“The Social Discipline Reader” di Ian Sundahl
Sempre attenta a proporre un fumetto crudo nel senso vero del termine, fuori dagli schemi della contemporaneità, senza alcuna ambizione commerciale, la Domino Books di Brooklyn è una delle piccole case editrici indipendenti più interessanti del panorama statunitense. Creatura di Austin English, la Domino guarda proprio come il suo patron-cartoonist a un segno grezzo e spontaneo, capace di incidere emozioni e sensazioni sulla pagina rinunciando a ogni tentativo estetizzante e alle carinerie di tanto fumetto odierno. In un mondo in cui ogni stile, anche se diverso da quello dominante, tende a farsi canone fino al punto di sterilizzarsi, gli artisti pubblicati dalla Domino si propongono come esempi di purezza e unicità espressive con pochi eguali. Ne è esempio la produzione di E.A. Bethea, che ho già analizzato tempo fa in questo post.
Non poteva sfuggire alle attenzioni di English l’arte di Ian Sundahl, al confine tra fumetto, poesia e letteratura, pregna di un segno volutamente grezzo, frutto di una ricerca estetica originale. Sundahl sa disegnare e si vede, soprattutto quando sceglie linee libere e intense, ma a volte preferisce affidarsi a forme soltanto abbozzate e imperfette, in armonia con la materia di questi fumetti – storie torbide di outsider, prostitute e balordi ambientate tra bar poco illuminati, strade polverose ai confini della città, sale da gioco. Sundahl è un artista di Portland che finora si è autoprodotto otto numeri della sua zine Social Discipline. English l’ha notato e ha messo insieme questo The Social Discipline Reader, una sorta di “best of” di 40 pagine pubblicato in un’edizione spillata forse sin troppo essenziale ma che è comunque specchio di un approccio diretto e senza fronzoli.
L’albo è uno zibaldone di storie brevi, illustrazioni, saggi disegnati. Si va dall’adattamento in chiave moderna del torbido memoir ottocentesco My Secret Life a Where You Are King – quattro pagine dense e notturne in cui un carcerato racconta una storia di sesso, gelosia e infine violenza – passando per una serie di illustrazioni di persone sedute davanti a slot machine, riproduzioni di foto scattate per strada, due pagine sui tacchi che riprendono il tema della fanzine Heelage curata dallo stesso Sundahl. Il tono è a volte assolutamente prosaico (“Niente è così delizioso quanto l’intimità che si stabilisce tra un uomo e una donna con una scopata” inizia uno dei brani tratti da My Secret Life), altre quasi trascendentale nel raffigurare uomini e donne come giocattoli in mano al fato, che si tratti di personaggi soggiogati dalle forme imponenti delle slot machine del Nevada o di misteriose apparizioni di navi fantasma.
Affascinato dal mondo raccontato da Ian Sundahl, viscerale come solo certa letteratura e poco fumetto sanno essere, ho deciso di inviare una copia di The Social Discipline Reader a tutti gli abbonati del Just Indie Comics Buyers Club. Gli altri possono invece trovarlo nella sezione Domino Books del webshop. Buona lettura.
A Macerata è di nuovo Ratatà
La terza edizione del Ratatà è in programma dal 14 al 17 aprile ed è destinata a confermare il festival di Macerata come un appuntamento immancabile per il fumetto e l’illustrazione in Italia. Tanti i motivi di interesse, tra le esposizioni, il mercato delle produzioni indipendenti, gli spettacoli, i workshop, i concerti, per un evento che diventa itinerante intrecciandosi al tessuto urbano della città. Le mostre di quest’anno spaziano nello scenario italiano ed europeo con una lista di artisti davvero notevole: Blexbolex, Riccardo Mannelli, Igor Hofbauer, Céline Guichard, Bill Noir, Andy Leuerberger, Arianna Vairo, Cifone, Taddei e Angelini. In più i lettoni di kuš! con la collettiva delle artiste Anna Vaivare, Ingrida Picukane, Liva Kandevica e Zane Zlemeša, B-Comics a cura di Maurizio Ceccato, La Trama che presenta le tavole della terza serie di Coppie Miste, la rassegna di illustratrici femminili Graphiste a cura della Sacripante Gallery di Roma, Le Beffe delle donne con il lavoro del collettivo toscano Le Vanvere, Crack! Fumetti dirompenti featuring Martin Lopez Lam, Bambi Kramer e Sonno. Per la lista completa delle mostre, oltreché per tutti gli altri eventi, vi rimando alla pagina Ulule, dove trovate il programma in continuo aggiornamento e dove potete inoltre partecipare alla campagna di crowdfunding per sostenere Ratatà. E ne varrebbe veramente la pena, dato che si tratta di un festival nato solamente dalla voglia di fare e dall’impegno dei suoi ideatori, sempre più interessante e inoltre gratuito sia per i visitatori che per gli espositori. Tra questi ultimi ci sarà anche il sottoscritto con un po’ di fumetti che trovate abitualmente su justindiecomics.tictail.com, quindi se avrete la buona e giusta idea di venire a Macerata approfittatene almeno per dire ciao. Di seguito un po’ di immagini degli artisti in mostra. E buon Ratatà a tutti.
“Patience” di Daniel Clowes
di Daniel Clowes, Bao Publishing, marzo 2016, cartonato, 180 pagine a colori, 19 x 25 cm, euro 25
Dopo cinque anni di lavorazione arriva finalmente il nuovo fumetto di Daniel Clowes, la sua opera più lunga, impegnativa, ambiziosa. Uscito negli Stati Uniti da qualche settimana ma solo nel circuito delle librerie specializzate, dove Clowes sta portando avanti anche un lungo tour di presentazione, grazie a Bao Publishing sbarca in Italia oggi 24 marzo, in contemporanea alla distribuzione nelle librerie di varia del Nord America. L’attesa era talmente tanta per Patience che prima della lettura – pur affascinato dalla bellissima confezione, dai disegni di un Clowes in gran forma, dai colori gustosamente “flat” eppure scintillanti – avevo un certo scetticismo, causato anche da quanto visto in giro negli ultimi giorni. Qualche opinione si era già affacciata sui siti specializzati statunitensi e ne avevo sbirciato degli scampoli senza approfondire troppo, per evitare fastidiose anticipazioni. E lì si faceva cenno a un’opera più tradizionale rispetto a quanto Clowes ci aveva abituati in passato, più lineare che geniale, come se l’autore di Like a Velvet Glove Cast in Iron, Ghost World e David Boring avesse perso negli anni la brillantezza che ce lo aveva fatto apprezzare in passato. In realtà Patience è sì un’opera più classica rispetto alle precedenti, ma nel senso migliore del termine. E’ classica infatti come i grandi film, i grandi romanzi e i grandi fumetti sanno esserlo, perché riesce a utilizzare le atmosfere, le trovate grafiche, le caratterizzazioni dei personaggi di cui Clowes si è servito nel corso della sua carriera per metterli al servizio di una grande, bellissima e commovente storia.
La storia, appunto. Dato che pubblico questo articolo il giorno dell’uscita del libro, penso che parecchi di voi debbano ancora leggerlo. Eviterò dunque di anticiparvi troppo, raccontandovi nel dettaglio solo quello che succede nelle prime trenta pagine. E’ il 2012 quando Patience scopre di aspettare un bambino. Jack, suo marito, non riesce a trovare un lavoro decente e si deve accontentare di distribuire “volantini porno”. Sia Jack che Patience sono preoccupati di mettere al mondo un figlio, soprattutto per motivi economici. Ma questo è in realtà l’ultimo dei loro problemi, perché pochi giorni dopo aver avuto la notizia della gravidanza Jack rincasa dal lavoro e trova Patience a terra, morta, vittima di una non meglio precisata aggressione. Da qui si mette in moto la vicenda, che vede Jack prima nei panni del presunto colpevole e poi in quelli del vedovo inconsolabile, alla ricerca di una spiegazione. Dopo i primi inutili tentativi, avvenuti subito dopo l’omicidio, Clowes fa un salto temporale e ci porta nel 2029. Jack è seduto in un bar, intento a bere da un contenitore a forma di provetta e a raccontare quanto successo 17 anni prima. E’ un futuro piuttosto simile al nostro mondo, se non fosse per qualche schermo dalle linee più sinuose, i colori al neon e le prostitute dalla pelle blu. Ma la differenza più importante è che uno scienziato ai margini della società ha scoperto come tornare indietro nel tempo. Ed ecco così che può iniziare il “mortale viaggio tra distorsioni temporali verso l’infinito primordiale dell’amore eterno” annunciato in quarta di copertina.
Patience è un fumetto raccontato con una fluidità mai vista prima in Clowes. Dimenticate l’impostazione da serie tv di Ghost World, la complessità letteraria di David Boring, le strutture spezzettate di Ice Haven e The Death Ray, l’impianto da newspaper strip di Wilson. Qui siamo all’esatto opposto di Like a Velvet Glove Cast in Iron, che apriva nel 1989 il primo numero di Eightball con un episodio scritto di getto, tutto in una notte. Finiti gli esperimenti punk, Clowes ha voluto mettersi al tavolo da disegno e dedicarsi per cinque anni a un libro dalla struttura ariosa, con spazi più ampi rispetto al solito, splash page, lunghe vignette doppie che si aprono come in cinemascope. La trama potrebbe essere degna di un film, da Ritorno al futuro a una commedia sentimentale hollywoodiana, con qualche inevitabile riferimento a Hitchcock. Non sarà magari originalissima, ma ho l’impressione che sia la “storia della vita” di Clowes, quella che più di tutte voleva raccontare.
Il risultato è un impatto emotivo che Clowes non raggiungeva da tempo sulla pagina, forse dal finale di Ghost World. Ma se quel finale ci aveva detto tanto sull’amicizia e sul diventare adulti, Patience si esprime su temi ancora più forti e importanti. E lo fa, è bene dirlo, senza risultare una versione annacquata della poetica dell’autore, perché in quella che è sostanzialmente una storia d’amore non mancano le situazioni morbose, i personaggi storti, gli sfigati, gli scienziati pazzi, i megalomani. Non manca una certa durezza nella costruzione del personaggio di Jack, che è caratterizzato in maniera eccelsa, passando dalla figura di giovane marito devoto fino a quella di acido uomo di mezza età in cerca di vendetta, il tipico paranoico dei fumetti di Clowes, tanto che a un certo punto si chiede “voglio davvero salvare il nostro bambino, tornare alla mia vecchia vita, o sono solo una scimmia assetata di sangue che rivuole la sua mascolinità?”. E alla fine lo stesso Jack ha un momento di umanità realistico, forte, quasi imbarazzante per la capacità con cui è costruito. Un momento che non posso raccontarvi, pena la rivelazione di dettagli troppo importanti, ma che capirete leggendo il libro. E’ questo dettaglio che rende la caratterizzazione di Jack anche più riuscita di quella della stessa Patience, su cui però Clowes lavora comunque abilmente, mostrandoci il suo passato da provincia americana, la sua famiglia problematica, i compagni di scuola balordi. Non è un personaggio particolare Patience, è semplicemente “un angelo” con “un cuore d’oro puro” e un passato problematico, ma nel suo sviluppo, nella sua crescita (come in quella di Jack d’altronde) c’è tutto il peso della vita che scorre, degli anni che passano. I personaggi maturano da una pagina all’altra, spesso con dei salti improvvisi avanti e indietro, in Patience. E con il tempo è maturato anche il loro demiurgo che ora, a 55 anni, non racconta più le storie di quasi 30 anni fa. Eppure riesce ancora a comunicare alla sua audience, quella che è cresciuta con lui. E sicuramente anche a qualcun altro, vista la diffusione a cui è destinato questo libro.
La trovata del viaggio nel tempo è anche un modo per rendere Patience la summa artistica del lavoro di Clowes, come un’enciclopedia dei molteplici mondi raccontati finora dall’autore. Se il riferimento grafico più prossimo è Mister Wonderful per il modo in cui le vignette e i personaggi respirano a volte in maniera sontuosa – lontana dai non detti, dalle ellissi, dai minimalismi del passato – qui troviamo anche le atmosfere malate della provincia americana di Like a Velvet Glove Cast in Iron, i vicoli oscuri e le strade anonime di David Boring, il retrofuturismo di Lloyd Llewellyn nelle scene ambientate nel 2029, il richiamo a Steve Ditko e ai maestri della EC Comics nelle numerose sequenze psichedeliche (che qui guardano anche a Swamp Thing). Clowes si diverte a citare se stesso anche in modo più esplicito, per esempio quando il protagonista si veste come Andy di The Death Ray, diventando così l’ennesima figura mascherata dal look rétro ad affacciarsi nella bibliografia dell’autore. Tutto ciò non può che generare un lavoro multiforme, che si alimenta di diversi immaginari riunendoli sotto il marchio di un tratto inconfondibile, meno dettagliato e più essenziale rispetto al solito, come se fosse una versione massimalista del Clowes che conosciamo. Massimalista proprio come la storia che racconta.
Scrivevo tempo fa, a proposito di Here di Richard McGuire, che si trattava di un’opera capace al tempo stesso di raccontare la Storia e le storie, il grande e il piccolo, il grave e l’irrilevante, il serio e il faceto. Patience entra come Here tra le pieghe del tempo, dimostrando questa stessa qualità ma guardando più agli aspetti emotivi che a quelli formali della narrazione. E così facendo conferma Clowes come uno dei più grandi cartoonist di sempre.
“The Dim Reverberation of the Chaosholder”
di Arallū, Hollow Press, gennaio 2016, spillato, 32 pagine, 34 x 24 cm, euro 17
Dopo Largemouths di Gabriel Delmas, opera di quasi 700 pagine interamente muta, la Hollow Press tenta un’altra coraggiosissima sfida editoriale con una saga in otto parti realizzata da un autore sconosciuto, noto solamente come Arallū. Il primo “sigillo” di The Dim Reverberation of the Chaosholder è uscito da qualche settimana con il titolo A Crippled Baby ‘n’ the Obsidian Golem, Towards the She-Outcast, confermando la predilezione per i titoli lunghi già evidenziata dall’antologia Under Dark Weird Fantasy Grounds.
Nota: L’albo è in vendita, come gli altri libri della Hollow Press, nel negozio on line di Just Indie Comics. Inoltre il sottoscritto ha collaborato con la casa editrice per Toxic Psycho Killer di Paolo Massagli.
Presentato dall’editore come un “dungeon crawler comic”, The Dim Reverberation of the Chaosholder è un viaggio alienante in una realtà sotterranea e altra. L’effetto di straniamento claustrofobico è raggiunto da Arallū attraverso due fondamentali stratagemmi narrativi. Il primo e più evidente è l’uso della prospettiva in prima persona, simile a quella di un videogioco, che rende il lettore tutt’uno con il protagonista, il Golem di Ossidania, di cui riusciamo a vedere soltanto braccia e gambe quando entrano nel suo campo visivo. Il secondo è rappresentato dagli ossessivi monologhi di N’tar, logorroico mostriciattolo che guida il Golem tra i cunicoli del dungeon, portando avanti il compito assegnatogli dal misterioso Hasabbāh. Il lettore è coinvolto in un’esperienza totale, immersiva, tanto che sfogliando le pagine sembra di respirare la polvere e l’umidità dei sotterranei. Si trova sostanzialmente nella stessa situazione del protagonista, sempre in silenzio, passivo, in grado solo di seguire N’tar e di ascoltare la sua litania, piena di termini singolari, di riferimenti a eventi ancora indefiniti ma di sicuro fondamentali per lo sviluppo della narrazione. Su tutti il Disordine, indice di un’era precedente a quella in cui sono ambientate le vicende di questo primo capitolo, segnata forse da qualche evento apocalittico.
Arallū non si dilunga in spiegazioni ma ci fa entrare senza esitazioni nel suo universo, ricco di riferimenti a mitologie inusuali rispetto alle coordinate abituali del fumetto mainstream, dato che guarda ad Oriente con uso di termini persiani, armeni, turchi o babilonesi volutamente storpiati: basti pensare ad Hasabbāh, il cui nome risulta una crasi di Hassan-i Sabbah, capo della Setta degli Assassini attiva in Persia agli inizi del secondo millennio e noto ai più per l’uso letterario che ne fece William Burroughs. Non bastano tuttavia questi elementi per darci una connotazione precisa dell’era e nemmeno del mondo in cui ci troviamo: ciò che sappiamo è che una realtà talmente retrograda e oscura che i suoi abitanti misurano lo scorrere del tempo con la rigenerazione delle ferite che si autoinfliggono.
Oltre alla narrazione in sé – densa di testo, complessa, intrigante – piace di The Dim Reverberation la capacità di inserirsi con precisione chirurgica nel filone dei fumetti Hollow Press, contribuendo a dare forza e coesione al catalogo della casa editrice di Michele Nitri. Qui troviamo in modo particolare dei punti in comune con i lavori di Mat Brinkman e di Miguel Angel Martin. Del primo sono riprese soprattutto le atmosfere di Multiforce, a sua volta ambientato in un mondo sotterraneo del tutto peculiare, anche se rappresentato con un approccio più ironico e meno solenne. Del secondo viene in mente proprio la saga serializzata a puntate su Under Dark Weird Fantasy Grounds, soprattutto per il sottotesto sessuale presente anche qui con i riferimenti a “feticci” e “eccitazioni dell’anomalia”.
Originale, quasi alieno rispetto al contesto del fumetto indie e underground odierno, The Dim Reverberation conferma la sua singolarità nella confezione. Spillato, in formato orizzontale 24 x 34 cm, si caratterizza infatti per l’alta qualità della carta tintoretto da 200 grammi e per l’uso di una vernice traslucida che impreziosisce alcuni dettagli per tutte le 32 pagine del volume. La copertina con i risvolti fa il resto, restituendo nel complesso una cura e un’eleganza davvero notevoli. All’interno l’approccio grafico è inquietante nel disegnare in modo ossessivo lo scenario desolato del dungeon e i suoi strani abitanti. Magari qualche dettaglio, soprattutto riguardo all’anatomia dei personaggi, poteva essere curato meglio, ma mi sembra che l’autore prenda sempre più confidenza con il passare delle pagine, riuscendo a costruire uno stile essenziale ma piacevolmente inconfondibile che culmina nella scena finale, quella dell’incontro con la She-Outcast. Anche la doppia pagina con la riproduzione del “quartiere degli avviziati” è particolarmente riuscita e ricorda Scaffold del duo Most Ancient, fumetto che per atmosfera e soluzioni grafiche ha diversi punti di contatto con questo The Dim Reverberation.
Come tutti i titoli Hollow Press, l’albo è pubblicato in inglese ma questa volta viene distribuito con la traduzione italiana e giapponese in allegato, in modo da consentirne una diffusione capillare. Una diffusione che meriterebbe davvero, per coraggio, originalità e capacità di inserirsi in un catalogo sempre più folto ma al tempo stesso compatto, che a breve comprenderà anche Crystal Bone Drive di Tetsunori Tawaraya e Fobo di Gabriel Delmas.
“Dôme”
Dôme è un’antologia di grande formato (28 x 35,5 cm) frutto della collaborazione dei francesi di Lagon e degli inglesi di Breakdown Press. Stampata in risograph e rilegata a mano durante l’ultimo festival di Angoulême, alla presenza di gran parte degli autori coinvolti, raccoglie in sole 40 pagine ben 17 artisti tra i più interessanti del panorama internazionale odierno: Lando, Amanda Baeza, Simon Hanselmann, Jeremy Perrodeau, Bettina Henni, Sammy Stein, Dash Shaw, Hugo Ruyant, Antoine Cossé, Michael DeForge, Zoe Taylor, Amandine Meyer, Olivier Schrauwen, Alexis Beauclair, Jean-Philippe Bretin, Joe Kessler, Richard Short.
La copertina di Olivier Schrauwen rappresenta appunto una cupola ultramoderna simile a una sfera stroboscopica, contrapposta a uno spazio esterno indefinito e misterioso. Dal dualismo di questa immagine prendono vita gran parte dei contributi presenti nel volume, che a grandi linee esplorano la dinamica interno/esterno, spesso in relazione a quella realtà/apparenza. E’ il caso per esempio di Lando, che nelle tre riuscitissime pagine di apertura propone un gioco tra preistoria e futuro prossimo magnificamente e dettagliatamente illustrato. Il concetto di spazio è a volte multiforme, indefinito ed enigmatico come in Synesthésie di Hugo Ruyant, altre suggestivamente architettonico come nelle due pagine in positivo/negativo di Jean-Philippe Bretin.
In La Lettre Sammy Stein apre finestre verso orizzonti sconfinati grazie allo schermo di uno smartphone, mentre Antoine Cossé riesce nella sola pagina di Hotel a raccontare una storia di sotterfugi extraconiugali rappresentando il binomio interno/esterno attraverso l’immensa vetrata di una camera d’albergo.
Lungi comunque dall’essere monotematica, Dôme riporta anche contributi di autori che, pur con qualche concessione al feeling generale, insistono sulla propria poetica: è il caso di DeForge con la storia di due bambini arrabbiati e ingrati, Dash Shaw con le sue cosplayer, Schrauwen che ci porta ancora ai confini della paranoia con 140 vignette in 2 pagine, Hanselmann che tira fuori altre tre irresistibili pagine di Megg, Mogg, Olw e Werewolf Jones a una Zine Fair.
Discorso a parte meritano Joe Kessler e Richard Short, che fondono alla perfezione lo stile dei loro albi per Breakdown, Windowpane e Klaus Magazine, dando forma a cinque coloratissime pagine piene di cani, gatti e forme dinamiche: bellissime soprattutto la seconda e la terza tavola di questa Paws For Thought, che rappresentano nei toni del giallo, rosso e blu la corsa di un cane sullo sfondo di un paesaggio collinoso.
Impreziosito anche dalla trovata di riportare nelle pagine centrali un’appendice in forma di singola striscia delle diverse storie, Dôme è grazie alla capacità dei suoi editor (Alexis Beauclair, Joe Kessler, Sammy Stein) la migliore antologia degli ultimi anni. Se l’ottavo Kramers Ergot mancava di visione d’insieme, se Mould Map #3 peccava in alcune concessioni a un’estetica cyber a tratti pacchiana, se Volcan allargava eccessivamente il campo rischiando l’effetto di bignami indie, Dôme in sole 40 pagine ci regala un esempio di coerenza estetica davvero raro a vedersi.
L’antologia, stampata in 500 copie e venduta al prezzo di 25 euro, è attualmente esaurita presso Lagon ma alcune copie verranno rese disponibili grazie alla Breakdown Press ai prossimi festival internazionali, come il Millionaires’ Club di Leipzig, il TCAF di Toronto, l’ELCAF e il Safari Festival di Londra.
Misunderstanding Comics #3
Recupero in questo post un po’ di fumetti che mi sono stati gentilmente messi a disposizione negli ultimi mesi dai lettori di Just Indie Comics, alcuni a mano, altri via posta, altri via pdf. Di proposte di lettura, recensioni ecc. ne arrivano diverse e qui mi sono limitato a selezionare quelle che ho trovato più interessanti, sperando prima o poi di riuscire a rispondere almeno via mail agli altri. A breve, spero il mese prossimo, pubblicherò un altro articolo su questo stesso genere.
Ho già parlato in diverse occasioni, ma purtroppo senza i necessari approfondimenti, del collettivo belga Tieten Met Haar, di cui fanno parte Valentine Gallardo, Alexander Robyn, Nina Van Denbempt, Mathilde Vangheluwe, Jana Vasiljević e Nina Vandeweghe. Su queste pagine avete forse già visto due fumetti di Nina Van Denbempt, mentre qualche tempo fa anticipavo brevemente l’uscita per Bries dell’antologia Flatlands, che ha raccolto lo scorso gennaio il lavoro del collettivo. E visto che ci sono ne approfitto anche per dire che il terzo e quarto numero della loro antologia omonima sono quanto di meglio abbia prodotto di recente l’Europa nell’ambito delle antologie di storie brevi realizzate in gran parte da autori alle prime esperienze editoriali (pur con qualche guest star come Inés Estrada e Olivier Schrauwen). Nel frattempo alcuni di loro hanno cominciato a farsi vedere su Vice e la Gallardo è arrivata negli Usa grazie alla sempre ottima Space Face Books. Soft Float è una raccolta di storie brevi già viste on line e su svariate pubblicazioni cartacee, più l’inedita Ugly Bastard.
Il lavoro dei Tieten Met Haar mi sembra nel complesso interessante per la capacità di inglobare numerose ispirazioni extra-fumettistiche, per il modo in cui gli autori riescono a mettere sulla pagina la propria sensibilità, per l’abitudine a rendere il lettering elemento grafico fondamentale. Questi tre fattori hanno un peso specifico importante nei fumetti della Gallardo, suite polifoniche che trascrivono in forma di disegno situazioni sociali come feste, escursioni, uscite con gli amici. I personaggi parlano di continuo, si divertono, si abbracciano, si baciano in una narrazione senza inizio né fine che racconta una storia, più storie o anche nessuna storia ma semplicemente una situazione, un’emozione, una sensazione. Ogni tanto appare un terzo occhio sulla fronte di uno dei personaggi, una tigre che parla, un serpente che semina zizzania in un gruppo di amici. A volte i dialoghi sono eccessivi, riempono esageratamente la pagina e lasciano pensare che questo sovraffollarsi di voci andrebbe controllato meglio. Il disegno è invece continuo nel restituire espressività con poche linee ed è valorizzato soprattutto negli episodi in cui la disposizione delle vignette è meno barocca, come I Fly So Low, impreziosito dall’uso del rosso e dai toni neri della grafite, con tavole che potrebbero anche essere senza testo per come le linee e i colori riescono a raccontare. Molto belle anche un paio di esplosioni a tutta pagina che fungono da apice emotivo.
The Pestle è invece l’ultima fatica di Carl Antonowicz, fumettista uscito dal Center for Cartoon Studies di White River Junction, Vermont. Mentre si diplomava alla scuola diretta da James Sturm, Antonowicz ha realizzato i tre albi di The Black Dog and the Hole at the Heart of the World, una storia sentimentale (ma tutt’altro che zuccherosa) pregna di elementi misteriosi e inquietanti degni di un film horror, come il cane nero che appare di tanto in tanto al protagonista o un tizio che passa le giornate in stato catatonico a guardare un enorme buco nero nella parete. Nonostante qualche ingenuità nel disegno, in alcune soluzioni un po’ grossolano (cosa normalissima trattandosi praticamente di un’opera prima), il plot fila liscio lasciando una certa curiosità al lettore, destinata al momento a rimanere insoddisfatta dato che la storia è ancora incompiuta. Finita l’esperienza del CCS, Antonowicz ha partecipato insieme ad altri studenti della sua classe all’antologia Maple Key Comics, dove ha pubblicato A Sickness Upon the Land, poi uscito in albo singolo con copertina traforata, a ribadire l’immagine del “buco” che già ricorreva in The Black Dog. Dall’ambientazione urbana si passava senza timori a quella medievale, con una storia fantasy di re, streghe e spiriti dal gustoso sapore anarchico. Eppure è con The Pestle che l’autore fa il vero salto di qualità, abbracciando una complessità ben diversa da quella delle prove precedenti, indispensabile per un fumetto dal respiro più ampio e con una molteplicità di situazioni, temi e personaggi. Pubblicata a puntate ancora su Maple Key, la prima parte di The Pestle è stata di recente ristampata dall’autore in un bell’albo autoprodotto, in attesa del seguito ancora in via di lavorazione.
Il titolo è tratto dalla scuola, liberamente ispirata alla Schola Medica Salernitana, dove un gruppo di medici e di studenti cercano di trovare una cura per il “bleed”, una malattia che colpisce i bambini causando sanguinamento fino alla morte. Un rimedio in realtà già c’è ma è tutt’altro che scientifico, in quanto consiste nel richiamare, tramite uno specifico rituale, delle creature demoniache che a un certo punto chiedono in cambio l’anima della studentessa Artemisia Di Pregio. La donna non è in realtà l’unica protagonista delle vicende narrate, dato che The Pestle utilizzando un’impostazione da romanzo corale incastra una serie di sottotrame, a partire da quella di Tom Carter, un contadino che si danna per la morte del figlio e a cui non vengono riservate né attenzioni né cure. Come nel precedente A Sickness Upon the Land, gli elementi fantasy si intrecciano a temi politici, qui resi in maniera più articolata che in precedenza. Migliorabile invece il disegno, dato che Antonowicz sembra aver sviluppato le buone premesse viste nei suoi primi lavori in un tratto più maturo ma leggermente mainstream per i miei gusti. Mi permetterei di suggerirgli di lavorare soprattutto sui volti e sulle espressioni dei personaggi, perché invece i paesaggi e le scene del rituale sono ben fatti.
Tor Brandt è un cartoonist danese che da qualche tempo si diverte a postare illustrazioni e fumetti sul suo tumblr Pain Pie, titolo anche di una futura serie autoprodotta. Chiaramente debitore a Michael DeForge nel tratto, comunque ancora da affinare, e in alcune soluzioni narrative, Tor cita tra i suoi artisti preferiti del momento e fonti di ispirazione, oltre allo stesso autore di Lose, Simon Hanselmann, Patrick Kyle, HTML-Flowers, Daniel Clowes, Alex Schubert e Gabriel Corbera, insomma tutta gente di cui si è parlato da queste parti e che ci piace parecchio. E’ inevitabile dunque che alcune delle sue storie risentano in maniera sin troppo diretta di uno o più modelli di riferimento, dato che siamo davanti a un artista ancora alla ricerca della propria voce. Mi sono però convinto a parlarne qui perché c’è qualcosa di decisamente promettente nei suoi fumetti, che si tratti dell’esistenzialismo dai toni tenui della recente Sanctuary o dell’horror color neon che vede protagonista un essere disgustoso chiuso in carcere. E anche le sue illustrazioni, piene di vuoti, misteriose, a volte surrealiste, danno l’idea che il ragazzo si farà.
La prima fatica cartacea di Brandt è Nice and Clean, comic book autoprodotto in 50 copie che usa uno stile ancora “deforgiano” per raccontare, senza paura di mettere in pagina un po’ di sana trivialità, i problemi sessuali di un uomo ossessionato dall’igiene. Una storia semplice, che si fa apprezzare per l’abilità nell’andare dritta al punto, divertendo senza perdersi in fronzoli e lasciando alla fine anche una punta di tristezza. Davvero niente male per un fumetto d’esordio.
“Big Kids” di Michael DeForge
Puntuale come il tipo che vedi passeggiare a qualsiasi ora per le strade del tuo paese, arriva il nuovo fumetto di Michael DeForge. Autore di una produzione sterminata, di cui più e più volte ho parlato da queste parti, DeForge si appresta ad atterrare anche in Italia grazie a Eris Edizioni, che si è aggiudicata i diritti di Dressing, la sua più recente raccolta di storie brevi pubblicata l’anno scorso da Koyama Press (ne ho parlato qui). Big Kids è invece il suo nuovo racconto lungo, un volume hardcover di 96 pagine a colori in uscita oggi 23 febbraio per Drawn and Quarterly e presentato dall’editore come “la sua storia più diretta e al tempo stesso il suo lavoro più complesso finora”. Con queste premesse è ovvio che ci si aspettasse molto da Big Kids, anche perché DeForge, pur autore di una produzione vasta e senz’altro valida, non ha ancora realizzato il suo capolavoro, un fumetto cioè che possa essere considerato nettamente il migliore nell’ambito di un opus comunque di tutto rispetto. Detto che a mio parere le cose più riuscite si sono viste sul comic book antologico Lose, si tratta comunque di ottimi fumetti a cui manca sempre qualcosa per diventare indimenticabili.
Big Kids inizia con la voce fuori campo del protagonista, Adam, che mette insieme alcuni ricordi di quando era ragazzino, collocandoli in un periodo identificato genericamente come “prima”. Subito emerge la crudezza di DeForge, dato che la prima vignetta vede Adam intento a praticare un rapporto orale a un altro ragazzo, Jared, che gli dà un cenno per avvisarlo che sta per venire. Il sesso è ancora una volta rappresentato nel modo più diretto possibile, enfatizzandone gli aspetti più pratici e materiali, a partire dalle secrezioni corporee che sono una presenza costante nel corso della storia. Le altre vignette continuano con flash veloci sulla vita di Adam, le violenze subite a scuola, lo zio poliziotto, le canne, i genitori, il fratello morto e così via, fino a quando l’orizzonte si amplia e prende corpo la narrazione vera e propria. Lo zio viene licenziato dalla polizia e il seminterrato che prima occupava si libera, lasciando posto ad April, una studentessa allieva della madre con cui il protagonista intesse una relazione platonica (“Solo per fartelo sapere, mi piacciono i ragazzi” le dice). Intanto Jared rompe con Adam, usando parole generiche che nascondono di solito un’altra persona. E infatti comincia a farsi vedere con Tyson, un nuovo ragazzo che nessuno del gruppo aveva visto in precedenza. Siamo arrivati così a pagina 23 e tutto sta funzionando per il meglio, la storia scava nelle pieghe del quotidiano, mostrandoci un lavoro sul personaggio che mai DeForge aveva voluto fare in modo così approfondito in passato, e che potrebbe far pensare a qualche dettaglio autobiografico. I suoi erano stati finora in larghissima parte fumetti massimalisti, incentrati non sui caratteri ma “on topics”, come recitava il titolo del suo mini uscito l’anno scorso per Breakdown Press.
E’ a questo punto che avviene la trasformazione, del protagonista e della storia. Deluso dal tradimento di Jared, Adam si addormenta sul divano di April e quando si risveglia vede il mondo con occhi diversi. Non solo, anche il suo corpo è diverso. Adam è diventato un albero, in un mondo che vede la divisione tra “rami”, esseri umani più semplici e meno evoluti, come nonostante l’età è ancora il padre di Adam, e appunto “alberi”, cioè persone al culmine del loro processo evolutivo, come la madre e l’inquilina April.
Il cambiamento è accompagnato da una rivoluzione nella tavolozza dei colori utilizzata da DeForge: se nella prima ventina di pagine l’Adam “ramo” guardava un mondo pallidamente colorato di bianco, giallo e rosa, adesso la realtà gli appare quasi psichedelica, ricca di colori variegati e intensi. Anche le forme sono diverse, dalle teste tondeggianti della prima parte si passa infatti a figure allungate e corpi fluidi che vanno a comporre tavole spesso ai confini dell’astrattismo.
Purtroppo questa svolta sterilizza la forza delle pagine iniziali del libro. La narrazione diretta, intima, potente della prima parte lascia spazio a una metafora sul cambiamento, sulla trasformazione e sul ricordo che diventa ancora una volta gioco, assurdità e, di conseguenza, esercizio di stile. E anche se il plot propone a un certo punto una violenta impennata, che non starò qui ad anticiparvi, non riesce comunque a sviluppare degnamente l’intensità delle premesse. Mi sarebbe piaciuto leggere qualcosa di più personale, insomma, la storia che DeForge si porta dentro da tempo ma che non ha ancora raccontato. E invece questa storia rimane ancora un mistero, dato che qui se ne vede soltanto una parte, vanificata da un seguito che sa di già visto nell’ambito della produzione dell’autore.
Anche il disegno perde di efficacia dopo la trasformazione del protagonista. Se la seconda parte del libro è illuminata da una bella e vivace cascata cromatica, la raffigurazione dei personaggi come “rami” e “alberi” risulta invece sciatta e approssimativa, soprattutto se paragonata ad alcune prove passate di DeForge (mi vengono in mente i primi numeri di Lose), in cui spiccavano l’amore per il dettaglio e il lavoro su linee e sfumature. Il design eccessivamente essenziale impoverisce esteticamente l’intero volume, contribuendo a rendere Big Kids un fumetto soltanto discreto. Forza DeForge, puoi fare di più.
Misunderstanding comics #2
Seconda puntata, a lunga distanza dalla prima, di questa rubrica di mini-recensioni e segnalazioni scritte in fretta e furia ma (almeno stavolta) riccamente illustrate. Qui recupero un po’ di uscite del 2015 di cui non sono riuscito a parlare in precedenza.
NOTA: Alcuni di questi fumetti potrebbero essere in vendita nel negozio on line di Just Indie Comics. In questo caso il link sul nome del fumetto vi porterà direttamente alla relativa pagina del negozio. I miei giudizi cercheranno di essere comunque obiettivi, ammesso che ciò sia possibile. Buona lettura.
Partiamo questa volta con uno sketchbook del maestro Charles Burns, Incubation, edito dalla Pigeon Press di Alvin Buenaventura, tragicamente venuto a mancare proprio mentre mi accingo a pubblicare queste righe. Giusto per fare il punto della situazione, si tratta della terza pubblicazione di Burns per la Pigeon Press, dopo Echo Echo – sketchbook che si focalizzava sui disegni a matita realizzati durante la lavorazione di Black Hole – e il più recente In The Garden Of Evil, che riproponeva in formato più grande le illustrazioni realizzate da Burns con Patrice Killoffer per Mon Lapin.
Incubation ha il pregio di essere un piccolo, economico, abbordabile albo in formato orizzontale che permette nelle sue 40 pagine di sbirciare sul tavolo di Burns, ammirando il suo processo di preparazione per la Nit Nit Trilogy, di cui in Italia abbiamo già visto per Rizzoli Lizard X’ed Out e The Hive (manca ancora all’appello il conclusivo e bellissimo Sugar Skull). Del lento processo di lavorazione della sua arte si è parlato già qui, per questa volta ci possiamo dunque limitare ad ammirare i disegni, che come potete vedere di seguito non sono solo e soltanto schizzi, anzi… Oltre ai vari sketch che, una volta raffinati, entreranno nelle tavole della trilogia, troviamo infatti tante illustrazioni complete di chine e colori che raggiungono già in queste pagine un alto livello di perfezione formale. E quando la linea è più libera, come nella figura della donna nella quarta immagine in basso, si ha l’occasione di godersi un Burns più selvaggio e spontaneo. Ok, smetto di scrivere e scatto un po’ di foto, che sicuramente renderanno l’idea meglio delle mie chiacchiere.
Saltiamo di palo in frasca e andiamo a San Francisco da Niv Bavarsky, meglio noto come illustratore per rispettabilissimi comittenti come The New Yorker, New York Times, Bloomberg, McSweeney’s. Ma non tutti sanno che il buon Niv è anche un cartoonist che nei suoi fumetti abbandona l’uso del pennello e del colore per sviluppare un segno in bianco e nero più sporco e rozzo. Insomma, come immaginerete preferisco il Bavarsky fumettista a quello illustratore, che a volte trovo un po’ affettato. E se vi chiedete come sia nata questa mia convinzione, beh, deriva in larga parte da Piggy, 28 pagine in piccolo formato (10 x 16,5 cm) pubblicate l’anno scorso per Retrofit Comics e in cui sono raccolte storie brevi e illustrazioni, caratterizzate in buona parte dalla presenza di un maiale.
E’ il caso dell’iniziale Smell The Flowers, in cui il protagonista si alza dal letto dopo un amplesso per uscire ad annusare i fiori in giardino (che romanticone), dove però trova il “minaccioso” animale ad aspettarlo. Al di là della semplicissima trama, le prime tre pagine della storia sono un esempio di intensità grafica in cui l’essenzialità diventa cifra stilistica, carica di simboli e allusioni. E non è tutto qui, perché dentro Piggy trovate una pagina dedicata a fantasie di morte, una versione tecnologica del mito di Narciso, giovani affamati, tentativi di fermare un’eruzione vulcanica degni di Armageddon. Non un capolavoro ma un mini-comic come Cristo o chi per lui comanda.
Andiamo ancora più indietro nel tempo con Melody, bel volume pubblicato da Drawn and Quarterly nel 2015 ma che traduce per la prima volta in lingua inglese i fumetti francofoni autoprodotti da Sylvie Rancourt negli anni ’80 con tirature di 5.000 copie. Siamo ovviamente a Montreal, dove la giovane Melody, alter-ego dell’autrice, sbarca il lunario come ballerina negli strip-bar, dovendo fronteggiare non solo le attenzioni a volte troppo insistenti degli avventori ma anche il marito Nick, parassita, egoista, laido, ladro e a volte anche spacciatore.
Detta così potrebbe sembrare una drammatica storia di degrado, ma in realtà tutte le vicende sono raccontate con un tono naif e un tratto elegantemente stilizzato, come se il punto di vista fosse quello di una bambina, in un approccio che poco ha di superficiale ma che piuttosto rappresenta l’uso del corpo come “atto” da rivendicare lontano da facili pudori e luoghi comuni. Ci si potrebbe aspettare prima o poi una svolta, una deflagrazione (soprattutto nel rapporto tra Melody e Nick), invece non c’è niente di tutto questo, la vita va avanti come spesso succede senza colpi di scena, anche perché non c’è qui l’urgenza di raccontare chissà cosa ma solo di raccontarsi. E la frase che apre, con qualche lieve variazione, ogni capitolo (This isn’t the beginning and it’s not the end, but somewhere in the middle) è programmatica.
Femminista senza un filo di retorica, Melody anticipa il filone dei fumetti autobiografici canadesi che troveranno affermazione negli anni ’90 nella stessa Montreal grazie proprio alla Drawn and Quarterly. E Sylvie Rancourt è un’autrice che potremmo tranquillamente avvicinare, almeno per importanza se non per contenuti, alle varie Julie Doucet, Phoebe Gloeckner, Debbie Drechsler, Gabrielle Bell. Ah, l’introduzione al volume è di Chris Ware.
Rimaniamo in tema di autrici femminili recuperando anche Bloody Pussy, tabloid gratuito di 12 pagine in bianco, nero e rosso uscito a Seattle nell’agosto scorso e curato dal trio Eroyn Franklin, Kelly Froh e Mita Mahato. Scopo del progetto è dimostrare che anche le donne possono realizzare fumetti crudi e bizzarri, con temi come la violenza sessuale, le mestruazioni, il rimming, le secrezioni corporee e l’orgasmo. E il tentativo può dirsi largamente riuscito sia a livello concettuale che grafico, dato che Bloody Pussy regala pagine di grande formato spettacolari e soprattutto POTENTI, come ogni buon fumetto dovrebbe fare.
La lista delle collaboratrici (con qualche pseudonimo qua e là) comprende Marie Hausauer, Elly Blood, Mimi Blood, Et Russian, Kelly Froh, Tatiana Gill, Anna Vo, Brittany Kusa, Erma Blood, Sarah Romano Diehl, Lara Kaminoff, Ruby Blood. Io vi consiglio di procurarvene una copia finché siete in tempo: basta scrivere a blood.puss.nw@gmail.com e pagare le sole spese di spedizione, nemmeno onerose visto l’esiguo numero di pagine.
Dallo stato di Washington torniamo nel Vecchio Continente e per la precisione in Lituania, da dove gli amici della Kitokia Grafica mi hanno spedito qualche tempo fa una busta contenente le ultime uscite della loro fanzine Still Without Name, di cui avevo già recensito il secondo numero quasi due anni fa. La quarta uscita della serie passa al classico formato comic book abbandonando quello quadrato e quasi tascabile delle puntate precedenti. Il canovaccio rimane però lo stesso, trattasi infatti della classica antologia amatoriale che riunisce contributi spesso estemporanei ed estremamente variegati di giovani artisti provenienti da tutta Europa, tra cui è doveroso citare gli italiani Luigi Filippelli e Gianluca Sturmann. Detto che una selezione più rigida dei materiali e un po’ di editing in più non guasterebbero affatto, il progetto si fa amare per l’attenzione all’aspetto ecologico della faccenda (le 250 copie della fanzine sono realizzate con inchiostro a base di soia e carta riciclata) e per la possibilità di scoprire qualche nuovo talento emergente, soprattutto dell’area est-europea. Cito a questo proposito Ana Kun (Romania), Lina Itagaki (Lituania), il sempre bravo Boris Pramatarov (Bulgaria) e Chiara Lammens (Belgio), il cui contributo è un bel tentativo di inglobare lo stile delle pitture rupestri e al tempo stesso un’interessante esplorazione del concetto di spazio nella tavola. E proprio con una doppia pagina tratta dal lavoro della Lammens chiudo questa rassegna.
“The Collected Hairy Who Publications 1966-1969”
Jim Nutt, Jim Falconer, Art Green, Gladys Nilsson, Suellen Rocca e Karl Wirsum sono i sei artisti che formarono il collettivo Hairy Who, in azione a Chicago tra il 1966 e il 1969 nell’ambito del più ampio movimento dei Chicago Imagists. Dan Nadel, ex patron della PictureBox, gli dedicò un saggio già nel terzo numero dell’antologia The Ganzfeld (2003) e più di recente ha incluso il loro lavoro nella mostra What Nerve! Alternative Figures in American Art, di cui è uscito anche il relativo catalogo. Ulteriore ramificazione di quell’esperienza è il volume The Collected Hairy Who Publications 1966-1969, che non guarda tanto alle opere realizzate dal collettivo (a cui è comunque dedicata una sezione finale con tanto di foto d’epoca) ma si propone piuttosto di ristampare integralmente le riviste realizzate dai sei artisti in occasione delle diverse mostre, da quella del 1966 all’Hyde Park Art Center di Chicago fino alla trasferta di Washington nell’aprile del 1969. Trattasi più che di cataloghi di veri e propri comic-book contenenti illustrazioni e fumetti in cui venivano riletti alcuni dei loro quadri o venivano presentati lavori completamente inediti. E a rivederli oggi c’è da rimanere stupiti, perché il materiale pubblicato in questo volume hardcover di grande formato (168 pagine, edito dalla Matthew Marks Gallery di New York) è all’avanguardia per la fine degi anni ’60, anticipando di gran lunga dinamiche e contenuti che avremmo visto nel fumetto soltanto molto più tardi, per la precisione nei primi anni del nuovo millennio. Al di là infatti dell’estetica, che ricorda a una prima e superficiale occhiata le linee sinuose e i colori accesi tipici degli anni ’60, ciò che più colpisce è l’assoluta predominanza della forma rispetto al contenuto in un oggetto che ha tutte le fattezze del fumetto. Ci troviamo qui a che fare, insomma, con l’arte che si fa fumetto, mentre più di trent’anni dopo tanti cartoonist tentarono (e tentano tutt’oggi) di dare al fumetto l’estemporaneità, la sintesi e la forza del linguaggio artistico, rinunciando alle usuali dinamiche della narrazione. Mi viene in mente per esempio C.F., che soprattutto nelle sue fanzine (raccolte in Mere, guarda caso uscito per PictureBox) ricorda modalità di espressione vicine a quelle degli Hairy Who.
Pur con queste linee guida, e con la presenza di numerose collaborazioni realizzati sullo stile dei cadavre exquis surrealisti, ognuno dei sei artisti ha un’identità ben precisa. Art Green è quello che inizialmente più guarda ai fumetti del passato, soprattutto degli anni ’50 (Ec Comics e giù di lì), presentando soluzioni tradizionali come la suddivisione della pagina in vignette, i balloon e addirittura le didascalie. Successivamente questa componente scompare per lasciare spazio a illustrazioni a tutta pagina, in cui la vignetta è solo un ricordo, i colori si accendono e il tono diventa pop inglobando l’estetica della pubblicità, delle insegne, della grafica, in un mix che abbatte ogni distinzione tra arte “alta” e “bassa” (contrariamente a quanto faceva in quegli anni la pop art, intenta piuttosto a elevare al rango di “arte” la pubblicità, il fumetto, le merci ecc.). Anche Karl Wirsum parte dall’uso della vignetta per poi guardare altrove, passando da un Broken Balloon (titolo da incorniciare) che è quasi un fumetto tradizionale a sperimentazioni sulla forma e sul colore, con le linee che scompaiono per lasciare spazio a figure ai confini con l’astratto.
La sua evoluzione è simile a quella degli altri membri del gruppo, perché se la prima pubblicazione realizzata, The Portable Hairy Who! del 1966, è un gioco sul linguaggio dei comics, quelle successive si liberano da ogni vincolo programmatico per dare spazio a una creatività energica, in continuo movimento e mutazione. Successivamente Wirsum guarderà al mondo della musica e in particolare alle cover degli LP, non a caso una delle sue opere presentate a un’esibizione degli Hairy Who e riprodotta in una delle pubblicazioni è la copertina di un disco di Screamin’ Jay Hawkins. Suellen Rocca gioca invece con i simboli, spesso ricorrenti. I suoi sono i lavori che vanno maggiormente “letti” nel senso di “interpretati”, con un uso dell’arte come gioco con lo spettatore e continui richiami al surrealismo.
Le creazioni di Gladys Nilsson sono fatte di forme rotonde, sinuose, figure umane abbondanti, e anche le vignette, quando ci sono, diventano liquide, indefinite, curve. Tra i sei è quella che meno utilizza il colore – tant’è che parecchie sue illustrazioni sono in bianco e nero o si caratterizzano comunque per i toni tenui – e anche quella che più ricorda i fumetti underground che proprio in quegli anni esplodevano con il primo Zap Comix (1968). Jim Falconer, il meno inquadrabile e più discontinuo degli Hairy Who, parte dalle due notevolissime tavole a fumetti di The Victem del 1966 per passare a illustrazioni a tutta pagina e infine alla creazione di carte da gioco non convenzionali. Jim Nutt è infine il più vicino al fumetto contemporaneo. Il suo lavoro è attualissimo e rimanda in alcuni casi anche all’immaginario, apparentemente lontano, dei manga underground. Le due tavole di Nurse Horrid Horrid – colme di chiome rosse, bende, corpi deformi, protuberanze, reggicalze, unghie, nasi enormi, cerotti – sprizzano al tempo stesso sessualità, orrore, humor.
In tutti gli Hairy Who è comune la ricerca dell’ellissi e dell’enigma, volta a lasciare quel “nonsoché” tra le linee e i colori che solo il lettore/spettatore può colmare a suo piacimento. E non tutto è facilmente interpretabile, perché la gran parte delle volte siamo di fronte a opere improvvisate, istintive, ironiche, dove abbondano i giochi di parole, i doppi sensi, le suggestioni. D’altronde, come scrive Dan Nadel nel saggio che accompagna il volume, “like most good things, this work does not offer tidy conclusions or ideas that can be verbalized. It just needs to be lived with”.
Let’s make a list – 19/01/2016
Riprendo dopo una lunga sosta la solita rubrica di notizie, segnalazioni e link vari. Non so in realtà quando e quanto riuscirò a fare post di questo genere nel corso del 2016, che mi vedrà impegnato su progetti vecchi e soprattutto nuovi. E dato che avrò poco tempo a disposizione, preferirò magari dedicarlo a recensioni, articoli di approfondimento e interviste piuttosto che alle news.
Come molti siti, anche io ho pubblicato alla fine di quest’anno una serie di “Best of” del 2015, che ho diviso tra i migliori fumetti pubblicati in Italia, i migliori comic-book/serie regolari/antologie usciti all’estero e i migliori volumi stranieri. Sì, so benissimo che soprattutto le liste straniere sono del tutto americanocentriche, ma come ho già spiegato Just Indie Comics si occupa per lo più di fumetti americani, anche perché altrimenti si chiamerebbe Seulement Comics Indépendants o qualcosa del genere. Se volete comunque dare un’occhiata a una lista più ampia e strutturata della mia, vi consiglio quella di Paul Gravett, che divide con estrema precisione i diversi fumetti usciti quest’anno nelle categorie British Graphic Novels, American Graphic Novels, International Graphic Novels, Foreign Language Graphic Novels translated into English, Manga, Reprints and Re-Editions, Books About Comics. Spero anche io, un giorno o l’altro, di avere il tempo nonché la forza di leggere tutto quello che riesce a leggere Paul Gravett. Ah, tra i migliori fumetti internazionali c’è anche il nostro Vincenzo Filosa con Viaggio a Tokyo pubblicato da Canicola.
Degno di nota anche questo articolo di Paul Tumey per The Comics Journal, che propone un viaggio nei fumetti usciti quest’anno denso di riflessioni e capace di offrire parecchi spunti per scoprire qualche fumetto diverso. Da leggere anche la lista di Nick Gazin per Vice, che mette al primo posto The Hairy Who, il volume di Dan Nadel sull’omonimo collettivo chicagoano di cui spero di dirvi in maniera più approfondita un giorno o l’altro. Articolato in ben quattro parti il Best Of di Sequential State, con tanti fumetti a me ben familiari. Da non perdere anche le sempre interessanti segnalazioni del critico/fumettista Rob Kirby, che in questa immagine fotografa alcune delle sue scelte.
Più mainstream ma comunque interessanti le liste di Mental Floss, AV Club ed Entropy, mentre se volete avere un’idea di cosa si vende in una delle librerie più fiche degli Stati Uniti, la Atomic Books di Baltimora, vi rimando al blog del negozio, consigliandovi soprattutto l’elenco dei 30 mini-comics più venduti. Il sito Columbus Alive seleziona invece 12 graphic novel realizzate da donne usciti più o meno nell’ultimo anno.
Torniamo nel nostro caro Vecchio Continente con i suggerimenti del cartoonist britannico Simon Moreton, tra cui c’è anche Garrettsville di Jenn Lisa, pubblicato in realtà nel 2014 come parte del terzo numero dell’antologia Dog City (ne avevo parlato qui). E sempre nel Regno Unito il sito del Forbidden Planet International mette insieme una serie di Best Of di critici e “addetti ai lavori”, anche qui con diversi spunti interessanti. Concludo facendo un salto in Spagna, dove Le Miau Noir ci conferma che in quanto a edizioni di materiale d’oltreoceano lì si sta molto meglio che da noi, come testimonia questo bel volume antologico dei fumetti di Julie Doucet edito dalla sempre eccellente Fulgencio Pimentel.
Basta liste e passiamo ad altro. Il cartoonist John Porcellino ha lanciato una campagna su Patreon per raccogliere fondi a sostegno della sua attività di cartoonist, distributore e anche editore. Infatti oltre a due numeri del suo ormai storico King-Cat Comics, Porcellino ha intenzione di pubblicare nei prossimi mesi una collezione di Strange Growths di Jenny Zervakis. Se potete dategli una mano, vi assicuro che ne varrà la pena.
Reso noto il programma del Fumetto Festival di Lucerna, che celebra i suoi 25 anni in primavera, precisamente dal 16 al 24 aprile. L’ospite principale sarà Joe Sacco, mentre tra le varie mostre spiccano quelle di Lorenzo Mattotti, Joost Swarte, Tom Gauld, Caroline Sury, Frémok. I dettagli per ora sono solo in tedesco, come d’altronde la presentazione delle varie mostre, mentre dell’evento legato a Sacco si parla anche in inglese.
Il nuovo numero di Art in America è dedicato in parte ai fumetti, con un saggio di Alexi Worth su Jack Kirby, un articolo di Ryan Holmberg sulle icone pop art nel fumetto giapponese e un approfondimento sulla rivista Dune di Seattle. Chissà se riuscirò a leggerlo in un modo o in un altro.
Un po’ di interviste varie: Seth, Richard Sala, Matthew Thurber. Novità editoriali: l’editore belga Bries fa uscire una raccolta del meglio del collettivo Tieten Met Haar, intitolata Flatlands (foto in basso). Mostre: la Drawn and Quarterly arriva con una collettiva alle Galerie Martel di Parigi. E anche per questa volta è tutto.