel e Dc Comics oltreoceano. Al tempo stesso, soprattutto dalla metà degli anni ’80, si è sviluppata la tendenza a rielaborare con un approccio problematico e spesso sin troppo drammatico la figura del supereroe, a partire da due pietre miliari che ovviamente non vi devo ricordare io ma che cito giusto per chi è capitato su questo sito mentre cercava informazioni sui comici indiani, ossia The Dark Knight Returns di Frank Miller e il Watchmen di Alan Moore e Dave Gibbons. Proprio all’incrocio di queste due tendenze, una satirica l’altra iperrealistica, si pone Twilight of the Bat, un albetto di 20 pagine realizzato dal Josh Simmons di Black River, che qui pensa alla storia, e da Patrick Keck, autore invece dei disegni, e pubblicato alla fine dello scorso anno dalla casa editrice e tipografia di Seattle Cold Cube Press. E che ho ingiustamente omesso dalla mia classifica di fine anno, ma solo perché mi è arrivato troppo tardi, quando il 2017 era già bello che finito.

Per essere più specifici Twilight of the Bat si posiziona esattamente all’incrocio tra esperimenti come Coober Skeber #2, albo del 1997 targato Highwater Books in cui autori come Mat Brinkman, Brian Chippendale e Ron Regè Jr. rileggevano in un bianco e nero lontanissimo dai colori sparati dei comic-book i supereroi (Marvel in quel caso), e l’approccio problematico alla figura dell’uomo pipistrello che è stato ben sviscerato nel già citato Dark Knight di Miller, in The Killing Joke di Moore e Bolland e nell’Arkham Asylum di Grant Morrison e Dave McKean. Proprio questo sincretismo è la forza dell’albo, in sostanza un Elseworld non autorizzato capace in 20 pagine di suggestionare il lettore come capita davvero raramente, soprattutto se si tratta di un lettore come me, cresciuto con i fumetti di supereroi classici per poi passare a quelli più maturi e quindi spostarsi progressivamente verso territori completamente diversi. In un albo come Twilight of the Bat c’è tutto quello che mi è sempre piaciuto di più e soprattutto ciò che mi piace trovare oggi nei fumetti di genere, ossia un approccio alla materia consapevole, maturo, che pone delle domande ma che è anche divertente, satirico, dissacratorio e mai troppo serioso o drammatico.

Ma veniamo all’albo vero e proprio, partendo innanzitutto dal titolo, che sembra rimandare vagamente a Twilight of the Superheroes, la sceneggiatura di Alan Moore mai realizzata, e più direttamente allo stesso Mark of the Bat, un altro bootleg di Simmons (lì sia ai testi che ai disegni) sulla figura dell’uomo pipistrello. L’ambientazione è post-apocalittica, quasi un’autocitazione dell’autore al suo Black River, con un Batman ancor più vecchio di quello di The Dark Knight, ridotto a un barbone che passa le notti al freddo senza sapere cosa fare della sua vita. Suo solo compagno è il nemico per eccellenza, qui ribattezzato Joke Man, forse l’unica altra persona rimasta viva sulla terra. Batman gli dice di aver girato per mesi dopo le non meglio definite esplosioni che hanno ridotto G—— City e dintorni (o il mondo intero?) a brandelli e di non aver incontrato nessuno, e a un certo punto realizza “Everyone’s dead… Everyone except you and me”, con il Joker che gli mette una mano sulla guancia e lo bacia chiosando “We’re the luckiest boys in the world”. Ma il vecchio Bruce non si arrende e cerca disperatamente altri segni di vita, soprattutto quando una mattina trova vicino al suo giaciglio dei cupcake lasciati da non si sa bene chi, evento che accoglie con un entusiasmo persino eccessivo. Da lì in poi si sviluppano una serie di situazioni paradossali tra i due protagonisti, che includono sarcasmo, balletti, botte, amputazioni e merda. Ovviamente non vi anticipo il finale, perché vale la pena leggerlo, come vale la pena godersi i disegni di Keck, in un bianco e nero denso e a tratti suggestivo nella rappresentazione della Gotham apocalittica, mentre la padronanza delle espressioni facciali aggiunge verve satirica e assicura grosse risate. E tuttavia alla fine rimane una sensazione di amarezza, forse perché, pur nell’irrealtà dei personaggi, dei luoghi e delle situazioni, non è poi così difficile identificarsi con la disperazione esistenziale di quel Batman lì.

“M” e “N” di Andrew White

Andrew White è un cartoonist statunitense che da qualche anno continua a pubblicare con costanza e dedizione i suoi fumetti in autonomia o per piccole case editrici. Allievo della scuola di Frank Santoro nonché uno delle firme “critiche” dietro il magazine Comics Workbook, il giovane fumettista classe ’90 lavora spesso dietro costrizioni formali mai fini a se stesse ma utili per fare emergere i temi preferiti, creando una poetica intimista e riflessiva che guarda alla teoria della “griglia” fissa di Santoro e ai comics-as-poetry. Tra i suoi progetti ricordiamo per esempio While a Soft Fog Wanders, fumetto totalmente muto che lavora per associazioni di idee tra immagini di indiscutibile suggestione, il duetto letterario For Lives e Read and Erase incentrato sulla vita di Gertrude Stein, il recente All There Is ossia una fanzine che con testi, diagrammi e disegni esamina il Ganges di Kevin Huizenga. Diverse cose le trovate anche online sul suo sito internet, sul suo Tumblr e sulla piattaforma zco.mx, dove si può leggere per esempio il recente Reflections, ulteriore conferma di quanto White si interroghi come pochi altri su cosa significa fare fumetti.

Tra il 2016 e il 2017 White si è autoprodotto il dittico M e N, che ho trovato interessante tanto da decidere di portarlo in Italia distribuendolo attraverso il webshop di Just Indie Comics. Iniziamo dal primo albo del 2016, uno spillato di 44 pagine che contiene tre racconti brevi. Il primo è Clogged Drains, Forgotten Words, una storia della breve relazione tra due uomini, M appunto e Leo, i cui punti di vista vengono proposti a pagine alterne, seguendo una griglia di 12 vignette che lascia spazio ad alcune aperture rompendosi completamente nel finale. L’autore è qui bravissimo nel giustapporre le due prospettive, lasciando libero il lettore di identificarsi con la freddezza di M o con i sentimenti di Leo, prendendosi poi la responsabilità di non lasciare il finale aperto ma scegliendo nelle due tavole conclusive il punto di vista del personaggio più debole. Tutto funziona in questo breve ma intenso fumetto, a partire dai colori tenui pastello, che contribuiscono a rendere indefiniti i contorni di una vicenda ormai lontana nel tempo, fino al testo che spesso riempie intere vignette e che è denso delle suggestioni poetiche tipiche dei fumetti di White, dotato di una prosa secca e senza fronzoli capace di trasmettere emozioni.

La successiva Timeline cambia registro raccontando la vita di un uomo “che galleggia attraverso gli anni, evitando le emozioni per alleggerire il suo peso” in sole 15 tavole caratterizzate da un approccio stilistico del tutto diverso, la pagina utilizzata per disporvi liberamente finestre colorate e linee bianche, una scelta formale ancora mirata ma stavolta lontana da regole troppo stringenti.

Terzo racconto, A Long List of Good Reasons Why Not, e nuovo diverso approccio, una tendenza al caos e a volte allo scarabocchio che non ci si preoccupa di tenere a bada, utile per esprimere sentimenti contrastanti e soprattutto la difficoltà e la goffaggine nell’affrontare situazioni reali come ambientarsi in un nuovo contesto, cambiare lavoro, far accettare la propria omosessualità ai familiari. Nonostante le diverse scelte grafiche e stilistiche alla fine M è un lavoro coeso, anche grazie ai collegamenti tra i diversi episodi, con Leo che sembra quantomeno assomigliare al protagonista del secondo racconto e lo stesso M al centro del terzo insieme al collega e poi compagno Bernard.

La coppia M-Bernard è protagonista assoluta delle prime tre storie di N, gemello dell’albo precedente per pagine e formato. Difficile analizzare separatamente questo trittico, che approfondisce i temi del ritorno a casa, della famiglia, di quanto sia difficile rapportarsi e raccontarsi agli altri, a volte in maniera più metaforica – come nell’iniziale Nowhere – altre in modo più diretto, come accade in Not For Long, in cui l’incompiuto protagonista raggiunge finalmente una sorta di maturazione. Il cuore è ancor di più l’incapacità di parlare della propria omosessualità ai familiari, il tono è sempre sommesso, mai drammatico. La centrale Nightly è invece un intermezzo domestico che poco aggiunge al resto. Lo stile di queste tre storie è del tutto omogeneo, con vignette dallo sfondo monocolore che alternano verde, blu scuro e arancio con qualche variazione di tonalità.

La conclusiva Nine Billion Grains of Sand si discosta invece dal resto dell’albo utilizzando di nuovo colori pastello, linee sfocate e una griglia fissa di 2 x 3 vignette, proponendosi come gemella della prima storia di M anche nella tematica del confronto fra due personaggi e chiudendo dunque il cerchio. White sceglie di chiosare sui temi più che sulla semplice narrazione, facendoci assistere a un tentativo di ideale riscatto del personaggio deluso di Clogged Drains, Forgotten Words ma in uno scenario post-bellico, quasi astratto.

Nel complesso meno riuscito dell’albo precedente, anche per qualche passaggio a vuoto nella rappresentazione della figura umana (al momento un punto debole dell’autore, soprattutto quando decide di utilizzare un tratto più definito), N conferma comunque White come una delle voci più interessanti della scena nordamericana contemporanea, sia per contenuti che per la tenace volontà di perseguire la propria poetica al di fuori di ogni corrente e moda.