Misunderstanding Comics #4

Come promesso nella precedente puntata di questa rubrica, torno a scrivere di un po’ di fumetti che mi sono stati inviati/consegnati dai lettori di Just Indie Comics. Si tratta di una selezione del materiale che ho trovato più interessante, perché purtroppo non ho davvero il tempo di occuparmi di tutti e tutto. Ci aggiungo Hax di Lale Westvind, uscito già da un po’ per Breakdown Press ma che ci tengo a recuperare. Terrò questa volta fede al titolo della rubrica parlando di tutto con estrema brevità, me ne scuso con gli interessati e con voi che leggete.

NOTA: Alcuni di questi fumetti potrebbero essere in vendita nel negozio on line di Just Indie Comics. In questo caso il link sul titolo vi porterà direttamente alla relativa pagina del negozio. I miei giudizi cercheranno di essere comunque obiettivi, ammesso che ciò sia possibile. Buona lettura. 

 

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Iniziamo proprio da Hax, ennesimo pirotecnico esperimento di un’artista che è una delle voci più originali nel fumetto contemporaneo, espressione di una sensibilità altra che oserei definire ballardiana per come lavora sull’incontro/scontro tra corpi e macchine, oltreché sui concetti di movimento, velocità, azione. Ossessiva nel riproporre temi, immagini, contenuti come lo è per esempio lo spagnolo Gabriel Corbera, la Westvind realizza con Hax un esperimento coloratissimo che sfrutta appieno, come è ormai tradizione in casa Breakdown, le sovrapposizioni di colori tipiche della stampa in risograph. Il riferimento più immediato è il video che l’artista di Brooklyn ha realizzato per The Metal East dei Lightning Bolt, un viaggio bidimensionale che sembra la versione animata di Mad Max: Fury Road. Anche Hax è un viaggio ma il tono è più algido rispetto al video. La storia si dispiega muta e misteriosa per 24 densissime pagine in cui tre o anche più personaggi femminili affrontano prove e battaglie in uno scenario di guerra, con esplosioni continue, aerei che volano, macchine luccicanti.

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Alla fine arrivano in un museo, appare un telefono e dall’altro capo della linea c’è un minaccioso signore della guerra vestito di nero. La trama è labile, siamo più dalle parti di un trip psichedelico ricco di associazioni di idee. Eppure viene voglia di sfogliarlo e risfogliarlo per afferrare sempre nuovi dettagli e possibili interpretazioni. Bellissimo.

 

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Psichedelico anche se di tutt’altro genere è il secondo numero di Abyssal Yawn di Bill Wehmann e Ed Steck, autoprodotto sotto il marchio Pacific Reverb Society. Se volete farvi un’idea del tono e delle tematiche di questa saga cosmica vi rimando alla mia recensione del primo numero, qui mi limito a segnalarvi l’uscita, dopo due anni di attesa, del secondo capitolo delle avventure di Birch Twig (“un Silver Surfer con trecce rasta e senza slip né misteriosi vuoti in mezzo alle gambe”, autocit.) e del cane parlante Max, pronti finalmente a dare battaglia alla malvagia Mother Sky Corporation. Abyssal Yawn continua a intrigare per la prosa ricca e pomposa di Steck, che rimanda alle saghe kyrbiane, e per l’approccio visionario. Se il primo numero era ambientato su un pianeta frutto della proiezione mentale di Max, in questa seconda uscita i due protagonisti entrano in un wormhole già a pagina tre e devono affrontare delle versioni alternative di se stessi.

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Niente è come sembra da queste parti, nemmeno nello spazio, e la dimensione fantascientifica è innanzitutto mentale. Il disegno volutamente “zozzo” di Wehmann, la colorazione da saga cosmica made in Marvel, i riferimenti socio-politico-ambientalisti e i personaggi da cartoon fanno il resto, creando un ibrido difficilmente definibile, al tempo stesso saga cosmica e parodia di se stessa.

 

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Torniamo decisamente sulla terra con un fumetto autobiografico, First Weeks della polacca Anna Krztoń, che avevo già notato su SW/ON #2 per un bel contributo graficamente arzigogolato. Ho seguito pian piano la sua crescita tra albi autoprodotti e contributi a varie antologie internazionali e credo che questo First Weeks, mini-comic in bianco e nero uscito a gennaio in 100 copie, sia la sua cosa migliore fino a oggi. Lo stile naif sintetizza perfettamente l’anima astratta e quella figurativa dei precedenti lavori dell’autrice, rappresentando con essenzialità ma anche con poesia le sue prime settimane a Varsavia. Siamo dalle parti di John Porcellino e dei comics-as-poetry per capirci, con un approccio diaristico che non è mai didascalico ma cerca sempre la poesia nel quotidiano. E alla fine della lettura rimane un pizzico di malinconia, segno che l’autrice ha centrato l’obiettivo. Di seguito qualche tavola per rendere meglio l’idea.

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L’albetto è ovviamente in inglese e per richiederlo potete scrivere a krztonia@poczta.onet.pl. Oppure aspettare che arrivi nel negozio on line di Just Indie Comics, cosa che spero accada al più presto.

 

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Se First Weeks lascia un senso di malinconia, Ceniza/Cenere di Serena Schinaia restituisce un senso di abbandono come pochi fumetti riescono a fare. E ci riesce in sole 16 pagine e poche, pochissime parole. Anche qui il fumetto è poesia e il riferimento più prossimo è l’ermetismo. D’altronde la Schinaia aveva già dimostrato in Deriva, albo autoprodotto che raccoglieva le sue storie brevi, di prediligere una scrittura fatta di frasi essenziali ma pregne di significato, lasciate a mò di didascalia sotto disegni carichi di un bianco e nero intenso. Ceniza/Cenere sviluppa questo stile in qualcosa di nuovo e diverso. Il tratto è più definito, la linea regolata e meno spigolosa, il bianco e nero viene abbandonato a favore del blu e del grigio.

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A dialogare sono due piani temporali, il presente e il passato, il primo caratterizzato da una partenza, e quindi dalla malinconia, il secondo da un addio, e dunque dal dolore. E solo il fumetto può unire con tale sintesi e brevità emozioni così complesse, in quella che è una storia essenzialmente sull’andare avanti lasciandosi alle spalle non solo le difficoltà ma anche le proprie radici. Bellissima anche l’ambientazione, con il paesaggio vulcanico, il villaggio, le sue strade, i pali della luce, i pescatori. L’albo è pubblicato dalle Ediciones Valientes di Martin López Lam, in spagnolo e italiano. Ne trovate qualche copia nel mio negozio on line, e credo che al momento sia l’unica distribuzione italiana.

 

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Concludo questa rassegna parlando di Rhizome, antologia spillata in risograph con testi in francese pubblicata dai belgi de La Boîte À Zines, in cui ogni numero trovano spazio gli artisti del collettivo più un ospite speciale. Dopo averne curiosamente spiato le vicissitudini on line, ho infine messo le mani sull’undicesima uscita, ormai risalente a un paio di mesi fa, che sceglie come tema un’immagine (una luce rossa nella neve, rappresentata in copertina) ispirata a un haiku di Michel Onfray  (Un feu rouge/Dans un chaos de flocons/Soleil miniature) dando luogo a interpretazioni molto diverse tra loro. A spiccare, almeno da quanto ho capito grazie al mio francese tutt’altro che perfetto, sono i contributi di Antoine Houcke con Vacuité, una storia ricca di immagini suggestive e squisitamente meditativa, di Gilles T con Cassandra, il fumetto più sghembo del lotto con il suo mix di fantasy postmoderno e ironia, dell’ospite Blaise Dehon con Hors les clous, quattro fascinose pagine mute che illustrano un vagabondaggio per le strade della città sovrapponendo una figura umana in rosso alle vignette in blu. Gli altri contributi sono di Didier Vander Heyden ed Emilie Maidon. Nel frattempo vi segnalo che è già uscito il dodicesimo numero, che vede come ospite la finlandese Anna Sailamaa.

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“š!” #24 + “mini kuš!” #38-41

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In uno dei miei Best Of del 2015 avevo incluso š! #23, un’uscita particolare dell’antologia lettone, che rompeva il tradizionale canovaccio per raccontare con cinque storie più lunghe e impegnative del solito il tema delle vittime del nazismo. Chiusa quella parentesi si torna all’antico con un nuovo numero, introdotto da una bella cover di Līva Kandevica e contenente oltre venti fumetti brevi di artisti internazionali, questa volta sul tema Urban Jungle. Se il tono generale di questi volumetti formato A6 è giocoso, estemporaneo, ironico, personalmente mi diverto sempre a cercare in ogni numero di š! qualche voce off, che sia grezza, meditativa o astratta. Per esempio in una delle uscite più recenti, quella dedicata al tema Fashion (š! #22), c’erano i contributi di Hetamoé e Léo Quievreux a spiccare su tutti per il modo in cui rileggevano il tema “fashion” come fascinazione legata ai corpi e alla carne. E la stessa Marie Jacotey, che curava la copertina e firmava la storia di apertura, è una cartoonist piacevolmente atipica, dato che il suo stile a matita nasconde sotto la facciata rassicurante una spigolosità sia nel tratto che nel contenuto.

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Abraham Diaz

Quali sono  dunque le voci off di questa nuova uscita? La mia preferenza va senz’altro ad Abraham Diaz, cartoonist messicano classe 1988 di cui sentirete riparlare su Just Indie Comics a proposito del suo Suicida #1. Diaz ha un tratto cartoon scombinato come piace a me e disegna personaggi dalle teste enormi e dalle espressioni tra lo stupido e l’incazzato. Le sue tavole sono piene di righe che vanno per conto loro, di colori che non riempiono mai del tutto lo spazio, di un lettering sgraziato che racconta vicende ironiche e assurde. Esteticamente alieno rispetto al resto è anche G.W. Duncanson, con un bel contributo pittorico in stile urban art, bianco e nero intenso fatto di graffiti, metropolitane, grattacieli: è questo uno di quei fumetti che mi piacerebbe rivedere un giorno in un formato più grande.

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G.W. Duncanson

Sia Diaz che Duncanson sono al debutto sulla rivista, segno che gli editor David Schilter e Sanita Muižniece hanno successo nel ricercare nomi nuovi da aggiungere a quelli abituali. Il che è confermato da altri due debuttanti, più in linea con il tono generale dell’antologia ma non per questo meno interessanti. Mi riferisco in primis a Sami Aho del collettivo finlandese Kutikuti, con un tratto cartoon (ma più armonico rispetto a quello di Diaz) e colori sparatissimi: Fooled Again ricorda esteticamente il lavoro di Anya Davidson ed è un esempio di storia breve divertente e compiuta con un bel feeling underground d’altri tempi. E poi c’è la belga Mathilde Van Gheluwe di Tieten met Haar, con colori acquerello caldi, uno stile affascinante che ricorda l’altro fiammingo Brecht Evens e uno storytelling preciso ed efficace. Non mancano comunque contributi interessanti anche da parte di qualche habitué: penso soprattutto a Dace Sietiņa, il cui stile in costante crescita è sempre più vicino esteticamente all’arte russa degli anni ’50-’60, ad Amanda Baeza che per una volta abbandona la geometria per un bel contributo figurativo in bianco e nero, a Jean de Wet che conferma quanto di buono già aveva fatto vedere nel mini-kuš! #20 (ne parlavo qui).

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Mathilde Van Gheluwe

E a proposito di mini-kuš!, il 17 marzo scorso ne sono usciti altri quattro, tutti di artiste donne. Ne approfitto per darvi una rapida occhiata, a partire dal #38, Three Sisters di Ingrīda Pičukāne, storia appunto di tre sorelle che trovano un uomo nudo in mezzo alla foresta, probabilmente ubriaco. Le donne parlano in francese, l’uomo in russo. E non ci sono sottotitoli, cosa che rende l’albetto un oggetto alieno, una favola moderna che si sviluppa tutta in orizzontale, lasciando i bordi superiore e inferiore della pagina in bianco, in modo da ritagliare una cornice dove raffigurare la coloratissima foresta con un effetto mosaico. Il dualismo femminile/maschile è qui più contrasto che dialogo e la rappresentazione delle protagoniste è quasi esplosiva, con i loro occhi grandi e una sensualità raffinata e intensa. Potremmo quasi opporre questo stile “caldo” e dionisiaco alle atmosfere algide e rigorose del mini-kuš! #40 di Hanneriina Moisseinen. 1944 racconta, come suggerisce il titolo, un episodio di guerra e precisamente l’evacuazione della Carelia, che la cartoonist finlandese mette in parallelo con il parto di un animale, rappresentando la crudeltà della natura e della guerra insieme. Alla storia lineare, seppur a modo suo brutalmente poetica, manca l’impennata decisiva e le matite della Moisseinen sono gradevoli ma troppo didascaliche per i miei gusti.

Tara Booth

Tara Booth

mini-kuš! #39 e #41 sono entrambi senza parole e sono per me anche i migliori del lotto. Il primo è opera dell’americana Tara Booth, che ha fatto il suo debutto nella famiglia lettone proprio su Urban Jungle. Tipica storia di “a day in the life”, Unwell è tutto tranne che ordinaria. La protagonista si risveglia al fianco di un improbabile hipster, sgattaiola via non prima di avergli vomitato nella toilette, inforca la bicicletta, ripensa a quando ha messo gli slip in testa all’amante, dipinge un quadro letteralmente con il culo, esce di casa con il cane, incontra un maniaco in un parco, si ubriaca di nuovo… Non vi svelo il finale ma tutto funziona alla perfezione in questo divertentissimo fumetto che potrebbe sembrare un film muto, disegnato con uno stile patchwork da cartone animato alla South Park e con un bell’uso del colore. La pagina è completamente al servizio della protagonista e dei suoi movimenti, tanto che la scansione in vignette è spesso rotta dai suoi movimenti in verticale. Consigliatissimo, proprio come il mini-kuš! #41, in cui ammiriamo una Aisha Franz in versione technicolor disegnare i contorni di un futuro-non-così-futuro tecnologico, tra droni, identità sessuali cangianti, macchine del piacere. Meno narrativo rispetto al lavoro della Booth, EYEZ punta tutto sull’approccio visivo e su un disegno semplificato rispetto ai lavori precedenti della Franz, che in questa versione iper-pop affascina non poco.

Aisha Franz

Aisha Franz

Per maggiori dettagli sulle nuove uscite e qualche immagine in più vi rimando al blog e al sito di kuš!, ricordandovi che l’editore lettone sarà ospite al Ratatà Festival del 14-17 aprile a Macerata, con un banchetto dove troverete tutte le pubblicazioni e una mostra dedicata alle artiste lettoni Anna Vaivare, Ingrīda Pičukāne, Līva Kandevica e Zane Zlemeša.

“Generous Bosom” #1-2 di Conor Stechschulte

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Ho parlato più volte di Conor Stechschulte su Just Indie Comics ma senza entrare finora nei dettagli. Sin dall’edizione autoprodotta di The Amateurs, Stechschulte mi ha colpito per la potenza e l’integrità del suo stile, in quell’occasione al servizio di una storia ironica e brutale al tempo stesso, quella di due macellai che all’improvviso dimenticano come fare il proprio mestiere. Ristampato da Fantagraphics, The Amateurs è uno dei fumetti migliori degli ultimi anni ma è in realtà soltanto un tassello di una produzione che si conferma passo dopo passo eccelsa, dalle storie brevi pubblicate sulle antologie del collettivo Closed Caption Comics, di cui Stechschulte è stato uno dei principali animatori, ad albi autoprodotti come gli splendidi The Dormitory e Glancing, quest’ultimo interamente realizzato con l’acquerello. Non c’è dunque da stupirsi se l’autore statunitense, che di recente ha vissuto tra Baltimora e Chicago, è stato messo sotto contratto dall’inglese Breakdown Press, attentissima a quanto di meglio arriva dagli Stati Uniti e non solo.

 

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Aperto da una citazione di Abe Kobo (“The night is not an invited guest but rather the air that fills this room”), il primo numero di Generous Bosom inizia con una pagina a quattro vignette orizzontali, le prime due segnate da un intenso tratteggio blu a matita volto appunto a raffigurare la notte, il buio e la pioggia, le altre due in cui la pioggia si assottiglia e lascia spazio alla cornice del racconto, il protagonista di spalle seduto in un bar, il cellulare in una mano e un foglietto di carta nell’altra. Lui è Glen, che mesi prima di stare in quel bar, di ritorno da un matrimonio in una notte buia e tempestosa, ha bucato due gomme in un colpo solo davanti alla casa di Art e Cyndi, marito e moglie, lui molto più avanti con gli anni di lei. Art lo invita a entrare e persino a passare la notte lì, ma basta poco perché dalla gentilezza si passi a quel senso di stranezza, di inquietudine, di disagio che è tipico dei fumetti di Stechschulte e che trasuda dalla pagina fino a entrare nel tessuto nervoso del lettore. Ecco appunto che la notte entra nella stanza, diventa aria e dà il via a una strana situazione tra i tre personaggi che culmina in una delle scene di sesso più realistiche mai viste in un fumetto, 13 tavole su una griglia fissa di otto vignette, sfondo sporcato di blu, tanti primi piani con i volti dei protagonisti presi dalla paura e dall’imbarazzo più che dall’eccitazione. Gli sguardi, le espressioni, le inquadrature riescono a esprimere alla perfezione quel senso di desiderio misto a imbarazzo che si trovava già in Glancing, una storia muta in cui i rapporti tra i tre protagonisti, intenti a fare un bagno di notte, erano raccontati semplicemente attraverso i loro occhi.

In Generous Bosom #1 Stechschulte sfrutta appieno le potenzialità della stampa in risograph, alternando pagine su sfondo bianco, in cui il disegno è di solito in blu e a volte anche in marrone, ad altre tratteggiate e riempite di un intenso blu a matita, in cui la rappresentazione della pioggia e del vento è sorprendentemente simile agli scenari di Flowering Harbour di Seiichi Hayashi, uscito sempre per Breakdown. Soltanto il flashback delle due pagine centrali è in verde, che invece sarà il colore dominante del numero successivo (per un resconto dettagliato sulla realizzazione di Generous Bosom date un’occhiata a questo post sul Tumblr della Breakdown Press).

 

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Generous Bosom #2 esce nel novembre del 2015 ed è ancora stampato in risograph. Ambientato mesi dopo il primo episodio, ne segue i diretti e inquietanti sviluppi, che sembrano tutto fuorché coincidenze. D’altronde già alla fine del numero precedente Glen aveva sentito Art e Cyndi parlare di un “piano” e anche il lettore aveva avuto gli strumenti per capire, sin dalle primissime pagine, che la sosta del protagonista a casa della coppia non era dettata dal caso. Adesso però si va oltre, perché se inizialmente Glen deve misurarsi con le conseguenze di quanto accaduto nel primo episodio, il finale ribalta ogni nostra possibile convinzione, introducendo nuovamente il tema del controllo che era centrale in The Dormitory. E torna anche quel senso di voyeurismo costante che aleggia nei fumetti di Stechschulte, con il lettore che si trova a guardare personaggi che guardano altri personaggi, come nella scena del VHS mostrato da Art a Glen, con qualche difficoltà tecnica (dove trovare un videoregistratore, oggi?) che spezza con il solito humor nero le atmosfere lynchiane del racconto (soprattutto Lost Highways mi sembra qui una chiara fonte di ispirazione, ma anche il cinema di Brian De Palma è senz’altro un’influenza). Il confine tra “realtà”, “piano” e “messa in scena” è sempre più labile e l’identificazione del lettore con Glen – spaesato, confuso ma a tratti anche eccitato – è totale.

 

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Mentre buona parte dei dialoghi si svolgono come nel numero precedente su sfondo bianco, le soluzioni grafiche e di stampa più raffinate sono riservate ai flashback, in cui Stechschulte riesce a dimostrare la sua tendenza a raccontare con le immagini ancor più che con i testi. L’autore si concentra in questo secondo episodio sul passato di Art e Cyndi, in una serie di scene dominate da un tratteggio verde per lo più diagonale e dai toni del blu, creando un effetto onirico, che alla scena principale sovrappone corpi e volti, come se fossero fantasmi. E quando vengono descritti i primi incontri tra i due, l’uomo è appunto un fantasma, dato che il suo volto –  di solito tondeggiante, delineato di volta in volta da un sorrisetto sardonico, dalla bocca spalancata e da marcate espressioni facciali – diventa indefinito, cancellato dai raggi del sole e forse anche dal desiderio, da parte della moglie, di dimenticare il passato. Quando non c’è Cyndi riusciamo invece a vedere Art in un flashback cronologicamente più vicino agli eventi narrati, in cui si scoprono le sue abilità di ipnotista, con tutta probabilità rilevanti nel prosieguo della storia. Se Generous Bosom #1 è compatto, strutturato, denso come già erano i precedenti fumetti di Stechschulte, il seguito esce da questi schemi perfetti e controllati aggiungendo divagazioni, fughe, assoli e trasformando così quella che finora era una riuscitissima canzone in una suite polifonica e sperimentale. Con Generous Bosom #2 l’autore alza l’asticella e sfida se stesso a creare qualcosa di più complesso. E soltanto le prossime uscite – la vicenda dovrebbe svilupparsi almeno per un paio di altri albi – potranno dirci se il tentativo è riuscito.

Mi capita spesso di chiedermi cos’è che rende certi fumetti migliori rispetto ad altri e la risposta è ovviamente di volta in volta diversa, a seconda delle cose lette di recente, del momento, dell’umore. Ma una delle risposte che mi do più di frequente è che, quando si parla di fumetti che vogliono raccontare una storia (e non è detto che i fumetti debbano sempre farlo), hanno una marcia in più quelle opere in cui ogni mezzo (testi, disegni, stampa, ecc.) contribuisce con la stessa dignità alla creazione di un unicum compatto e indivisibile. E Generous Bosom appartiene senz’altro a questa categoria.

Just Indie Comics Buyers Club, pt. 2

Lo scorso mese di dicembre ho lanciato un abbonamento meglio noto come Just Indie Comics Buyers Club, ovviamente collegato ai fumetti di cui si parla su questo sito e a quelli disponibili nel negozio on line di Just Indie Comics. Non si è trattato di un successo strepitoso, ma i dieci coraggiosi che si sono abbonati hanno consentito di mandare avanti senza troppa fatica la distribuzione di fumetti che ho inaugurato nel settembre scorso e per questo avranno la mia eterna (memoria permettendo) gratitudine.

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Gli ignari possono rileggersi il post in cui parlavo del Buyers Club, perché qui mi limiterò semplicemente a dire che è in partenza la seconda tornata di fumetti. Se la prima spedizione è stata caratterizzata per tutti gli abbonati dalla presenza di Frontier #10 di Michael DeForge, la seconda avrà come comune denominatore The Social Discipline Reader di Ian Sundahl, di cui ho parlato recentemente in un’apposita recensione. Ho scelto questo titolo per poter dare a tutti la possibilità di affrontare un fumetto diverso, ruvido o propriamente “raw” come dicono gli americani, ampliando in questo modo i confini solitamente definiti dall’editoria, a volte anche da quella “alternativa” o che dir si voglia.

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Per chi ha scelto la versione Small del Buyers Club insieme a The Social Discipline Reader ci sarà una piccola sorpresa, mentre gli abbonati formato Large avranno un secondo fumetto, che varierà a seconda dei casi. Giusto per dare un’idea a chi non è entrato nella legione di Just Indie Comics, tra i titoli che hanno fatto e faranno parte delle prime due tornate di questo esclusivissimo club ci sono, in ordine sparso, Pope Hats #4 di Ethan Rilly, Blammo #8 1/2 di Noah Van Sciver, Fedor di Patt Kelley, Immovable Objects di James Hindle, Rough Age di Max de Radiguès, Ganges #5 di Kevin Huizenga, Windowpane #3 di Joe Kessler.

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Se qualcuno di voi desiderava ardentemente uno di questi fumetti e non l’ha ricevuto, basterà scrivermi e cercherò di includerlo nella spedizione di luglio. Per i non abbonati, alcuni di questi titoli sono disponibili nello shop, quindi date un’occhiata lì se siete interessati. L’iniziativa è comunque stata positiva e conto di ripeterla il prossimo anno, con la speranza di estenderla anche a tutta Europa invece che alla sola Italia. Intanto buona lettura.

“The Social Discipline Reader” di Ian Sundahl

(English text)

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Sempre attenta a proporre un fumetto crudo nel senso vero del termine, fuori dagli schemi della contemporaneità, senza alcuna ambizione commerciale, la Domino Books di Brooklyn è una delle piccole case editrici indipendenti più interessanti del panorama statunitense. Creatura di Austin English, la Domino guarda proprio come il suo patron-cartoonist a un segno grezzo e spontaneo, capace di incidere emozioni e sensazioni sulla pagina rinunciando a ogni tentativo estetizzante e alle carinerie di tanto fumetto odierno. In un mondo in cui ogni stile, anche se diverso da quello dominante, tende a farsi canone fino al punto di sterilizzarsi, gli artisti pubblicati dalla Domino si propongono come esempi di purezza e unicità espressive con pochi eguali. Ne è esempio la produzione di E.A. Bethea, che ho già analizzato tempo fa in questo post.

Non poteva sfuggire alle attenzioni di English l’arte di Ian Sundahl, al confine tra fumetto, poesia e letteratura, pregna di un segno volutamente grezzo, frutto di una ricerca estetica originale. Sundahl sa disegnare e si vede, soprattutto quando sceglie linee libere e intense, ma a volte preferisce affidarsi a forme soltanto abbozzate e imperfette, in armonia con la materia di questi fumetti – storie torbide di outsider, prostitute e balordi ambientate tra bar poco illuminati, strade polverose ai confini della città, sale da gioco. Sundahl è un artista di Portland che finora si è autoprodotto otto numeri della sua zine Social Discipline. English l’ha notato e ha messo insieme questo The Social Discipline Reader, una sorta di “best of” di 40 pagine pubblicato in un’edizione spillata forse sin troppo essenziale ma che è comunque specchio di un approccio diretto e senza fronzoli.

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L’albo è uno zibaldone di storie brevi, illustrazioni, saggi disegnati. Si va dall’adattamento in chiave moderna del torbido memoir ottocentesco My Secret Life a Where You Are King – quattro pagine dense e notturne in cui un carcerato racconta una storia di sesso, gelosia e infine violenza – passando per una serie di illustrazioni di persone sedute davanti a slot machine, riproduzioni di foto scattate per strada, due pagine sui tacchi che riprendono il tema della fanzine Heelage curata dallo stesso Sundahl. Il tono è a volte assolutamente prosaico (“Niente è così delizioso quanto l’intimità che si stabilisce tra un uomo e una donna con una scopata” inizia uno dei brani tratti da My Secret Life), altre quasi trascendentale nel raffigurare uomini e donne come giocattoli in mano al fato, che si tratti di personaggi soggiogati dalle forme imponenti delle slot machine del Nevada o di misteriose apparizioni di navi fantasma.

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Affascinato dal mondo raccontato da Ian Sundahl, viscerale come solo certa letteratura e poco fumetto sanno essere, ho deciso di inviare una copia di The Social Discipline Reader a tutti gli abbonati del Just Indie Comics Buyers Club. Gli altri possono invece trovarlo nella sezione Domino Books del webshop. Buona lettura.

A Macerata è di nuovo Ratatà

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La terza edizione del Ratatà è in programma dal 14 al 17 aprile ed è destinata a confermare il festival di Macerata come un appuntamento immancabile per il fumetto e l’illustrazione in Italia. Tanti i motivi di interesse, tra le esposizioni, il mercato delle produzioni indipendenti, gli spettacoli, i workshop, i concerti, per un evento che diventa itinerante intrecciandosi al tessuto urbano della città. Le mostre di quest’anno spaziano nello scenario italiano ed europeo con una lista di artisti davvero notevole: Blexbolex, Riccardo Mannelli, Igor Hofbauer, Céline Guichard, Bill Noir, Andy Leuerberger, Arianna Vairo, Cifone, Taddei e Angelini. In più i lettoni di kuš! con la collettiva delle artiste Anna Vaivare, Ingrida Picukane, Liva Kandevica e Zane Zlemeša, B-Comics a cura di Maurizio Ceccato, La Trama che presenta le tavole della terza serie di Coppie Miste, la rassegna di illustratrici femminili Graphiste a cura della Sacripante Gallery di Roma, Le Beffe delle donne con il lavoro del collettivo toscano Le Vanvere, Crack! Fumetti dirompenti featuring Martin Lopez Lam, Bambi Kramer e Sonno. Per la lista completa delle mostre, oltreché per tutti gli altri eventi, vi rimando alla pagina Ulule, dove trovate il programma in continuo aggiornamento e dove potete inoltre partecipare alla campagna di crowdfunding per sostenere Ratatà. E ne varrebbe veramente la pena, dato che si tratta di un festival nato solamente dalla voglia di fare e dall’impegno dei suoi ideatori, sempre più interessante e inoltre gratuito sia per i visitatori che per gli espositori. Tra questi ultimi ci sarà anche il sottoscritto con un po’ di fumetti che trovate abitualmente su justindiecomics.tictail.com, quindi se avrete la buona e giusta idea di venire a Macerata approfittatene almeno per dire ciao. Di seguito un po’ di immagini degli artisti in mostra. E buon Ratatà a tutti.

 

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Riccardo Mannelli

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Igor Hofbauer

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Céline Guichard

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Bill Noir

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Andy Leuerberger

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Arianna Vairo

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Cifone

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Graphiste

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Taddei e Angelini

“Patience” di Daniel Clowes

di Daniel Clowes, Bao Publishing, marzo 2016, cartonato, 180 pagine a colori, 19 x 25 cm, euro 25

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Dopo cinque anni di lavorazione arriva finalmente il nuovo fumetto di Daniel Clowes, la sua opera più lunga, impegnativa, ambiziosa. Uscito negli Stati Uniti da qualche settimana ma solo nel circuito delle librerie specializzate, dove Clowes sta portando avanti anche un lungo tour di presentazione, grazie a Bao Publishing sbarca in Italia oggi 24 marzo, in contemporanea alla distribuzione nelle librerie di varia del Nord America. L’attesa era talmente tanta per Patience che prima della lettura – pur affascinato dalla bellissima confezione, dai disegni di un Clowes in gran forma, dai colori gustosamente “flat” eppure scintillanti – avevo un certo scetticismo, causato anche da quanto visto in giro negli ultimi giorni. Qualche opinione si era già affacciata sui siti specializzati statunitensi e ne avevo sbirciato degli scampoli senza approfondire troppo, per evitare fastidiose anticipazioni. E lì si faceva cenno a un’opera più tradizionale rispetto a quanto Clowes ci aveva abituati in passato, più lineare che geniale, come se l’autore di Like a Velvet Glove Cast in Iron, Ghost World e David Boring avesse perso negli anni la brillantezza che ce lo aveva fatto apprezzare in passato. In realtà Patience è sì un’opera più classica rispetto alle precedenti, ma nel senso migliore del termine. E’ classica infatti come i grandi film, i grandi romanzi e i grandi fumetti sanno esserlo, perché riesce a utilizzare le atmosfere, le trovate grafiche, le caratterizzazioni dei personaggi di cui Clowes si è servito nel corso della sua carriera per metterli al servizio di una grande, bellissima e commovente storia.

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La storia, appunto. Dato che pubblico questo articolo il giorno dell’uscita del libro, penso che parecchi di voi debbano ancora leggerlo. Eviterò dunque di anticiparvi troppo, raccontandovi nel dettaglio solo quello che succede nelle prime trenta pagine. E’ il 2012 quando Patience scopre di aspettare un bambino. Jack, suo marito, non riesce a trovare un lavoro decente e si deve accontentare di distribuire “volantini porno”. Sia Jack che Patience sono preoccupati di mettere al mondo un figlio, soprattutto per motivi economici. Ma questo è in realtà l’ultimo dei loro problemi, perché pochi giorni dopo aver avuto la notizia della gravidanza Jack rincasa dal lavoro e trova Patience a terra, morta, vittima di una non meglio precisata aggressione. Da qui si mette in moto la vicenda, che vede Jack prima nei panni del presunto colpevole e poi in quelli del vedovo inconsolabile, alla ricerca di una spiegazione. Dopo i primi inutili tentativi, avvenuti subito dopo l’omicidio, Clowes fa un salto temporale e ci porta nel 2029. Jack è seduto in un bar, intento a bere da un contenitore a forma di provetta e a raccontare quanto successo 17 anni prima. E’ un futuro piuttosto simile al nostro mondo, se non fosse per qualche schermo dalle linee più sinuose, i colori al neon e le prostitute dalla pelle blu. Ma la differenza più importante è che uno scienziato ai margini della società ha scoperto come tornare indietro nel tempo. Ed ecco così che può iniziare il “mortale viaggio tra distorsioni temporali verso l’infinito primordiale dell’amore eterno” annunciato in quarta di copertina.

Patience è un fumetto raccontato con una fluidità mai vista prima in Clowes. Dimenticate l’impostazione da serie tv di Ghost World, la complessità letteraria di David Boring, le strutture spezzettate di Ice Haven e The Death Ray, l’impianto da newspaper strip di Wilson. Qui siamo all’esatto opposto di Like a Velvet Glove Cast in Iron, che apriva nel 1989 il primo numero di Eightball con un episodio scritto di getto, tutto in una notte. Finiti gli esperimenti punk, Clowes ha voluto mettersi al tavolo da disegno e dedicarsi per cinque anni a un libro dalla struttura ariosa, con spazi più ampi rispetto al solito, splash page, lunghe vignette doppie che si aprono come in cinemascope. La trama potrebbe essere degna di un film, da Ritorno al futuro a una commedia sentimentale hollywoodiana, con qualche inevitabile riferimento a Hitchcock. Non sarà magari originalissima, ma ho l’impressione che sia la “storia della vita” di Clowes, quella che più di tutte voleva raccontare.

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Il risultato è un impatto emotivo che Clowes non raggiungeva da tempo sulla pagina, forse dal finale di Ghost World. Ma se quel finale ci aveva detto tanto sull’amicizia e sul diventare adulti, Patience si esprime su temi ancora più forti e importanti. E lo fa, è bene dirlo, senza risultare una versione annacquata della poetica dell’autore, perché in quella che è sostanzialmente una storia d’amore non mancano le situazioni morbose, i personaggi storti, gli sfigati, gli scienziati pazzi, i megalomani. Non manca una certa durezza nella costruzione del personaggio di Jack, che è caratterizzato in maniera eccelsa, passando dalla figura di giovane marito devoto fino a quella di acido uomo di mezza età in cerca di vendetta, il tipico paranoico dei fumetti di Clowes, tanto che a un certo punto si chiede “voglio davvero salvare il nostro bambino, tornare alla mia vecchia vita, o sono solo una scimmia assetata di sangue che rivuole la sua mascolinità?”. E alla fine lo stesso Jack ha un momento di umanità realistico, forte, quasi imbarazzante per la capacità con cui è costruito. Un momento che non posso raccontarvi, pena la rivelazione di dettagli troppo importanti, ma che capirete leggendo il libro. E’ questo dettaglio che rende la caratterizzazione di Jack anche più riuscita di quella della stessa Patience, su cui però Clowes lavora comunque abilmente, mostrandoci il suo passato da provincia americana, la sua famiglia problematica, i compagni di scuola balordi. Non è un personaggio particolare Patience, è semplicemente “un angelo” con “un cuore d’oro puro” e un passato problematico, ma nel suo sviluppo, nella sua crescita (come in quella di Jack d’altronde) c’è tutto il peso della vita che scorre, degli anni che passano. I personaggi maturano da una pagina all’altra, spesso con dei salti improvvisi avanti e indietro, in Patience. E con il tempo è maturato anche il loro demiurgo che ora, a 55 anni, non racconta più le storie di quasi 30 anni fa. Eppure riesce ancora a comunicare alla sua audience, quella che è cresciuta con lui. E sicuramente anche a qualcun altro, vista la diffusione a cui è destinato questo libro.

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La trovata del viaggio nel tempo è anche un modo per rendere Patience la summa artistica del lavoro di Clowes, come un’enciclopedia dei molteplici mondi raccontati finora dall’autore. Se il riferimento grafico più prossimo è Mister Wonderful per il modo in cui le vignette e i personaggi respirano a volte in maniera sontuosa – lontana dai non detti, dalle ellissi, dai minimalismi del passato – qui troviamo anche le atmosfere malate della provincia americana di Like a Velvet Glove Cast in Iron, i vicoli oscuri e le strade anonime di David Boring, il retrofuturismo di Lloyd Llewellyn nelle scene ambientate nel 2029, il richiamo a Steve Ditko e ai maestri della EC Comics nelle numerose sequenze psichedeliche (che qui guardano anche a Swamp Thing). Clowes si diverte a citare se stesso anche in modo più esplicito, per esempio quando il protagonista si veste come Andy di The Death Ray, diventando così l’ennesima figura mascherata dal look rétro ad affacciarsi nella bibliografia dell’autore. Tutto ciò non può che generare un lavoro multiforme, che si alimenta di diversi immaginari riunendoli sotto il marchio di un tratto inconfondibile, meno dettagliato e più essenziale rispetto al solito, come se fosse una versione massimalista del Clowes che conosciamo. Massimalista proprio come la storia che racconta.

Scrivevo tempo fa, a proposito di Here di Richard McGuire, che si trattava di un’opera capace al tempo stesso di raccontare la Storia e le storie, il grande e il piccolo, il grave e l’irrilevante, il serio e il faceto. Patience entra come Here tra le pieghe del tempo, dimostrando questa stessa qualità ma guardando più agli aspetti emotivi che a quelli formali della narrazione. E così facendo conferma Clowes come uno dei più grandi cartoonist di sempre.

“The Dim Reverberation of the Chaosholder”

(English text)

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di Arallū, Hollow Press, gennaio 2016, spillato, 32 pagine, 34 x 24 cm, euro 17

Dopo Largemouths di Gabriel Delmas, opera di quasi 700 pagine interamente muta, la Hollow Press tenta un’altra coraggiosissima sfida editoriale con una saga in otto parti realizzata da un autore sconosciuto, noto solamente come Arallū. Il primo “sigillo” di The Dim Reverberation of the Chaosholder è uscito da qualche settimana con il titolo A Crippled Baby ‘n’ the Obsidian Golem, Towards the She-Outcast, confermando la predilezione per i titoli lunghi già evidenziata dall’antologia Under Dark Weird Fantasy Grounds.

Nota: L’albo è in vendita, come gli altri libri della Hollow Press, nel negozio on line di Just Indie Comics. Inoltre il sottoscritto ha collaborato con la casa editrice per Toxic Psycho Killer di Paolo Massagli.

Presentato dall’editore come un “dungeon crawler comic”, The Dim Reverberation of the Chaosholder è un viaggio alienante in una realtà sotterranea e altra. L’effetto di straniamento claustrofobico è raggiunto da Arallū attraverso due fondamentali stratagemmi narrativi. Il primo e più evidente è l’uso della prospettiva in prima persona, simile a quella di un videogioco, che rende il lettore tutt’uno con il protagonista, il Golem di Ossidania, di cui riusciamo a vedere soltanto braccia e gambe quando entrano nel suo campo visivo. Il secondo è rappresentato dagli ossessivi monologhi di N’tar, logorroico mostriciattolo che guida il Golem tra i cunicoli del dungeon, portando avanti il compito assegnatogli dal misterioso Hasabbāh. Il lettore è coinvolto in un’esperienza totale, immersiva, tanto che sfogliando le pagine sembra di respirare la polvere e l’umidità dei sotterranei. Si trova sostanzialmente nella stessa situazione del protagonista, sempre in silenzio, passivo, in grado solo di seguire N’tar e di ascoltare la sua litania, piena di termini singolari, di riferimenti a eventi ancora indefiniti ma di sicuro fondamentali per lo sviluppo della narrazione. Su tutti il Disordine, indice di un’era precedente a quella in cui sono ambientate le vicende di questo primo capitolo, segnata forse da qualche evento apocalittico.

Arallū non si dilunga in spiegazioni ma ci fa entrare senza esitazioni nel suo universo, ricco di riferimenti a mitologie inusuali rispetto alle coordinate abituali del fumetto mainstream, dato che guarda ad Oriente con uso di termini persiani, armeni, turchi o babilonesi volutamente storpiati: basti pensare ad Hasabbāh, il cui nome risulta una crasi di Hassan-i Sabbah, capo della Setta degli Assassini attiva in Persia agli inizi del secondo millennio e noto ai più per l’uso letterario che ne fece William Burroughs. Non bastano tuttavia questi elementi per darci una connotazione precisa dell’era e nemmeno del mondo in cui ci troviamo: ciò che sappiamo è che una realtà talmente retrograda e oscura che i suoi abitanti misurano lo scorrere del tempo con la rigenerazione delle ferite che si autoinfliggono.

Oltre alla narrazione in sé – densa di testo, complessa, intrigante – piace di The Dim Reverberation la capacità di inserirsi con precisione chirurgica nel filone dei fumetti Hollow Press, contribuendo a dare forza e coesione al catalogo della casa editrice di Michele Nitri. Qui troviamo in modo particolare dei punti in comune con i lavori di Mat Brinkman e di Miguel Angel Martin. Del primo sono riprese soprattutto le atmosfere di Multiforce, a sua volta ambientato in un mondo sotterraneo del tutto peculiare, anche se rappresentato con un approccio più ironico e meno solenne. Del secondo viene in mente proprio la saga serializzata a puntate su Under Dark Weird Fantasy Grounds, soprattutto per il sottotesto sessuale presente anche qui con i riferimenti a “feticci” e “eccitazioni dell’anomalia”.

Originale, quasi alieno rispetto al contesto del fumetto indie e underground odierno, The Dim Reverberation conferma la sua singolarità nella confezione. Spillato, in formato orizzontale 24 x 34 cm, si caratterizza infatti per l’alta qualità della carta tintoretto da 200 grammi e per l’uso di una vernice traslucida che impreziosisce alcuni dettagli per tutte le 32 pagine del volume. La copertina con i risvolti fa il resto, restituendo nel complesso una cura e un’eleganza davvero notevoli. All’interno l’approccio grafico è inquietante nel disegnare in modo ossessivo lo scenario desolato del dungeon e i suoi strani abitanti. Magari qualche dettaglio, soprattutto riguardo all’anatomia dei personaggi, poteva essere curato meglio, ma mi sembra che l’autore prenda sempre più confidenza con il passare delle pagine, riuscendo a costruire uno stile essenziale ma piacevolmente inconfondibile che culmina nella scena finale, quella dell’incontro con la She-Outcast. Anche la doppia pagina con la riproduzione del “quartiere degli avviziati” è particolarmente riuscita e ricorda Scaffold del duo Most Ancient, fumetto che per atmosfera e soluzioni grafiche ha diversi punti di contatto con questo The Dim Reverberation.

Come tutti i titoli Hollow Press, l’albo è pubblicato in inglese ma questa volta viene distribuito con la traduzione italiana e giapponese in allegato, in modo da consentirne una diffusione capillare. Una diffusione che meriterebbe davvero, per coraggio, originalità e capacità di inserirsi in un catalogo sempre più folto ma al tempo stesso compatto, che a breve comprenderà anche Crystal Bone Drive di Tetsunori Tawaraya e Fobo di Gabriel Delmas.

“Dôme”

(English text)

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Dôme è un’antologia di grande formato (28 x 35,5 cm) frutto della collaborazione dei francesi di Lagon e degli inglesi di Breakdown Press. Stampata in risograph e rilegata a mano durante l’ultimo festival di Angoulême, alla presenza di gran parte degli autori coinvolti, raccoglie in sole 40 pagine ben 17 artisti tra i più interessanti del panorama internazionale odierno: Lando, Amanda Baeza, Simon Hanselmann, Jeremy Perrodeau, Bettina Henni, Sammy Stein, Dash Shaw, Hugo Ruyant, Antoine Cossé, Michael DeForge, Zoe Taylor, Amandine Meyer, Olivier Schrauwen, Alexis Beauclair, Jean-Philippe Bretin, Joe Kessler, Richard Short.

 

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La copertina di Olivier Schrauwen rappresenta appunto una cupola ultramoderna simile a una sfera stroboscopica, contrapposta a uno spazio esterno indefinito e misterioso. Dal dualismo di questa immagine prendono vita gran parte dei contributi presenti nel volume, che a grandi linee esplorano la dinamica interno/esterno, spesso in relazione a quella realtà/apparenza. E’ il caso per esempio di Lando, che nelle tre riuscitissime pagine di apertura propone un gioco tra preistoria e futuro prossimo magnificamente e dettagliatamente illustrato. Il concetto di spazio è a volte multiforme, indefinito ed enigmatico come in Synesthésie di Hugo Ruyant, altre suggestivamente architettonico come nelle due pagine in positivo/negativo di Jean-Philippe Bretin.

 

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In La Lettre Sammy Stein apre finestre verso orizzonti sconfinati grazie allo schermo di uno smartphone, mentre Antoine Cossé riesce nella sola pagina di Hotel a raccontare una storia di sotterfugi extraconiugali rappresentando il binomio interno/esterno attraverso l’immensa vetrata di una camera d’albergo.

 

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Lungi comunque dall’essere monotematica, Dôme riporta anche contributi di autori che, pur con qualche concessione al feeling generale, insistono sulla propria poetica: è il caso di DeForge con la storia di due bambini arrabbiati e ingrati, Dash Shaw con le sue cosplayer, Schrauwen che ci porta ancora ai confini della paranoia con 140 vignette in 2 pagine, Hanselmann che tira fuori altre tre irresistibili pagine di Megg, Mogg, Olw e Werewolf Jones a una Zine Fair.

 

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Discorso a parte meritano Joe Kessler e Richard Short, che fondono alla perfezione lo stile dei loro albi per Breakdown, Windowpane e Klaus Magazine, dando forma a cinque coloratissime pagine piene di cani, gatti e forme dinamiche: bellissime soprattutto la seconda e la terza tavola di questa Paws For Thought, che rappresentano nei toni del giallo, rosso e blu la corsa di un cane sullo sfondo di un paesaggio collinoso.

 

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Impreziosito anche dalla trovata di riportare nelle pagine centrali un’appendice in forma di singola striscia delle diverse storie, Dôme è grazie alla capacità dei suoi editor (Alexis Beauclair, Joe Kessler, Sammy Stein) la migliore antologia degli ultimi anni. Se l’ottavo Kramers Ergot mancava di visione d’insieme, se Mould Map #3 peccava in alcune concessioni a un’estetica cyber a tratti pacchiana, se Volcan allargava eccessivamente il campo rischiando l’effetto di bignami indie, Dôme in sole 40 pagine ci regala un esempio di coerenza estetica davvero raro a vedersi.

L’antologia, stampata in 500 copie e venduta al prezzo di 25 euro, è attualmente esaurita presso Lagon ma alcune copie verranno rese disponibili grazie alla Breakdown Press ai prossimi festival internazionali, come il Millionaires’ Club di Leipzig, il TCAF di Toronto, l’ELCAF e il Safari Festival di Londra.

Misunderstanding Comics #3

Recupero in questo post un po’ di fumetti che mi sono stati gentilmente messi a disposizione negli ultimi mesi dai lettori di Just Indie Comics, alcuni a mano, altri via posta, altri via pdf. Di proposte di lettura, recensioni ecc. ne arrivano diverse e qui mi sono limitato a selezionare quelle che ho trovato più interessanti, sperando prima o poi di riuscire a rispondere almeno via mail agli altri. A breve, spero il mese prossimo, pubblicherò un altro articolo su questo stesso genere.

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Ho già parlato in diverse occasioni, ma purtroppo senza i necessari approfondimenti, del collettivo belga Tieten Met Haar, di cui fanno parte Valentine Gallardo, Alexander Robyn, Nina Van Denbempt, Mathilde Vangheluwe, Jana Vasiljević e Nina Vandeweghe. Su queste pagine avete forse già visto due fumetti di Nina Van Denbempt, mentre qualche tempo fa anticipavo brevemente l’uscita per Bries dell’antologia Flatlands, che ha raccolto lo scorso gennaio il lavoro del collettivo. E visto che ci sono ne approfitto anche per dire che il terzo e quarto numero della loro antologia omonima sono quanto di meglio abbia prodotto di recente l’Europa nell’ambito delle antologie di storie brevi realizzate in gran parte da autori alle prime esperienze editoriali (pur con qualche guest star come Inés Estrada e Olivier Schrauwen). Nel frattempo alcuni di loro hanno cominciato a farsi vedere su Vice e la Gallardo è arrivata negli Usa grazie alla sempre ottima Space Face Books. Soft Float è una raccolta di storie brevi già viste on line e su svariate pubblicazioni cartacee, più l’inedita Ugly Bastard.

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Il lavoro dei Tieten Met Haar mi sembra nel complesso interessante per la capacità di inglobare numerose ispirazioni extra-fumettistiche, per il modo in cui gli autori riescono a mettere sulla pagina la propria sensibilità, per l’abitudine a rendere il lettering elemento grafico fondamentale. Questi tre fattori hanno un peso specifico importante nei fumetti della Gallardo, suite polifoniche che trascrivono in forma di disegno situazioni sociali come feste, escursioni, uscite con gli amici. I personaggi parlano di continuo, si divertono, si abbracciano, si baciano in una narrazione senza inizio né fine che racconta una storia, più storie o anche nessuna storia ma semplicemente una situazione, un’emozione, una sensazione. Ogni tanto appare un terzo occhio sulla fronte di uno dei personaggi, una tigre che parla, un serpente che semina zizzania in un gruppo di amici. A volte i dialoghi sono eccessivi, riempono esageratamente la pagina e lasciano pensare che questo sovraffollarsi di voci andrebbe controllato meglio. Il disegno è invece continuo nel restituire espressività con poche linee ed è valorizzato soprattutto negli episodi in cui la disposizione delle vignette è meno barocca, come I Fly So Low, impreziosito dall’uso del rosso e dai toni neri della grafite, con tavole che potrebbero anche essere senza testo per come le linee e i colori riescono a raccontare. Molto belle anche un paio di esplosioni a tutta pagina che fungono da apice emotivo.

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The Pestle è invece l’ultima fatica di Carl Antonowicz, fumettista uscito dal Center for Cartoon Studies di White River Junction, Vermont. Mentre si diplomava alla scuola diretta da James Sturm, Antonowicz ha realizzato i tre albi di The Black Dog and the Hole at the Heart of the World, una storia sentimentale (ma tutt’altro che zuccherosa) pregna di elementi misteriosi e inquietanti degni di un film horror, come il cane nero che appare di tanto in tanto al protagonista o un tizio che passa le giornate in stato catatonico a guardare un enorme buco nero nella parete. Nonostante qualche ingenuità nel disegno, in alcune soluzioni un po’ grossolano (cosa normalissima trattandosi praticamente di un’opera prima), il plot fila liscio lasciando una certa curiosità al lettore, destinata al momento a rimanere insoddisfatta dato che la storia è ancora incompiuta. Finita l’esperienza del CCS, Antonowicz ha partecipato insieme ad altri studenti della sua classe all’antologia Maple Key Comics, dove ha pubblicato A Sickness Upon the Land, poi uscito in albo singolo con copertina traforata, a ribadire l’immagine del “buco” che già ricorreva in The Black Dog. Dall’ambientazione urbana si passava senza timori a quella medievale, con una storia fantasy di re, streghe e spiriti dal gustoso sapore anarchico. Eppure è con The Pestle che l’autore fa il vero salto di qualità, abbracciando una complessità ben diversa da quella delle prove precedenti, indispensabile per un fumetto dal respiro più ampio e con una molteplicità di situazioni, temi e personaggi. Pubblicata a puntate ancora su Maple Key, la prima parte di The Pestle è stata di recente ristampata dall’autore in un bell’albo autoprodotto, in attesa del seguito ancora in via di lavorazione.
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Il titolo è tratto dalla scuola, liberamente ispirata alla Schola Medica Salernitana, dove un gruppo di medici e di studenti cercano di trovare una cura per il “bleed”, una malattia che colpisce i bambini causando sanguinamento fino alla morte. Un rimedio in realtà già c’è ma è tutt’altro che scientifico, in quanto consiste nel richiamare, tramite uno specifico rituale, delle creature demoniache che a un certo punto chiedono in cambio l’anima della studentessa Artemisia Di Pregio. La donna non è in realtà l’unica protagonista delle vicende narrate, dato che The Pestle utilizzando un’impostazione da romanzo corale incastra una serie di sottotrame, a partire da quella di Tom Carter, un contadino che si danna per la morte del figlio e a cui non vengono riservate né attenzioni né cure. Come nel precedente A Sickness Upon the Land, gli elementi fantasy si intrecciano a temi politici, qui resi in maniera più articolata che in precedenza. Migliorabile invece il disegno, dato che Antonowicz sembra aver sviluppato le buone premesse viste nei suoi primi lavori in un tratto più maturo ma leggermente mainstream per i miei gusti. Mi permetterei di suggerirgli di lavorare soprattutto sui volti e sulle espressioni dei personaggi, perché invece i paesaggi e le scene del rituale sono ben fatti.

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Tor Brandt è un cartoonist danese che da qualche tempo si diverte a postare illustrazioni e fumetti sul suo tumblr Pain Pie, titolo anche di una futura serie autoprodotta. Chiaramente debitore a Michael DeForge nel tratto, comunque ancora da affinare, e in alcune soluzioni narrative, Tor cita tra i suoi artisti preferiti del momento e fonti di ispirazione, oltre allo stesso autore di Lose, Simon Hanselmann, Patrick Kyle, HTML-Flowers, Daniel Clowes, Alex Schubert e Gabriel Corbera, insomma tutta gente di cui si è parlato da queste parti e che ci piace parecchio. E’ inevitabile dunque che alcune delle sue storie risentano in maniera sin troppo diretta di uno o più modelli di riferimento, dato che siamo davanti a un artista ancora alla ricerca della propria voce. Mi sono però convinto a parlarne qui perché c’è qualcosa di decisamente promettente nei suoi fumetti, che si tratti dell’esistenzialismo dai toni tenui della recente Sanctuary o dell’horror color neon che vede protagonista un essere disgustoso chiuso in carcere. E anche le sue illustrazioni, piene di vuoti, misteriose, a volte surrealiste, danno l’idea che il ragazzo si farà.

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La prima fatica cartacea di Brandt è Nice and Clean, comic book autoprodotto in 50 copie che usa uno stile ancora “deforgiano” per raccontare, senza paura di mettere in pagina un po’ di sana trivialità, i problemi sessuali di un uomo ossessionato dall’igiene. Una storia semplice, che si fa apprezzare per l’abilità nell’andare dritta al punto, divertendo senza perdersi in fronzoli e lasciando alla fine anche una punta di tristezza. Davvero niente male per un fumetto d’esordio.