Il meglio del 2017 (forse)

Si sa che le liste di fine anno sono un esercizio stupido e i motivi sono molteplici e talmente scontati che non vale nemmeno la pena elencarli. Quest’anno avevo giurato di risparmiarmi questa simpatica tradizione ma, complice la febbre che mi ha preso a cavallo tra Natale e Capodanno, alla fine ho deciso che no, non potevo farne proprio a meno. Il mio principale rammarico è di non essere riuscito a leggere veramente tutto quello che avrei potuto e quindi ho probabilmente in libreria (o negli scatoloni, o nei cassetti della biancheria ma vabbè, questa è un’altra storia) albi o volumi ancora intonsi che avrebbero meritato di entrare in questa lista. Ma alla fine la vita va anche vissuta, non solo letta.

Dopo questa pillola di saggezza, e dopo aver ribadito come sempre che ogni lista di questo genere è innanzitutto condizionata dai pregiudizi di chi la fa (e nel mio caso dal fatto che l’86% dei fumetti che leggo sono americani), rompo il ghiaccio con due titoli decisamente fuori dal comune di due mostri sacri dei comics (e non solo), entrambi pubblicati da Fantagraphics Books. Gary Panter ha dato fine alla sua trilogia dantesca con un libro sul Paradiso che non vede però più protagonista Jimbo ma un hillbilly di nome Songy. Songy of Paradise è come i precedenti Jimbo’s Inferno e Jimbo in Purgatory un volume di grande formato ma poche pagine (si tratta di sole 32 tavole) che con illustrazioni ariose e quasi pulite per lo standard dell’autore coverizza il poema di John Milton Paradiso riconquistato. Un fumetto pazzo, apparentemente esile ma fortemente politico, che fa piazza pulita di ogni distinzione tra arte alta e bassa e dentro cui ci si perde con estrema facilità.

Altro libro che guarda oltre i confini del medium è Whatsa Paintoonist di Jerry Moriarty, sin dal titolo una fusione tra “painter” e “cartoonist”, come conferma l’alternanza tra pagine con grezzi disegni a inchiostro e splendidi dipinti a colori nella tradizione di Hopper e del realismo americano. Il volume è una sorta di testamento artistico e spirituale in cui il quasi 80enne Moriarty guarda ancora una volta alla sua storia personale e all’evento che più di tutti l’ha segnata, la morte del padre avvenuta quando il Nostro aveva soltanto 13 anni. Riletto insieme al volume del 2009 The Complete Jack Survives (raccolta delle strisce ironiche e al tempo stesso amare pubblicate su Raw negli anni ’80, purtroppo di difficile reperibilità), Whatsa Paintoonist risulta ancor più potente e fondamentale.

In un anno in cui le classifiche d’oltreoceano sono dominate da My Favorite Thing is Monsters di Emil Ferris, che personalmente mi ha lasciato più di qualche perplessità, scelgo piuttosto un’altra fumettista tra i primissimi nomi di questa lista: Everything is Flammable di Gabrielle Bell (Uncivilized Books) è uno dei suoi lavori migliori di sempre e racconta, con una maturità e una consapevolezza mai viste prima, il recente periodo in cui la protagonista-autrice si è dovuta relazionare costantemente alla madre. Una gradita conferma è Fante Bukowski Two di Noah Van Sciver (ancora Fantagraphics), molto più divertente del primo, a tratti esilarante, a volte anche profondo (ne avevo parlato brevemente qui).

Tra i tanti bei libri pubblicati da Koyama Press, ne spiccano a mio parere due: Anti-Gone di Connor Willumsen e Old Ground di Noel Freibert, che avevo letto in anteprima in pdf e di cui già vi dicevo qualcosa parlando dei 10 fumetti della Small Press Expo 2017. Se vi siete stufati di leggere sempre la stessa roba e cercate un po’ di cartooning originale qui lo troverete, con il primo dei due che in particolare riesce a sintetizzare le tendenze di tanto fumetto post-fantascientifico contemporaneo (quello, per capirci, di antologie come Mould Map #3, Dôme, Berserker o di etichette come Decadence Comics).

Oppure potreste rivolgervi all’olandese Michiel Budel e al suo Francine, di cui parlavo sempre in occasione della SPX. La raccolta delle sue “franzine” data alle stampe dall’americana Secret Acres è già un cult con la sua monella protagonista e le altrettanto dinoccolate amiche, intente a riempire le serratissime vignette di scherzi al di sopra ogni decenza, trovate assurde, stramberie metanarrative. Qualcosa di simile fa anche August Lipp nel suo Roopert, albetto uscito verso la fine dell’anno per Revival House Press, uno di quei fumetti pazzi che piacciono tanto a me, con personaggi cartoon apparentemente innocui che ne combinano di tutti i colori finendo per allagare la scuola in un fiume (letteralmente) di merda.

Altra novità di fine anno è Sunday #1, il nuovo comic-book di Olivier Schrauwen, primo capitolo del nuovo progetto del fumettista belga, che si propone questa volta di raccontare l’intera giornata del fantomatico cugino Thibault Schrauwen. Qui leggiamo soltanto cosa succede dalle 8.15 alle 10.15 quindi la strada è ancora lunga, ma già il livello è altissimo, con la solita incredibile abilità nel mettere in pagina i ghirigori mentali dei personaggi.

Mi rendo conto dalle mie scelte che preferisco sempre più i fumetti con una logica tutta loro, autoreferenziali, chiusi in se stessi. E allora come posso non citare Iceland di Yuichi Yokoyama, che Retrofit Comics ha meritevolmente proposto al pubblico americano? L’enigmatica storia ambientata tra i ghiacci crea suspense, costruisce mistero e regala un paio di sequenze cinematiche da ascrivere agli annali. Ah, per chiudere, dopo un giapponese, ecco un messicano, ossia Abraham Diaz, che quest’anno ha fatto anche una puntata in Italia. Tempo fa avevo parlato del suo Suicida, ora alcuni di quei fumetti, insieme ad altro materiale, sono stati pubblicati dalla spagnola Ediciones Valientes in Tonto, un volume bilingue pirotecnico per scelte grafiche e tipografiche, che rende giustizia agli sberleffi underground e alle linee impazzite dell’autore.

Veniamo adesso alle antologie. La migliore dell’anno viene ancora dai francesi di Lagon, che se all’inizio del 2016 ci avevano deliziato con Dôme, nel gennaio scorso hanno fatto uscire Gouffre, 300 pagine di roba talmente bella che fate prima a vederla qui. Il 2017 ha segnato anche il debutto della nuova antologia della Fantagraphics, Now, il cui #1 ha mantenuto le promesse grazie a nomi noti e meno noti (per la cronaca i due lavori più significativi all’interno mi sembrano quelli di J.C. Menu e Noah Van Sciver). E speriamo che il livello qualitativo continui a crescere nei prossimi numeri, dato che nel 2018 dovremmo vederne ben tre.

Non so se possa essere considerato giusto mettere una raccolta di materiale pubblicato tra il 2015 e il 2016 in questa lista, ma The Best American Comics 2017 è per larghi tratti una vera bomba e il perché l’ho spiegato in questo post. A proposito di raccolte di materiale già pubblicato, la citazione è d’obbligo per l’operazione da vero archeologo del self-publishing messa in piedi da John Porcellino, che ha ristampato gli oscuri e ormai introvabili primi numeri della fanzine di Jenny Zervakis nel volume The Complete Strange Growths 1991-1997. Anche di questo avevo già parlato in un’apposita recensione. Archeologia transcontinentale è invece quella della New York Review Comics che ha recuperato i fumetti risalenti agli anni ’70 della francese Nicole Claveloux dandogli meritata pubblicazione oltreoceano. The Green Hand and Other Stories, con grafica e introduzione di Daniel Clowes, è particolarmente rilevante per la storia che gli dà il titolo, scritta dalla fumettista insieme a Edith Zha e pietra miliare del fumetto onirico/psichedelico/introspettivo.

Infine, come non citare Monograph di Chris Ware? Il volume formato gigante (ma davvero gigante, dato che pesa più di 3 kg ed è alto quasi 50 cm) è più un libro sui fumetti che un’antologia vera e propria ma va da sé che non può mancare nella collezione di qualsiasi appassionato di Ware con i suoi dietro le quinte, le riflessioni, gli inediti, gli sketch, le foto, gli estratti e addirittura gli inserti in formato mini-comic.

Siamo dunque arrivati a 17 fumetti e qui mi fermo, perchè 17 per il 2017 è perfetto per me che sono un amante della simmetria. Ma non è finita qui, perché il dovere mi impone di dare un’occhiata anche a quanto successo in Italia. Non sono un patriota né l’esperto numero uno dell’editoria nostrana quindi se dimentico qualcosa, cari amici in ascolto, abbiate pietà. E se c’è un’altra cosa di cui non sono esperto è il fumetto giapponese, ma su internet ognuno può dire la sua e quindi ne approfitto per dichiarare che l’evento editoriale dell’anno è stata la pubblicazione da parte di Canicola de L’uomo senza talento di Yoshiharu Tsuge, semplicemente un capolavoro del fumetto di sempre. Punto. Altre due operazioni editoriali degne di nota sono state poi le traduzioni di due fumetti che erano nei miei Best Of degli anni passati (rispettivamente 2014 e 2015) e a cui ho dedicato più di qualche riflessione da queste parti, ossia I dilettanti di Conor Stechschulte portato in Italia da 001 Edizioni e Colville di Steven Gilbert pubblicato da Coconino Press. Già dovreste sapere tutto ma ai più disattenti segnalo l’intervista a Stechschulte pubblicata in occasione della sua mostra al BilBOlbul di quest’anno, la recensione di Colville scritta a suo tempo da Ratigher su queste pagine e l’intervista a Gilbert che di recente ho tradotto in italiano. Se non li avete ancora letti, prima pentitevi e poi correte in edicola. E a proposito di BilBOlbul, a Bologna quest’anno c’era anche una ricchissima mostra dedicata al belga Eric Lambé, autore insieme a Philippe de Pierpont di Paesaggio dopo la battaglia, libro che sembra nelle premesse eccessivamente melodrammatico (cosa che spesso mi tiene a debita distanza) ma che invece traduce la tensione in un paesaggio interiore di indiscutibile bellezza, profondità e simbolico mistero, risultando tutt’altro che scontato e consolatorio. Da non perdere, sperando che sia il primo di tanti libri Frémok ad arrivare qui da noi, perché se c’è un editore che ha spinto il fumetto europeo oltre i suoi limiti è senz’altro questo (va detto a onor di cronaca che Paysage era una coproduzione con Actes Sud).

Sempre Coconino, che difficilmente poteva iniziare meglio il suo nuovo corso editoriale, ha dato luogo a un paio di operazioni di recupero davvero notevoli, prima ristampando, con l’aggiunta di inediti mai visti in Italia, le Storie di David Mazzucchelli risalenti ai tempi di Rubber Blanket (e una raccolta del genere non ce l’hanno nemmeno negli USA), poi portando finalmente da noi Patrice Killoffer con 676 apparizioni di Killoffer, che qui definivo “un viaggio dentro la paranoia, la misoginia e le ossessioni del protagonista rappresentato con un susseguirsi di trovate grafiche geniali”.

Visto che siamo in tema di recuperi, come non citare anche il primo volume dell’American Flagg! di Howard Chaykin, che torna in Italia dopo la prima pubblicazione sulla storica All American Comics della Comic Art? Se pensate che Frank Miller con The Dark Knight Returns si sia inventato tutto ma proprio tutto tutto, guardate e leggete questa roba qui e poi ne riparliamo. Ah, certo, la carta scelta da Editoriale Cosmo per l’edizione non è il massimo e il volume dopo un po’ sembra il mare della California ma vabbè, devo dire che si è visto di peggio. E’ invece un’edizione identica all’originale quella di Oblomov per Quimby The Mouse di Chris Ware, che raccoglie materiale dei primi anni ’90 tratto da Acme Novelty Library e da altre pubblicazioni in cui l’autore unisce la solita passione per introduzioni magniloquenti, colophon interminabili e false pubblicità con memorie di infanzia e riletture di genere, utilizzando uno stile ripreso per lo più dalle strip alla Krazy Kat ed elevato a pura ingegneria a fumetti. Peccato per qualche refuso di troppo, che non compromette la lettura ma che comunque sarebbe stato meglio evitare in un’edizione di tale pregio.

Ok, mi rendo conto di non aver scelto nemmeno un titolo di autori italiani ma non è stato a mio parere un grande anno per le opere made in Italy, o forse sono io che in quasi tutte quelle che ho letto ho trovato motivi di insoddisfazione. Due per me sono nettamente una spanna sopra le altre, e si distinguono per aver scelto modi altri per raccontare una storia, al di fuori di ogni tentazione di linearità (e a volte banalità). The Rust Kingdom di Spugna, edito da Hollow Press e già segnalato tra i 10 fumetti di Lucca Comics, è una potente mazzata in stile cartoon underground in cui l’autore si fa strada tra pezzi di carne maciullata per costruire un’avvincente trama post-fantasy con tanto di colpo di scena finale.

Cry Me a River di Alice Socal, edito da Coconino, è a sua volta un libro chiuso in se stesso, che si concentra però non sui corpi ma sulle emozioni dei protagonisti, una coppia colta nel momento della fine dell’amore. La sofferenza e le lacrime si trasformano in splendidi e visionari disegni, in un’opera che ci ricorda quello che si può fare con il fumetto. E a questo punto è tutto, buon 2018 e saluti a casa.

Torna il Buyers Club con “Now” #1

La terza edizione del Just Indie Comics Buyers Club si apre con il primo numero di Now, l’antologia pubblicata da Fantagraphics che al suo debutto mette insieme il meglio del fumetto americano e non solo, con sostanziosi contributi di autori come Eleanor Davis, Dash Shaw, J.C. Menu, Noah Van Sciver, Tommi Parrish, Daria Tessler, Malachi Ward & Matt Sheean, Antoine Cossé e fugaci apparizioni di fuoriclasse come Sammy Harkham e Gabrielle Bell. “Voglio realizzare un’antologia che sembri invitante per un lettore occasionale di fumetti ma che al tempo stesso lo sfidi man mano che va più a fondo – scrive l’editor Eric Reynolds nell’introduzione – Voglio promuovere un revival della storia breve nell’era dei graphic novel. Voglio dare spazio a una raccolta di cartoonist e di fumetti più eterogenea possibile, una che fornisca un ampio spettro di ciò che il medium è in grado di offrire”. Una missione, questa, che è facilmente assimilabile a quella del Buyers Club, ossia dare diffusione a segni, storie, stili e generi che si vedono poco in Italia, favorendo il buon vecchio comic book, o anche l’antologia appunto, rispetto al più inflazionato formato del graphic novel.

Per chi ancora non lo sapesse, il Just Indie Comics Buyers Club è un abbonamento che ho lanciato nel 2016 per sostenere il negozio on line in cui distribuisco materiale americano difficilmente reperibile in Europa, oltre che vari prodotti italiani ed europei di case editrici e micro-realtà a me affini. La formula è la stessa degli anni passati e dunque mi limito a ribadire quanto già detto. Chi aderirà entro il prossimo 10 gennaio riceverà uno o due fumetti ogni tre mesi, a seconda della tipologia di abbonamento scelto, e avrà inoltre diritto a uno sconto del 10% su tutto il materiale ordinato dal sito nel corso del 2018 tramite un apposito codice promozionale che verrà comunicato via mail. La prima spedizione sarà a gennaio, le successive ad aprile, luglio e ottobre. I fumetti saranno per lo più americani, a volte europei, ma sempre e comunque in lingua inglese. Come accennato, esistono due soluzioni per aderire al Just Indie Comics Buyers Club. La prima, quella più economica, viene 40 euro e dà diritto a ricevere un albo a trimestre, spese di spedizione tramite piego di libri ordinario incluse. La seconda, che invece è la versione estesa dell’abbonamento, consentirà di avere in ogni invio due fumetti, per un totale di otto albi annui, e costa 70 euro, con la spedizione sempre inclusa. Se invece della spedizione ordinaria preferite quella tracciata tramite raccomandata, basta segnalarlo al momento del checkout dell’ordine, anche se chiaramente ci sarà un surplus da pagare.

Come lo scorso anno, i fumetti della formula Small saranno uguali per tutti e verranno annunciati e presentati sul sito. I sottoscrittori Large avranno lo stesso fumetto degli Small più un altro che potrà variare da abbonato ad abbonato. Potrete trovare degli spillati di piccolo o grande formato, volumi, volumetti, antologie, tabloid e così via, pubblicati da piccole case editrici indipendenti o autoprodotti. E ovviamente sono aperto a vostri suggerimenti, richieste e idee di ogni tipo o quasi.

Per farvi capire qual è il materiale che vi aspetta se decidete di entrare nel club, ecco il dettaglio dei fumetti inviati durante questo 2017. Blammo #9 di Noah Van Sciver, Get Out Your Hankies di Gabrielle Bell, Our Mother di Luke Howard e i mini kuš! #55-58 a firma GG, Andrés Magán, Evangelos Androutsopoulos e Patrick Kyle sono stati gli albi spediti a tutti. Quelli variabili per gli abbonati formato Large sono stati invece Harold di Antoine Cossé, Hellbound Lifestyle di Alabaster Pizzo e Kaeleigh Forsyth, King-Cat #77 di John Porcellino, l’antologia The Black Hood, Lovers in the Garden di Anya Davidson, Dark Tomato di Sakura Maku, Space Basket di Jonathan Petersen, Tintering di Conor Stechschulte, World in the Forcefield di Alexander Tucker, Freddy Stories di Melissa Mendes, Libby’s Dad di Eleanor Davis, Port Stanley di Steven Gilbert, Face Man di Clara Bessijelle.

Qui sotto trovate i link per abbonarvi. Ripeto, se vi interessa affrettatevi perché sarà possibile aderire SOLTANTO FINO AL 10/01/2018. L’offerta con queste modalità è valida per i soli residenti in Italia, se invece siete residenti all’estero e siete interessati potete contattarmi a justindiecomics [at] gmail [dot] com e vedrò cosa si può fare.

JUST INDIE COMICS BUYERS CLUB LARGE

JUST INDIE COMICS BUYERS CLUB SMALL

Un pomeriggio con Steven Gilbert

(English text)

Steven Gilbert è un cartoonist canadese autore di Colville, graphic novel appena pubblicato in Italia da Coconino Press.

La carriera di Gilbert come autore di fumetti iniziò negli anni ’90, quando fece uscire sei numeri di I Had a Dream, più altri due albi, Gardenback The Cult of Gardenback, dove sviluppò i personaggi e le situazioni della serie precedente. Tra i due fumetti di Gardenback pubblicò Colville, un comic book di 64 pagine che ricevette alcune critiche positive al tempo. Ma dopo il 1998 il mondo dei fumetti perse le tracce di Gilbert, tanto che era praticamente impossibile trovare informazioni su di lui fino a qualche anno fa. La fonte più rilevante, se possiamo chiamarla in questo modo, è un post del 2011 sul sito Comics Comics in cui Frank Santoro incluse “il tizio che a metà degli anni ’90 fece un fumetto chiamato Colville in una lista intitolata Good Cartoonists Gone. Lo stesso Gilbert contribuì alla discussione scrivendo: “Wow, è bello che qualcuno si ricordi di me… Sono io il tizio che fece Colville. Mi fa piacere che ti sia piaciuto Frank. Ero un espositore alla SPX del ’98 e lì riuscii a vendere un po’ di copie di quell’albo. Disegno ancora fumetti quando riesco a trovarne il tempo, infatti ho completato tutto il secondo capitolo di Colville (circa 48 pagine) e 25 pagine del terzo sono disegnate e letterate. Un giorno o l’altro lo finirò e prenderò un tavolo al TCAF o qualcosa del genere. Dal 1999 sono stato impegnato a gestire il mio negozio di fumetti qui a Newmarket, Ontario, che ho chiamato Fourth Dimension. E questo occupa la gran parte della mia giornata. Purtroppo ho dovuto mettere il tavolo da disegno in secondo piano. E probabilmente mi riesce meglio vendere i fumetti degli altri piuttosto che fare i miei!”. Ma Gilbert tornò al fumetto nel 2013 con un libro di 128 pagine, The Journal of the Main Street Secret Lodge, che vinse un Dough Wright Award per il Best Spotlight Work l’anno successivo. E finalmente nel 2015 riuscì ad autoprodursi, dopo quasi due decadi di lavorazione, il volume di Colville, con le 64 pagine del fumetto originale e oltre 100 pagine di nuovo materiale che concludeva la storia.

Avevo scoperto l’esistenza di Colville su internet ed ero da tempo curioso di leggerlo, così quando il mio amico Francesco in arte Ratigher mi disse che aveva scritto una e-mail a Steven Gilbert per ordinare i suoi libri, io feci lo stesso e gli chiesi anche se potevo vendere qualche copia di Colville nel mio webshop. Ratigher scrisse una recensione di Colville qui su Just Indie Comics e da quel momento un sacco di gente ordinò il libro o mi chiese informazioni a proposito. Fu davvero strano vedere tanti lettori italiani interessati a un lavoro così oscuro, che era difficile da trovare anche in Nord America (a oggi Gilbert non ha un sito internet e i suoi libri non hanno distribuzione). Cominciai a scambiarmi qualche mail con Gilbert nei mesi successivi e prima di partire per il Canada per il Toronto Comic Arts Festival del 2016 gli chiesi se potevo intervistarlo e con l’occasione andarlo a trovare a Newmarket, una cittadina vicino Toronto dove vive e gestisce il negozio Fourth Dimension, al numero 237 della Main Street South. L’intervista ha avuto luogo lunedì 9 maggio 2016 alla presenza del mio amico Michele Nitri della Hollow Press e di Stacey, la fidanzata di Gilbert.

Dopo averla messa on line soltanto in inglese, mi sono finalmente deciso a tradurre l’intervista in italiano in occasione della pubblicazione nel nostro paese di Colville, uscito lo scorso 30 novembre grazie alla volontà dello stesso Ratigher, diventato nel frattempo direttore editoriale di Coconino. L’uscita del volume segna anche il debutto nel mondo dell’editoria vera e propria di Steven Gilbert, i cui fumetti mai erano stati pubblicati da una casa editrice ma sempre autoprodotti. Se non conoscete ancora il libro potete comunque leggere l’intervista, almeno fino al punto in cui trovate la frase “Ok, parliamo del libro di Colville adesso“. Da quel momento viene svelato qualche particolare della trama e se volete evitare fastidiose anticipazioni vi consiglio di fermarvi lì e magari tornarci una volta letto il fumetto. Dato che è stata realizzata più di un anno fa, l’intervista accenna soltanto a The Journal of the Main Street Secret Lodge vol. 2 (al tempo ancora in lavorazione) e trascura del tutto i lavori successivi come Port Stanley, in cui l’autore riprende lo stile dei suoi primissimi fumetti. Di entrambi trovate ancora alcune copie nel webshop. Nel frattempo buona lettura.

La Main Street a Newmarket, Ontario

Partiamo dall’inizio. Sei nato qui a Newmarket?

Non sono nato a Newmarket ma ho sempre vissuto qui, i miei genitori vivono a Newmarket e io non mi sono mai spostato.

E quando hai iniziato a leggere fumetti?

Ero molto giovane. Il mio primo ricordo che riguarda i fumetti risale a quando ero dal barbiere e vidi una pila di fumetti Archie e Disney con le cover strappate. Ma allora non mi attraevano granché. Da bambino mi piacevano i cartoni animati, guardavo sempre Bugs Bunny. Fino a una certa età forse ero più interessato all’animazione, poi a 9 anni sono stato operato alle tonsille e mentre ero in ospedale mia madre mi comprò un numero di Spider-Man. Credo che da lì mi sia venuto un vero interesse per i fumetti.

Beh, anche io leggo i fumetti da quando sono molto piccolo ma la vera fissazione mi è venuta leggendo una storia di Spider-Man, era un numero con il Doctor Octopus nel periodo di Bill Mantlo-Al Milgrom.

Certo certo, Al Milgrom… Il mio era un Marvel Team-Up con Spider-Man e il Doctor Strange.

Ok, e invece quando hai iniziato a disegnare?

Da bambino disegnavo parecchio, anche prima di appassionarmi ai fumetti. Mi piacevano i cartoni animati, così scarabocchiavo continuamente. Mio padre portava spesso della carta dall’ufficio, c’era l’intestazione da un lato così io utilizzavo la parte dietro del foglio. In quel periodo ero fissato con i ninja, mi piacevano i film di mostri e mi ricordo di essere stato ossessionato dai lupi mannari per parecchio tempo. Facevo tantissimi disegni di lupi mannari e mostri e roba del genere.

E questo sempre prima dei fumetti?

Sì, e quando ho scoperto i fumetti cercavo di riprodurne le copertine per provare a capire come funzionava quello stile lì. Poi verso i dodici o forse anche tredici-quattordici anni ho iniziato a fare i fumetti, o almeno a provarci. E’ stato al liceo che ho cominciato a disegnare dei comic book. Una volta mio fratello scrisse un soggetto per un sequel di The Dark Knight Returns di Frank Miller, era per un progetto scolastico. Quando ho capito che sarebbero state circa 30 pagine gli ho detto “Non disegnerò 30 pagine gratis”, così gli ho chiesto 200 dollari (ride). Penso che furono i miei genitori a dargli i soldi per pagarmi, quindi tecnicamente il progetto è stato finanziato da loro.

Ti ricordi ancora la trama?

No no, è stato tanto tempo fa, al liceo. Mi ricordo solo che cercavo di inchiostrare come John Totleben in Swamp Thing. Non sembrava un lavoro di Frank Miller, sembrava John Totleben. Dovrei ancora avere le tavole da qualche parte a casa ma non le ho più riguardate e non ho molta voglia di farlo. L’insegnante mi fece fare una dozzina di fotocopie e il pensiero che qualcuno possa averne ancora una mi terrorizza. Era veramente orrendo. Poi ricordo di aver fatto un fumetto utilizzando il personaggio di Travis Bickle interpretato da Robert De Niro in Taxi Driver e anche una storia con Grendel. Il mio sogno nel cassetto al tempo era che Matt Wagner mi ingaggiasse per disegnare Grendel.

Eri un fan di Matt Wagner?

Beh, leggevo Grendel quando avevo quattordici-quindici anni, ed era la prima lettura che si allontanava dai fumetti totalmente mainstream, perché in sostanza era un fumetto supereroistico ma per ragazzi più grandi. La cosa interessante è che Matt Wagner, che era un artista molto dotato, permetteva ad altri cartoonist di disegnare il suo personaggio e così io pensai “Può essere la mia grande chance”. Pensai anche di spedire i miei disegni a Matt Wagner ma non l’ho mai fatto. Il mio fumetto era una sorta di remake del film Die Hard ma con Grendel (ride). Sono abbastanza sicuro che il fumetto finisse con il personaggio che volava dalla cima di un edificio ed era totalmente ripreso dal finale di Die Hard, lo avevo visto circa un mese prima e mi era rimasto in testa.

E ti piaceva anche Sandman Mystery Theatre di Matt Wagner? Era uno dei miei fumetti preferiti negli anni ’90…

In realtà ne ho letto soltanto qualche pagina, sapevo che in quel periodo ci stava lavorando perché facevo il commesso in un negozio di fumetti ma non l’ho mai seguito veramente. E’ uscito in un periodo della mia vita in cui non leggevo la roba Vertigo perché ero preso dai fumetti alternativi.

Tornando al disegno, hai imparato da solo, giusto? Non hai frequentato una scuola d’arte o preso lezioni.

Al liceo avevo un professore d’arte che era molto aperto nei confronti del fumetto e mi incoraggiava a lavorarci. Infatti l’ho messo in Colville, dove ho disegnato una scena in cui ci sono il mio professore e il mio liceo. Beh, proprio due settimane fa me lo sono ritrovato qui nel negozio, qualcuno gli aveva mostrato il fumetto e lui è venuto da me per dirmi “Non mettermi più nei tuoi fumetti”. Secondo me era tranquillo fino a che non è arrivato alle ultime 40 pagine… Comunque sono stato fortunato a ricevere dei simili incoraggiamenti al liceo, anche se non ho mai avuto istruzioni specifiche, mi limitavo ad ispirarmi a più fumetti possibili, copiando e cercando di capire come mettere i diversi elementi sulla pagina.

E cosa è successo fino all’uscita di I Had a Dream #1? Lo hai pubblicato con la tua etichetta King Ing Empire nel giugno del 1995 ma tu facevi fumetti già da un po’ credo… Mi piacerebbe sapere che cosa c’è stato prima di quel comic book.

Ho cercato di mettere insieme un fumetto diverse volte. Avrò avuto circa 25 anni quando ho finito il primo numero di I Had a Dream, quindi era parecchio tempo dopo il liceo. Nel frattempo lavoravo a un negozio di fumetti e disegnavo qualche storia.

Ma solo per te…

Sì, è stato il mio campo di addestramento, ho disegnato centinaia di pagine di fumetti e illustrazioni ma non le ho mai mostrate a nessuno, forse solo a qualche amico. Lavorai a un paio di crime comic, delle specie di gialli che cercavo di capire come sviluppare, poi a un certo punto sono successi i fatti di cronaca che hanno ispirato Colville e ho pensato immediatamente “E’ questa la storia che voglio raccontare”.

E questo sempre prima di I Had a Dream.

Sì, era molto prima di I Had a Dream e già avevo disegnato una copertina per quella storia, anche se era una cover diversa sia da quella del comic book che da quella del volume di Colville, ma più simile alla seconda che alla prima. Al tempo pensavo che il fumetto si dovesse chiamare Warning Shot ma poi a un certo punto capii che non ero ancora in grado di realizzare ciò che avevo in mente, perché all’epoca non avevo mai provato a disegnare un fumetto più lungo di 25 pagine. Dovevo capire come funzionava una storia a fumetti. Ma poi un giorno un mio amico, uno che conoscevo da anni ma che non sapevo disegnasse fumetti, venne in negozio…

Come si chiamava?

Jason Williams.

Ah ok, immaginavo fosse lui, dato che il suo nome ricorre nei tuoi primi comic book.

Sì, così entrò in negozio e mi mostrò una storia di Spider-Man che aveva disegnato, e probabilmente era il peggior fumetto che avessi mai visto. Mi mostrò anche una lettera di rifiuto dalla Marvel. Dopo quel fumetto si dedicò a una serie chiamata Underterra e voleva pubblicarla anche se in realtà non era ancora pronto per un passo del genere. Mi diede le pagine del primo numero e mi chiese di correggerle. Quando le lessi mi resi conto che erano piene di errori, così scrissi un sacco di osservazioni e a un certo punto gli chiesi di farmelo disegnare da capo, proponendomi per riscriverlo insieme a lui e per inchiostrarlo. Ma alla fine pubblicò Underterra così com’era, con tutti gli errori. E ne stampò cinquemila copie a numero, distribuendo tutti e sei i comic book con la Diamond. Ma penso che alla fine riuscì a venderne una novantina di copie ad albo.

Quindi tutto ciò ti è servito da ispirazione? (ride)

Beh, ciò che ho preso da lui è stato fondamentalmente… il nome della tipografia (ride). Mi ha dato questa informazione e così ho pensato “Se questo tizio può fare un fumetto, è meglio che muova il culo per farne uno anch’io”. Avevo già una prima bozza dei primi tre comic book di I Had a Dream ma avevo disegnato ogni storia in un giorno. E così li ho completamente rifatti. Se ci ripenso, adesso non sono per niente soddisfatto del risultato e probabilmente non avrei dovuto pubblicarli, ma al tempo mi aiutarono a imparare a fare fumetti. Comunque penso che ci sia un bel salto nel quarto, quinto e sesto numero, in cui sono riuscito a mettere davvero le mie idee sulla pagina, e a disegnare meglio. Dopo questi sei numeri capii di aver finito con quel materiale, e pensai di essere pronto per lavorare a Colville. Ma poi feci un grosso poster per un mio amico, come regalo di compleanno, ed era un fumetto gigante con tipo 40 vignette. E divenne il primo Gardenback, che alla fine pubblicai prima di Colville.

“I Had a Dream” #1, giugno 1995

Se guardiamo i primi tre numeri di I Had a Dream, si nota che seguono gli stessi schemi delle newspaper strip, perché ci sono questi “tizi” che si confrontano in un’altra dimensione, con una serie di situazioni che possono ricordare Krazy Kat, o anche qualche cartone animato.

Sono sicuro che Krazy Kat non ebbe alcuna influenza su di me al tempo, ma come ho detto prima adoravo i cartoni della Warner e i Looney Tunes in particolare, con la loro violenza assurda, gli oggetti che vanno a sbattere tra loro, i muri che vengono abbattuti e così via… Sicuramente mi hanno influenzato. Vedi, i primi I Had a Dream erano molto nonsense, ero un grande fan di Chester Brown e mi ricordo di aver letto un’intervista in cui parlava del suo processo creativo e diceva di disegnare vignetta dopo vignetta, senza avere un’idea generale…

Sì, come in Ed The Happy Clown

Esatto, e così volevo lavorare anch’io in quel modo.

Poi con I Had a Dream #4 hai iniziato Slipstream, una storyline in due parti molto diversa dai lavori precedenti, che univa Roswell, i russi, le sperimentazioni sulla mente e le teorie della cospirazione. Lo avevi programmato sin dall’inizio?

Assolutamente no. Probabilmente stavo guardando troppi episodi di X-Files e leggendo libri sull’omicidio di Kennedy, ho letto 40-50 libri sull’argomento. Quando avevo 20 anni ero ossessionato dalle teorie della cospirazione, quei temi prendevano gran parte della mia attenzione allora e in qualche modo sono stati i fumetti a farmi interessare ad altro. Dopo aver fatto quei fumetti non me ne è importato più nulla, come se in qualche modo fosse finito un periodo della mia vita.

Tra Gardenback e The Cult of Gardenback hai pubblicato l’albo di Colville, giusto? Se non sbaglio dovrebbe essere del 1997.

Sì, all’inizio doveva essere molto più breve, circa 25 pagine, e doveva concentrarsi solamente sull’episodio ambientato nel cortile della scuola. Era vagamente basato su un vero episodio di cronaca nera, avevo ritagliato l’articolo sul giornale quando era successo perché mi ricordo di averlo letto e di aver pensato “Potrebbe essere un bel fumetto”. Ma quella era solamente l’ossatura, la storia infatti cominciò a crescere intorno all’episodio della sparatoria nel cortile. A quel punto pensai di fare un fumetto di 64 pagine e in breve tempo ebbi già un’idea approssimativa sia della storia che di come disegnarla. Andai a Keswick, una cittadina a 20 minuti da Newmarket dove quei fatti erano realmente accaduti. Il mio amico Jason Williams aveva vissuto lì, quindi conosceva bene la zona e così facemmo un po’ di foto da usare come riferimenti per il fumetto.

Usi parecchi riferimenti fotografici, vero?

Sì, fanno parte del mio metodo, perché non scrivo sceneggiature…

Mai?

Ci ho provato ma sempre senza successo, quando finisco e poi rileggo una sceneggiatura tradizionale con la descrizione delle vignette, i dialoghi e così via, di solito le idee mi sembrano stupide e non riesco più a usarle. L’unico modo in cui riesco a fare fumetti è mettermi seduto a disegnare. Il mio processo di scrittura è la creazione del fumetto.

Le 64 pagine del comic book di Colville del 1997 sono esattamente le prime pagine del volume del 2015 o hai cambiato qualcosa?

Sì, le 64 pagine del graphic novel sono le stesse del comic book, tranne che per una o due piccole revisioni dei disegni.

Quel fumetto era molto diverso da I Had a Dream. Dentro si sentiva qualcosa di nuovo, come se l’ispirazione venisse più da alcuni film che da altri fumetti o dalle teorie della cospirazione. Mi sembra di ritrovarci l’atmosfera di alcuni film americani degli anni ’70 o dei primi ’80, penso a registi come Brian De Palma, Martin Scorsese o anche il David Lynch di Blue Velvet.

Colville interior 1

Di solito nego di essere influenzato da cose specifiche e non penso che per i fumettisti sia una buona idea guardare al cinema, perché i fumetti sono una cosa a sé. Ma, detto questo, al tempo ero un grande fan di David Lynch e in particolare di Blue Velvet, che in fondo era una crime story perversa ambietata in una piccola città. Ero anche un grande appassionato di Twin Peaks e posso raccontarti un piccolo aneddoto a questo proposito. Ho deciso per il titolo Colville per l’artista canadese Alex Colville, anche se in realtà non c’è una diretta correlazione visiva con il fumetto, è più una cosa legata all’atmosfera. Ma c’è una scena in Twin Peaks, quando stanno parlando di dove si trova Twin Peaks – è un bel po’ da quando l’ho visto l’ultima volta ma il dialogo dovrebbe dire più o meno “All’angolo nord-est dello stato di Washington, al confine con il Montana e proprio sotto il confine canadese”. Non so bene perché ma un giorno mi sono messo a guardare su una mappa cosa c’era lì e ho scoperto che c’è una città che si chiama Colville. Puoi guardare sulla mappa, non è uno scherzo. Allora avevo già disegnato il comic book di Colville e così ho pensato “Beh, le forze dell’universo stanno lavorando insieme…” (ride). Questo a proposito dell’influenza di Lynch, per quanto riguarda Brian De Palma beh, ho dedicato il graphic novel a Brian De Palma e Nick Cave, il primo soprattutto per l’uso della carrellata nei suoi film. Sono un po’ fissato con le carrellate quando guardo i film… Il secondo capitolo del libro inizia con il personaggio che registra con la telecamera, quindi puoi leggere l’intero capitolo come una lunga carrellata, come se la telecamera non se ne andasse mai.

Ok, torneremo su Colville più tardi, quando arriveremo ai giorni nostri. Ora vorrei parlare della tua lunga pausa creativa, se per te non è un problema. In meno di tre anni, dal giugno 1995 all’aprile 1998, hai pubblicato sei numeri di I Had a DreamGardenback, il comic book di Colville e The Cult of Gardenback. Poi tra l’aprile del 1998 e il 2013…

Niente!

Sì, esatto (ride). Niente fino a The Journal of the Main Street Secret Lodge, che è appunto uscito nel 2013. Quindici anni sono una lunga pausa.

Quando finii le 64 pagine del comic book di Colville, mi resi conto che c’era ancora spazio per sviluppare quei temi. Inizialmente consideravo Colville come una storia autoconclusiva di 64 pagine e basta, ma poi quando ero a due terzi della lavorazione cominciai a pensare che fosse il primo capitolo di qualcosa di più lungo. Ma volevo anche sviluppare i fumetti di Gardenback e così pensai di alternare i due progetti, pubblicando ogni anno un albo dell’uno o dell’altro. Quando realizzai The Cult of Gardenback nel 1998, riuscii a disegnarlo, pubblicarlo e poi venderlo attraverso la Diamond abbastanza in fretta…

Hai utilizzato la Diamond sin dal primo numero di I Had a Dream, giusto? E anche la Capital City Comics al tempo.

Sì, all’inizio i miei fumetti venivano distribuiti anche attraverso Capital City ma poi la Diamond ha inglobato tutto. Comunque, dopo la pubblicazione di The Cult of Gardenback iniziai a lavorare al secondo capitolo di Colville. Nei miei piani il mio prossimo fumetto doveva essere Colville #2. Nel frattempo lavoravo a un negozio di fumetti, The Comic Wizard qui a Newmarket, proprio dall’altra parte della strada rispetto a dove siamo noi adesso. Sì, tutta la mia vita è in questo angolo di strada praticamente (ride)… Mentre ero lì, il negozio cambiò proprietà ma io continuai a lavorarci. Il nuovo manager entrò nel dicembre 1996 ma era un periodo difficile per gli affari e il negozio non andava affatto bene. Tenne il negozio per un paio d’anni cercando di mantenerlo in vita. A un certo punto pensai di comprare il negozio ma poi dovetti rendermi conto che non ce la potevo fare. Quindi stavo per rimanere senza lavoro e non avevo assolutamente le capacità per lavorare nel mondo reale. L’unica cosa che avevo fatto fino a quel momento era vendere fumetti, così decisi di aprire il mio negozio di fumetti.

Fourth Dimension, il negozio di fumetti di Steven Gilbert

Quindi hai aperto Fourth Dimension dopo la chiusura di The Comic Wizard?

Sì, quasi contemporaneamente. A un certo punto divenne chiaro che il negozio stava per chiudere nel giro di un paio di settimane, così affittai subito il locale, chiamai i distributori e tutto il resto. Ma il proprietario di The Comic Wizard tentò di mandare avanti le cose e ci fu un periodo molto strano in cui io avevo già aperto il mio negozio ma anche lui era ancora aperto.

Quindi c’erano due negozi? (ride)

Sì, nello stesso isolato, nella stessa strada. Ma uno stava chiudendo e l’altro aveva appena aperto… Dunque ciò che successe con i fumetti, beh, non avevo mai lavorato così duramente in vita mia, iniziare da capo un’attività imprenditoriale era da pazzi, soprattutto perché lo stavo facendo da solo. Il mio programma era mettere da parte i fumetti per sei mesi e poi dedicarmici di nuovo. Ma mandare avanti il negozio era davvero difficile, alla fine della giornata ero esausto e quando tornavo a casa non riuscivo a mettermi a disegnare. Quel periodo di sei mesi divenne di due anni e poi di tre, quattro, cinque… Mi ricordo di aver tirato fuori le tavole con l’intenzione di finirle diverse volte ma poi le guardavo per venti minuti con la matita in mano senza disegnare nemmeno una riga. E così le rimettevo al loro posto. A volte passava un anno prima che le tirassi fuori di nuovo. Successe nel 1999, nel 2000, nel 2001 e andò avanti nello stesso modo per diversi anni. Facevo ancora qualche disegno e qualche caricatura dei clienti del negozio per il mio divertimento, ma non fumetti.

E i paesaggi? Ci sono parecchi paesaggi in The Journal of the Main Street Secret Lodge, ci hai lavorato in quegli anni? 

No, non disegnavo nemmeno paesaggi. Non lo so in realtà, ma facevo più che altro disegni che poi buttavo. A un certo punto mi ricordo di aver capito di non essere più un fumettista, perché era troppo tempo che non facevo un fumetto. Ma poi, dopo qualche anno, mi venne l’idea di fare le fanzine Journal of The Main Street Secret Lodge e ripresi a disegnare seriamente. Sarà stato più o meno il 2003 quando stampai la prima, solo per divertimento, per darla agli amici e ai clienti. Forse ne fotocopiai un altro paio anche prima, erano come dei bollettini dei mercanti. Mi interessava soprattutto l’aspetto storico della Main Street, i palazzi, l’atmosfera. Iniziai a pubblicarle con una certa regolarità, creando piccole storie sul capitano Woodrow Gilbert e sulle sue avventure. Seguivo grosso modo la stessa formula, con dei tizi cattivi che venivano a Newmarket per derubare la banca e con Woodrow che arrivava per fermarli e ucciderli. Lo facevo esclusivamente per il mio divertimento. Poi cominciarono a diventare sempre più ambiziose, cambiai formato, ne pubblicai alcune più grandi, alcune arrivarono ad avere 24 pagine, altre 36, 48 e così via…

Quante di queste fanzine pensi di aver pubblicato in totale?

Penso di averne fatte altre cinque o sei dopo la prima del 2003. L’ultima era ancora fotocopiata ma era di 84 pagine, ci misi circa un anno per finirla. Aveva tantissime illustrazioni e un racconto interamente letterato a mano. Era una pazzia fare una cosa del genere e fotocopiarla e basta. Un giorno uno dei miei clienti, che faceva anche lui fumetti negli anni ’80, venne in negozio e mi diede una lettera di tre pagine in cui fondamentalmente diceva “Sei un idiota a non fare fumetti perché questa roba che stai facendo è grandiosa ma non è ciò che dovresti fare” (ride). E io risi e basta, perché quelle fanzine erano solo per me stesso, non mi interessava che la gente le leggesse, le facevo solo per la mia soddisfazione personale, per fare qualcosa di creativo. Ma fu in quel momento che ebbi l’idea per The Journal of the Main Street Secret Lodge. In realtà era un’idea che avevo in mente da quando stavo lavorando a Colville, già avevo pensato a questa rapina in banca da raccontare come se fosse un western, utilizzando Newmarket come sfondo. E rimase nella mia testa per anni. Poi scoprii di quell’articolo sul sito Comics Comics, probabilmente trovando il link su un altro sito che stavo guardando, perché a quel tempo non usavo granché internet, non avevo nemmeno mai cercato niente su Google credo (ride).

A Gilbert's zine from 2003

Una fanzine del 2003

Quindi già conoscevi il sito Comics Comics?

No, non avevo mai visto quel sito prima. L’unica cosa che sapevo è che Comics Comics era una rivista, fecero un paio di numeri che avevo avuto in negozio ma che finirono ancor prima che li leggessi. Non sapevo che Frank Santoro fosse coinvolto ma lo conoscevo per i suoi fumetti, come Storeyville, di cui ero un grande fan. Comunque penso di averlo visto sul sito di Heidi MacDonald, The Comics Beat, c’era questo link che diceva qualcosa come “Su Comics Comics Frank Santoro ha scritto un articolo sui cartoonist degli anni ’90 di cui non si hanno più notizie”. Mi ricordo che mossi il cursore sul link pensando “Se il mio nome è in quella lista me la farò sotto”. Poi cliccai e lessi “Il tizio che ha fatto Colville“. E allora pensai “Cazzo, se sono in questa lista significa che qualcuno si ricorda dei miei fumetti”. E così capii, fu come un interruttore che si accese nella mia testa dicendomi “Devi fare un altro fumetto”. E a quel punto iniziai a lavorare seriamente a The Journal of the Main Street Secret Lodge.

Era il 2011, giusto?

Penso di sì, non sono così bravo a catalogare le cose nella mia testa. Comunque iniziai a disegnare con l’idea di fare un’altra fanzine fotocopiata. La precedente era fatta di 21 fogli messi insieme, spillati e poi ripiegati per formare 84 pagine, più la copertina. Dovetti spillare alcune fanzine tre volte e fu veramente una rottura. Così pensai che 84 pagine erano il limite massimo e mentre ci lavoravo stavo molto attento a quanto disegnavo. Ma poi arrivai a 70 pagine, quindi a 75, 80 e così via e iniziai a preoccuparmi. Alla fine vennero fuori 130 pagine e quando le mostrai al mio amico Eddie mi disse “Questa roba deve diventare un libro, non può essere soltanto una stronzata fotocopiata che metti vicino alla cassa regalandola alle persone che entrano in negozio”.

Hai mai considerato l’idea di proporlo a un editore o te lo sei voluto autoprodurre sin dall’inizio?

Non ho mai pensato seriamente di mandarlo a qualcuno, l’autoproduzione era la mia sola opzione. Pensai a qualcosa tipo print on demand o a una tiratura molto bassa, perché in precedenza avevo venduto un centinaio di fanzine fotocopiate, così mi sembrava sensato fare 100 copie anche questa volta. Feci un sacco di ricerche sul print on demand ma quando ne parlai con qualcuno ai festival sembravano tutti insoddisfatti del risultato, mi parlavano di problemi con la rilegatura, la colla e via dicendo. Mentre facevo queste ricerche, trovai da qualche parte il nome della tipografia con cui avevo lavorato 15 anni prima e pensai per la prima volta di fare una vera e propria stampa in offset. Contattai lo stesso tipo con cui avevo parlato in passato ma avevo una vecchia e-mail perché a un certo punto aveva cambiato tipografia, ma ogni tanto controllava anche quel vecchio indirizzo e dopo un po’ mi rispose. Mmm, non so dove sto andando a parare con questa risposta…

Beh, penso che siamo arrivati al punto in cui hai deciso di stampare in offset.

Giusto! (ride). Beh, un fattore importante era il prezzo, perché stampare in offset significa fare almeno 1000 copie, quindi è un po’ un investimento piuttosto che fare un centinaio di copie con il print on demand. Ma poi scoprii che i costi del print on demand erano molto alti, il libro sarebbe venuto 9 dollari a copia, più 2 dollari per spedire in Canada perché la tipografia era negli Stati Uniti, così dovevo pagare 11 dollari a copia più il cambio, mentre 1000 copie in offset sarebbero costate 2200 dollari canadesi. Era davvero un buon affare. Così a quel punto pensai “Ok ho deciso, lo stamperò sul serio”.

“The Journal of the Main Street Secret Lodge”

Quel libro vinse il Dough Wright Award per Best Spotlight Work, giusto?

Sì, fu tutto un po’ strano, perché inizialmente lo vendevo soltanto qui nel negozio, vicino alla cassa. Avevo già pensato di andare al Toronto Comic Arts Festival l’anno seguente ma non pensavo proprio di proporre il libro per i Dough Wright Awards. Poi un mio amico, che vive a Winnipeg e che aveva già una copia del Journal, mi disse che ci sarebbe stato un firmacopie di Chester Brown da quelle parti nel giro di un paio di giorni e io gli dissi “Maledizione, mi piacerebbe dare una copia a Chester ma non riuscirò mai a spedirtene una in tempo”. Lui allora mi propose di dargli la sua copia, tanto io potevo mandargliene un’altra con calma, così gliela consegnò. E Chester fu molto contento di scoprire che avevo fatto un nuovo fumetto.

Già avevi incontrato Chester Brown prima di allora? 

Sì, lo conoscevo ma in maniera molto formale, lo avevo incontrato a delle sessioni di autografi e gli avevo parlato. Lui conosceva già i miei fumetti degli anni ’90. Non so quanti giorni passarono ma dopo un po’ ricevetti questa telefonata al negozio ed era Chester che si voleva complimentare con me per il fumetto. Inoltre mi disse che era nella giuria che assegnava le nomination per i Dough Wright Awards e che se volevo potevo spedire cinque copie del Journal ai membri del comitato. Mi raccontò anche che aveva cercato di comprarne qualche copia a The Beguiling a Toronto ma non ce l’avevano e non sapevano come procurarselo. E allora io gli dissi “Lo so io come trovarne delle copie, ne ho centinaia negli scatoloni” (ride).

Quindi fino a quel momento non avevi nemmeno portato delle copie a The Beguiling.

No, in realtà chiamai Peter di The Beguiling proprio dopo quella telefonata con Chester per chiedergli se ne volesse delle copie e lui mi disse di sì. Poi, quando uscirono le nomination dei Dough Wright Awards 2014, il mio nome era sulla lista insieme a quello di altri cartoonist decisamente bravi. E fu molto strano per me, quasi non ci credevo che il mio nome fosse accanto a quello degli altri autori. I tipi dei Dough Wright Awards mi invitarono al party al TCAF perché ero stato nominato e a quel punto pensai “Beh, sembrerebbe brutto non andarci quando sei nominato e sei anche un espositore del festival”. E ti riservano dei posti nelle prime file in una specie di area VIP, ma io volevo sedermi in fondo perché pensavo sarebbe stata una facile via d’uscita dopo la premiazione. Alla fine quando andammo là con Stacey ci sedemmo a metà della sala ma comunque non nell’area VIP, per qualche motivo non mi sembrava opportuno…

Hai trovato un compromesso…

Sì sì, tra la metà e il fondo a dire il vero… Poi fu abbastanza surreale ciò che successe. Nella categoria in cui ero stato nominato c’erano altri quattro cartoonist che trovo eccezionali, c’erano Dakota McFadzean, Connor Willumsen e… Oddio, non mi ricordo…

Ma la categoria Best Spotlight Work è per i cartoonist giovani, giusto? (ride)

Sì, era per autori emergenti, e la cosa sembrava un po’ una barzelletta, era divertente in qualche modo. Ma se guardi la pagina dei premi, non c’è nessun requisito di età, quindi la categoria è per cartoonist emergenti ma non devono essere giovani. Non ero nervoso per la nomination finché non arrivai lì, dopo fu veramente terribile. Qualche giorno prima della premiazione, Stacey mi guardò e mi disse “Vincerai” ma a me sembrava del tutto impossibile. Ma si vede che lo sapeva.

Il premio però non ha cambiato il tuo stile, perché dopo hai continuato a lavorare, hai anche finito Colville ma non hai comunque pensato di proporlo a qualche editore.

Beh, non per divagare, ma quando uscì il comic book di Colville nel 1997, spedii delle copie a Seth e Chester Brown, e Seth mi rispose con una cartolina su cui scrisse “Dovresti mandarlo a Chris Oliveros della Drawn & Quarterly, penso che gli piacerebbe dargli un’occhiata”. Così mandai una copia a Chris Oliveros e lui mi rispose dicendomi che pensava che ci fossero delle cose valide nel mio fumetto, chiedendomi di tenerlo informato sui miei progetti futuri. Ovviamente subito dopo smisi di fare fumetti per diversi anni. Ma probabilmente la Drawn & Quarterly è il mio editore di fumetti preferito e mi sentivo come se le mie cose non fossero al loro livello. Una parte di me sente che i miei fumetti non sono abbastanza validi per essere pubblicati dagli editori che mi piacciono…

Dai, ma lo pensi veramente?

Forse sì, sai, mi piace la Drawn & Quarterly, mi piace la Fantagraphics, mi piace Conundrum, mi piace la Koyama Press e forse tra qualche giorno al TCAF darò a tutti loro delle copie dei miei libri, non so… So che alcuni di loro sanno chi sono ma non mi sono mai fatto avanti. Forse potrei provarci con il prossimo Journal, perché in fondo mi piacerebbe avere una distribuzione più ampia per i miei fumetti. Ho anch’io un po’ di ego e mi piacerebbe che la gente potesse avere accesso ai miei libri in maniera più facile rispetto a trovare la mia e-mail in fondo a una recensione. Ma mi piace anche l’autoproduzione perché è in tutto e per tutto una mia creazione, non devo cambiare niente che non abbia voglia di cambiare, ogni riga può essere qualsiasi riga che io voglio che sia. Mi fa anche piacere che sia Colville che The Journal abbiano raggiunto il pareggio, hanno venduto abbastanza copie in negozio, al TCAF e a una manciata di altri posti per coprire i costi di stampa. E in fondo era questo il mio obiettivo, quando feci The Journal pensai “Se un giorno o l’altro recupererò i costi di stampa, posso considerarlo un successo commerciale”.

Hai delle ambizioni tutt’altro che sfrenate…

Non so, non ho nemmeno proposto i miei nuovi libri alla Diamond, forse per paura di un possibile rifiuto, per timore che la Diamond mi risponda “I tuoi fumetti non sono così validi da essere distribuiti…”.

Beh, ma in ogni caso non dovresti preoccuparti dell’opinione della Diamond!

Ma la Diamond rappresenta una strada importante nelle fumetterie del Nord America e di tutto il mondo, ogni negozio di fumetti in lingua inglese ordina dalla Diamond. Cioè, a me non interessa un giudizio estetico da parte della Diamond… Ok, troverò il tempo per farlo, ho le informazioni per contattarli, quindi penso che prima o poi lo farò.

A proposito dei contenuti di The Journal of the Main Street Secret Lodge, il protagonista è il Capitano Woodrow Gilbert. E’ basato su una persona realmente esistita?

Ormai esiste davvero nella mia testa. A dirla tutta, il personaggio è completamente rubato da Lonesome Dove, una miniserie tv con Tommy Lee Jones e Robert Duvall. E’ un western, ed è probabilmente il miglior western che io abbia mai visto. E’ basato su un romanzo con lo stesso titolo di Larry McMurtry. In Lonesome Dove il protagonista è un cowboy, un ex Texas Ranger che si chiama Captain Woodrow F. Call. I personaggi vanno dal Messico al Montana per mettere su un ranch e la storia racconta questa lunghissima transumanza. Dopo aver visto la serie scherzavo sempre con il mio amico che ora è a Winnipeg, James, dicendo che avrei chiuso il negozio per andare in Messico a comprare cinquemila bovini da portare fino in Montana. I due personaggi di Lonesome Dove sono Woodrow e il suo amico Augustus e a quel tempo mi ero convinto che se non attuavo questo piano era solo perché non sapevo se fossi Woodrow o Augustus. Poi un giorno James mi guardò, come se stesse valutando sul serio la domanda, e mi disse “Tu sei Woodrow”. Così mi venne la bizzarra idea di questo mio lontano parente che era un ex Texas Ranger e che aveva fatto questa lunga transumanza, per poi spostarsi in età matura dal Montana a Newmarket, facendo del Northern American Hotel sulla Main Street il suo quartier generale. E alla fine divenne il personaggio del mio libro. L’idea del personaggio è dunque ripresa totalmente da Lonesome Dove anche se mi sembra di aver raggiunto un risultato diverso alla fine.

Il volume raccoglie la storia principale con Woodrow protagonista ma anche paesaggi, un testo scritto a mano che parla di rapine in hotel, dei ritratti di donne a firma William Bobo…

Beh, cerco di soddisfare qualsiasi interesse…

Sì, c’è un po’ di tutto. Ma pensi che la vera protagonista sia Newmarket?

Sì, penso di sì, e più il tempo passa e più mi rendo conto che il motivo principale per cui mi piaceva lavorare a The Journal era perché così potevo disegnare la città. E c’è ancora più enfasi su questo aspetto nel secondo volume, su cui sto lavorando in questo periodo, sarà un vero diario di viaggio, una rappresentazione visiva della città ma anche di molto altro. E’ un volume di 250 pagine e circa 150 rappresentano una sorta di tour del paese, la gran parte degli sfondi vengono da riferimenti reali di posti che si trovano qui a Newmarket.

Hai cercato dei riferimenti fotografici o iconografici per descrivere la Newmarket del passato?

Ho tantissimo materiale sulla storia della città e un sacco di riferimenti visivi. Vivo qui da sempre e quindi è stato davvero facile capire come sarebbe stato questo viaggio attraverso la città. Potrei sedermi, chiudere gli occhi e riconoscere esattamente ogni angolo, ogni posto. Non è difficile trovare le diverse location, vivo qui e quindi posso uscire e andare a fare delle foto se mi serve qualcosa.

Zines and comics by Steven Gilbert

Fanzine e comic book di Steven Gilbert

Ok, parliamo del libro di Colville adesso. Credo che la storia sia molto più forte letta tutta insieme perché la reiterazione della scena chiave è molto importante e dà forza all’intero lavoro. Quest’idea non era già nel primo comic book, giusto? 

Quando mi venne l’idea di lavorare al seguito del primo comic book, non avevo nessuna soluzione visiva per dare unità alla storia. In quelle prime 64 pagine a un certo punto feci comparire Paul Bernardo, che fu una cosa molto spiacevole, perché era una persona reale, un vero serial killer e stupratore seriale dell’area di Toronto nei primi anni ’90. Il suo giocattolo preferito era la telecamera, e quando decisi che Bernardo avrebbe avuto più spazio nel secondo e nel terzo capitolo, mi venne l’idea di ripetere la scena del crimine, per cui utilizzare questo tizio tra i cespugli che registrava sembrò la cosa giusta da fare. Lui faceva veramente cose del genere, seguiva la gente, li riprendeva e così via. Colville è una storia in tre parti ma in origine stavo lavorando su un’altra parte, un capitolo in cui venivano mostrati i poliziotti che investigavano. Disegnai circa 25 pagine e poi le scartai perché si allontanavano troppo dalla ripetizione visiva del crimine. Quando le disegnai la seconda volta divennero simili al film Rashomon, dove viene mostrato lo stesso crimine da quattro prospettive diverse. E fu molto utile per sviluppare la trama coinvolgendo al tempo stesso gli altri personaggi.

Sì, è interessante perché questa soluzione crea un legame tra le diverse vicende, e questo mi fa pensare di nuovo alla città come vera protagonista della storia.

Mi sforzo parecchio per rendere l’ambientazione una parte del racconto, mi piacciono le storie che parlano di zone specifiche, in cui lo spettatore segue le vicende dei personaggi ma ha anche la possibilità di guardare i paesaggi, scoprire la geografia del posto e così via.

E la storia non parla soltanto della città ma anche dell’organizzazione criminale della città, come dice il titolo del libro spedito da Tracy insieme all’adattamento di Twilight of Superheroes, un fumetto inedito di Alan Moore…

Sì, lo chiamo il finale alla Watchmen

Infatti è molto simile, e ti volevo proprio chiedere qualcosa a questo proposito. Volevi che fosse soltanto una citazione o hai volutamente riscritto la sequenza finale di Watchmen?

Non ho consapevolmente pensato a un riferimento diretto. C’era un periodo anni fa, negli anni ’90, quando mi piaceva fantasticare di tanto in tanto sul finale della storia e immaginavo una scena in cui Tracy mandava le tavole all’autore del vero libro, cioè a me. Infatti sin dall’inizio il ragazzo doveva disegnare questo fumetto sulle attività criminali della città, ma poi a un certo punto pensai di lasciar perdere perché volevo ambientare la scena in cui Tracy spediva il fumetto in un ufficio postale e avrei avuto bisogno di scattare delle foto per poterlo disegnare, e mi sembrava complicato mettermi a fare delle foto alle poste…

E quindi hai usato la cassetta delle lettere…

Sì, ho capito che potevo farlo senza dover disegnare un ufficio postale. Il titolo del libro, Nomenclature of a Small Town Criminal Organization, è un piccolo tributo al mio periodo JFK, c’era questo libro autoprodotto che avevo comprato – era un libretto fotocopiato che si poteva ordinare solo per posta – si chiamava Nomenclature of an Assassination Cabal e io ho sempre pensato “Che cazzo di titolo fantastico”. E così questa semplice idea di Nomenclature of a Small Town Criminal  Organization era un piccolo dettaglio che mi è rimasto in mente per 10 o forse 15 anni. Ma poi quando lo stavo disegnando ho pensato “E’ molto simile al finale di Watchmen“.

E questa nomenclatura è in fondo il libro stesso, pagina dopo pagina il lettore incontra criminali sempre più malvagi, all’inizio abbiamo David, poi Van, quindi Alan Gold e infine Paul, il più inquietante di tutti… Hai pianificato dall’inizio questa sorta di crescendo?

Non avevo l’idea di creare un’escalation, no… Ma forse una delle ragioni per cui non sono riuscito a lavorare al libro per così tanto tempo è che il finale che avevo deciso mi metteva davvero a disagio. Inizialmente avevo già pianificato di dedicare dieci pagine a Paul Bernardo nel seminterrato con la ragazza ma mi sembrava di non essere in grado di disegnare delle scene così tremende, così è come se mi fossi rifiutato di finire il libro per tutto questo tempo. E’ un argomento orribile.

Colville interior 2

Ma avevi deciso che questo argomento dovesse essere nel tuo libro.

E’ strano perché avrei potuto cambiare la storia e fare qualcosa di diverso, ma anni fa avevo deciso che il finale sarebbe stato quello, quindi per me non c’era realmente la possibilità di fare delle modifiche.

Potrebbe essere un altro motivo per cui avevi smesso di fare fumetti… 

Sai, aprire il negozio è stato probabilmente il motivo principale ma mi sembrava anche di non avere ciò che mi serviva, qualunque cosa fosse, per disegnare quelle pagine, era materiale terribile per me. Avevo letto dei libri su Paul Bernardo e quindi sapevo quanto fossero tremendi quei crimini, così quando iniziai a utilizzare quel materiale nella storia di fantasia del fumetto, facendo diventare il personaggio della ragazza una vittima di Bernardo, capii che non sarebbe stato piacevole da disegnare. Non volevo che fosse eccitante, volevo che fosse orribile. E mi sentii orribile a disegnarlo, e ho parlato con persone che hanno trovato orribile leggerlo, quindi suppongo di aver raggiunto l’obiettivo se è possibile dire una cosa del genere.

Quindi finire il libro è stata una sorta di liberazione?

Sono felice di averlo finito e non ho alcun interesse a fare di nuovo quel genere di storia lì. Le storie di The Journal of The Main Street Secret Lodge hanno dei momenti violenti e piuttosto cruenti ma al tempo stesso c’è anche una componente di divertimento e di gioco, non vanno prese sul serio per la gran parte.

Sì, e anche i disegni sono molto diversi, Colville è più realistico.

Beh, a mio parere Colville è la cosa migliore che io abbia mai disegnato. Mi piacciono molto anche alcune pagine del prossimo Journal ma non penso che lavorerò così tanto a un altro fumetto come ho lavorato a Colville.

Immagino che le pagine di Colville abbiano richiesto una lavorazione più complessa rispetto a quelle del Journal, il tratteggio è molto dettagliato, soprattutto nella seconda e nella terza parte. E il tratteggio è una sorta di marchio di fabbrica per te.

Le tavole di Colville sono state disegnate per la gran parte in formato più grande e sì, ci ho messo una vita per farle. Per quanto riguarda il tratteggio, beh, non lo consiglierei a nessuno. Alcune volte i fumettisti mettono un sacco di linee sulla pagina per mascherare il fatto che non sanno disegnare. Ma nei miei fumetti i disegni brutti sono sotto gli occhi di tutti. Non c’è l’intenzione di nascondere i disegni mal riusciti, ho scelto di usare il tratteggio per creare una sorta di atmosfera. Forse nei miei primi fumetti il disegno era più stilizzato, poi è diventato più realistico e ora sto tornando a qualcosa di più stilizzato nel prossimo lavoro. Lo stamperò nei toni del grigio, disegnando in strati separati bianchi e neri, un processo diverso da quanto ho fatto in passato. Spero che sia un cambiamento positivo, anche se sono sicuro che il libro che farò dopo il nuovo Journal avrà un sacco di tratteggio, probabilmente più di tutti gli altri.

In pratica stai andando avanti e indietro…

Sì, penso proprio di sì. (ride).

Steven Gilbert nel suo negozio

Un’intervista a Conor Stechschulte

(English text)

In occasione della prossima imminente edizione di BilBOlbul, dal 24 al 26 novembre a Bologna, Conor Stechschulte sarà protagonista di una mostra intitolata Il peso dell’acqua, che inaugurerà presso la galleria Spazio & il 24/11 alla presenza dell’autore, per poi prolungarsi fino al 20 dicembre. Negli stessi giorni troverà pubblicazione in Italia per 001 Edizioni I dilettanti, traduzione di The Amateurs, graphic novel edito nel 2014 da Fantagraphics dopo una prima versione autoprodotta. E a breve è prevista inoltre l’uscita del terzo capitolo di Generous Bosom, la serie che il cartoonist americano sta realizzando per gli inglesi di Breakdown Press.

Per presentare Conor al pubblico italiano gli abbiamo rivolto qualche domanda sulla sua formazione, le sue opere e il suo processo creativo. L’intervista è stata realizzata via e-mail tra settembre e ottobre 2017 da Alessio Trabacchini e Gabriele Di Fazio, cui si è aggiunta in seguito Elisabetta Mongardi. La traduzione in italiano è di Mauro Meneghelli. Buona lettura.

The Amateurs mostra la tua capacità di far scorrere il mistero nel quotidiano, sembra che attraverso i vari personaggi (nella storia principale e nella cornice) la storia illustri diverse modalità di rapportarsi all’elemento misterioso e non razionale dell’esistenza. Non sappiamo se sei d’accordo con questa lettura ma vorremmo cominciare proprio dal tuo rapporto con questo elemento e da come pensi che possa essere trasmesso, mostrato o evocato attraverso l’arte.

Le storie di fantasia possono aiutare a guardare da altri punti di vista ciò che viviamo. Questo è un grande dono che ho ricevuto dell’arte, e che cerco di trasmettere. Inoltre mi piace molto quando sogno qualcosa di veramente banale – come aver spostato un oggetto nel mio appartamento o aver ritrovato qualcosa in macchina – e poiché si adatta perfettamente alla realtà è come una strana ma noiosa bomba a orologeria che esplode all’improvviso. Rende il resto della mia giornata un po’ irreale. Mi è successo anche di recente, ho sognato di aver inviato alcune foto sul mio cellulare a un estraneo, che ha risposto semplicemente “Ah!”. Qualche giorno dopo il sogno, ho avuto un momento di assoluto panico al pensiero che questa cosa leggermente imbarazzante fosse successa davvero.

Quindi, se sognare oggetti comuni è importante per la tua arte, è anche vero che l’incipit di The Amateurs mostra il processo contrario, dato che qualcosa di insolito si materializza nella vita di tutti i giorni. La testa ritrovata nel fiume innesca infatti una serie di eventi straordinari, come succede con l’orecchio tagliato trovato nel campo all’inizio di Velluto blu di Lynch. Se i tuoi fumetti svelano la permeabilità tra il mondo reale e quello onirico, puoi raccontarci meglio come l’esperienza del sogno influenza il tuo lavoro? Inoltre, ci sono autori che ami particolarmente tra coloro che hanno percorso questa strada?

Mi piacerebbe parecchio fare dei sogni lucidi, ma finora non ci sono riuscito se non in quei momenti, la mattina presto, in cui posticipo continuamente la sveglia. Ho trovato molte soluzioni a problemi di sceneggiatura o di disegno in questo “spazio” (mi ricordo per esempio l’immagine finale di The Dormitory con il ragazzo che fuma alla finestra del seminterrato).

Un autore che mi viene subito in mente a questo proposito è Jesse Ball. Ho avuto il privilegio di averlo come tutor durante il mio semestre alla School of the Art Institute di Chicago la scorsa primavera e ho appena letto Sleep, Death’s Brother, il suo libro sul sogno lucido. Le sue idee sui sogni sono molto più interessanti delle mie e mi piace particolarmente la sua concezione dello spazio onirico come un territorio dove allenare la volontà; il suo libro è infatti destinato ai bambini e ai detenuti per l’esercizio della forza di volontà in circostanze particolari.

La gran parte dei miei autori e artisti preferiti ha “percorso questa strada”. Uno dei più importanti per me è Kobo Abe, e per Generous Bosom mi sto ispirando molto al suo libro Secret Rendezvous. Nei suoi quaderni Werner Herzog non fa distinzione tra avvenimenti quotidiani e immaginario onirico (sebbene affermi di non sognare la notte). L’idea seminale per The Amateurs è scaturita da una scena che ho letto nei suoi diari in cui descrive dei macellai incapaci sulle sponde di un fiume a Iquitos. Nell’ambito del fumetto penso che Olivier Schrauwen sia un maestro delle situazioni sognanti/fantasiose/soggettive e nel giocare con il loro scarto umoristico rispetto alla realtà circostante. Altri libri/autori/artisti per me importanti in questo filone sono L’allegra compagnia del sogno di J.G. Ballard, Solaris di Stanislaw Lem, Il pellegrinaggio in Oriente di Hermann Hesse, L’uccello che girava le viti del mondo di Haruki Murakami, chiaramente Borges, Philip K. Dick,  Apichatpong Weerasethakul, Tarkovsky, sicuramente Lynch… E molti altri che sto dimenticando.

L’edizione Fantagraphics di The Amateurs presenta alcune differenze dalla prima versione che ti sei autoprodotto nel 2011. La più significativa è la sostituzione dell’introduzione scritta a mano con una storia completamente nuova di due studentesse che trovano la testa di un uomo nel fiume, lo stesso fiume dove faranno un rito per celebrare la promozione insieme alle compagne di scuola. Perché hai deciso di modificare l’originale e come hai creato questa nuova storyline?

Ero semplicemente insoddisfatto della lettera da un punto di vista estetico. Era una delle ultime cose che avevo aggiunto al fumetto e più la guardavo meno mi convinceva. Un paio di mesi dopo aver pubblicato l’albo ho avuto l’idea di questa seconda storyline e ho pensato: “Se mai avrò modo di ristamparlo l’aggiungerò”. Così quando Fantagraphics me ne ha dato l’opportunità è stata una delle prime cose che ho fatto.

Gli animali hanno un ruolo chiave in The Amateurs, sembrano forti e consapevoli, mentre Jim e Winston, i due macellai protagonisti della storia, sono deboli e confusi. Inoltre la violenza brutale di alcune sequenze in cui gli animali sono considerati semplicemente come cibo sembra condannare la scelta di mangiare carne animale. Volevi comunicare una sorta di “messaggio” con questa storia? O l’interpretazione è più metaforica?

Ho deciso che Jim e Winston dovessero essere dei macellai perché volevo facessero un lavoro intimamente correlato con la morte. Volevo raccontare come le persone, invece di fare i conti con la morte, la considerano una cosa che non li riguarda e finiscono per collocarla nel corpo altrui. E questo porta sempre a un danno per se stessi e per gli altri.

Detto questo, quando ho realizzato il libro ero vegetariano da dodici anni. Ma poi ho ricominciato a mangiare carne. Ahah, non so se questo spiega qualcosa della storia… Se qualcuno decidesse di diventare vegetariano dopo aver letto il libro sarebbe fantastico.

Leggendo The Amateurs, l’impressione è che il genere dei tuoi personaggi non sia casuale. Oltre ad alcuni indizi evidenti (la scuola femminile, le due clienti), tutti gli animali che ad un certo punto si ribellano contro gli umani sono femmine (la scrofa, la giumenta, la mucca) mentre i maschi sono più sottomessi (il maiale va nel mattatoio di sua iniziativa, la tartaruga viene torturata nel bosco). Sembra anche che il potere minaccioso del fiume, quale che sia, non colpisca le donne: lo usano per fare il bagno, lavare i panni, fare dei riti senza che gli succeda nulla. Quando, invece, Winston e Jim entrano nell’acqua vengono letteralmente fatti a pezzi. C’è anche una scena in cui Winston, subito dopo essersi macinato le dita, urla alle due clienti che non tollererebbe mai che una donna criticasse il suo lavoro. Per non parlare del fatto che gli torna in mente che quando erano bambini le due clienti lo avevano vestito da femmina. Ci sembra dunque che il tuo libro sia pieno di sottili riferimenti alle relazioni tra uomini e donne (o alla concezione generale di mascolinità e femminilità). Tutto ciò è intenzionale o lo stiamo sovrainterpretando? E il fiume c’entra qualcosa con la rappresentazione della femminilità nel libro?

Grazie per questa lettura così accurata. È assolutamente vero che, almeno nelle mie intenzioni, il genere era un aspetto fondamentale che volevo affrontare.

Anche a rischio di spiegare troppo o escludere interpretazioni migliori e più interessanti, direi che The Amateurs è un tentativo di prendere in giro, ridicolizzare e fare a pezzi (letteralmente, ahah) la concezione di una mascolinità autosufficiente, non-relazionale, quella dell’uomo che ha tutte le risposte. È questo ciò che Jim e Winston tentano di rappresentare per i personaggi femminili del fumetto.

Di grande ispirazione per The Amateurs è stato il libro di Kaja Silverman Flesh of my Flesh, che propone di sostituire il mito di Edipo con quello di Orfeo per quanto riguarda il genere – una storia basata sulla mortalità invece che sulla castrazione. Afferma che la nostra mortalità ci permette di relazionarci gli uni con gli altri per analogia, attraverso le nostre somiglianze, piuttosto che metaforicamente, cosa che presuppone sempre una gerarchia. Ho utilizzato molte di queste idee e ho preso in prestito l’immaginario del mito di Orfeo (ad esempio la testa trascinata sulla riva).

Grazie per aver evidenziato l’aspetto del genere a proposito degli animali ma non penso di averlo fatto intenzionalmente. Credo che un modello simile emerga anche in Generous Bosom, dove il protagonista e “eroe” della storia è in realtà molto passivo.

Quanto all’acqua, credo sia rappresentativa di uno stato estatico/trascendente/indefinito e non riferita al concetto di genere.

L’acqua è un elemento ricorrente nei tuoi fumetti, e talvolta ha un ruolo fondamentale. Può essere il fiume rituale in The Amateurs, la pioggia da cui prende forma Generous Bosom, il lago delle tensioni acute ma impalpabili di Glancing, il mare che accoglie i giochi di Water Phase e il flusso narrativo di Christmas in Prison. Se la consideriamo come un simbolo, l’acqua è necessariamente sfaccettata, fluida, e sembra collegata al desiderio, al cambiamento, all’epifania. È dove succedono le cose, dove si raccontano le storie e si svelano i segreti. Perché l’acqua è così importante per te?

Grazie per aver rintracciato in maniera così completa questa immagine nei miei lavori! Avete delineato così bene il modo in cui ho utilizzato l’acqua che non so se posso aggiungere altro…

Dei significati simbolici che avete elencato mi identifico maggiormente con l’idea di cambiamento. L’acqua è dove i confini si infrangono, le cose si dissolvono, le definizioni si spostano.

Per quanto si debba essere chiari ed esplicativi nel raccontare una storia, soprattutto con i fumetti (ecco un tizio, ed eccolo di nuovo, vedi? Porta le stesse scarpe e lo stesso cappello, a parte il fatto che gli è caduto l’ombrello, ed eccolo, è di nuovo lui che si sta chinando per raccoglierlo), l’acqua concede uno spazio necessario alla vaghezza.

È un luogo che permette di sospendere l’interruzione tra le varie vignette (o forse è un modo di rappresentare quel non-spazio tra loro). Puoi raffigurare un personaggio con tratti puliti e decisi per la maggior parte della tua storia ma, se pensi allo stesso personaggio in una vasca piena d’acqua, le linee diventano tutte ondulate. E possono essere diverse, dunque.

Questo conferma la tua tendenza a cercare modalità sempre nuove per raccontare una storia. Per esempio anche il tuo ultimo lavoro, Tintering, è innovativo, perché invece di disegnare i personaggi racconti la storia di cinque artisti autodidatti attraverso diversi oggetti rotti e usando vignette molto simili tra loro, mentre il contenuto è veicolato soprattutto attraverso il testo. Come sei arrivato a questo e perché è importante per te puntare l’attenzione sugli oggetti?

L’ispirazione per il soggetto del fumetto è stata una lezione di storia dell’arte di Lisa Stone, che è un’insegnante incredibile, generosa e acuta sul tema degli artisti autodidatti e vernacolari. Il modo in cui questi artisti si rapportavano agli oggetti era diverso da come noi abitualmente facciamo (o dobbiamo fare) nella quotidianità. Kea Tawana, per esempio, smontava con meticolosità e attenzione quei vecchi edifici di Newark. Aveva un’enorme sensibilità per l’artigianato e non poteva sopportare che dei materiali utili andassero sprecati. Buona parte del lavoro di questi artisti autodidatti è una risposta alla produzione massiva di oggetti tipica della nostra cultura, e all’incuria e spreco successivi.

Inizialmente pensavo che il fumetto dovesse essere come quelle sezioni di Christmas in Prison in cui il personaggio fa una sorta di monologo rivolto al lettore. Allora ho disegnato un tipo dietro un albero e poi ho pensato che avrebbe allungato una mano e spezzato un ramo. A quel punto mi è sembrato più corretto che fosse il ramo a parlare. La maggior parte delle storie di questi artisti iniziano e finiscono tragicamente – subiscono una perdita, creano qualcosa di bello che viene distrutto. Mi è sembrato giusto che fosse qualcosa di rotto a raccontare queste storie e che parlasse dalla parte della ferita.

In Generous Bosom esplori in maniera approfondita un tema per te ricorrente. Potremmo chiamarlo “voyeurismo” ma sarebbe semplicistico, è piuttosto la questione continua di “chi guarda” e delle dinamiche del guardare. Questo tema è presente in molte delle tue opere ed è fondamentale nel tuo albo autoprodotto The Dormitory. Ma chi è il vero voyeur, l’autore o il lettore? O qualcun altro?

Difficile rispondere brevemente a questa domanda, soprattutto perché la considero una questione aperta, su cui sto ancora lavorando… Non credo che qualcuno possa semplicemente guardare qualcosa senza, consapevolmente o meno, partecipare o alterare ciò che sta guardando. Non penso di poter dire chi sia il “vero” voyeur.

Forse i fumetti si basano proprio sul fatto che l’atto di osservare influenza ciò che si guarda. Ci puoi parlare della tua esperienza di lettore? Come ti piace leggere/guardare i fumetti?

Sì, credo che questa sia una giusta considerazione. In un fumetto non si sfugge al fatto che qualsiasi cosa si trovi sulla pagina è stata messa lì da qualcuno e nel disegnare non c’è differenza tra ciò che si vede e come lo si vede.

Detto questo, come lettore mi piace molto considerare il fumetto come un medium in cui mettere del tuo. Non è la stessa cosa di guardare un film, qui è il pubblico/lettore ad animare l’azione. Per rispondere alla domanda, penso che Generous Bosom indaghi la dinamica della lettura dei fumetti – puoi pensare di osservare qualcosa che succede sia come lettore che come autore ma in realtà sei tu a far succedere quella cosa.

Mi piace leggere più volte i fumetti. E mi piace il fumetto perché è un mezzo che incoraggia questo processo; è sempre facile ritrovare una scena preferita, è a portata di mano. E inoltre leggendo i fumetti si può passare velocemente dall’oggetto della storia al mezzo con cui è raccontata. La densità e la profondità di un fumetto davvero bello sono immediatamente accessibili.

I tuoi fumetti bilanciano flusso e struttura in una maniera unica e originale e in genere è molto difficile capire se sei partito dalla trama o dai disegni. Glancing, un’opera basata sull’accostamento di acquerelli senza testo, potrebbe essere un ottimo esempio. Qual è la tua concezione di fumetto e narrazione?

Grazie! Sulla mia concezione di fumetto e narrazione penso si possa tornare a ciò che ci siamo detti sull’acqua e sulla comparsa del misterioso e dell’irrazionale nel quotidiano. Struttura=Vita quotidiana=Narrazione principale di un fumetto/Disegni lineari/Chiarezza, mentre Flusso=Mistero=Acqua/Cambiamento/Irrazionalità.

Nei miei fumetti tento di mettere tutti i pezzi in fila, di raccontare una storia, e per farlo bisogna stabilire delle regole che il lettore possa seguire e su cui possa fare affidamento (credo che questo sia ciò che intendete con “struttura”). Queste regole si accumulano e possono presto diventare ostacoli alla libertà e alle potenzialità proprie del mondo che ho creato, che sono la fonte di energia per il seguito della storia. Per me a questo punto è il momento di cambiare le regole, o di lavorare a un altro progetto con regole diverse o ancora imprecise.

Lavorare a Glancing è stato in questo senso molto divertente e dinamico, perché facevo tre o quattro disegni e poi potevo inserirne altri nel mezzo, o dopo, o prima. Potevo osservare tutto il lavoro disposto sul pavimento e farmene un’idea complessiva. Voglio lavorare ad altri fumetti in questo modo.

Un altro aspetto interessante del tuo lavoro è che in genere eviti l’opposizione tra fumetti narrativi e non-narrativi – e tra “fiction” e “poetry comics” – alternando le due modalità o dimostrando la loro sostanziale identità nel campo del fumetto. Concordi con questo punto di vista?

Grazie di nuovo! Sì, ritengo che anche questo aspetto sia collegato alla domanda di prima. Aggiungerei che le decisioni sulla struttura, se qualcosa debba essere “poetico” o “narrativo” e così via, sono prese seguendo l’entusiasmo per ciò su cui sto lavorando. Spesso inserisco qualcosa di misterioso/poetico/irrazionale/non-narrativo perché mi sto per annoiare di una fase della storia o perché voglio evitare una scena che non mi sembra interessante da realizzare o da leggere.

Il tuo lavoro guarda sia ai fumetti letterari degli anni ‘90 sia alla sperimentazione formale che si distingue dagli standard del graphic novel, come Fort Thunder e gli art comics in genere. Ma qual è il tuo background? Anche al di fuori dei fumetti, ovviamente.

La mia più grande influenza sono gli amici che ho trovato al Maryland Institute College of Art, le persone che facevano parte del gruppo Closed Caption Comics. Da giovani abbiamo imparato tutti insieme a fare fumetti. Era il periodo in cui stava nascendo PictureBox e molte delle cose di Fort Thunder stavano emergendo ed era perfetto – sembrava che l’immediatezza di quei lavori e la loro forza visuale si rivolgessero proprio a noi. Kramers Ergot 4 e 5, il vecchio sito di Fort Thunder e conoscere CF e Brian Chippendale alla Small Press Expo ci fece capire che quello era il mondo dell’arte in cui potevamo trovare il nostro spazio. Direi che per un bel po’ quella è stata la dimensione che mi interessava: la mia cerchia di amici e quel paio di spiriti guida là fuori.

Oltre a questo, crescere nella Pennsylvania rurale ha avuto una grande influenza sui mondi immaginari dei miei libri. Ho letto anche molta letteratura. Ho appena terminato un master alla School of the Art Institute di Chicago. Non so se però siete più interessati alla mia formazione e alle mie influenze o alla mia biografia…

Soprattutto alle tue influenze, ma anche all’aspetto biografico nella misura in cui ha influenzato il tuo lavoro…

Oltre a Closed Caption Comics, ho partecipato ad altri progetti artistici che hanno avuto un grande impatto sulla mia vita. Appena finita la scuola, ho dato una mano alla creazione della galleria Open Space a Baltimora. Abbiamo curato degli spettacoli, ospitato performance, creato una biblioteca di fanzine e abbiamo messo in piedi la Publications and Multiples Fair. Sto anche aiutando a organizzare la prima Chicago Art Book Fair.

Per sette anni sono stato anche in una band chiamata Witch Hat che ho fondato con Noel Freibert e Lane Milburn. Dopo tre anni Lane ha lasciato la band e si è unito a noi Chris Day. Chris e io ora siamo in una nuova band che si chiama Lilac, con Anya Davidson e Kenny Rasmussen, qui a Chicago (io e Chris ci siamo trasferiti nello stesso periodo). Quando sono entrato nella scena underground dei fumetti c’erano molti punti di contatto con la scena musicale underground. Ho incontrato molti musicisti grazie ai fumetti e molti fumettisti grazie alla musica.

Pensi che la tua arte o il tuo approccio all’arte siano cambiati da quando non sei più a Baltimora? A Chicago c’è una scena fumettistica importante e una lunga tradizione di arte contemporanea che sicuramente ti avranno stimolato, ci viene da pensare agli Hairy Who ma ci sono probabilmente molte cose che in Europa sono poco conosciute.

La mia arte e il mio approccio sono sicuramente cambiati molto da quando ho lasciato Baltimora. Ho frequentato una nuova scuola negli ultimi due anni e l’essere in contatto con tantissime nuove opere, persone e idee è stato incredibilmente rinvigorente e travolgente. Penso che per digerire tutto ciò mi ci vorranno degli anni.

Quanto allo stile di vita, trasferirmi qui e frequentare la scuola mi ha permesso di evitare i lavori non artistici (almeno per ora). È una grande opportunità che prima non pensavo di potermi permettere. Ora sono più concentrato sull’idea di fare arte a tempo pieno, o almeno di farla e insegnarla.

Chicago è una città fantastica per i fumettisti. C’è una comunità splendida, di grande supporto, e realtà come la serie di reading Zine Not Dead gestita da Matt Davis e Brad Rohloff, che porta avanti la tradizione delle letture performative di fumetti avviata da Lyra Hill con Brain Frame. E poi a soli cinque isolati da casa mia vivono tutti insieme Anya Davidson, Lane Milburn, Margot Ferrick e Andy Burkholder (anche Edie Fake viveva lì, nella mansarda). A due isolati di distanza ma in un’altra direzione vivono i miei cari amici Molly O’Connell e Chris Day – i quali fanno entrambi cose molto belle, nell’ambito dei fumetti e non solo.

Abbiamo già parlato di Conor Stechschulte qui:

Qualche fumetto dalla Small Press Expo (Mountain Comic & Generous Impression)

Best Comics of 2014: The List (The Amateurs, Generous Bosom, Glancing)

Generous Bosom #1-2

Christmas in Prison

Misunderstanding Comics #8 (The Fence)

L’underground al Borda!Fest

Un viaggio nell’underground di una volta a un festival che è underground, ancor prima che nei contenuti, nel luogo e nei tempi, dato che prende vita sotto le mura di Lucca, al Baluardo San Martino, e perché ha la faccia tosta di programmarsi ogni anno in concomitanza con il Festival dei Fumetti in Italia, ossia Lucca Comics. Per il primo anno Just Indie Comics sarà al Borda!Fest e lo farà con una selezione delle solite pubblicazioni vecchie, nuove, italiane e straniere che più o meno già conoscete se seguite questo sito e se date ogni tanto un’occhiata allo shop on line, ma non solo… In esclusiva per il Borda! ho infatti pensato di portare in Italia qualche chicca dell’underground statunitense degli anni andati, riviste e comic-book che rappresentano in qualche modo la storia di un genere, anche se è davvero riduttivo definirlo tale. Per lo più si tratta di spillati che propongono con orgoglio l’ormai poco commerciale format dell’antologia, che invece tanto piace agli appassionati, mentre in un paio di  casi siamo di fronte a recuperi d’epoca di mostri sacri del fumetto a stelle e strisce. Ma prima di vedere di cosa si tratta una COMUNICAZIONE DI SERVIZIO: il Borda! si terrà dal 2 al 5 novembre ma io potrò esserci soltanto venerdì 3 e sabato 4 dalle 14 alle 20, quindi se vi interessa trovare il materiale di Just Indie Comics fatevi vedere in quei giorni, a quell’ora e soprattutto in quel posto… Per i dettagli sulla manifestazione vi rimando invece alla pagina Facebook e al sito dell’edizione 2017. E ora possiamo cominciare…

Zap Comix #7 – Non si tratta della prima edizione, ovviamente diventata oggetto da collezione, ma di una ristampa di Zap Comix, la rivista lanciata da Robert Crumb nel 1968 e diventata il motore della rivoluzione underground. Questa settima uscita risale al 1974 e mette insieme lavori di S. Clay Wilson, Spain Rodriguez, Gilbert Shelton, Rick Griffin e Victor Moscoso, oltre allo stesso Crumb che partecipa con Mr. Natural meets “The Kid” e l’autoironica R. Crumb presents R. Crumb.

Wimmen’s Comix #7 – Se Zap sconfiggeva i luoghi comuni sul fumetto proponendo contenuti diversi da quelli a cui era abituato il pubblico mainstream, con Wimmen’s Comix si andava anche oltre, superando le usuali convenzioni di genere. Zap era infatti innovativo, trasgressivo, rivoluzionario ma i suoi autori erano tutti… uomini. C’era dunque bisogno di fumetti che rappresentassero com’erano le donne degli anni ’70 e che non avessero paura di mettere in primo piano la loro sessualità. Tra le collaboratrici di questo numero 7, datato 1976, troviamo Joyce Farmer, Terry Richards, Dot Bucher, la Roberta Gregory nota per la serie anni ’90 Naughty Bits e  Melinda Gebbie, poi diventata collaboratrice (Lost Girls, Cobweb) nonché moglie di Alan Moore.

Hup #1 – Qui siamo davanti a una rarità, perché questo non è un albo facilissimo da trovare in giro. Si tratta della prima edizione di Hup di Robert Crumb, spillato edito da Last Gasp nel 1987 e che raccoglie alcune storie del Nostro al meglio delle sue capacità artistiche, con uno stile che negli anni si è fatto ricco, dettagliato, elegante. Dentro ci trovate i Rough-Tuff Cream-Puffs, Mr. Natural e i ben noti “troubles with women”. Insomma, un pezzo di storia del fumetto nella sua forma originale.

Weirdo #20Weirdo è stata tra gli anni ’80 e i primi ’90 la sorella di Zap Comix, alternando come editor lo stesso Crumb, Peter Bagge e Aline Kominsky-Crumb ma proponendo, accanto ai soliti noti, autori promettenti che sarebbero diventati famosi di lì a breve. Questa ventesima uscita, datata nuovamente 1987, presenta un ricco cast composto tra gli altri da Dori Seda, Mary Fleener, Mark Zingarelli, la stessa Aline Kominsky-Crumb e ovviamente suo marito, autore della copertina e del cult Footsy, incentrato sulla sua passione per i piedi femminili.

Young Lust #8 – Facciamo un salto negli anni ’90 per arrivare all’ultimo numero di un’altra storica antologia, dedita alla rilettura in chiave underground dei temi dei romance comics. Questa ottava uscita, datata 1993, è l’ultima della serie e nasconde dietro una bella cover di un giovane Daniel Clowes contributi dell’editor Jay Kinney, Bill Griffith, Spain e di un certo Charles Burns, autore di una pagina dal titolo Love Diary che parte dalla sua passione per le storie d’amore anni ’50 per anticipare le trovate dei lavori futuri.

 

Mr. A #2 – E ora un passo indietro nel tempo con un albo che poco c’entra con i precedenti. Outsider del fumetto per eccellenza, dopo aver rotto con la Marvel Steve Ditko si dedicò alla collaborazione con case editrici come Charlton, Warren e Dc Comics. Nel frattempo creò anche il personaggio di Mr. A, territorio per sviluppare le sue idee filosofiche, che riprendevano la teoria dell’oggettivismo di Ayn Rand. Qui il secondo numero datato 1976, pieno di vignette densissime di testo e caratterizzate dal tratto inconfondibile di Ditko.

10 fumetti da sfogliare a Lucca Comics

In extremis, come già hanno fatto tutti i i più prestigiosi siti d’informazione, propongo anche io la mia breve e sintetica lista dei fumetti da sfogliare a Lucca Comics. Dico “da sfogliare” e non “da comprare” perché, se c’è una cosa che ho imparato nella vita, è che SFOGLIARE E’ GRATIS COMPRARE COSTA. I titoli sono ordinati in rigoroso ordine alfabetico e sono tutte novità dell’ultima ora tranne un paio di volumi già usciti da qualche settimana ma su cui mi è sembrato il caso di soffermarsi. Buona lettura.

 

133 – One Dirty Tree (Oblomov Edizioni) – Un nuovo fumetto di Noah Van Sciver visto solo su Patreon e pubblicato in esclusiva da Oblomov, grande colpo per la nuova casa editrice di Igort, che arriva a Lucca con una quantità impressionante di novità. L’autore di Blammo e Fante Bukowski guarda alla sua gioventù, alla storia della sua famiglia e a una relazione finita in quello che si annuncia come un romanzo di formazione a fumetti. Da non perdere anche perché su carta è un inedito assoluto, senza ancora alcun piano di pubblicazione negli Stati Uniti.

676 apparizioni di Killoffer (Coconino Press) – Una recensione che lessi non mi ricordo bene dove definiva questo libro “come se Tarantino avesse scritto L’apprendista stregone di Walt Disney”. Difficile trovare parole migliori per raccontare a grandi linee questo fumetto, primo di Patrice Killoffer ad arrivare in Italia. Unico nel suo genere, è un viaggio dentro la paranoia, la misoginia e le ossessioni del protagonista rappresentato con un susseguirsi di trovate grafiche geniali.

American Flagg vol. 1 (Editoriale Cosmo) – Arriva quello che dovrebbe essere il primo volume della ristampa integrale dell’American Flagg di Howard Chaykin, un’iniziativa editoriale che se rispettasse le sue promesse sarebbe a dir poco lodevole, dato che una riedizione completa di questa serie distopica anni ’80 non esiste nemmeno negli Stati Uniti. Da verificare prima dell’acquisto la qualità dell’edizione, perché la carta e la stampa scelte da Editoriale Cosmo non sempre hanno convinto.

Collezione Crumb Vol. 4 – Mr. Natural (Comicon Edizioni) – Quasi trecento pagine tutte dedicate a Mr. Natural nel quarto volume della Collezione Crumb, che debuttò proprio a Lucca tre anni fa alla presenza dell’autore. Da allora le uscite procedono a rilento ma procedono, e dopotutto è questo che importa. Tuffatevi nel pazzo mondo hippy del mistico filosofo fricchettone cialtrone più undeground di tutti i tempi.

Drinking at the Movies (Eris Edizioni) – Dopo i libri di Michael DeForge e Jesse Jacobs, continua la collaborazione di Eris con la casa editrice canadese Koyama Press. Ad arrivare in Italia è stavolta Drinking at the Movies di Julia Wertz, autrice che rappresenta una delle voci più interessanti dell’autobiografia a fumetti contemporanea, oltreché abilissima illustratrice della New York meno convenzionale, come testimonia la recente raccolta Tenements, Towers & Trash. E New York è protagonista anche di questo volumetto, che racconta il trasferimento dalla familiare San Francisco alle strade sconosciute della Grande Mela, tra lavori sfigati, appartamenti luridi, sbronze e via dicendo. Insomma, il solito pacchetto ma fatto bene.

The End of the Fucking World (001 Edizioni) – Qualche copia si era vista in sordina già al Treviso Comic Book Festival, ma Lucca dà di nuovo modo di sottolineare la coraggiosa operazione di 001, che porta in Italia l’opera di esordio di Charles Forsman. Uscito prima sotto forma di mini-comics autoprodotti e poi raccolto in volume da Fantagraphics, TEOTFW è un romanzo di formazione del tutto maturo sul piano della forma quanto spiazzante per i contenuti, in cui il passaggio dall’intimismo all’anaffettività fino alla violenza brutale avviene in un batter di ciglia.

Paesaggio dopo la battaglia (Coconino Press) – Capisco più di X-Men che di fumetto belga, ma questo volume targato Fremok che ha vinto il Fauve d’Or ad Angoulême 2017 si preannuncia visivamente affascinante quanto formalmente interessante. Vale la pena sicuramente darci un’occhiata, anche perché il disegnatore Éric Lambé (autore dell’opera insieme allo sceneggiatore Philippe de Pierpont) sarà ospite con una mostra al prossimo BilBOlbul.

Psycho (Eris Edizioni) – Dopo la mostra vista a Carrara, Roma e Macerata, torna anche in libreria l’arte del Prof. Bad Trip. Psycho è il primo di una serie di volumi annunciati da Eris e presenta, oltre al fumetto omonimo, la storia breve Kathodic Karma e un testo critico di Vittore Baroni. Il volume è disponibile anche in un’edizione limitata di 250 copie con copertina serigrafata da Stranedizioni.

Quimby The Mouse (Oblomov Edizioni) – In attesa di vedere Building Stories, da tempo annunciato per Bao, ci pensa Oblomov a pubblicare finalmente in Italia un’altra opera di Chris Ware. Quello dedicato al topo Quimby è un volume oversize che raccoglie materiale dei primi anni ’90 tratto da Acme Novelty Library e da altre pubblicazioni, in cui Ware riprende lo stile delle strip alla Krazy Kat rendendolo dettagliatissimo. Esistenzialismo e perfezionismo vanno a braccetto in un dualismo talmente riuscito da risultare – almeno per me – inquietante.

The Rust Kingdom (Hollow Press) – Il nuovo libro di Spugna, secondo lavoro sulla lunga distanza dopo Una brutta storia del 2014, ha debuttato già al Treviso Comic Book Festival con tanto di mostra di tavole originali ma qui è il caso di tornarci perché in Italia trovare un fumetto così è raro. E per “così” intendo un fumetto che rifiuta ogni forma di realismo per chiudersi nel suo mondo fatto di carne macellata, in cui tra un taglio d’ascia e uno di spada si insinua un plot che smorza con spirito nichilista le suggestioni fantasy. E l’autore si conferma anche maestro dei finali a sorpresa, cosa non certo da tutti.

“The Best American Comics 2017”

Saltata la recensione del volume dello scorso anno, torno a occuparmi su queste pagine di The Best American Comics, la serie edita da Houghton Mifflin Harcourt di cui ho già parlato in questo post a proposito dell’edizione 2015. Se non sapete di cosa si tratta, vi rimando appunto all’articolo di due anni fa per una spiegazione dettagliata del progetto. Qui mi limito a dirvi brevemente che la collana è sempre coordinata da Bill Kartalopoulos, che l’editor di quest’anno è Ben Katchor e che questo sostanzioso hardcover di quasi 400 pagine riunisce, secondo la visione dei curatori, i migliori fumetti di cartoonist americani che hanno visto la luce – in forme e modi differenti – tra il primo settembre 2015 e il 31 agosto 2016. Sì, perché non si tratta solo di fumetti cartacei, dato che The Best American Comics guarda anche al mondo del web e, soprattutto, a quello dell’arte, sviluppando ancor più che in passato – a quanto sembra per precisa volontà di Katchor – quel filone dei paracomics di cui fanno parte opere con la sembianza di fumetti ma destinate ad altro tipo di fruizione. Se aggiungiamo che i lavori selezionati snobbano in toto le major dell’editoria (non c’è nemmeno una pagina di un prodotto Marvel, Dc, Image ecc.) e sono spesso tratti da riviste, mini di difficile reperibilità o fanzine autoprodotte, viene fuori che il volume non è solo l’occasione per fare i conti con lo stato del fumetto americano oggi, ma anche un modo per conoscere nuovo materiale per chi quel tipo di fumetto lì lo segue abitualmente. Ed è apprezzabile che un prodotto del genere arrivi in pompa magna sugli scaffali delle librerie generaliste, portando agli occhi del grande pubblico contenuti particolari, sperimentali, bizzarri che diventano nella loro alterità un inno alla libertà di espressione e di pensiero, come ricordano l’introduzione di Kartalopoulos e l’amaramente post-orwelliana copertina di Matthew Thurber.

Tra i nomi di questo The Best American Comics 2017 ci sono mostri sacri del fumetto americano (Gary Panter, Kim Deitch, Joe Sacco, Bill Griffith), autori più giovani dei precedenti ma ormai ben noti al grande pubblico (Ed Piskor, Michael DeForge, Gabrielle Bell, Patrick Kyle, Matthew Thurber), fumettisti di nicchia ma con una storia editoriale già alle spalle (Sam Alden, Conor Stechschulte, Josh Bayer), cartoonist che vengono dal mondo dell’autoproduzione (Mike Taylor, Lale Westvind, John Hankiewicz), nuove promesse (Sienna Cittadino, Sami Alwani, Laura Pallmall), artisti che hanno esposto in gallerie o spazi culturali (Gerone Spruill, Oscar Azmitia, William Tyler). Difficili citarli tutti, perché i nomi coinvolti sono veramente tanti, così mi limito a fare una veloce rassegna dei miei lavori preferiti tra quelli pubblicati.

Gary Panter, The Future of Art 25 Years Hence – Un fumetto di Gary Panter che sarà sfuggito ai più, otto pagine a colori tratte dal #181 dell’antologia frieze. Una riflessione sull’arte, il reale, il virtuale, l’analogico, il digitale e molto altro ancora, resa sotto forma di dialogo tra tre personaggi “storti”.

Deb Sokolow, Willem de Kooning. – Ispirata da una serie di aneddoti su De Kooning, quest’opera pubblicata dall’artista chicagoana in un’edizione limitata di sole tre copie unisce didascalie e diagrammi dando vita a un interessante esempio di fumetto astratto.

Lale Westvind, The Kanibul Ball – Pur non rappresentando la migliore uscita della serie, Kramers Ergot #9 conteneva materiale di ottima fattura ed è qui presente con ben tre estratti. Tra questi è doveroso segnalare The Kanibul Ball, un rituale rappresentato da Lale Westvind con colori caldi e sequenze psichedeliche.

Oscar Azmitia, Good Haven High – Azmitia ha la sindrome di Asperger, è cresciuto in un contesto fortemente religioso e realizza questi gustosi quadri naif con episodi tratti dalla vita scolastica.

Mike Taylor, Ranchero – Da anni autore della fanzine Late Era Clash, Mike Taylor disegna con le sue linee generose ed elaborate le vicissitudini di due ragazze adolescenti in una piccola cittadina della Florida, tra magliette dei Metallica, centri commerciali, le attenzioni dei ragazzi più grandi e quelle – non richieste – dei genitori.

Matthew Thurber, Kill Thurber – Altra storia dall’ultimo Kramers Ergot. Thurber divide la pagina alternando due diversi piani temporali ma solo alla fine si capisce ciò che sta succedendo… Geniale, prende spunto dall’omonimia tra l’autore di 1-800-MICE e James Grover Thurber.

Sam Alden, Test of Loyalty – Da prolificissimo autore di fumetti on line e cartacei, Alden ha negli ultimi anni centellinato le sue produzioni a causa dell’esperienza ad Adventure Time. Vista sul sito Hazlitt ma con le matite – stavolta colorate – sempre al loro posto, Test of Loyalty è una storia futuristica ma non troppo su un’operatrice cinematografica rimasta senza permesso di soggiorno.

Conor Stechschulte, Generous Bosom #2 (Excerpt) – In ogni volume di The Best American Comics è immancabile qualche estratto da opere lunghe, soluzione che poco lascia al lettore ma che è a conti fatti inevitabile. Questo brano di Stechschulte, un flashback tratto dal secondo (e al momento ancora ultimo) numero della sua serie Breakdown Press, fa il suo effetto anche fuori dal contesto originale.

Sami Alwani, The Dead Father – Tredici pagine in cui uno stile da illustrazione per bambini diventa inquietante fino a sintonizzarsi con un testo denso, complesso e sfaccettato, capace di raccontare un rapporto padre-figlio e una vita intera. Un “grande romanzo americano” da leggere e rileggere.

Laura Pallmall, Picaresque – Realizzato per la Comics Workbook Composition Competition 2015, Picaresque mette in scena le squallide vicissitudini di un balordo qualsiasi in un sobborgo come tanti altri. La rigida griglia di nove vignette per pagina non riesce a contenere né la grezza spontaneità delle matite né il male di vivere dei personaggi.

JICBC PT. 4 – “MINI KUŠ!” #55-58

Quattro fumetti per la quarta e ultima spedizione del Just Indie Comics Buyers Club 2017. Tra qualche giorno gli abbonati troveranno infatti nella loro cassetta delle lettere non un solo albo ma tutti e quattro gli ultimi mini kuš!, ossia gli spillati formato A6 che nascono come spin-off della rivista lettone š! e che contengono storie brevi e autoconclusive di autori internazionali. Di kuš! ho parlato più e più volte su queste pagine e anche altrove, dunque non vi sto nuovamente a raccontare la storia e il progetto di questo editore lettone che è ormai ben noto al pubblico italiano, dato che negli ultimi tempi è stato ospite di diverse manifestazioni nostrane, tra cui l’ultimo Treviso Comic Book Festival.

A inaugurare l’ultima tornata di mini kuš! è l’uscita #55, Valley dell’artista canadese GG, di cui avevo parlato brevemente qui in occasione della pubblicazione on line del suo A Mysterious Process. Da allora ne è passata di acqua sotto i ponti, il tratto di GG si è ingentilito (anche troppo per i miei gusti) e le tematiche sono diventate più intimiste, come testimonia il suo I’m Not Here edito di recente da Koyama Press. Valley prosegue questo nuovo tracciato raccontando le vicissitudini di una ragazza che va a cercare un gruppo di amici disperso tra le montagne. E una volta lì ci mette poco a perdersi a sua volta, in mezzo alla natura ma anche dentro se stessa.

Nell’albo di GG c’è un elemento misterioso, quasi da realismo magico, che scoprirete leggendo e che dona al tutto un’aura di mistero. Lo stesso discorso vale anche per gli altri mini del lotto, dove c’è sempre qualcosa di enigmatico, insondabile, difficilmente comprensibile o diversamente interpretabile, una soluzione ideale per espandere nella mente del lettore una storia di sole 24 pagine. A Friend, il mini kuš! #56 a firma Andrés Magán, è esempio calzante di questa tendenza, dato che fa diventare straordinaria una vicenda del tutto ordinaria, ossia quella di un uomo che ha perso il suo cane. A differenza di GG però, qui l’elemento inspiegabile non serve a raccontare il vissuto dei personaggi ma è utilizzato con piglio surrealista per giocare con le regole del fumetto e della rappresentazione in genere.

Ciò che mettono in dubbio i due mini visti finora è lo sguardo del protagonista, che si unisce a quello del narratore rendendo la pagina disegnata quanto meno poco attendibile. E sulle storie, e la loro veridicità, lavora anche Eviction di Evangelos Androutsopoulos. A prima vista poco attraente per il tratto legnoso e i colori severi, il mini kuš! #56 racconta l’occupazione di un fabbricato in riva al mare, mescolando personale e politico, con un approccio che mi ha ricordato per molti versi Avventure sull’isola deserta di Maciej Sieńczyk, visto qualche anno fa in Italia per Canicola. Non c’è niente di modaiolo in queste vignette, ed è davvero meglio così.

L’elemento misterioso di cui si parlava prima diventa persino criptico nel lavoro di Patrick Kyle, senz’altro il nome più noto tra gli autori citati. Anche lui canadese come GG, ha di recente pubblicato ancora per Koyama Press l’antologia personale Everywhere Disappeared, in cui potrebbe essere facilmente inserita questa Night Door. Scordatevi il Kyle narratore dell’eccellente Distance Mover, perché il nostro sviluppa nelle sue storie brevi un approccio sperimentale che fa leva sull’intuito del lettore, invitato a farsi strada tra strutture geometriche in cui si muovono figure sinuose tra l’umano e l’animale. Totalmente muto, il mini kuš! #57 è un piccolo oggetto che, come diceva qualcuno, renderà il vostro salotto un grande protagonista del ‘900. E a questo punto buona lettura.

Just Indie Comics al Treviso Comic Book Festival

L’ampia selezione di fumetti internazionali di Just Indie Comics arriva anche quest’anno al Treviso Comic Book Festival, una delle rassegne dedicate al fumetto più interessanti d’Italia e che per il 2017 ha allestito un programma ambizioso ricco di ospiti internazionali, a partire da Jesse Jacobs, protagonista della mostra Cosmogonia e autore della locandina. In occasione della mostra mercato del 23 e 24 settembre troverete al tavolo di Just Indie Comics non solo il materiale già disponibile nel webshop ma anche, in esclusiva per il TCBF e in anteprima italiana, tutte le nuove uscite dell’inglese Breakdown Press, che in concomitanza con il Safari Festival di Londra dello scorso agosto ha pubblicato una lista di fumetti impressionante per quantità e qualità.

Le novità più corpose sono senz’altro Good News Bible di Shaky Kane, volume extra-size che raccoglie tutti i lavori dell’artista britannico per la rivista Deadline, e Showtime, nuovo graphic novel di Antoine Cossé, di cui saranno disponibili anche la raccolta Palace 0 e la ristampa della storia breve Nwai.

“Good News Bible” di Shaky Kane

“Showtime” di Antoine Cossé

Altra importante novità è il lancio di una nuova rivista di fantascienza, Berserker, che debutta con un primo numero che propone un approccio tutt’altro che classico al genere con articoli, interviste, illustrazioni e ovviamente fumetti a firma Anya Davidson, Lando, Lane Milburn, Benjamin Marra, Jon Chandler. Da segnalare tra le altre cose un’intervista di Sammy Harkham all’artista Robert Beatty e un bell’approfondimento di Jamie Sutcliffe sulla space-opera Galactic Nightmare di Alan Jefferson.

Anya Davidson da “Berserker” #1

Conditioner è invece una raccolta di tre storie di Liam Cobb, che con Breakdown aveva già pubblicato The Fever Closing. Lo stile di Cobb è nel solco di una tendenza contemporanea che al rigore della composizione, quasi architettonico, unisce suggestioni irrazionali.

“Conditioner” di Liam Cobb

Altro titolo è il quarto numero di Windowpane di Joe Kessler, ideale seguito del precedente di cui non riprende però esplicitamente personaggi e trama – sempre astratti nei fumetti del britannico – per richiamarne invece scelte stilistiche e tematiche.

“Windowpane” #4 di Joe Kessler

E anche il Klaus di Richard Short, visto in Italia su Linus, prosegue la sua marcia con un terzo numero pieno di strisce e di guest star come il nostro Fabio Tonetto, Lando, Anna Haifisch e altri.

“Klaus” #3 di Richard Short

Oltre ai titoli di Breakdown troverete al tavolo di Just Indie Comics altre esclusive per il TCBF, come i numeri dal 3 al 6 del Crickets di Sammy Harkham con l’inizio e lo sviluppo della storyline Blood of the Virgin, una selezione di numeri arretrati del King-Cat di John Porcellino e altro ancora.

“Crickets” #6 di Sammy Harkham

“King-Cat” #70 di John Porcellino

E non mancheranno ovviamente i fumetti già disponibili sul sito, dalle ultime uscite Retrofit Comics (Iceland di Yuichi Yokoyama, How To Be Alive di Tara Booth, Steam Clean di Laura Ķeniņš, Combed Clap of Thunder di Zach Hazard Vaupen) all’ultima autoproduzione di Conor Stechschulte Tintering, dal volume The Complete Strange Growths 1991-1997 di Jenny Zervakis (ne ho parlato in questo post) ai comic-book di Noah Van Sciver Blammo #9 e My Hot Date.

“How To Be Alive” di Tara Booth

“Tintering” di Conor Stechschulte

Chiudo la lista segnalandovi infine i fumetti di Diego Lazzarin e Alessandro Galatola, i due autori protagonisti delle mostre del Just Indie Comics Fest lo scorso giugno. Di Diego Lazzarin ci sarà Aminoacid Boy and the Chaos Order, di Galatola l’albo Dio di me stesso coprodotto da Just Indie Comics e CO-CO.

“Aminoacid Boy and the Chaos Order” di Diego Lazzarin

“Dio di me stesso” di Alessandro Galatola

Se siete a Treviso venite almeno a dire CIAO, e nel frattempo date un’occhiata al pirotecnico programma di mostre, incontri e eventi sul sito ufficiale del festival.

10 fumetti dalla Small Press Expo 2017

(English text)

La Small Press Expo è il più importante festival statunitense dedicato al mondo del fumetto indipendente e alternativo, dove vengono assegnati anche gli Ignatz Awards agli autori più interessanti e ai libri più riusciti della stagione passata. La prossima edizione si terrà sabato 16 e domenica 17 settembre, sempre nella solita location di Bethesda, vicino Washington. In occasione della SPX gli editori concentrano le più importanti novità dell’anno, dando vita a un’impressionante lista di cosiddetti “debut books”, di cui potete trovare maggiori dettagli in questa lista. In questo post cerco di selezionare, dal mio personale punto di vista, i dieci libri più interessanti tra quelli annunciati, elencandoli in ordine alfabetico. Alcuni ho avuto già la possibilità di leggerli e quindi ne parlo – per quanto possibile – con cognizione di causa, altri invece sono lavori inediti su cui cerco di far valere le mie capacità di indovino. Prendete dunque questo “best of” come un gioco, come d’altra parte lo sono quasi tutte le liste. Buona lettura.

1. Anti-Gone di Connor Willumsen

Tra Sammy Harkham e Lando, per rimanere ai contemporanei, lo stile del canadese Connor Willumsen esplode in tavole di assoluta bellezza in Anti-Gone, visione di una realtà altra che riprende le atmosfere della serie Treasure Island proiettandole in un contesto metropolitano futuribile quanto decadente. Droghe sintetiche, post-consumismo, rivolte di strada e soprattutto un grande assente, cioè internet… Che si sia davvero rotto, infine? Letto in anteprima e solo in PDF per ora, Anti-Gone sintetizza le tensioni di tanto fumetto contemporaneo ed è già uno dei libri dell’anno.

2. Architecture of an Atom di Juliacks

Al Crack! del 2015 a Roma si era vista The Whole Shabang-Arch Atom, video-opera dell’artista multimediale statunitense Juliacks, classe 1986. Ora esce per 2d cloud l’imponente volume Architecture of an Atom, coronamento di un progetto pluriennale – tra proiezioni, performance, mostre in gallerie e musei d’arte contemporanea – che supera con facilità i confini del fumetto per giungere in un territorio sconosciuto quanto affascinante. Definito eccessivo, misterioso, crudo e sognante, Architecture of an Atom è una delle novità più attese di questo 2017.

3. Francine di Michiel Budel

Ho un debole per i fumettisti che fanno sempre le stessa cosa (come d’altronde per i gruppi che suonano sempre la stessa canzone) e Michiel Budel è uno di questi. Il suo webcomic Slechte Meisjes era già stato adattato in formato comic-book da Secret Acres nei due numeri di Wayward Girls e adesso dallo stesso editore arriva anche un nuovo volume di 80 densissime pagine, Francine. “Teens can be deceiving, and Francine is exceptionally so – recita la cartella stampa – She murders her bully, fakes her own death, steals her best friend’s mother and makes any situation uncomfortably sexual. She’s awful. Everyone loves her. You will, too”. Uno di quei fumetti-mondo in cui non è facile entrare ma da cui è ancor più difficile uscire.

4. Good News Bible di Shaky Kane

Preparatevi a riempirvi gli occhi, perché qui di cose da vedere ce ne sono davvero tante. Dopo il debutto in patria al Safari Festival sbarca negli Stati Uniti Good News Bible, la raccolta in grande ed elegante formato delle strisce e delle illustrazioni che il britannico Shaky Kane realizzava tra fine ’80 e inizio ’90 per la storica rivista Deadline. Per chi se lo ricorda un tuffo nel passato a cui non si può rinunciare, per gli altri un’occasione imperdibile per scoprire un artista che ha riletto in chiave punk la lezione di Jack Kirby.

5. I Am Not Okay With This di Charles Forsman

Charles Forsman torna allo stile da comic strip che lo ha consacrato con The End of the Fucking World, recentemente diventato una serie tv trasmessa nel Regno Unito da Channel 4, per raccontare un’altra storia di adolescenza disagiata. Ma stavolta la giovane Sydney ha anche dei poteri telecinetici… Che questo nuovo I Am Not Okay With This sia la sintesi perfetta tra il primo Forsman e l’autore citazionista visto all’opera di recente in Revenger e Slasher? Lo sapremo leggendo questo volume, raccolta di mini-comics creati dall’autore per i suoi sostenitori su Patreon.

6. N di Andrew White

Sperimentali, poetici, sempre alla ricerca della novità formale ma senza perdere di vista le emozioni, i fumetti di Andrew White guardano alle teorie di Frank Santoro e al filone dei comics-as-poetry. L’albo di 46 pagine a colori N, seguito ideale di M del 2015, è definito dallo stesso autore “a comic about storytelling, family, and coming home”, oltre che “three short stories drawn in different styles but actually one long story drawn in the same style”. E non è tutto, perché sempre al festival di Bethesda White darà sfogo anche alla sua attività parallela di critico con la pubblicazione di All There Is, un albetto di disegni, diagrammi e saggi a proposito di Ganges di Kevin Huizenga.

7. Night Business di Benjamin Marra

L’uscita ufficiale è prevista solo a dicembre, ma in occasione della SPX Fantagraphics renderà disponibili in anteprima alcune copie di Night Business di Benjamin Marra, hardcover di 250 pagine che raccoglie i primi quattro numeri autoprodotti dell’omonima serie, rimasta incompiuta dal 2011, e sei nuovi capitoli interamente inediti. Meno paradossale di Terror Assaulter, ma comunque esagerata e ironica, Night Business è un viaggio nella New York del 1983 tra serial killer mascherati, ballerine di night club, uomini d’affari viscidi e spietati, giustizieri senza paura ed eroine motocicliste.

8. Now #1

Il debutto di una nuova antologia fa sempre notizia di questi tempi, dato che il classico formato del magazine che assembla periodicamente contributi di diversi autori rappresenta ormai un suicidio commerciale. Ma la Fantagraphics per fortuna non si arrende alle leggi del mercato e concepisce Now, ancora a cura di Eric Reynolds, già editor della compianta Mome. Nel primo numero, che sarà presentato in esclusiva alla SPX, troviamo i contributi di artisti noti e meno noti, americani e internazionali, in un mix micidiale che include Eleanor Davis, Noah Van Sciver, Gabrielle Bell, Dash Shaw, Sammy Harkham, Malachi Ward, J.C. Menu, Conxita Herrerro, Tobias Schalken, Antoine Cossé, Tommi Parrish, Sara Corbett, Daria Tessler, Kaela Graham e Rebecca Morgan (autrice della cover). La speranza è che l’antologia mantenga le promesse di qualità e anche di periodicità, dato che si prefigge di uscire tre volte l’anno.

9. Old Ground di Noel Freibert

Altra casa editrice che ha un programma di tutto rispetto in occasione della SPX è la canadese Koyama Press. Al già citato Anti-Gone è inevitabile aggiungere almeno Everywhere Disappeared, raccolta di storie brevi di Patrick Kyle, e Language Barrier, che mette insieme una serie di zine di Hannah K. Lee. Ma se devo selezionare un altro libro da inserire in questa top ten la mia scelta va senz’altro su Old Ground, graphic novel di Noel Freibert, uno dei fondatori del collettivo Closed Caption Comics nonché editor del fondamentale magazine Weird. Alla prova sulla lunga distanza, Freibert mette in scena con il suo tratto liquido e inimitabile una slapstick comedy che è in realtà un sequel contemporaneo al più tragico dei romanzi gotici.

10. TRUMPTRUMP vol.1 di Warren Craghead III

Sulla pagina trumptrump.tumblr.com, Warren Craghead III condivide ogni giorno ritratti iconoclasti di Donald Trump, accompagnati da citazioni dei suoi discorsi o interviste. L’effetto è parodistico, straniante, spesso orrorifico. Alcuni di questi disegni sono stati raccolti in un voluminoso hardcover di 200 pagine che Retrofit Comics fa uscire per la SPX insieme a Tales from the Hyperverse di William Cardini, How To Be Alive di Tara Booth e Iceland di Yuichi Yokoyama.