Dagli archivi: “Kramers Ergot” #1-3
Con questo post iniziamo a dare un’occhiata a qualche fumetto fondamentale del passato, sperando di avere tempo, voglia e forza di portare avanti questa lodevole – me lo dico da solo – iniziativa. Come anticipato qualche tempo fa presentando la nuova “linea editoriale” di Just Indie Comics, non saranno analisi dettagliate, ma solo delle schede che avranno lo scopo di ripescare alcune “pietre miliari” o delle “chicche” uscite ormai da qualche anno. Cominciamo ripercorrendo le varie incarnazioni dell’antologia Kramers Ergot, fondata e curata dal cartoonist Sammy Harkham, e che nel corso degli anni ha cambiato filosofia, formato, editori, facendo la storia del fumetto alternativo americano del terzo millennio.
In realtà i primi numeri di Kramers non sono quelli arrivati fino a noi, dato che questo curioso titolo era già stato utilizzato per una delle fanzine fotocopiate prodotte da Harkham durante gli anni del liceo, alcune in Australia (dove la famiglia dell’autore si era trasferita per un periodo), altre al ritorno a Los Angeles insieme appunto a David Kramer. Oltre che al cognome del socio, che poi condividerà con Harkham anche l’avventura della libreria Family di Los Angeles, il titolo era ispirato alla canzone Ergot dei Big Black, dall’album Songs About Fucking del 1987. Le fanzine contenevano disegni, fumetti di amici, contenuti “rubati” da altre fonti e tante interviste a band e musicisti, tra cui Will Oldham. Il primo Kramers Ergot “ufficiale” risale invece al 2000 ed è ancora autoprodotto da Harkham sotto la sigla Avodah Books. L’albetto – formato 18 x 24 cm, spillato e di sole 48 pagine – ha poco in comune con quanto si vedrà in seguito, soprattutto a partire dal #4. Harkham, classe 1980, è giovanissimo e il suo stile è ancora immaturo, in più i fumettisti coinvolti sono tutti suoi amici o conoscenti: è il caso di David Brooke, compagno di scuola dei tempi dell’Australia, Justin Howe, un amico del fratello, e Luke Quigley, collega al California Institute of the Arts nella classe di animazione sperimentale. Quigley firma anche la cover del secondo numero, che replica del tutto formato e foliazione del precedente.
Diciamolo chiaramente, non succede niente di particolarmente eccitante in questi primi due numeri. Il materiale è ancora acerbo e la selezione inevitabilmente eterogenea e parziale. La curiosità va rivolta dunque soprattutto alle prime prove di un giovane Harkham, molto diverso dal cartoonist definito e consapevole che cominceremo a vedere a partire da Poor Sailor. Si tratta di un autore che non ha ancora assorbito la lezione dei classici come Roy Crane e Frank King, fondamentali per il futuro sviluppo del segno. Qui i riferimenti sembrano essere per lo più il Dave McKean di Cages o l’Al Columbia di The Biologic Show, che vengono alla mente guardando la storia di una pagina A Wound is an Inherently Disruptive Force o anche il primo capitolo di Where The Sun Still Shines, storia in due puntate che occupa ben 43 pagine tra Kramers #1 e #2, rimandando con le sue atmosfere metropolitane tra il noir e il grottesco al Metropol di Ted McKeever, con qualche eco del Mazzucchelli di Rubber Blanket. Lo stile del giovane Harkham è spesso incerto, a volte caotico e ricco di linee, altre più pulito e ordinato, oscillando inoltre tra una ricerca del realismo e i primi tentativi di rappresentazione simbolica della realtà attraverso gli strumenti tipici delle strip a fumetti. In tal senso gli episodi che lasciano presagire i prossimi interessantissimi sviluppi sono Hearing is not Enough (tre pagine da Kramers #1) e il secondo capitolo di Where The Sun Still Shines, che comincia a far vedere un tratto più rotondo e pulito.
Kramers #3 mantiene le stesse dimensioni 18 x 24 dei precedenti ma aumenta la foliazione a 128 pagine introducendo di conseguenza la brossura. Si tratta senza ombra di dubbio del numero più riuscito di questo primo lotto, in cui si vedono i prodromi dell’antologia che sarà. Harkham non pesca più tra conoscenze e amicizie, ma mette in moto la sua proverbiale curiosità per cercare quanto di più interessante si muove nel sottobosco statunitense, coinvolgendo nomi oggi ben conosciuti come Anders Nilsen (con gli assurdi e divertenti dialoghi tra Birds) e Hans Rickheit (quest’ultimo arrivato anche in Italia via Eris con The Squirrel Machine). La nota più importante è però il debutto di autori sperimentali come Ben Jones e Joe Grillo, legati alla scena Fort Thunder/Paper Radio/Paper Rodeo, da cui Harkham attingerà a piene mani per il numero successivo. Oltre a questi appena citati, nel volume troviamo Mark Burrier, Stefen Gruber, Kathleen Lolley, Neil Fitzpatrick, Zack Soto, Sara Varon, Luke Quigley, Mat Tait. Conclude il libro lo stesso editor con le 13 pagine di The Last Laugh, l’ennesima storia dell’amante illuso (e deluso) che è una costante delle sue primissime produzioni, caratterizzata da uno stile finalmente neoclassico, più vicino a quello con cui lo identifichiamo ancora oggi.
E per ora è tutto. A risentirci tra qualche giorno, settimana, mese o chissà con un altro episodio della rubrica Dagli archivi, in cui si parlerà di Kramers Ergot #4.
Crack! a Roma dal 20 al 23 giugno
Anche quest’anno Just Indie Comics sarà al Crack!, il festival del fumetto dirompente e dell’arte stampata che si tiene ogni anno al Forte Prenestino a Roma. Da giovedì 20 a domenica 23 giugno ci troverete dalle 18 fino a notte più o meno inoltrata nei tunnel del Forte, insieme a una miriade di altri artisti, produttori, stampatori ecc. da tutto il mondo, che riempiranno anche le celle sotterranee dell’edificio di via Federico Delpino 187. Noi saremo al piano di sopra, quindi cercate il nostro banchetto nei tunnel, speriamo più o meno vicino alle aperture laterali (così arriva un po’ di fresco). Troverete come sempre una ricca selezione di produzioni internazionali e anche italiane. Per farvi un’idea tra il materiale straniero avremo i due numeri dell’antologia olandese Scratches, l’edizione francese di How To Stay Afloat/Surnager au Quotidien di Tara Booth, qualche copia delle ultime uscite della storica zine underground Mineshaft, il volume che raccoglie la prima serie della linea All Time Comics più il numero zero della nuova “stagione” (ne ho parlato qui), le pubblicazioni di piccole realtà editoriali straniere come O Panda Gordo, One Percent Press, kuš!, Domino Books, qualche numero dell’antologia Now della Fantagraphics. Tra gli italiani troverete fumetti di tantissime case editrici e autoproduzioni, come Canicola, Hollow Press, De Press, Doner Club, Delebile, B Comics, Muscles Edizioni Underground, Super Squalo Terrore, Uomini nudi che corrono e via dicendo.
L’invito è dunque quello di venire a trovare noi e ovviamente di visitare tutto il festival. Il Crack! sembra quest’anno davvero internazionale come non mai, con ospiti da tutto il mondo, dal francese Yvan Alagbé alla libanese Sandra Ghosn autrice del manifesto, dall’afgana Malina Suliman al messicano Iurhi Peña. E tanti tanti altri da Tunisia, Iraq, Cina, Spagna, Brasile, Portogallo ecc. Non a caso il titolo dell’edizione 2019 è APERTO e vuole ricordare l’uccisione del sudafricano Jerry Masslo avvenuta trent’anni fa a Villa Literno, suggerendo con forza l’idea di un festival che possa essere rifugio per tutte le genti, di tutte le nazioni, al di là di ogni divisione, con inevitabile riferimento a quanto sta succedendo sul fronte sbarchi e rifugiati nell’Italia di oggi. Partecipare significa anche contribuire a questo ideale e al tempo stesso entrare in contatto con autori mai visti prima, voci fuori dal coro, realtà del tutto diverse dalle nostre, che spesso non sono schiave della logica dei “mi piace” e dell’autopromozione ma che fanno le cose vecchio stile, per il piacere di farle e per quello, altrettanto importante, di incontrarsi.
“Clyde Fans” di Seth
E’ arrivato da qualche giorno nelle mie mani il volume di Clyde Fans di Seth, la storia serializzata dall’autore canadese sulla sua serie Palookaville nel corso degli ultimi vent’anni. Era infatti il 1997 quando usciva per Drawn & Quarterly Palookaville #10, con il primo capitolo dei “Ventilatori Clyde”. Seth aveva appena finito la sua prima narrazione lunga, It’s a Good Life, If You Don’t Weaken, già raccolta in volume nel settembre del 1996. E se non sbaglio fu proprio quel volume il mio primo acquisto di un’opera interamente a firma Seth, anche se forse avevo già visto qualcosa di suo in qualche antologia Drawn & Quarterly. La storia mi colpì immediatamente. Al tempo andavano tantissimo i fumetti autobiografici, su cui la stessa casa editrice di Montreal aveva costruito la sua fortuna, ma Seth andava oltre, raccontando una vicenda apparentemente reale ma basata su un pretesto del tutto inventato. Ora non ricordo di preciso quando esattamente acquistai questa prima edizione della “picture novella” di Seth, fatto sta che per un motivo o per l’altro persi i numeri dal 10 al 12 di Palookaville, che contenevano appunto la prima parte di Clyde Fans. Cominciai infatti a collezionare la serie, allora spillata, dal #13, per poi recuperare quei primi tre numeri in una raccolta fatta uscire da Drawn & Quarterly poco dopo. La stessa raccolta fu pubblicizzata in Palookaville #16 come un “giant-sized comic book” in cui “un vecchio parla da solo per 70 pagine. E potrebbe essere noioso proprio come sembra”. Ed era proprio così. In quel primo capitolo Abraham Matchcard raccontava la sua storia camminando per casa sua. E il monologo era andato avanti, esattamente uguale, con lo stesso ritmo, per tre comic book. Chi aveva fatto prima qualcosa del genere? Chi era stato così coraggioso da tentare in tutti i modi di annoiare il lettore? Non ho una cultura fumettistica così ampia da affermarlo con sicurezza, ma probabilmente nessuno. Il primo capitolo di Clyde Fans è come il finale dell’Ulisse, Blue di Derek Jarman, The Sraight Story di Lynch o la lunghissima nota a margine di Infinite Jest di David Foster Wallace. Un esperimento formale che sfida il pubblico nel tentativo di catturarlo oppure perdendolo per sempre. Un esperimento che per altro è stato anche adattato sotto forma di monologo teatrale, con protagonista l’attore William Webster, in occasione della presentazione del volume di Clyde Fans lo scorso 8 maggio all’Art Gallery of Ontario di Toronto (qui un breve reportage fotografico).
Non è tutto così Clyde Fans, anzi. Ognuno dei cinque capitoli ha un tema e una forma diversa, creando una macro-struttura più ampia incentrata sulla vita dei due fratelli Matchcard, Abraham e Simon, proprietari di una società di ventilatori. Sulla psiche estremamente complessa di entrambi, le loro dinamiche interpersonali e il rapporto con la madre si dilungano queste 450 pagine che rappresentano uno dei capolavori del fumetto di sempre. Seth approfondisce una serie di temi: la solitudine e l’isolamento innanzitutto, ma anche la depressione, la chiusura in se stessi, la difficoltà nell’affrontare gli aspetti più pratici della vita, il tempo che passa, i cambiamenti tecnologici, il fascino quasi perverso della nostalgia, la suggestione per una dimensione che potremmo definire “mistica” e che esiste (forse) al di là della realtà tangibile. L’autore mette in mostra nei due fratelli Matchcard aspetti della sua personalità e della sua biografia, estremizzandoli e rendendoli di nuovo fiction, come già aveva fatto in It’s A Good Life. Non succede niente di così clamoroso e tragico nel senso tradizionale del termine in Clyde Fans eppure alla fine sembra che tanto sia successo, almeno dentro noi lettori. Si tratta di una storia graffante, che smentisce ancora una volta la visione di Seth come un autore nostalgico e leccato mostrando gli aspetti più aspri e visionari della sua arte.
Mi fermo qui, anche perché questa non vuole essere una recensione: Clyde Fans è un’opera così complessa che per renderle un degno servizio bisognerebbe dilungarsi per pagine e pagine. Ma magari ne riparleremo, anche perché è già prevista un’edizione italiana del libro per Coconino Press.
“Pierrot Alterations” di CF
Pierrot Alterations è l’ennesimo e come sempre sporadico capitolo della scombinata ed episodica bibliografia di Christopher Forgues, noto ai più come CF. Creatore con Ben Jones del magazine Paper Radio, collaborò al più famoso Paper Rodeo e fu uno degli autori sperimentali più noti della scena post Fort Thunder, contribuendo ad antologie come la seminale Kramers Ergot #4. Con PictureBox si imbarcò in un’epica saga fantasy dal titolo Powr Mastrs, arenatasi al terzo numero dopo la chiusura della casa editrice. Inizialmente pianificata in dieci volumi, Powr Mastrs doveva continuare per Fantagraphics, che annunciò anche l’uscita di un quarto episodio. Poi a un certo punto l’autore decise che basta, non aveva più voglia di farlo. Nel corso degli anni CF ha fatto musica con il suo progetto Kites e pubblicato una serie di fanzine poi raccolte in un paio di volumi sempre per PictureBox, qualche storia breve per svariate antologie, un fumetto formato rotolo, libretti per piccoli editori come Nieves, Le Dernier Cri, Mania Press e adesso appunto Anthology Editions, casa editrice costola dell’etichetta discografica Mexican Summer e che partendo dal mondo dell’arte e della fotografia si sta pian piano affacciando al fumetto.
Pierrot Alterations è stato presentato come una rilettura dell’archetipo del “clown triste”, sulla scia di quanto fatto da figure d’avanguardia come Picasso, Kenneth Anger e David Bowie. O almeno così si legge sul sito di Anthology. In realtà la figura di Pierrot c’entra ben poco, ed è chiamata in causa più che altro per la sua somiglianza con i personaggi tutti e in particolare con Cygnus e Vega, il duo che dava il titolo al libretto di CF uscito per Le Dernier Cri nel 2016, oltreché per alcuni disegni che occupano la seconda parte del libro. C’è poco qui che possa essere ricondotto a un “significato”, a un “concetto” o anche a una trama nel senso tradizionale del termine, come d’altronde succede quasi sempre nei fumetti di CF. Di lui Sammy Harkham, che continua a chiamarlo in causa a ogni nuova uscita di Kramers Ergot, ha detto: “Non so proprio perché il suo lavoro risulti così incisivo. Davvero non lo so”.
Qui c’è una storia di uomini che costruiscono una città. Mettono mattone sopra mattone, mangiano, bevono, giocano, litigano, coltivano piante. Quando trovano un’inspiegabile cavità nel terreno la marcano con una bandierina, come se fosse una buca del golf. Alla fine uno di loro, Regulus, dai poteri telecinetici, si trasforma in un uccello e vola nel buco. Un buco, vero nella carta, appare sulla pagina. Se si guarda dall’altro lato si vede un vaso di fiori. Fine della storia. Seguono una serie di disegni a mo’ di sketchbook che alternano colore e bianco e nero, alcuni (bellissimi) sulle pagine di un calendario. E un altro taglio, questa volta rettangolare, su un’altra pagina del volume. Alla fine un testo su Pierrot e la poesia, che meglio di tutto il resto riesce a spiegare l’inspiegabile, sia a proposito di questo libro che sull’arte di CF. Un’arte che risuona nella mente del lettore dopo aver chiuso il volumetto, tanto che vi troverete a leggerlo e rileggerlo nel tentativo di svelarne il mistero, facendovi strada tra disegni meno dinamici rispetto al recente passato e una palette di colori quasi magnetica, scene che sembrano quadri di Hopper versione CF, temi e situazioni che ben conosciamo da vent’anni a questa parte ma che vengono riletti con piglio avanguardista e uno sperimentalismo senza forzature, naturale soltanto per chi sta sempre avanti agli altri.
Da notare che Pierrot Alterations è rilegato a vista con colla e filo e ha due angoli tagliati. Il tutto lo rende un oggetto ancora più particolare e difficilmente classificabile. Ne ho portato qualche copia al bookshop di Just Indie Comics al Comicon di Napoli e tutti lo guardavano e lo sfogliavano, anche chi passava lì per caso e niente sapeva di CF. E infatti è andato esaurito, come d’altronde è successo alla prima edizione del libro, comunque già ristampato e facilmente reperibile on line. Approfittatene finché siete in tempo.
“Marécage” di Lagon Revue
La nuova antologia prodotta dal collettivo editoriale francese Lagon Revue, dal nome della prima rivista-libro uscita ormai 5 anni fa, si chiama Marécage ed è senz’altro il loro progetto più impegnativo a oggi. Con la cura di Alexis Beauclair e Sammy Stein, Marécage mette insieme una serie di autori contemporanei per lo più europei in un librone brossurato di grande formato (23 x 33 cm), per un totale di 212 pagine in francese e in inglese (c’è un libretto di traduzioni in allegato), di cui 128 in offset su carta patinata e 84 in risograph. La cover serigrafata completa questo tour de force di tecniche di stampa e di packaging, aspetto che nei prodotti targati Lagon è tutt’altro che secondario, assumendo un’importanza pari a quella del processo creativo degli autori coinvolti.
Veniamo dunque ai nomi degli artisti presenti nel volume, venduto on line al prezzo inevitabile di 56 euro spese di spedizione incluse (ma se volete fare l’investimento vi consiglio a questo punto la spedizione tracciata a 70 euro totali, visto che la mia copia senza tracking ci ha messo tre mesi ad arrivare): Manon Wertenbroek, Chris Harnan, Tom Lebaron-Khérif, Masanao Hirayama, Bettina Henni, Jean-Philippe Bretin, Lala Albert, Leon Sadler, Son Ni, Thomas Bayrle, Acacio Ortas, Michael Robbins, Margot Ferrick, Daylen Seu, Laura Brothers, Léopold Bensaid, Ellie Orain & Hugo Ruyant, Melek Zertal, Sammy Stein, Maren Karlson, Jaakko Pallasvuo, Alexis Beauclair. Dalla lista capirete già che ci sono meno big rispetto al passato, come se i curatori si fossero voluti sganciare da quel concept à la “best of” che aveva caratterizzato i volumi precedenti (che ospitavano cartoonist come Benjamin Marra, C.F., Olivier Schrauwen, Simon Hanselmann, Yuichi Yokoyama, Dash Shaw ecc.) puntando tutto sulla ricerca e su uno sperimentalismo ancora più estremo, dove il testo è spesso assente ma in cui le immagini scorrono quasi sempre secondo un ordine, un movimento, una successione. Ad essere rappresentati in Marécage sono artisti eterogenei ma che fanno della rivoluzione formale il loro credo, plasmando il fumetto (o semplicemente l’arte sequenziale) alle loro esigenze e cercando non di obbedire a regole ma di stravolgerle, oppure di crearne di nuove.
La cosa che più mi è piaciuta è la polifonia grafica del volume nel suo complesso, il fatto che non si cerchi il bello o il brutto ma che si sappia spaziare tra molteplici approcci. Trovare accostati sfavillanti esempi di astrattismo grafico come Le Casino di Chris Harnan a contributi da “grado zero” del disegno come le pagine senza titolo di Masanao Hirayama è spiazzante quanto stimolante. Tra le altre cose vi segnalo anche il recupero d’epoca delle opere dell’artista tedesco Thomas Bayrle, risalenti ai primi anni ’70. Il resto alterna come detto cose molto diverse tra loro, ma con un paio di tendenze complessive che emergono. La prima è un grafismo che tende spesso all’astrattismo, un filone che caratterizza d’altronde parecchio fumetto contemporaneo d’oltralpe (e non c’è da stupirsi visto che Beauclair ne è forse il principale esponente). La seconda è un riferimento nei contenuti più narrativi al mondo del fantasy e dei giochi di ruolo, come a volerci riportare alle produzioni americane dei primi duemila. Insomma, si va un po’ avanti e un po’ indietro, con i due fumetti conclusivi, quello di Jaakko Pallasvuo e di Alexis Beauclair, che sono forse la perfetta sintesi di tutti i ragionamenti che possono esserci prima e dopo questo prezioso volume.
20 domande ai fumettisti e… un nuovo blog
20 Questions with Cartoonists era il titolo di un blog attivo tra il 2008 e il 2010 a cura del fumettista, critico ed editore Austin English, di cui ho parlato più volte su queste pagine per il suo lavoro con l’etichetta editoriale e distribuzione Domino Books. Lo stesso English ha adesso ripreso la sua vecchia idea rilanciandola sul sito di The Comics Journal, in un articolo pubblicato qualche giorno fa all’interno della rubrica 10 Cent Museum. L’idea, appunto: smontare alcune credenze su come fare “correttamente” fumetto, presentando l’opera di artisti diversi nell’ambito dello stesso sistema. Secondo English fare le stesse domande ad artisti totalmente diversi è il modo perfetto per mostrare le molte strade che portano alla realizzazione di un fumetto, smentendo il credo, ancora prevalente, che il processo creativo abbia delle regole precise e uniformi. Insomma, si tratta di utilizzare un questionario uguale per tutti per dimostrare che nel fumetto non esiste un metodo omogeneo e oggettivo.
Un concetto che potrebbe essere un manifesto, dato che Just Indie Comics ha cercato sempre più di proporre materiale diverso, fuori dagli schemi, andando contro il suo stesso nome e uscendo pian piano dai meandri dell’indie, ormai sdoganato e diventato “norma”, per guardare ad artisti che facevano della spontaneità, della ricerca e della diversità in genere la propria ragion d’essere. E’ con questo spirito che si apre, speriamo, una nuova stagione per Just Indie Comics, che da oggi ritorna al formato blog, un po’ da dove si era partiti ormai 5 anni fa dalle pagine di Blogspot, la stessa piattaforma dove trovava spazio la prima versione di 20 Questions with Cartoonists. In realtà non cambia molto nella forma, dato che l’aspetto grafico è sempre più essenziale che mai, ma spero cambi qualcosa nei contenuti, che vorrei riportare a una frequenza maggiore di un articolo ogni due mesi o giù di lì. Per fare questo va da sé che i post dovranno essere più rapidi, veloci, leggeri, proprio come erano all’inizio. Addio approfondite analisi di fumetti, se mai ne ho fatte? Forse sì, forse no, anche perché cambio idea con estrema facilità su quello che vorrei o non vorrei fare. Per ora l’intenzione sarebbe fare più segnalazioni che recensioni, svincolarmi dall’attualità per guardare ogni tanto al passato, offrire spunti e non approfondimenti, scrivere con un approccio magari non da “buona la prima” ma quasi. Rileggevo ultimamente, mentre pensavo a cosa fare di questo sito – indubbiamente entrato in una fase di stallo – i post scritti agli esordi e mi sembravano migliori di quelle recenti. E riflettevo anche sul fatto di come certi contenuti brevi siano ormai soltanto appannaggio di Facebook o dei social del momento, che sicuramente hanno un’utilità pratica per quanto riguarda la promozione di contenuti, eventi e via dicendo ma che non possono essere l’unico veicolo di scambio di informazioni e cultura, né l’unico luogo di condivisione.
Ritornando all’articolo di The Comics Journal, se potete dateci un’occhiata: contiene interviste ad autori “consigliati da Just Indie Comics” come Alabaster Pizzo, August Lipp, Inés Estrada, Alex Graham. Tra le tante ci sono domande su questioni tecniche che parecchio possono interessare fumettisti e aspiranti tali, oltreché quesiti che nessuno ha mai il coraggio di fare, come per esempio il numero otto: “Fai fumetti per vivere? Se no, come ti mantieni e come ciò si relaziona al tuo processo creativo?”. Le risposte sono spesso interessanti, anche se qualcuno riesce comunque a fare il vago. E anche la domanda numero 16, ossia “Ti senti in qualche modo legato ad artisti del passato come Steve Ditko e Jack Kirby, o consideri il loro mondo del tutto estraneo?”, riserva qualche bella sorpresa, con la Graham che ammette: “Onestamente, non so nemmeno chi siano queste persone”. Se poi vi va anche di recuperare il vecchio Blogspot di 20 Questions with Cartoonists, vi troverete le risposte d’epoca di autori come Brandon Graham, Sammy Harkham, Zak Sally, John Porcellino, Dash Shaw e tanti altri.