Ratatà 2018, un festival diagonale

Che cosa fa di un festival di fumetto un bel festival di fumetto? E soprattutto, qual è la missione di un bel festival di fumetto? A mio parere le risposte a quest’ultima domanda possono essere principalmente due: stimolare il pubblico, presentando una proposta culturale che sappia cogliere le migliori tendenze della contemporaneità e non, oppure assecondare chi al festival partecipa, lasciando libero spazio alla creatività e alle istanze di chi fa fumetto e illustrazione, spesso partendo dai bassifondi dell’autoproduzione. Il dubbio su quale strada scegliere è lecito e in Italia abbiamo festival che vanno chiaramente in una direzione o nell’altra, nel primo caso fornendo una visione dall’alto e a volte persino accademica, nel secondo non proponendo uno specifico punto di vista ma abbandonandosi piuttosto all’ispirazione di chi al festival partecipa da espositore e a volte da ospite. E poi c’è, come sempre, una terza via, che è quella di costruire un evento al tempo stesso verticale e orizzontale, insomma diagonale. Ed è questa terza via che ormai da qualche anno sceglie il Ratatà di Macerata, festival di illustrazione, fumetto ed editoria indipendente che a una proposta culturale di livello – con mostre sempre più curate, ricercate e variegate – unisce uno spirito spontaneo che mette alla pari organizzatori, espositori e pubblico. E questa non è sicuramente una cosa da poco, perché non è poi così facile essere diagonali.

La quinta edizione di Ratatà si è svolta dal 12 al 15 aprile a Macerata, tra il centro storico della città e il Mercato delle Erbe, dove da venerdì 13 hanno trovato spazio i banchetti di autoproduzioni, case editrici, illustratori e fumettisti. Premetto che le cose da vedere erano tante, che io sono arrivato soltanto il venerdì per l’apertura della mostra mercato e che per la gran parte della manifestazione sono stato incollato al tavolo di Just Indie Comics. Mi è difficile dunque scrivere un reportage completo, come sarebbe d’altronde difficile per chiunque fare un lavoro “oggettivo” vista la varietà della proposta, aperta ancor più che in passato a territori extra rispetto a quelli che rappresentano il cuore del festival e ricca di eventi collaterali. Cercherò dunque di raccontarvi, con l’aiuto di qualche foto in bassa fedeltà, ciò che più mi ha colpito per quello che ci ho capito.

Una delle mostre principali era Ogni traguardo porta con sé una perdita, personale di Matthias Lehmann organizzata presso lo spazio Duma in collaborazione con 001 Edizioni, in occasione della pubblicazione in Italia di un altro libro (dopo La favorita) dell’autore francese, Le lacrime di Ezechiele. La mostra spaziava nell’opera dell’autore, dalle tavole curatissime se non addirittura maniacali di HWY 115 a La favorita e Le lacrime d’Ezechiele, mostrando inoltre illustrazioni a colori, quaderni e sketchbook così perfetti da sembrare stampati. Dal vivo il lavoro di Lehmann impressiona per l’estrema cura, la quantità di linee, soprattutto della prima fase, caratterizzata da un gusto barocco poi abbandonato a favore di uno stile più arioso, in cui il bianco della pagina è territorio fertile per dare forma a soluzioni grafiche originali ma sempre funzionali alla narrazione. E a tal proposito Le lacrime d’Ezechiele si propone come interessante riflessione autobiografica e metanarrativa nel personaggio di Adelphi Gaillac, intento a lavorare da otto anni su un interminabile fumetto inciso interamente nel linoleum.

Oltre ai libri di 001, alla mostra erano disponibili anche i tre numeri della fanzine autoprodotta Lampiste, la serigrafia realizzata con Strane Dizioni come manifesto del festival e il vinile dei Raw Death, gruppo country in cui Lehmann e compari si divertono a coverizzare in versione scarna, anzi “death” potremmo appunto dire, brani country, blues e simili. Il vinile che vedete qui sotto, con cover del nostro stampata da Le Dernier Cri, mette insieme brani di Johnny Cash (Wayfaring Stranger, Ring of Fire), Tom Waits (Chocolate Jesus) e Ralph Stanley (O Death).

Altra mostra cult, ma di tutt’altro genere, era quella di Enrico Pantani, illustratore, scrittore e performer da Pomarance, provincia di Pisa. Presso la libreria Quodlibet erano raccolti i “libri d’autore” realizzati in copia unica nel corso degli anni, efficaci sin da titoli programmatici come La vita mi ha rotto i coglioni ma non mi ammazzo, Tette, Spacco tutto, Tempus fugit ma senza problemi e così via. Tra outsider art, artigianato creativo, provocazione e puro divertimento, il progetto riporta alla materialità del libro e si propone come esempio creativo di arte istintiva. C’era anche un’altra mostra di Enrico Pantani ma purtroppo l’ho persa (frase che potrebbe essere benissimo il titolo di un libretto di Enrico Pantani).

Autodafé, presso gli spazi degli Antichi Forni, era invece una collettiva che presentava lavori di artisti di diversi paesi con l’obiettivo di costruire un ponte tra loro, in un’epoca come la nostra (e come tante altre, purtroppo) in cui concetti come “identità” e “appartenenza” diventano motivo di scontro più che di dialogo. In questo contesto spiccava il bell’allestimento dell’Ufficio Misteri, il trio bolognese composto da Marco Bassi, Daniele Castellano e Bruno Zocca che si avvaleva per il loro Mistero n.5: Il Bosco dei Gatt’Orchi della collaborazione di Marco Taddei ai testi e della sonorizzazione di Steve Scanu e Carlo Aromando. Al festival era disponibile anche un catalogo della mostra, limitato a 50 copie con tanto di cofanetto e stampa a colori allegata. Le altre mostre, tra cui spiccava un’ampia retrospettiva del lavoro dell’illustratore spagnolo Isidro Ferrer, si tenevano invece nei luoghi più disparati penetrando nel tessuto pubblico e privato della città, tra gallerie, locali, spazi abbandonati e tanti tanti negozi che hanno collaborato ospitando i materiali espositivi sui loro scaffali. Di seguito un mix di foto, con qualche – ahimè – omissione, come ad esempio la personale di Giulia Conoscenti al Csa Sisma che tra una cosa e l’altra non sono riuscito a visitare.

Ufficio Misteri, collettiva Autodafé

Nicolas Zouliamis, collettiva Autodafé 

Ratigher, Sangue finto all’ex Mirionima in Piazza della Libertà

La retrospettiva su Isidro Ferrer ai Magazzini Uto

10 anni di Strane Dizioni

L’installazione di Gio Pastori

Tra un riflesso e l’altro le foto di Fontanesi da Tandem

Da Ibro la mostra di Milo, 8 anni e già artista

Lu Spiritu di Marco Taddei e Simone Manfrini alla Feltrinelli

Quelle che vedete qui sopra sono le tavole di Lu Spiritu, progetto scritto ancora da Marco Taddei, che al Ratatà è tipo Zerocalcare ma senza fila, e splendidamente illustrato da Simone Manfrini, fresco di stampa per Incubo alla Balena. L’albetto racconta una storia – storta come piace a noi – di un parroco di provincia tentato dal diavolo nelle sue diverse e soprattutto sinuose forme ed è stato uno dei titoli più acquistati alla mostra mercato. E, appunto, eccoci al cuore del festival, il Mercato delle Erbe, dove trovavano spazio i banchetti delle autoproduzioni ma non solo, dato che Ratatà ospita ormai anche realtà internazionali (citiamo per esempio gli spagnoli di Ediciones Valientes e i polacchi con base a Londra di Centrala) ed editori italiani (Eris, MalEdizioni, Hollow Press, Barta). Di seguito un po’ di foto varie ed eventuali senza modifiche o filtri, per rappresentare al meglio la realtà – a volte anche sfocata – dei fatti.

Ediciones Valientes

Doner Club

Centrala

Just Indie Comics

Bello il banchetto qua sopra, eh? Però se proprio vi devo dire la mia il tavolo che mi è piaciuto più di tutti è quello di De Press, la mini casa editrice guidata da Andrea De Franco che ha iniziato da qualche tempo a sfornare vorticosamente fumetti, albi illustrati, fanzine fotografiche e quant’altro. Al Ratatà i ragazzi di De Press erano coinvolti in due mostre, una tutta loro negli spazi dell’ex Copisteria che dava conto della gran parte della produzione del gruppo, l’altra nel negozio di fotografia Tandem dedicata invece a Fontanesi, oscuro magro di Instagram che ha visto raccolte le sue giustapposizioni di foto in vena di surrealismo in una fanzine edita appunto dal collettivo di base a Bologna. Tra le altre produzioni portate al Ratatà cito anche il recente Piccolo niente dello stesso De Franco, riuscitissimo esempio di minimalismo grafico intriso di poesia esistenzialista, un albo illustrato da Beatrice Bertaccini che mette insieme Van Gogh e i Puffi su testi di Fabio Cesaratto, il Trittico di Puccini riletto in ASCII da Chiara Polverini, una fanzine che raccoglie foto scattate da uno smartphone con fotocamera rotta ecc. ecc. Insomma, sembra una raccolta di bizzarrie ma in realtà si tratta di edizioni curate fatte con lo spirito giusto di chi vuole divertirsi e sperimentare, regalando al tempo stesso qualcosa di bello e interessante al pubblico. De Press è un progetto finalmente innovativo, d’avanguardia, sghembo come in Italia non se ne vedevano da tempo, che salutiamo con gioia aspettando nuovi pirotecnici sviluppi futuri.

Ci sarebbero tante altre cose da dire sul Ratatà ma molte sono già state dette in questa intervista agli organizzatori a cura di Andrea Provinciali, pubblicata su Minima & Moralia qualche giorno prima del festival. La quinta edizione ha confermato l’impegno degli organizzatori a interagire con la realtà di Macerata, sfociato nella parata di sabato pomeriggio per le strade del centro, e al tempo stesso la difficoltà nel portare avanti questa nobile missione. Gli eventi serali e le situazioni sociali vedono infatti la partecipazione di un pubblico vasto e interessato, che per fortuna va al di là dei soliti noti, ma una buona parte della popolazione maceratese sembra indifferente se non diffidente nei confronti del festival e dei suoi partecipanti. Nota ancora più dolente è la scarsa collaborazione delle istituzioni, che sta scoraggiando gli organizzatori a portare avanti la manifestazione. Ma sarebbe davvero un peccato, perché Ratatà è un festival unico in Italia, che non vogliamo e non dobbiamo perdere. E dunque appuntamento all’anno prossimo, speriamo.

JICBC pt. 2: “Book of Daze” di E.A. Bethea

Seconda spedizione dell’anno per il Just Indie Comics Buyers Club, l’abbonamento che dà modo di ricevere con cadenza trimestrale fumetti per lo più americani ma a volte anche europei di difficile reperibilità in Italia. Dopo il primo numero dell’antologia Now della Fantagraphics, inviato a gennaio, ad aprile toccherà a Book of Daze di E.A. Bethea, antologia monografica pubblicata alla fine dello scorso anno dalla Domino Books di Brooklyn. I più affezionati lettori di Just Indie Comics dovrebbero già conoscere il lavoro della Bethea, a cui ho dedicato ai tempi del blog, e precisamente nel luglio 2014, un articolo nella gloriosa (ben due puntate) rubrica Comics People. Allora si dava conto soprattutto del materiale apparso nella corposa raccolta Bethea’s Illustrated uscita nel 2009 per la Sad Kimono Books e nel primo numero della rivista a fumetti formato tabloid Tusen Hjärtan Stark, targata ancora Domino. Da allora la Bethea ha contribuito al secondo numero di Tusen e a svariate antologie, non solo a fumetti. Mancava però da tanto una pubblicazione interamente a suo nome e adesso è finalmente arrivata grazie alla volontà di Austin English, mente e braccio dietro Domino ed estimatore del lavoro dell’artista di Brooklyn (ma originaria di New Orleans).

Non credo ci siano tanti altri casi come questo in cui possiamo definire “unica” l’opera di una fumettista. Anzi, in questo caso non è nemmeno giusto definire E.A. Bethea semplice “fumettista”, dato che la sua scrittura al tempo stesso secca e musicale è più vicina alla letteratura e alla poesia, mentre la sua linea affilata e via via sempre meno grezza guarda al cinema e alla fotografia, con continui close-up su piccoli pezzi di mondo apparentemente insignificanti ma riempiti di volta in volta di malinconia, rabbia, meraviglia, ironia. Eppure testo e immagine dialogano, si arricchiscono l’un l’altro come accade proprio nei migliori fumetti.

In Book of Daze, che oltre a nuove opere per lo più datate 2017 raccoglie qualche pagina già vista in precedenza, non troverete storie nel senso più classico del termine, ma riflessioni, ricordi, biografie, polaroid, descrizioni, poesia beat, riferimenti letterari e cinematografici, il tutto fuso con pari dignità e spesso anche nella stessa pagina in uno stile e un registro unico, quello di E.A. Bethea. Un registro che sembra provenire dal passato, come una cartolina da un’altra America fatta di strade polverose, bar malandati, vecchie sale cinematografiche, libri tascabili, pacchetti di sigarette accartocciati e poca pochissima tecnologia. Non si tratta di materiale semplicissimo da proporre né da affrontare, non ha l’appeal scintillante di tanto fumetto a cui siamo abituati oggi, ma vi assicuro che sa affascinare. Buona lettura.

Misunderstanding Comics #10

Nuova puntata di Misunderstanding Comics, rubrica che si occupa di letture varie senza necessariamente parlarne con dovizia di particolari. Dato che siamo stanchi di novità, colgo l’occasione per recuperare qualche fumetto non proprio recentissimo.

I Never Promised You a Rose Garden è una serie a firma Annie Murphy di cui al momento sono stati pubblicati due soli numeri. La Murphy, classe 1978, è attivista queer, diplomata del Center for Cartoon Studies, autrice di una biografia di Achsa Sprague, curatrice dell’antologia Gay Genius e molto altro ancora. A vederli on line gli altri suoi fumetti sembrano più ordinari rispetto a questo, una cronaca politica e culturale incentrata sulla sua città, Portland. E anzi, I Never Promised non è nemmeno un fumetto nel senso più tradizionale del termine, dato che si tratta in realtà di un saggio illustrato, un quaderno in cui immagini sporche di inchiostro e dalle linee tremolanti si uniscono a lunghi testi trascritti a mano nella più idiosincratica tradizione del do-it-yourself.

Il primo numero, intitolato My Own Private Portland, si apre con la morte di River Phoenix e si sofferma inizialmente sulla carriera dell’attore, per arrivare ben presto alla genesi e all’analisi di My Own Private Idaho, ricca di interessanti retroscena. La Murphy descrive con abilità il clima culturale di quegli anni, la fine degli ’80, le storie di ragazzi di strada, prostituti, tossicomani che in alcuni casi avevano frequentato lo stesso liceo dell’autrice e da cui Van Sant rimase affascinato al punto da mescolarsi a loro nel quotidiano. L’eroina ha una parte importante in queste pagine, ed è solo uno dei tanti aspetti che ci fanno capire, come suggerisce il titolo, che almeno all’epoca la cosiddetta “City of the Roses” non era quella terra promessa che noi europei siamo soliti immaginare. Il primo numero si conclude con un parallelismo tra Phoenix e Kurt Cobain, ripreso senza soluzione di continuità nel secondo, in cui viene approfondita la biografia personale dell’attore e in particolare la sua educazione nella setta Children of God, dove gli abusi sessuali sui minori erano all’ordine del giorno. Murphy non risparmia nessuno, sviscera temi, fa domande, mettendo in dubbio anche l’operato di Van Sant, tacciato di “hispter racism”. Da lì si passa alla parte più politica del racconto, una rappresentazione critica del Pacific Northwest che si sofferma stavolta sui rigurgiti razzisti di una zona per tradizione tutt’altro che multietnica, come testimonia l’assassinio di Mulugeta Serraw, membro della comunità etiope di Portland ucciso nel 1988 da tre skinhead. Tra questi Kenneth “Ken Death” Mieske, personaggio noto nell’underground di strada della città dell’Oregon e fonte di ispirazione per Drugstore Cowboy. L’eco di quel fatto portò anche al processo contro Tom Metzger, militante razzista fondatore della White Aryan Resistance, documentato nell’ultima parte dello spillato.

Avrete capito a questo punto la densità dei fatti raccontati dall’autrice con scrittura piena, consapevole, dettagliata, appassionante ma mai eccessiva. La messa in scena trasuda spontaneità e ben si adatta a disegni che descrivono e a volte commentano con tono sardonico, come cartoline di un artista di strada disegnate sul momento, senza ripensamenti o rifiniture di troppo. Purtroppo non si hanno notizie se mai si vedrà un terzo numero, dato che l’ultimo risale al 2016 e che il blog dell’autrice è fermo allo stesso anno. Magari se mi decido a mandarle una mail scoprirò se questo piccolo gioiello nascosto avrà prima o poi un seguito.

Cambiamo totalmente mondo e passiamo a un autore che ha fatto del disegno – e che disegno – la sua peculiarità, dando forma a fumetti che difficilmente possono essere tradotti in soggetto, trama o semplicemente parole. Sto parlando di Walker Tate, cartoonist di Los Angeles abile nello scomporre pagine e vignette, a tracciare inusuali prospettive, ad accanirsi sui corpi con piglio cubista seppur con una linea pulita e tondeggiante. C’è qualcosa nelle sue creazioni, finora tutti comic-book autoprodotti autoconclusivi e di poche pagine, che ricorda Ruppert & Mulot, anche se non saprei dire se si tratta di un’influenza o di affinità elettiva. Del 2015 sono Waiting Room, rappresentazione di una sala d’attesa e degli oggetti che la abitano, ed Extract, storia paradossale di un uomo che decide di dividere il suo appartamento in tante porzioni diverse in modo da poterle affittare. Channel, del 2016, seguiva invece le evoluzioni di una pallina da golf. In tutti e tre i casi la trama – se così vogliamo chiamarla – era una scusa per dar vita a virtuosismi stilistici di ogni tipo, come le prospettive in movimento di Waiting Room e le scomposizioni di Extract, che interessavano prima l’appartamento (e di conseguenza la pagina) e poi il corpo del protagonista.

Ma è il più recente Procedural, uscito lo scorso anno, a cambiare le carte in tavola. I dialoghi stavolta hanno una parte importante nello sviluppo del racconto, le vignette sono regolari, il paradosso che prima ero per lo più visivo viene sviluppato in chiave narrativa. Un idraulico viene chiamato a fermare una perdita d’acqua proveniente dal soffitto, che ha costretto il proprietario di casa a portare il suo divano in un deposito. Lasciato a lavorare da solo, l’idraulico si accanisce contro la perdita senza successo, mentre il suo cliente non riesce più a trovare il divano, spostato di luogo in luogo per motivi sempre più assurdi. Nel frattempo un corriere deve consegnare delle confezioni di trota sott’olio… Lo so che detto così sembra puro nonsense, o un film di Alain Resnais, ma vi assicuro che Procedural funziona e lascia la curiosità di vedere che cosa si inventerà Tate la prossima volta.

Altra autrice che prosegue indefessa la sua ricerca stilistica è Lale Westvind, di cui avevo parlato brevemente qui in occasione del suo Hax uscito per Breakdown Press. I suoi fumetti meriterebbero ben altra attenzione di quella che gli sto dedicando io su Just Indie Comics e prima o poi sono convinto che riuscirò a parlarne meglio, magari insieme a lei. Qui mi limito a segnalare l’uscita del quarto numero di Hot Dog Beach, che trovo particolarmente interessante per una serie di motivi. Se infatti negli albi autoconclusivi e nelle storie per le antologie la Westvind adotta uno stile letterario denso e complesso, in cui il testo è spesso avvicinato all’immagine come descrizione, delirio, puro lirismo, in questa serie aperiodica autoprodotta troviamo invece uno stile più cartoon e dei dialoghi che spesso scelgono le vie della commedia.

Sia chiaro che le tematiche ricorrenti della Westvind – velocità, dinamismo, interazioni tra uomo e macchina, visioni lisergiche – rimangono costanti ma questa volta più che dalle parti di un futurismo cyberpunk siamo in un mondo alla Mad Max, con personaggi che si rincorrono senza ben sapere il perché verso la spiaggia del titolo. Ma la cosa che a me più interessa in questi quattro numeri qui è il modo in cui sono realizzati, ossia con un approccio spontaneo che non ha alle spalle una precisa pianificazione, una trama liquida che si può prendere da qualsiasi punto senza aver necessariamente letto il resto, i disegni che cambiano di volta in volta stile (e non potrebbe essere altrimenti, dato che il primo numero è datato 2010 e l’ultimo è dell’anno scorso). Anche la storia si evolve, inizia in un modo e prosegue in un altro, accelera, rallenta, riparte, prende deviazioni, tanto che probabilmente potrebbe durare all’infinito, soprattutto se l’autrice continuerà a costellarla di momenti visionari come le due spettacolari sequenze onirico-psichedeliche di questa quarta uscita. Hot Dog Beach ci riporta ai tempi in cui i fumetti non erano una cosa così seria e si poteva anche decidere di pubblicare qualcosa a puntate senza preoccuparsi della futura raccolta in volume. Ed è per questo una vera boccata di ossigeno.

Concludiamo con un’altra donna, se così si può dire, dato che Laura Pallmall è in realtà lo pseudonimo di Jason Lee, cartoonist (e non solo) trasferitosi di recente da Los Angeles – che rimane comunque lo scenario di riferimento dei suoi fumetti – a Pittsburgh. Lee pubblica da qualche tempo la serie di fanzine Nothing Left to Learn, caratterizzate dall’approccio do-it-yourself e dalla libertà con cui vengono messi insieme saggi, fiction, illustrazioni, poesie e ovviamente fumetti, come testimonia l’omonimo Tumblr. Nell’ambito del progetto ha trovato spazio anche una sotto-serie chiamata Sporgo e attribuita a tale Laura Pallmall, di cui sono usciti due numeri “rilegati” con l’elastico e caratterizzati da un tratto crudo, a volte sin troppo elementare nella sua semplicità, e da una divisione della tavola regolare.

Sporgo #1 si apre con Picaresque, realizzato per la Comics Workbook Composition Competition del 2015 e scelto tra i migliori fumetti dell’anno nell’ultima edizione di The Best American Comics, 16 pagine che rappresentano al momento il vertice dell’ancora limitata produzione dell’autore/autrice. L’apertura è un sogno dai contorni horror, che ci cala subito in un’atmosfera plumbea, oppressiva, angosciante. A pagina 2 un uomo viene svegliato dal suono del campanello, è un suo amico che è andato a trovarlo. Dal dialogo tra i due capiamo che il protagonista riempie le sue giornate di nulla, impegnato più che altro a comprare il cibo e a preparare i pasti per i vicini, che hanno deciso di passare la luna di miele chiusi in casa per smettere di fumare. Fuori le strade sono deserte, c’è solo un opossum sdraiato sul marciapiede che si dà per morto, oppure che è morto davvero. Doveva piovere quel giorno ma il sole continua a splendere. Forse prima o poi succederà qualcosa ma intanto si sta buttati sul divano o in strada, mentre si avvicina la notte. Non vi racconto tutto tutto anche perché c’è poco da raccontare ma il nulla di cui è fatta questa piccola riuscitissima storia risuona nella mente del lettore e lo avvolge in una spirale di inchiostro sempre più nera fino al suo notturno finale. E un’ombra nera, stavolta in senso non metaforico, è protagonista di From Eden to Hill, secondo racconto dell’albo, una ghost story meno efficace della precedente e che per trasmettere inquietudine sceglie strade non così originali. Eppure l’assonanza di temi e situazioni dà unità al tutto creando un corpus unico. Sporgo #2, pubblicato nel 2017 a due anni di distanza dal precedente, non si allontana molto da queste coordinate e segna l’inizio di una storia lunga intitolata Pyramid Inch, incentrata su un giovane filmmaker impegnato a scrivere sceneggiature puntualmente lasciate a metà. Anche qui mare, palme e grattacieli costituiscono lo sfondo di una vicenda che dal reale scivola nell’onirico, con sequenze simili a quelle già viste in From Eden to Hill. In più qui troviamo riflessioni sull’industria culturale che nei dialoghi finali dell’albo assumono quasi i contorni del saggio. Pur con qualche approssimazione nel disegno, Pyramid Inch si fa leggere con curiosità e lascia un senso di inquietudine e paranoia che è vera cifra stilistica.

Just Indie Comics Day a Roma

Dopo il festival dello scorso giugno, continua la collaborazione tra Just Indie Comics e lo studio Co-Co con una giornata dedicata al fumetto underground. Il nuovo evento, che si terrà sabato 24 febbraio a Roma dalle 16 alle 21 in via Ruggero d’Altavilla 10 (zona Pigneto), si chiama Just Indie Comics Day ed è organizzato insieme al Crack! festival, con Valerio Bindi che alle 19 presenterà Daniel Benitez, fumettista messicano classe 1990 oltreché editore di WorstSeller Ediciones. L’incontro si incentrerà in particolare sull’ultima fatica di Daniel, l’albetto Puto el ce lo lea, pubblicato in spagnolo con traduzione inglese allegata e firmato con lo pseudonimo di Dr. Intransferible. Inoltre saranno disponibili per la prima volta una serie di novità della distribuzione di Just Indie Comics, da Twilight of the Bat di Josh Simmons e Patrick Keck ai fumetti di Lale Westvind, dagli albi autoprodotti di Laura Pallmall alle ultime novità targate kuš!.

Anche se vede come protagonista il fratello dell’autore, Puto el ce lo lea racconta in realtà una storia corale, che guarda non solo alla famiglia di Daniel ma all’intero sobborgo di Città del Messico dove è ambientata. Non c’è una trama nel senso più tradizionale del termine ma piuttosto una serie di personaggi che passano da una situazione all’altra, tra scherzi, risse, feste in giardino, concerti punk. Temi come la violenza di strada e la famiglia disfunzionale sono rappresentati con un tratto leggero e cartoon, i colori sono irreali nei toni del blu e del fucsia, l’approccio ironico tiene lontano ogni dramma. Anche l’inserto El Chorri, spillato all’interno dell’albo, rafforza la dimensione corale del fumetto con la descrizione del personaggio omonimo, in sostanza un tossico del posto fissato con la forma fisica e, come ci informa l’autore nelle note, appassionato di colla (da sniffare).

Oltre che dei fumetti di Daniel si parlerà anche delle altre produzioni WorstSeller, una piattaforma creata da Daniel insieme a Anahi Hernández Galaviz e dedita non solo alla pubblicazione di fanzine e fumetti, ma anche all’organizzazione di workshop, festival e altri eventi legati al mondo del fumetto e dell’arte. L’uscita finora più importante è stata Zine Censura: Fanzine Makers from Mexico, un catalogo del primo festival di WorstSeller del 2015, in cui vengono presentate le opere di oltre 50 artisti della scena alternativa messicana sul tema della censura. Il libro è stato anche protagonista di una mostra alla DobraVaga, una galleria d’arte di Lubiana, in Slovenia.

Anche le altre produzioni WorstSeller saranno ovviamente disponibili per l’acquisto, oltre ai libri editi da Crack! e Fortepressa, come La Caïda e Coyota di Juliette Bensimon Marchina, e le pubblicazioni di Studio Co-Co con Dio di me stesso di Alessandro Galatola (edito insieme a Just Indie Comics in occasione del festival dell’anno scorso) e fumetti e stampe di Serena Schinaia.

Ma vediamo adesso nel dettaglio i titoli della distribuzione che saranno disponibili in anteprima per l’evento, con il bookshop che sarà aperto dalle 16 fino alle 21. Iniziamo da un bel carico di novità dalla Lettonia, con le ultimissime uscite di kuš!, ossia il #31 dell’antologia š! intitolato Visitors e i nuovi mini a firma Abraham Diaz (altro fumettista messicano, di cui avevo già parlato qui in occasione del suo Suicida), Pedro Franz, Francisco Sousa Lobo e Roman Muradov. E con l’occasione potrete anche trovare le altre recenti pubblicazioni di kuš!, ossia il #30 di š! tutto dedicato ai fumettisti di Brooklyn, i volumi Fearless Colors di Samplerman e Fenix di Zane Zlemeša, gli altri quattro mini di Paula Bulling/Nina Hoffmann, Noah Van Sciver, Tomasz Niewiadomski, Aidan Koch.

Dagli USA e precisamente da Seattle arrivano invece le produzioni Cold Cube Press, a partire dall’antologia di fumetto, illustrazione e poesia Cold Cube 003, tutta stampata in risograph e ricca di contenuti di grande impatto visivo. Sempre da Cold Cube è edito Twilight of the Bat, ossia il bel bootleg di Batman scritto da Josh Simmons e disegnato da Patrick Keck di cui ho già parlato in questa recensione.

Dall’ovest degli States passiamo a est con due autori che mi piacciono molto e che da tempo volevo portare in Italia, almeno con i loro fumetti. Di Lale Westvind avevo già distribuito (e recensito in questa puntata di Misunderstanding Comics) il suo Hax pubblicato da Breakdown Press. Adesso sono finalmente disponibili alcuni dei suoi fumetti autoprodotti, ossia l’albo in edizione limitata di 300 copie Mary e i numeri dal 2 al 4 di Hot Dog Beach. Se non conoscete ancora lo stile unico, denso, visionario, cyberpunk e ballardiano della Westvind magari è l’occasione giusta per farlo, dato che i suoi fumetti si distinguono con facilità da quasi tutto ciò che siamo abituati a vedere oggi.

E chiudiamo dunque con Laura Pallmall, cartoonist statunitense al momento poco conosciuta ma da tenere d’occhio. La fanzine Sporgo, di cui saranno disponibili i due numeri usciti finora, mette insieme rigorosità e sporcizia, come più o meno scrivevo parlando della sua storia breve Picaresque, selezionata per l’antologia The Best American Comics 2017. Proprio Picaresque è il piatto forte di Sporgo #1, mentre il secondo numero segna l’inizio della storia lunga Pyramid Inch, ambientata a Los Angeles e con protagonista un giovane filmmaker.

E con questo è tutto, non vi resta che venirci a trovare al Just Indie Comics Day e magari ingannare l’attesa dando un’occhiata alla pagina Facebook dell’evento, dove trovate altre immagini e notizie.

“Twilight of the Bat” di Simmons & Keck

La rilettura del fumetto di supereroi in chiave underground e spesso satirica è un filone che ha sempre trovato spazio nella scena alternativa statunitense, cosa piuttosto scontata vista la rilevanza culturale, simbolica ed economica delle produzioni Marvel e Dc Comics oltreoceano. Al tempo stesso, soprattutto dalla metà degli anni ’80, si è sviluppata la tendenza a rielaborare con un approccio problematico e spesso sin troppo drammatico la figura del supereroe, a partire da due pietre miliari che ovviamente non vi devo ricordare io ma che cito giusto per chi è capitato su questo sito mentre cercava informazioni sui comici indiani, ossia The Dark Knight Returns di Frank Miller e il Watchmen di Alan Moore e Dave Gibbons. Proprio all’incrocio di queste due tendenze, una satirica l’altra iperrealistica, si pone Twilight of the Bat, un albetto di 20 pagine realizzato dal Josh Simmons di Black River, che qui pensa alla storia, e da Patrick Keck, autore invece dei disegni, e pubblicato alla fine dello scorso anno dalla casa editrice e tipografia di Seattle Cold Cube Press. E che ho ingiustamente omesso dalla mia classifica di fine anno, ma solo perché mi è arrivato troppo tardi, quando il 2017 era già bello che finito.

Per essere più specifici Twilight of the Bat si posiziona esattamente all’incrocio tra esperimenti come Coober Skeber #2, albo del 1997 targato Highwater Books in cui autori come Mat Brinkman, Brian Chippendale e Ron Regè Jr. rileggevano in un bianco e nero lontanissimo dai colori sparati dei comic-book i supereroi (Marvel in quel caso), e l’approccio problematico alla figura dell’uomo pipistrello che è stato ben sviscerato nel già citato Dark Knight di Miller, in The Killing Joke di Moore e Bolland e nell’Arkham Asylum di Grant Morrison e Dave McKean. Proprio questo sincretismo è la forza dell’albo, in sostanza un Elseworld non autorizzato capace in 20 pagine di suggestionare il lettore come capita davvero raramente, soprattutto se si tratta di un lettore come me, cresciuto con i fumetti di supereroi classici per poi passare a quelli più maturi e quindi spostarsi progressivamente verso territori completamente diversi. In un albo come Twilight of the Bat c’è tutto quello che mi è sempre piaciuto di più e soprattutto ciò che mi piace trovare oggi nei fumetti di genere, ossia un approccio alla materia consapevole, maturo, che pone delle domande ma che è anche divertente, satirico, dissacratorio e mai troppo serioso o drammatico.

Ma veniamo all’albo vero e proprio, partendo innanzitutto dal titolo, che sembra rimandare vagamente a Twilight of the Superheroes, la sceneggiatura di Alan Moore mai realizzata, e più direttamente allo stesso Mark of the Bat, un altro bootleg di Simmons (lì sia ai testi che ai disegni) sulla figura dell’uomo pipistrello. L’ambientazione è post-apocalittica, quasi un’autocitazione dell’autore al suo Black River, con un Batman ancor più vecchio di quello di The Dark Knight, ridotto a un barbone che passa le notti al freddo senza sapere cosa fare della sua vita. Suo solo compagno è il nemico per eccellenza, qui ribattezzato Joke Man, forse l’unica altra persona rimasta viva sulla terra. Batman gli dice di aver girato per mesi dopo le non meglio definite esplosioni che hanno ridotto G—— City e dintorni (o il mondo intero?) a brandelli e di non aver incontrato nessuno, e a un certo punto realizza “Everyone’s dead… Everyone except you and me”, con il Joker che gli mette una mano sulla guancia e lo bacia chiosando “We’re the luckiest boys in the world”. Ma il vecchio Bruce non si arrende e cerca disperatamente altri segni di vita, soprattutto quando una mattina trova vicino al suo giaciglio dei cupcake lasciati da non si sa bene chi, evento che accoglie con un entusiasmo persino eccessivo. Da lì in poi si sviluppano una serie di situazioni paradossali tra i due protagonisti, che includono sarcasmo, balletti, botte, amputazioni e merda. Ovviamente non vi anticipo il finale, perché vale la pena leggerlo, come vale la pena godersi i disegni di Keck, in un bianco e nero denso e a tratti suggestivo nella rappresentazione della Gotham apocalittica, mentre la padronanza delle espressioni facciali aggiunge verve satirica e assicura grosse risate. E tuttavia alla fine rimane una sensazione di amarezza, forse perché, pur nell’irrealtà dei personaggi, dei luoghi e delle situazioni, non è poi così difficile identificarsi con la disperazione esistenziale di quel Batman lì.

“M” e “N” di Andrew White

Andrew White è un cartoonist statunitense che da qualche anno continua a pubblicare con costanza e dedizione i suoi fumetti in autonomia o per piccole case editrici. Allievo della scuola di Frank Santoro nonché uno delle firme “critiche” dietro il magazine Comics Workbook, il giovane fumettista classe ’90 lavora spesso dietro costrizioni formali mai fini a se stesse ma utili per fare emergere i temi preferiti, creando una poetica intimista e riflessiva che guarda alla teoria della “griglia” fissa di Santoro e ai comics-as-poetry. Tra i suoi progetti ricordiamo per esempio While a Soft Fog Wanders, fumetto totalmente muto che lavora per associazioni di idee tra immagini di indiscutibile suggestione, il duetto letterario For Lives e Read and Erase incentrato sulla vita di Gertrude Stein, il recente All There Is ossia una fanzine che con testi, diagrammi e disegni esamina il Ganges di Kevin Huizenga. Diverse cose le trovate anche online sul suo sito internet, sul suo Tumblr e sulla piattaforma zco.mx, dove si può leggere per esempio il recente Reflections, ulteriore conferma di quanto White si interroghi come pochi altri su cosa significa fare fumetti.

Tra il 2016 e il 2017 White si è autoprodotto il dittico M e N, che ho trovato interessante tanto da decidere di portarlo in Italia distribuendolo attraverso il webshop di Just Indie Comics. Iniziamo dal primo albo del 2016, uno spillato di 44 pagine che contiene tre racconti brevi. Il primo è Clogged Drains, Forgotten Words, una storia della breve relazione tra due uomini, M appunto e Leo, i cui punti di vista vengono proposti a pagine alterne, seguendo una griglia di 12 vignette che lascia spazio ad alcune aperture rompendosi completamente nel finale. L’autore è qui bravissimo nel giustapporre le due prospettive, lasciando libero il lettore di identificarsi con la freddezza di M o con i sentimenti di Leo, prendendosi poi la responsabilità di non lasciare il finale aperto ma scegliendo nelle due tavole conclusive il punto di vista del personaggio più debole. Tutto funziona in questo breve ma intenso fumetto, a partire dai colori tenui pastello, che contribuiscono a rendere indefiniti i contorni di una vicenda ormai lontana nel tempo, fino al testo che spesso riempie intere vignette e che è denso delle suggestioni poetiche tipiche dei fumetti di White, dotato di una prosa secca e senza fronzoli capace di trasmettere emozioni.

La successiva Timeline cambia registro raccontando la vita di un uomo “che galleggia attraverso gli anni, evitando le emozioni per alleggerire il suo peso” in sole 15 tavole caratterizzate da un approccio stilistico del tutto diverso, la pagina utilizzata per disporvi liberamente finestre colorate e linee bianche, una scelta formale ancora mirata ma stavolta lontana da regole troppo stringenti.

Terzo racconto, A Long List of Good Reasons Why Not, e nuovo diverso approccio, una tendenza al caos e a volte allo scarabocchio che non ci si preoccupa di tenere a bada, utile per esprimere sentimenti contrastanti e soprattutto la difficoltà e la goffaggine nell’affrontare situazioni reali come ambientarsi in un nuovo contesto, cambiare lavoro, far accettare la propria omosessualità ai familiari. Nonostante le diverse scelte grafiche e stilistiche alla fine M è un lavoro coeso, anche grazie ai collegamenti tra i diversi episodi, con Leo che sembra quantomeno assomigliare al protagonista del secondo racconto e lo stesso M al centro del terzo insieme al collega e poi compagno Bernard.

La coppia M-Bernard è protagonista assoluta delle prime tre storie di N, gemello dell’albo precedente per pagine e formato. Difficile analizzare separatamente questo trittico, che approfondisce i temi del ritorno a casa, della famiglia, di quanto sia difficile rapportarsi e raccontarsi agli altri, a volte in maniera più metaforica – come nell’iniziale Nowhere – altre in modo più diretto, come accade in Not For Long, in cui l’incompiuto protagonista raggiunge finalmente una sorta di maturazione. Il cuore è ancor di più l’incapacità di parlare della propria omosessualità ai familiari, il tono è sempre sommesso, mai drammatico. La centrale Nightly è invece un intermezzo domestico che poco aggiunge al resto. Lo stile di queste tre storie è del tutto omogeneo, con vignette dallo sfondo monocolore che alternano verde, blu scuro e arancio con qualche variazione di tonalità.

La conclusiva Nine Billion Grains of Sand si discosta invece dal resto dell’albo utilizzando di nuovo colori pastello, linee sfocate e una griglia fissa di 2 x 3 vignette, proponendosi come gemella della prima storia di M anche nella tematica del confronto fra due personaggi e chiudendo dunque il cerchio. White sceglie di chiosare sui temi più che sulla semplice narrazione, facendoci assistere a un tentativo di ideale riscatto del personaggio deluso di Clogged Drains, Forgotten Words ma in uno scenario post-bellico, quasi astratto.

Nel complesso meno riuscito dell’albo precedente, anche per qualche passaggio a vuoto nella rappresentazione della figura umana (al momento un punto debole dell’autore, soprattutto quando decide di utilizzare un tratto più definito), N conferma comunque White come una delle voci più interessanti della scena nordamericana contemporanea, sia per contenuti che per la tenace volontà di perseguire la propria poetica al di fuori di ogni corrente e moda.

Il meglio del 2017 (forse)

Si sa che le liste di fine anno sono un esercizio stupido e i motivi sono molteplici e talmente scontati che non vale nemmeno la pena elencarli. Quest’anno avevo giurato di risparmiarmi questa simpatica tradizione ma, complice la febbre che mi ha preso a cavallo tra Natale e Capodanno, alla fine ho deciso che no, non potevo farne proprio a meno. Il mio principale rammarico è di non essere riuscito a leggere veramente tutto quello che avrei potuto e quindi ho probabilmente in libreria (o negli scatoloni, o nei cassetti della biancheria ma vabbè, questa è un’altra storia) albi o volumi ancora intonsi che avrebbero meritato di entrare in questa lista. Ma alla fine la vita va anche vissuta, non solo letta.

Dopo questa pillola di saggezza, e dopo aver ribadito come sempre che ogni lista di questo genere è innanzitutto condizionata dai pregiudizi di chi la fa (e nel mio caso dal fatto che l’86% dei fumetti che leggo sono americani), rompo il ghiaccio con due titoli decisamente fuori dal comune di due mostri sacri dei comics (e non solo), entrambi pubblicati da Fantagraphics Books. Gary Panter ha dato fine alla sua trilogia dantesca con un libro sul Paradiso che non vede però più protagonista Jimbo ma un hillbilly di nome Songy. Songy of Paradise è come i precedenti Jimbo’s Inferno e Jimbo in Purgatory un volume di grande formato ma poche pagine (si tratta di sole 32 tavole) che con illustrazioni ariose e quasi pulite per lo standard dell’autore coverizza il poema di John Milton Paradiso riconquistato. Un fumetto pazzo, apparentemente esile ma fortemente politico, che fa piazza pulita di ogni distinzione tra arte alta e bassa e dentro cui ci si perde con estrema facilità.

Altro libro che guarda oltre i confini del medium è Whatsa Paintoonist di Jerry Moriarty, sin dal titolo una fusione tra “painter” e “cartoonist”, come conferma l’alternanza tra pagine con grezzi disegni a inchiostro e splendidi dipinti a colori nella tradizione di Hopper e del realismo americano. Il volume è una sorta di testamento artistico e spirituale in cui il quasi 80enne Moriarty guarda ancora una volta alla sua storia personale e all’evento che più di tutti l’ha segnata, la morte del padre avvenuta quando il Nostro aveva soltanto 13 anni. Riletto insieme al volume del 2009 The Complete Jack Survives (raccolta delle strisce ironiche e al tempo stesso amare pubblicate su Raw negli anni ’80, purtroppo di difficile reperibilità), Whatsa Paintoonist risulta ancor più potente e fondamentale.

In un anno in cui le classifiche d’oltreoceano sono dominate da My Favorite Thing is Monsters di Emil Ferris, che personalmente mi ha lasciato più di qualche perplessità, scelgo piuttosto un’altra fumettista tra i primissimi nomi di questa lista: Everything is Flammable di Gabrielle Bell (Uncivilized Books) è uno dei suoi lavori migliori di sempre e racconta, con una maturità e una consapevolezza mai viste prima, il recente periodo in cui la protagonista-autrice si è dovuta relazionare costantemente alla madre. Una gradita conferma è Fante Bukowski Two di Noah Van Sciver (ancora Fantagraphics), molto più divertente del primo, a tratti esilarante, a volte anche profondo (ne avevo parlato brevemente qui).

Tra i tanti bei libri pubblicati da Koyama Press, ne spiccano a mio parere due: Anti-Gone di Connor Willumsen e Old Ground di Noel Freibert, che avevo letto in anteprima in pdf e di cui già vi dicevo qualcosa parlando dei 10 fumetti della Small Press Expo 2017. Se vi siete stufati di leggere sempre la stessa roba e cercate un po’ di cartooning originale qui lo troverete, con il primo dei due che in particolare riesce a sintetizzare le tendenze di tanto fumetto post-fantascientifico contemporaneo (quello, per capirci, di antologie come Mould Map #3, Dôme, Berserker o di etichette come Decadence Comics).

Oppure potreste rivolgervi all’olandese Michiel Budel e al suo Francine, di cui parlavo sempre in occasione della SPX. La raccolta delle sue “franzine” data alle stampe dall’americana Secret Acres è già un cult con la sua monella protagonista e le altrettanto dinoccolate amiche, intente a riempire le serratissime vignette di scherzi al di sopra ogni decenza, trovate assurde, stramberie metanarrative. Qualcosa di simile fa anche August Lipp nel suo Roopert, albetto uscito verso la fine dell’anno per Revival House Press, uno di quei fumetti pazzi che piacciono tanto a me, con personaggi cartoon apparentemente innocui che ne combinano di tutti i colori finendo per allagare la scuola in un fiume (letteralmente) di merda.

Altra novità di fine anno è Sunday #1, il nuovo comic-book di Olivier Schrauwen, primo capitolo del nuovo progetto del fumettista belga, che si propone questa volta di raccontare l’intera giornata del fantomatico cugino Thibault Schrauwen. Qui leggiamo soltanto cosa succede dalle 8.15 alle 10.15 quindi la strada è ancora lunga, ma già il livello è altissimo, con la solita incredibile abilità nel mettere in pagina i ghirigori mentali dei personaggi.

Mi rendo conto dalle mie scelte che preferisco sempre più i fumetti con una logica tutta loro, autoreferenziali, chiusi in se stessi. E allora come posso non citare Iceland di Yuichi Yokoyama, che Retrofit Comics ha meritevolmente proposto al pubblico americano? L’enigmatica storia ambientata tra i ghiacci crea suspense, costruisce mistero e regala un paio di sequenze cinematiche da ascrivere agli annali. Ah, per chiudere, dopo un giapponese, ecco un messicano, ossia Abraham Diaz, che quest’anno ha fatto anche una puntata in Italia. Tempo fa avevo parlato del suo Suicida, ora alcuni di quei fumetti, insieme ad altro materiale, sono stati pubblicati dalla spagnola Ediciones Valientes in Tonto, un volume bilingue pirotecnico per scelte grafiche e tipografiche, che rende giustizia agli sberleffi underground e alle linee impazzite dell’autore.

Veniamo adesso alle antologie. La migliore dell’anno viene ancora dai francesi di Lagon, che se all’inizio del 2016 ci avevano deliziato con Dôme, nel gennaio scorso hanno fatto uscire Gouffre, 300 pagine di roba talmente bella che fate prima a vederla qui. Il 2017 ha segnato anche il debutto della nuova antologia della Fantagraphics, Now, il cui #1 ha mantenuto le promesse grazie a nomi noti e meno noti (per la cronaca i due lavori più significativi all’interno mi sembrano quelli di J.C. Menu e Noah Van Sciver). E speriamo che il livello qualitativo continui a crescere nei prossimi numeri, dato che nel 2018 dovremmo vederne ben tre.

Non so se possa essere considerato giusto mettere una raccolta di materiale pubblicato tra il 2015 e il 2016 in questa lista, ma The Best American Comics 2017 è per larghi tratti una vera bomba e il perché l’ho spiegato in questo post. A proposito di raccolte di materiale già pubblicato, la citazione è d’obbligo per l’operazione da vero archeologo del self-publishing messa in piedi da John Porcellino, che ha ristampato gli oscuri e ormai introvabili primi numeri della fanzine di Jenny Zervakis nel volume The Complete Strange Growths 1991-1997. Anche di questo avevo già parlato in un’apposita recensione. Archeologia transcontinentale è invece quella della New York Review Comics che ha recuperato i fumetti risalenti agli anni ’70 della francese Nicole Claveloux dandogli meritata pubblicazione oltreoceano. The Green Hand and Other Stories, con grafica e introduzione di Daniel Clowes, è particolarmente rilevante per la storia che gli dà il titolo, scritta dalla fumettista insieme a Edith Zha e pietra miliare del fumetto onirico/psichedelico/introspettivo.

Infine, come non citare Monograph di Chris Ware? Il volume formato gigante (ma davvero gigante, dato che pesa più di 3 kg ed è alto quasi 50 cm) è più un libro sui fumetti che un’antologia vera e propria ma va da sé che non può mancare nella collezione di qualsiasi appassionato di Ware con i suoi dietro le quinte, le riflessioni, gli inediti, gli sketch, le foto, gli estratti e addirittura gli inserti in formato mini-comic.

Siamo dunque arrivati a 17 fumetti e qui mi fermo, perchè 17 per il 2017 è perfetto per me che sono un amante della simmetria. Ma non è finita qui, perché il dovere mi impone di dare un’occhiata anche a quanto successo in Italia. Non sono un patriota né l’esperto numero uno dell’editoria nostrana quindi se dimentico qualcosa, cari amici in ascolto, abbiate pietà. E se c’è un’altra cosa di cui non sono esperto è il fumetto giapponese, ma su internet ognuno può dire la sua e quindi ne approfitto per dichiarare che l’evento editoriale dell’anno è stata la pubblicazione da parte di Canicola de L’uomo senza talento di Yoshiharu Tsuge, semplicemente un capolavoro del fumetto di sempre. Punto. Altre due operazioni editoriali degne di nota sono state poi le traduzioni di due fumetti che erano nei miei Best Of degli anni passati (rispettivamente 2014 e 2015) e a cui ho dedicato più di qualche riflessione da queste parti, ossia I dilettanti di Conor Stechschulte portato in Italia da 001 Edizioni e Colville di Steven Gilbert pubblicato da Coconino Press. Già dovreste sapere tutto ma ai più disattenti segnalo l’intervista a Stechschulte pubblicata in occasione della sua mostra al BilBOlbul di quest’anno, la recensione di Colville scritta a suo tempo da Ratigher su queste pagine e l’intervista a Gilbert che di recente ho tradotto in italiano. Se non li avete ancora letti, prima pentitevi e poi correte in edicola. E a proposito di BilBOlbul, a Bologna quest’anno c’era anche una ricchissima mostra dedicata al belga Eric Lambé, autore insieme a Philippe de Pierpont di Paesaggio dopo la battaglia, libro che sembra nelle premesse eccessivamente melodrammatico (cosa che spesso mi tiene a debita distanza) ma che invece traduce la tensione in un paesaggio interiore di indiscutibile bellezza, profondità e simbolico mistero, risultando tutt’altro che scontato e consolatorio. Da non perdere, sperando che sia il primo di tanti libri Frémok ad arrivare qui da noi, perché se c’è un editore che ha spinto il fumetto europeo oltre i suoi limiti è senz’altro questo (va detto a onor di cronaca che Paysage era una coproduzione con Actes Sud).

Sempre Coconino, che difficilmente poteva iniziare meglio il suo nuovo corso editoriale, ha dato luogo a un paio di operazioni di recupero davvero notevoli, prima ristampando, con l’aggiunta di inediti mai visti in Italia, le Storie di David Mazzucchelli risalenti ai tempi di Rubber Blanket (e una raccolta del genere non ce l’hanno nemmeno negli USA), poi portando finalmente da noi Patrice Killoffer con 676 apparizioni di Killoffer, che qui definivo “un viaggio dentro la paranoia, la misoginia e le ossessioni del protagonista rappresentato con un susseguirsi di trovate grafiche geniali”.

Visto che siamo in tema di recuperi, come non citare anche il primo volume dell’American Flagg! di Howard Chaykin, che torna in Italia dopo la prima pubblicazione sulla storica All American Comics della Comic Art? Se pensate che Frank Miller con The Dark Knight Returns si sia inventato tutto ma proprio tutto tutto, guardate e leggete questa roba qui e poi ne riparliamo. Ah, certo, la carta scelta da Editoriale Cosmo per l’edizione non è il massimo e il volume dopo un po’ sembra il mare della California ma vabbè, devo dire che si è visto di peggio. E’ invece un’edizione identica all’originale quella di Oblomov per Quimby The Mouse di Chris Ware, che raccoglie materiale dei primi anni ’90 tratto da Acme Novelty Library e da altre pubblicazioni in cui l’autore unisce la solita passione per introduzioni magniloquenti, colophon interminabili e false pubblicità con memorie di infanzia e riletture di genere, utilizzando uno stile ripreso per lo più dalle strip alla Krazy Kat ed elevato a pura ingegneria a fumetti. Peccato per qualche refuso di troppo, che non compromette la lettura ma che comunque sarebbe stato meglio evitare in un’edizione di tale pregio.

Ok, mi rendo conto di non aver scelto nemmeno un titolo di autori italiani ma non è stato a mio parere un grande anno per le opere made in Italy, o forse sono io che in quasi tutte quelle che ho letto ho trovato motivi di insoddisfazione. Due per me sono nettamente una spanna sopra le altre, e si distinguono per aver scelto modi altri per raccontare una storia, al di fuori di ogni tentazione di linearità (e a volte banalità). The Rust Kingdom di Spugna, edito da Hollow Press e già segnalato tra i 10 fumetti di Lucca Comics, è una potente mazzata in stile cartoon underground in cui l’autore si fa strada tra pezzi di carne maciullata per costruire un’avvincente trama post-fantasy con tanto di colpo di scena finale.

Cry Me a River di Alice Socal, edito da Coconino, è a sua volta un libro chiuso in se stesso, che si concentra però non sui corpi ma sulle emozioni dei protagonisti, una coppia colta nel momento della fine dell’amore. La sofferenza e le lacrime si trasformano in splendidi e visionari disegni, in un’opera che ci ricorda quello che si può fare con il fumetto. E a questo punto è tutto, buon 2018 e saluti a casa.

Torna il Buyers Club con “Now” #1

La terza edizione del Just Indie Comics Buyers Club si apre con il primo numero di Now, l’antologia pubblicata da Fantagraphics che al suo debutto mette insieme il meglio del fumetto americano e non solo, con sostanziosi contributi di autori come Eleanor Davis, Dash Shaw, J.C. Menu, Noah Van Sciver, Tommi Parrish, Daria Tessler, Malachi Ward & Matt Sheean, Antoine Cossé e fugaci apparizioni di fuoriclasse come Sammy Harkham e Gabrielle Bell. “Voglio realizzare un’antologia che sembri invitante per un lettore occasionale di fumetti ma che al tempo stesso lo sfidi man mano che va più a fondo – scrive l’editor Eric Reynolds nell’introduzione – Voglio promuovere un revival della storia breve nell’era dei graphic novel. Voglio dare spazio a una raccolta di cartoonist e di fumetti più eterogenea possibile, una che fornisca un ampio spettro di ciò che il medium è in grado di offrire”. Una missione, questa, che è facilmente assimilabile a quella del Buyers Club, ossia dare diffusione a segni, storie, stili e generi che si vedono poco in Italia, favorendo il buon vecchio comic book, o anche l’antologia appunto, rispetto al più inflazionato formato del graphic novel.

Per chi ancora non lo sapesse, il Just Indie Comics Buyers Club è un abbonamento che ho lanciato nel 2016 per sostenere il negozio on line in cui distribuisco materiale americano difficilmente reperibile in Europa, oltre che vari prodotti italiani ed europei di case editrici e micro-realtà a me affini. La formula è la stessa degli anni passati e dunque mi limito a ribadire quanto già detto. Chi aderirà entro il prossimo 10 gennaio riceverà uno o due fumetti ogni tre mesi, a seconda della tipologia di abbonamento scelto, e avrà inoltre diritto a uno sconto del 10% su tutto il materiale ordinato dal sito nel corso del 2018 tramite un apposito codice promozionale che verrà comunicato via mail. La prima spedizione sarà a gennaio, le successive ad aprile, luglio e ottobre. I fumetti saranno per lo più americani, a volte europei, ma sempre e comunque in lingua inglese. Come accennato, esistono due soluzioni per aderire al Just Indie Comics Buyers Club. La prima, quella più economica, viene 40 euro e dà diritto a ricevere un albo a trimestre, spese di spedizione tramite piego di libri ordinario incluse. La seconda, che invece è la versione estesa dell’abbonamento, consentirà di avere in ogni invio due fumetti, per un totale di otto albi annui, e costa 70 euro, con la spedizione sempre inclusa. Se invece della spedizione ordinaria preferite quella tracciata tramite raccomandata, basta segnalarlo al momento del checkout dell’ordine, anche se chiaramente ci sarà un surplus da pagare.

Come lo scorso anno, i fumetti della formula Small saranno uguali per tutti e verranno annunciati e presentati sul sito. I sottoscrittori Large avranno lo stesso fumetto degli Small più un altro che potrà variare da abbonato ad abbonato. Potrete trovare degli spillati di piccolo o grande formato, volumi, volumetti, antologie, tabloid e così via, pubblicati da piccole case editrici indipendenti o autoprodotti. E ovviamente sono aperto a vostri suggerimenti, richieste e idee di ogni tipo o quasi.

Per farvi capire qual è il materiale che vi aspetta se decidete di entrare nel club, ecco il dettaglio dei fumetti inviati durante questo 2017. Blammo #9 di Noah Van Sciver, Get Out Your Hankies di Gabrielle Bell, Our Mother di Luke Howard e i mini kuš! #55-58 a firma GG, Andrés Magán, Evangelos Androutsopoulos e Patrick Kyle sono stati gli albi spediti a tutti. Quelli variabili per gli abbonati formato Large sono stati invece Harold di Antoine Cossé, Hellbound Lifestyle di Alabaster Pizzo e Kaeleigh Forsyth, King-Cat #77 di John Porcellino, l’antologia The Black Hood, Lovers in the Garden di Anya Davidson, Dark Tomato di Sakura Maku, Space Basket di Jonathan Petersen, Tintering di Conor Stechschulte, World in the Forcefield di Alexander Tucker, Freddy Stories di Melissa Mendes, Libby’s Dad di Eleanor Davis, Port Stanley di Steven Gilbert, Face Man di Clara Bessijelle.

Qui sotto trovate i link per abbonarvi. Ripeto, se vi interessa affrettatevi perché sarà possibile aderire SOLTANTO FINO AL 10/01/2018. L’offerta con queste modalità è valida per i soli residenti in Italia, se invece siete residenti all’estero e siete interessati potete contattarmi a justindiecomics [at] gmail [dot] com e vedrò cosa si può fare.

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Un pomeriggio con Steven Gilbert

(English text)

Steven Gilbert è un cartoonist canadese autore di Colville, graphic novel appena pubblicato in Italia da Coconino Press.

La carriera di Gilbert come autore di fumetti iniziò negli anni ’90, quando fece uscire sei numeri di I Had a Dream, più altri due albi, Gardenback The Cult of Gardenback, dove sviluppò i personaggi e le situazioni della serie precedente. Tra i due fumetti di Gardenback pubblicò Colville, un comic book di 64 pagine che ricevette alcune critiche positive al tempo. Ma dopo il 1998 il mondo dei fumetti perse le tracce di Gilbert, tanto che era praticamente impossibile trovare informazioni su di lui fino a qualche anno fa. La fonte più rilevante, se possiamo chiamarla in questo modo, è un post del 2011 sul sito Comics Comics in cui Frank Santoro incluse “il tizio che a metà degli anni ’90 fece un fumetto chiamato Colville in una lista intitolata Good Cartoonists Gone. Lo stesso Gilbert contribuì alla discussione scrivendo: “Wow, è bello che qualcuno si ricordi di me… Sono io il tizio che fece Colville. Mi fa piacere che ti sia piaciuto Frank. Ero un espositore alla SPX del ’98 e lì riuscii a vendere un po’ di copie di quell’albo. Disegno ancora fumetti quando riesco a trovarne il tempo, infatti ho completato tutto il secondo capitolo di Colville (circa 48 pagine) e 25 pagine del terzo sono disegnate e letterate. Un giorno o l’altro lo finirò e prenderò un tavolo al TCAF o qualcosa del genere. Dal 1999 sono stato impegnato a gestire il mio negozio di fumetti qui a Newmarket, Ontario, che ho chiamato Fourth Dimension. E questo occupa la gran parte della mia giornata. Purtroppo ho dovuto mettere il tavolo da disegno in secondo piano. E probabilmente mi riesce meglio vendere i fumetti degli altri piuttosto che fare i miei!”. Ma Gilbert tornò al fumetto nel 2013 con un libro di 128 pagine, The Journal of the Main Street Secret Lodge, che vinse un Dough Wright Award per il Best Spotlight Work l’anno successivo. E finalmente nel 2015 riuscì ad autoprodursi, dopo quasi due decadi di lavorazione, il volume di Colville, con le 64 pagine del fumetto originale e oltre 100 pagine di nuovo materiale che concludeva la storia.

Avevo scoperto l’esistenza di Colville su internet ed ero da tempo curioso di leggerlo, così quando il mio amico Francesco in arte Ratigher mi disse che aveva scritto una e-mail a Steven Gilbert per ordinare i suoi libri, io feci lo stesso e gli chiesi anche se potevo vendere qualche copia di Colville nel mio webshop. Ratigher scrisse una recensione di Colville qui su Just Indie Comics e da quel momento un sacco di gente ordinò il libro o mi chiese informazioni a proposito. Fu davvero strano vedere tanti lettori italiani interessati a un lavoro così oscuro, che era difficile da trovare anche in Nord America (a oggi Gilbert non ha un sito internet e i suoi libri non hanno distribuzione). Cominciai a scambiarmi qualche mail con Gilbert nei mesi successivi e prima di partire per il Canada per il Toronto Comic Arts Festival del 2016 gli chiesi se potevo intervistarlo e con l’occasione andarlo a trovare a Newmarket, una cittadina vicino Toronto dove vive e gestisce il negozio Fourth Dimension, al numero 237 della Main Street South. L’intervista ha avuto luogo lunedì 9 maggio 2016 alla presenza del mio amico Michele Nitri della Hollow Press e di Stacey, la fidanzata di Gilbert.

Dopo averla messa on line soltanto in inglese, mi sono finalmente deciso a tradurre l’intervista in italiano in occasione della pubblicazione nel nostro paese di Colville, uscito lo scorso 30 novembre grazie alla volontà dello stesso Ratigher, diventato nel frattempo direttore editoriale di Coconino. L’uscita del volume segna anche il debutto nel mondo dell’editoria vera e propria di Steven Gilbert, i cui fumetti mai erano stati pubblicati da una casa editrice ma sempre autoprodotti. Se non conoscete ancora il libro potete comunque leggere l’intervista, almeno fino al punto in cui trovate la frase “Ok, parliamo del libro di Colville adesso“. Da quel momento viene svelato qualche particolare della trama e se volete evitare fastidiose anticipazioni vi consiglio di fermarvi lì e magari tornarci una volta letto il fumetto. Dato che è stata realizzata più di un anno fa, l’intervista accenna soltanto a The Journal of the Main Street Secret Lodge vol. 2 (al tempo ancora in lavorazione) e trascura del tutto i lavori successivi come Port Stanley, in cui l’autore riprende lo stile dei suoi primissimi fumetti. Di entrambi trovate ancora alcune copie nel webshop. Nel frattempo buona lettura.

La Main Street a Newmarket, Ontario

Partiamo dall’inizio. Sei nato qui a Newmarket?

Non sono nato a Newmarket ma ho sempre vissuto qui, i miei genitori vivono a Newmarket e io non mi sono mai spostato.

E quando hai iniziato a leggere fumetti?

Ero molto giovane. Il mio primo ricordo che riguarda i fumetti risale a quando ero dal barbiere e vidi una pila di fumetti Archie e Disney con le cover strappate. Ma allora non mi attraevano granché. Da bambino mi piacevano i cartoni animati, guardavo sempre Bugs Bunny. Fino a una certa età forse ero più interessato all’animazione, poi a 9 anni sono stato operato alle tonsille e mentre ero in ospedale mia madre mi comprò un numero di Spider-Man. Credo che da lì mi sia venuto un vero interesse per i fumetti.

Beh, anche io leggo i fumetti da quando sono molto piccolo ma la vera fissazione mi è venuta leggendo una storia di Spider-Man, era un numero con il Doctor Octopus nel periodo di Bill Mantlo-Al Milgrom.

Certo certo, Al Milgrom… Il mio era un Marvel Team-Up con Spider-Man e il Doctor Strange.

Ok, e invece quando hai iniziato a disegnare?

Da bambino disegnavo parecchio, anche prima di appassionarmi ai fumetti. Mi piacevano i cartoni animati, così scarabocchiavo continuamente. Mio padre portava spesso della carta dall’ufficio, c’era l’intestazione da un lato così io utilizzavo la parte dietro del foglio. In quel periodo ero fissato con i ninja, mi piacevano i film di mostri e mi ricordo di essere stato ossessionato dai lupi mannari per parecchio tempo. Facevo tantissimi disegni di lupi mannari e mostri e roba del genere.

E questo sempre prima dei fumetti?

Sì, e quando ho scoperto i fumetti cercavo di riprodurne le copertine per provare a capire come funzionava quello stile lì. Poi verso i dodici o forse anche tredici-quattordici anni ho iniziato a fare i fumetti, o almeno a provarci. E’ stato al liceo che ho cominciato a disegnare dei comic book. Una volta mio fratello scrisse un soggetto per un sequel di The Dark Knight Returns di Frank Miller, era per un progetto scolastico. Quando ho capito che sarebbero state circa 30 pagine gli ho detto “Non disegnerò 30 pagine gratis”, così gli ho chiesto 200 dollari (ride). Penso che furono i miei genitori a dargli i soldi per pagarmi, quindi tecnicamente il progetto è stato finanziato da loro.

Ti ricordi ancora la trama?

No no, è stato tanto tempo fa, al liceo. Mi ricordo solo che cercavo di inchiostrare come John Totleben in Swamp Thing. Non sembrava un lavoro di Frank Miller, sembrava John Totleben. Dovrei ancora avere le tavole da qualche parte a casa ma non le ho più riguardate e non ho molta voglia di farlo. L’insegnante mi fece fare una dozzina di fotocopie e il pensiero che qualcuno possa averne ancora una mi terrorizza. Era veramente orrendo. Poi ricordo di aver fatto un fumetto utilizzando il personaggio di Travis Bickle interpretato da Robert De Niro in Taxi Driver e anche una storia con Grendel. Il mio sogno nel cassetto al tempo era che Matt Wagner mi ingaggiasse per disegnare Grendel.

Eri un fan di Matt Wagner?

Beh, leggevo Grendel quando avevo quattordici-quindici anni, ed era la prima lettura che si allontanava dai fumetti totalmente mainstream, perché in sostanza era un fumetto supereroistico ma per ragazzi più grandi. La cosa interessante è che Matt Wagner, che era un artista molto dotato, permetteva ad altri cartoonist di disegnare il suo personaggio e così io pensai “Può essere la mia grande chance”. Pensai anche di spedire i miei disegni a Matt Wagner ma non l’ho mai fatto. Il mio fumetto era una sorta di remake del film Die Hard ma con Grendel (ride). Sono abbastanza sicuro che il fumetto finisse con il personaggio che volava dalla cima di un edificio ed era totalmente ripreso dal finale di Die Hard, lo avevo visto circa un mese prima e mi era rimasto in testa.

E ti piaceva anche Sandman Mystery Theatre di Matt Wagner? Era uno dei miei fumetti preferiti negli anni ’90…

In realtà ne ho letto soltanto qualche pagina, sapevo che in quel periodo ci stava lavorando perché facevo il commesso in un negozio di fumetti ma non l’ho mai seguito veramente. E’ uscito in un periodo della mia vita in cui non leggevo la roba Vertigo perché ero preso dai fumetti alternativi.

Tornando al disegno, hai imparato da solo, giusto? Non hai frequentato una scuola d’arte o preso lezioni.

Al liceo avevo un professore d’arte che era molto aperto nei confronti del fumetto e mi incoraggiava a lavorarci. Infatti l’ho messo in Colville, dove ho disegnato una scena in cui ci sono il mio professore e il mio liceo. Beh, proprio due settimane fa me lo sono ritrovato qui nel negozio, qualcuno gli aveva mostrato il fumetto e lui è venuto da me per dirmi “Non mettermi più nei tuoi fumetti”. Secondo me era tranquillo fino a che non è arrivato alle ultime 40 pagine… Comunque sono stato fortunato a ricevere dei simili incoraggiamenti al liceo, anche se non ho mai avuto istruzioni specifiche, mi limitavo ad ispirarmi a più fumetti possibili, copiando e cercando di capire come mettere i diversi elementi sulla pagina.

E cosa è successo fino all’uscita di I Had a Dream #1? Lo hai pubblicato con la tua etichetta King Ing Empire nel giugno del 1995 ma tu facevi fumetti già da un po’ credo… Mi piacerebbe sapere che cosa c’è stato prima di quel comic book.

Ho cercato di mettere insieme un fumetto diverse volte. Avrò avuto circa 25 anni quando ho finito il primo numero di I Had a Dream, quindi era parecchio tempo dopo il liceo. Nel frattempo lavoravo a un negozio di fumetti e disegnavo qualche storia.

Ma solo per te…

Sì, è stato il mio campo di addestramento, ho disegnato centinaia di pagine di fumetti e illustrazioni ma non le ho mai mostrate a nessuno, forse solo a qualche amico. Lavorai a un paio di crime comic, delle specie di gialli che cercavo di capire come sviluppare, poi a un certo punto sono successi i fatti di cronaca che hanno ispirato Colville e ho pensato immediatamente “E’ questa la storia che voglio raccontare”.

E questo sempre prima di I Had a Dream.

Sì, era molto prima di I Had a Dream e già avevo disegnato una copertina per quella storia, anche se era una cover diversa sia da quella del comic book che da quella del volume di Colville, ma più simile alla seconda che alla prima. Al tempo pensavo che il fumetto si dovesse chiamare Warning Shot ma poi a un certo punto capii che non ero ancora in grado di realizzare ciò che avevo in mente, perché all’epoca non avevo mai provato a disegnare un fumetto più lungo di 25 pagine. Dovevo capire come funzionava una storia a fumetti. Ma poi un giorno un mio amico, uno che conoscevo da anni ma che non sapevo disegnasse fumetti, venne in negozio…

Come si chiamava?

Jason Williams.

Ah ok, immaginavo fosse lui, dato che il suo nome ricorre nei tuoi primi comic book.

Sì, così entrò in negozio e mi mostrò una storia di Spider-Man che aveva disegnato, e probabilmente era il peggior fumetto che avessi mai visto. Mi mostrò anche una lettera di rifiuto dalla Marvel. Dopo quel fumetto si dedicò a una serie chiamata Underterra e voleva pubblicarla anche se in realtà non era ancora pronto per un passo del genere. Mi diede le pagine del primo numero e mi chiese di correggerle. Quando le lessi mi resi conto che erano piene di errori, così scrissi un sacco di osservazioni e a un certo punto gli chiesi di farmelo disegnare da capo, proponendomi per riscriverlo insieme a lui e per inchiostrarlo. Ma alla fine pubblicò Underterra così com’era, con tutti gli errori. E ne stampò cinquemila copie a numero, distribuendo tutti e sei i comic book con la Diamond. Ma penso che alla fine riuscì a venderne una novantina di copie ad albo.

Quindi tutto ciò ti è servito da ispirazione? (ride)

Beh, ciò che ho preso da lui è stato fondamentalmente… il nome della tipografia (ride). Mi ha dato questa informazione e così ho pensato “Se questo tizio può fare un fumetto, è meglio che muova il culo per farne uno anch’io”. Avevo già una prima bozza dei primi tre comic book di I Had a Dream ma avevo disegnato ogni storia in un giorno. E così li ho completamente rifatti. Se ci ripenso, adesso non sono per niente soddisfatto del risultato e probabilmente non avrei dovuto pubblicarli, ma al tempo mi aiutarono a imparare a fare fumetti. Comunque penso che ci sia un bel salto nel quarto, quinto e sesto numero, in cui sono riuscito a mettere davvero le mie idee sulla pagina, e a disegnare meglio. Dopo questi sei numeri capii di aver finito con quel materiale, e pensai di essere pronto per lavorare a Colville. Ma poi feci un grosso poster per un mio amico, come regalo di compleanno, ed era un fumetto gigante con tipo 40 vignette. E divenne il primo Gardenback, che alla fine pubblicai prima di Colville.

“I Had a Dream” #1, giugno 1995

Se guardiamo i primi tre numeri di I Had a Dream, si nota che seguono gli stessi schemi delle newspaper strip, perché ci sono questi “tizi” che si confrontano in un’altra dimensione, con una serie di situazioni che possono ricordare Krazy Kat, o anche qualche cartone animato.

Sono sicuro che Krazy Kat non ebbe alcuna influenza su di me al tempo, ma come ho detto prima adoravo i cartoni della Warner e i Looney Tunes in particolare, con la loro violenza assurda, gli oggetti che vanno a sbattere tra loro, i muri che vengono abbattuti e così via… Sicuramente mi hanno influenzato. Vedi, i primi I Had a Dream erano molto nonsense, ero un grande fan di Chester Brown e mi ricordo di aver letto un’intervista in cui parlava del suo processo creativo e diceva di disegnare vignetta dopo vignetta, senza avere un’idea generale…

Sì, come in Ed The Happy Clown

Esatto, e così volevo lavorare anch’io in quel modo.

Poi con I Had a Dream #4 hai iniziato Slipstream, una storyline in due parti molto diversa dai lavori precedenti, che univa Roswell, i russi, le sperimentazioni sulla mente e le teorie della cospirazione. Lo avevi programmato sin dall’inizio?

Assolutamente no. Probabilmente stavo guardando troppi episodi di X-Files e leggendo libri sull’omicidio di Kennedy, ho letto 40-50 libri sull’argomento. Quando avevo 20 anni ero ossessionato dalle teorie della cospirazione, quei temi prendevano gran parte della mia attenzione allora e in qualche modo sono stati i fumetti a farmi interessare ad altro. Dopo aver fatto quei fumetti non me ne è importato più nulla, come se in qualche modo fosse finito un periodo della mia vita.

Tra Gardenback e The Cult of Gardenback hai pubblicato l’albo di Colville, giusto? Se non sbaglio dovrebbe essere del 1997.

Sì, all’inizio doveva essere molto più breve, circa 25 pagine, e doveva concentrarsi solamente sull’episodio ambientato nel cortile della scuola. Era vagamente basato su un vero episodio di cronaca nera, avevo ritagliato l’articolo sul giornale quando era successo perché mi ricordo di averlo letto e di aver pensato “Potrebbe essere un bel fumetto”. Ma quella era solamente l’ossatura, la storia infatti cominciò a crescere intorno all’episodio della sparatoria nel cortile. A quel punto pensai di fare un fumetto di 64 pagine e in breve tempo ebbi già un’idea approssimativa sia della storia che di come disegnarla. Andai a Keswick, una cittadina a 20 minuti da Newmarket dove quei fatti erano realmente accaduti. Il mio amico Jason Williams aveva vissuto lì, quindi conosceva bene la zona e così facemmo un po’ di foto da usare come riferimenti per il fumetto.

Usi parecchi riferimenti fotografici, vero?

Sì, fanno parte del mio metodo, perché non scrivo sceneggiature…

Mai?

Ci ho provato ma sempre senza successo, quando finisco e poi rileggo una sceneggiatura tradizionale con la descrizione delle vignette, i dialoghi e così via, di solito le idee mi sembrano stupide e non riesco più a usarle. L’unico modo in cui riesco a fare fumetti è mettermi seduto a disegnare. Il mio processo di scrittura è la creazione del fumetto.

Le 64 pagine del comic book di Colville del 1997 sono esattamente le prime pagine del volume del 2015 o hai cambiato qualcosa?

Sì, le 64 pagine del graphic novel sono le stesse del comic book, tranne che per una o due piccole revisioni dei disegni.

Quel fumetto era molto diverso da I Had a Dream. Dentro si sentiva qualcosa di nuovo, come se l’ispirazione venisse più da alcuni film che da altri fumetti o dalle teorie della cospirazione. Mi sembra di ritrovarci l’atmosfera di alcuni film americani degli anni ’70 o dei primi ’80, penso a registi come Brian De Palma, Martin Scorsese o anche il David Lynch di Blue Velvet.

Colville interior 1

Di solito nego di essere influenzato da cose specifiche e non penso che per i fumettisti sia una buona idea guardare al cinema, perché i fumetti sono una cosa a sé. Ma, detto questo, al tempo ero un grande fan di David Lynch e in particolare di Blue Velvet, che in fondo era una crime story perversa ambietata in una piccola città. Ero anche un grande appassionato di Twin Peaks e posso raccontarti un piccolo aneddoto a questo proposito. Ho deciso per il titolo Colville per l’artista canadese Alex Colville, anche se in realtà non c’è una diretta correlazione visiva con il fumetto, è più una cosa legata all’atmosfera. Ma c’è una scena in Twin Peaks, quando stanno parlando di dove si trova Twin Peaks – è un bel po’ da quando l’ho visto l’ultima volta ma il dialogo dovrebbe dire più o meno “All’angolo nord-est dello stato di Washington, al confine con il Montana e proprio sotto il confine canadese”. Non so bene perché ma un giorno mi sono messo a guardare su una mappa cosa c’era lì e ho scoperto che c’è una città che si chiama Colville. Puoi guardare sulla mappa, non è uno scherzo. Allora avevo già disegnato il comic book di Colville e così ho pensato “Beh, le forze dell’universo stanno lavorando insieme…” (ride). Questo a proposito dell’influenza di Lynch, per quanto riguarda Brian De Palma beh, ho dedicato il graphic novel a Brian De Palma e Nick Cave, il primo soprattutto per l’uso della carrellata nei suoi film. Sono un po’ fissato con le carrellate quando guardo i film… Il secondo capitolo del libro inizia con il personaggio che registra con la telecamera, quindi puoi leggere l’intero capitolo come una lunga carrellata, come se la telecamera non se ne andasse mai.

Ok, torneremo su Colville più tardi, quando arriveremo ai giorni nostri. Ora vorrei parlare della tua lunga pausa creativa, se per te non è un problema. In meno di tre anni, dal giugno 1995 all’aprile 1998, hai pubblicato sei numeri di I Had a DreamGardenback, il comic book di Colville e The Cult of Gardenback. Poi tra l’aprile del 1998 e il 2013…

Niente!

Sì, esatto (ride). Niente fino a The Journal of the Main Street Secret Lodge, che è appunto uscito nel 2013. Quindici anni sono una lunga pausa.

Quando finii le 64 pagine del comic book di Colville, mi resi conto che c’era ancora spazio per sviluppare quei temi. Inizialmente consideravo Colville come una storia autoconclusiva di 64 pagine e basta, ma poi quando ero a due terzi della lavorazione cominciai a pensare che fosse il primo capitolo di qualcosa di più lungo. Ma volevo anche sviluppare i fumetti di Gardenback e così pensai di alternare i due progetti, pubblicando ogni anno un albo dell’uno o dell’altro. Quando realizzai The Cult of Gardenback nel 1998, riuscii a disegnarlo, pubblicarlo e poi venderlo attraverso la Diamond abbastanza in fretta…

Hai utilizzato la Diamond sin dal primo numero di I Had a Dream, giusto? E anche la Capital City Comics al tempo.

Sì, all’inizio i miei fumetti venivano distribuiti anche attraverso Capital City ma poi la Diamond ha inglobato tutto. Comunque, dopo la pubblicazione di The Cult of Gardenback iniziai a lavorare al secondo capitolo di Colville. Nei miei piani il mio prossimo fumetto doveva essere Colville #2. Nel frattempo lavoravo a un negozio di fumetti, The Comic Wizard qui a Newmarket, proprio dall’altra parte della strada rispetto a dove siamo noi adesso. Sì, tutta la mia vita è in questo angolo di strada praticamente (ride)… Mentre ero lì, il negozio cambiò proprietà ma io continuai a lavorarci. Il nuovo manager entrò nel dicembre 1996 ma era un periodo difficile per gli affari e il negozio non andava affatto bene. Tenne il negozio per un paio d’anni cercando di mantenerlo in vita. A un certo punto pensai di comprare il negozio ma poi dovetti rendermi conto che non ce la potevo fare. Quindi stavo per rimanere senza lavoro e non avevo assolutamente le capacità per lavorare nel mondo reale. L’unica cosa che avevo fatto fino a quel momento era vendere fumetti, così decisi di aprire il mio negozio di fumetti.

Fourth Dimension, il negozio di fumetti di Steven Gilbert

Quindi hai aperto Fourth Dimension dopo la chiusura di The Comic Wizard?

Sì, quasi contemporaneamente. A un certo punto divenne chiaro che il negozio stava per chiudere nel giro di un paio di settimane, così affittai subito il locale, chiamai i distributori e tutto il resto. Ma il proprietario di The Comic Wizard tentò di mandare avanti le cose e ci fu un periodo molto strano in cui io avevo già aperto il mio negozio ma anche lui era ancora aperto.

Quindi c’erano due negozi? (ride)

Sì, nello stesso isolato, nella stessa strada. Ma uno stava chiudendo e l’altro aveva appena aperto… Dunque ciò che successe con i fumetti, beh, non avevo mai lavorato così duramente in vita mia, iniziare da capo un’attività imprenditoriale era da pazzi, soprattutto perché lo stavo facendo da solo. Il mio programma era mettere da parte i fumetti per sei mesi e poi dedicarmici di nuovo. Ma mandare avanti il negozio era davvero difficile, alla fine della giornata ero esausto e quando tornavo a casa non riuscivo a mettermi a disegnare. Quel periodo di sei mesi divenne di due anni e poi di tre, quattro, cinque… Mi ricordo di aver tirato fuori le tavole con l’intenzione di finirle diverse volte ma poi le guardavo per venti minuti con la matita in mano senza disegnare nemmeno una riga. E così le rimettevo al loro posto. A volte passava un anno prima che le tirassi fuori di nuovo. Successe nel 1999, nel 2000, nel 2001 e andò avanti nello stesso modo per diversi anni. Facevo ancora qualche disegno e qualche caricatura dei clienti del negozio per il mio divertimento, ma non fumetti.

E i paesaggi? Ci sono parecchi paesaggi in The Journal of the Main Street Secret Lodge, ci hai lavorato in quegli anni? 

No, non disegnavo nemmeno paesaggi. Non lo so in realtà, ma facevo più che altro disegni che poi buttavo. A un certo punto mi ricordo di aver capito di non essere più un fumettista, perché era troppo tempo che non facevo un fumetto. Ma poi, dopo qualche anno, mi venne l’idea di fare le fanzine Journal of The Main Street Secret Lodge e ripresi a disegnare seriamente. Sarà stato più o meno il 2003 quando stampai la prima, solo per divertimento, per darla agli amici e ai clienti. Forse ne fotocopiai un altro paio anche prima, erano come dei bollettini dei mercanti. Mi interessava soprattutto l’aspetto storico della Main Street, i palazzi, l’atmosfera. Iniziai a pubblicarle con una certa regolarità, creando piccole storie sul capitano Woodrow Gilbert e sulle sue avventure. Seguivo grosso modo la stessa formula, con dei tizi cattivi che venivano a Newmarket per derubare la banca e con Woodrow che arrivava per fermarli e ucciderli. Lo facevo esclusivamente per il mio divertimento. Poi cominciarono a diventare sempre più ambiziose, cambiai formato, ne pubblicai alcune più grandi, alcune arrivarono ad avere 24 pagine, altre 36, 48 e così via…

Quante di queste fanzine pensi di aver pubblicato in totale?

Penso di averne fatte altre cinque o sei dopo la prima del 2003. L’ultima era ancora fotocopiata ma era di 84 pagine, ci misi circa un anno per finirla. Aveva tantissime illustrazioni e un racconto interamente letterato a mano. Era una pazzia fare una cosa del genere e fotocopiarla e basta. Un giorno uno dei miei clienti, che faceva anche lui fumetti negli anni ’80, venne in negozio e mi diede una lettera di tre pagine in cui fondamentalmente diceva “Sei un idiota a non fare fumetti perché questa roba che stai facendo è grandiosa ma non è ciò che dovresti fare” (ride). E io risi e basta, perché quelle fanzine erano solo per me stesso, non mi interessava che la gente le leggesse, le facevo solo per la mia soddisfazione personale, per fare qualcosa di creativo. Ma fu in quel momento che ebbi l’idea per The Journal of the Main Street Secret Lodge. In realtà era un’idea che avevo in mente da quando stavo lavorando a Colville, già avevo pensato a questa rapina in banca da raccontare come se fosse un western, utilizzando Newmarket come sfondo. E rimase nella mia testa per anni. Poi scoprii di quell’articolo sul sito Comics Comics, probabilmente trovando il link su un altro sito che stavo guardando, perché a quel tempo non usavo granché internet, non avevo nemmeno mai cercato niente su Google credo (ride).

A Gilbert's zine from 2003

Una fanzine del 2003

Quindi già conoscevi il sito Comics Comics?

No, non avevo mai visto quel sito prima. L’unica cosa che sapevo è che Comics Comics era una rivista, fecero un paio di numeri che avevo avuto in negozio ma che finirono ancor prima che li leggessi. Non sapevo che Frank Santoro fosse coinvolto ma lo conoscevo per i suoi fumetti, come Storeyville, di cui ero un grande fan. Comunque penso di averlo visto sul sito di Heidi MacDonald, The Comics Beat, c’era questo link che diceva qualcosa come “Su Comics Comics Frank Santoro ha scritto un articolo sui cartoonist degli anni ’90 di cui non si hanno più notizie”. Mi ricordo che mossi il cursore sul link pensando “Se il mio nome è in quella lista me la farò sotto”. Poi cliccai e lessi “Il tizio che ha fatto Colville“. E allora pensai “Cazzo, se sono in questa lista significa che qualcuno si ricorda dei miei fumetti”. E così capii, fu come un interruttore che si accese nella mia testa dicendomi “Devi fare un altro fumetto”. E a quel punto iniziai a lavorare seriamente a The Journal of the Main Street Secret Lodge.

Era il 2011, giusto?

Penso di sì, non sono così bravo a catalogare le cose nella mia testa. Comunque iniziai a disegnare con l’idea di fare un’altra fanzine fotocopiata. La precedente era fatta di 21 fogli messi insieme, spillati e poi ripiegati per formare 84 pagine, più la copertina. Dovetti spillare alcune fanzine tre volte e fu veramente una rottura. Così pensai che 84 pagine erano il limite massimo e mentre ci lavoravo stavo molto attento a quanto disegnavo. Ma poi arrivai a 70 pagine, quindi a 75, 80 e così via e iniziai a preoccuparmi. Alla fine vennero fuori 130 pagine e quando le mostrai al mio amico Eddie mi disse “Questa roba deve diventare un libro, non può essere soltanto una stronzata fotocopiata che metti vicino alla cassa regalandola alle persone che entrano in negozio”.

Hai mai considerato l’idea di proporlo a un editore o te lo sei voluto autoprodurre sin dall’inizio?

Non ho mai pensato seriamente di mandarlo a qualcuno, l’autoproduzione era la mia sola opzione. Pensai a qualcosa tipo print on demand o a una tiratura molto bassa, perché in precedenza avevo venduto un centinaio di fanzine fotocopiate, così mi sembrava sensato fare 100 copie anche questa volta. Feci un sacco di ricerche sul print on demand ma quando ne parlai con qualcuno ai festival sembravano tutti insoddisfatti del risultato, mi parlavano di problemi con la rilegatura, la colla e via dicendo. Mentre facevo queste ricerche, trovai da qualche parte il nome della tipografia con cui avevo lavorato 15 anni prima e pensai per la prima volta di fare una vera e propria stampa in offset. Contattai lo stesso tipo con cui avevo parlato in passato ma avevo una vecchia e-mail perché a un certo punto aveva cambiato tipografia, ma ogni tanto controllava anche quel vecchio indirizzo e dopo un po’ mi rispose. Mmm, non so dove sto andando a parare con questa risposta…

Beh, penso che siamo arrivati al punto in cui hai deciso di stampare in offset.

Giusto! (ride). Beh, un fattore importante era il prezzo, perché stampare in offset significa fare almeno 1000 copie, quindi è un po’ un investimento piuttosto che fare un centinaio di copie con il print on demand. Ma poi scoprii che i costi del print on demand erano molto alti, il libro sarebbe venuto 9 dollari a copia, più 2 dollari per spedire in Canada perché la tipografia era negli Stati Uniti, così dovevo pagare 11 dollari a copia più il cambio, mentre 1000 copie in offset sarebbero costate 2200 dollari canadesi. Era davvero un buon affare. Così a quel punto pensai “Ok ho deciso, lo stamperò sul serio”.

“The Journal of the Main Street Secret Lodge”

Quel libro vinse il Dough Wright Award per Best Spotlight Work, giusto?

Sì, fu tutto un po’ strano, perché inizialmente lo vendevo soltanto qui nel negozio, vicino alla cassa. Avevo già pensato di andare al Toronto Comic Arts Festival l’anno seguente ma non pensavo proprio di proporre il libro per i Dough Wright Awards. Poi un mio amico, che vive a Winnipeg e che aveva già una copia del Journal, mi disse che ci sarebbe stato un firmacopie di Chester Brown da quelle parti nel giro di un paio di giorni e io gli dissi “Maledizione, mi piacerebbe dare una copia a Chester ma non riuscirò mai a spedirtene una in tempo”. Lui allora mi propose di dargli la sua copia, tanto io potevo mandargliene un’altra con calma, così gliela consegnò. E Chester fu molto contento di scoprire che avevo fatto un nuovo fumetto.

Già avevi incontrato Chester Brown prima di allora? 

Sì, lo conoscevo ma in maniera molto formale, lo avevo incontrato a delle sessioni di autografi e gli avevo parlato. Lui conosceva già i miei fumetti degli anni ’90. Non so quanti giorni passarono ma dopo un po’ ricevetti questa telefonata al negozio ed era Chester che si voleva complimentare con me per il fumetto. Inoltre mi disse che era nella giuria che assegnava le nomination per i Dough Wright Awards e che se volevo potevo spedire cinque copie del Journal ai membri del comitato. Mi raccontò anche che aveva cercato di comprarne qualche copia a The Beguiling a Toronto ma non ce l’avevano e non sapevano come procurarselo. E allora io gli dissi “Lo so io come trovarne delle copie, ne ho centinaia negli scatoloni” (ride).

Quindi fino a quel momento non avevi nemmeno portato delle copie a The Beguiling.

No, in realtà chiamai Peter di The Beguiling proprio dopo quella telefonata con Chester per chiedergli se ne volesse delle copie e lui mi disse di sì. Poi, quando uscirono le nomination dei Dough Wright Awards 2014, il mio nome era sulla lista insieme a quello di altri cartoonist decisamente bravi. E fu molto strano per me, quasi non ci credevo che il mio nome fosse accanto a quello degli altri autori. I tipi dei Dough Wright Awards mi invitarono al party al TCAF perché ero stato nominato e a quel punto pensai “Beh, sembrerebbe brutto non andarci quando sei nominato e sei anche un espositore del festival”. E ti riservano dei posti nelle prime file in una specie di area VIP, ma io volevo sedermi in fondo perché pensavo sarebbe stata una facile via d’uscita dopo la premiazione. Alla fine quando andammo là con Stacey ci sedemmo a metà della sala ma comunque non nell’area VIP, per qualche motivo non mi sembrava opportuno…

Hai trovato un compromesso…

Sì sì, tra la metà e il fondo a dire il vero… Poi fu abbastanza surreale ciò che successe. Nella categoria in cui ero stato nominato c’erano altri quattro cartoonist che trovo eccezionali, c’erano Dakota McFadzean, Connor Willumsen e… Oddio, non mi ricordo…

Ma la categoria Best Spotlight Work è per i cartoonist giovani, giusto? (ride)

Sì, era per autori emergenti, e la cosa sembrava un po’ una barzelletta, era divertente in qualche modo. Ma se guardi la pagina dei premi, non c’è nessun requisito di età, quindi la categoria è per cartoonist emergenti ma non devono essere giovani. Non ero nervoso per la nomination finché non arrivai lì, dopo fu veramente terribile. Qualche giorno prima della premiazione, Stacey mi guardò e mi disse “Vincerai” ma a me sembrava del tutto impossibile. Ma si vede che lo sapeva.

Il premio però non ha cambiato il tuo stile, perché dopo hai continuato a lavorare, hai anche finito Colville ma non hai comunque pensato di proporlo a qualche editore.

Beh, non per divagare, ma quando uscì il comic book di Colville nel 1997, spedii delle copie a Seth e Chester Brown, e Seth mi rispose con una cartolina su cui scrisse “Dovresti mandarlo a Chris Oliveros della Drawn & Quarterly, penso che gli piacerebbe dargli un’occhiata”. Così mandai una copia a Chris Oliveros e lui mi rispose dicendomi che pensava che ci fossero delle cose valide nel mio fumetto, chiedendomi di tenerlo informato sui miei progetti futuri. Ovviamente subito dopo smisi di fare fumetti per diversi anni. Ma probabilmente la Drawn & Quarterly è il mio editore di fumetti preferito e mi sentivo come se le mie cose non fossero al loro livello. Una parte di me sente che i miei fumetti non sono abbastanza validi per essere pubblicati dagli editori che mi piacciono…

Dai, ma lo pensi veramente?

Forse sì, sai, mi piace la Drawn & Quarterly, mi piace la Fantagraphics, mi piace Conundrum, mi piace la Koyama Press e forse tra qualche giorno al TCAF darò a tutti loro delle copie dei miei libri, non so… So che alcuni di loro sanno chi sono ma non mi sono mai fatto avanti. Forse potrei provarci con il prossimo Journal, perché in fondo mi piacerebbe avere una distribuzione più ampia per i miei fumetti. Ho anch’io un po’ di ego e mi piacerebbe che la gente potesse avere accesso ai miei libri in maniera più facile rispetto a trovare la mia e-mail in fondo a una recensione. Ma mi piace anche l’autoproduzione perché è in tutto e per tutto una mia creazione, non devo cambiare niente che non abbia voglia di cambiare, ogni riga può essere qualsiasi riga che io voglio che sia. Mi fa anche piacere che sia Colville che The Journal abbiano raggiunto il pareggio, hanno venduto abbastanza copie in negozio, al TCAF e a una manciata di altri posti per coprire i costi di stampa. E in fondo era questo il mio obiettivo, quando feci The Journal pensai “Se un giorno o l’altro recupererò i costi di stampa, posso considerarlo un successo commerciale”.

Hai delle ambizioni tutt’altro che sfrenate…

Non so, non ho nemmeno proposto i miei nuovi libri alla Diamond, forse per paura di un possibile rifiuto, per timore che la Diamond mi risponda “I tuoi fumetti non sono così validi da essere distribuiti…”.

Beh, ma in ogni caso non dovresti preoccuparti dell’opinione della Diamond!

Ma la Diamond rappresenta una strada importante nelle fumetterie del Nord America e di tutto il mondo, ogni negozio di fumetti in lingua inglese ordina dalla Diamond. Cioè, a me non interessa un giudizio estetico da parte della Diamond… Ok, troverò il tempo per farlo, ho le informazioni per contattarli, quindi penso che prima o poi lo farò.

A proposito dei contenuti di The Journal of the Main Street Secret Lodge, il protagonista è il Capitano Woodrow Gilbert. E’ basato su una persona realmente esistita?

Ormai esiste davvero nella mia testa. A dirla tutta, il personaggio è completamente rubato da Lonesome Dove, una miniserie tv con Tommy Lee Jones e Robert Duvall. E’ un western, ed è probabilmente il miglior western che io abbia mai visto. E’ basato su un romanzo con lo stesso titolo di Larry McMurtry. In Lonesome Dove il protagonista è un cowboy, un ex Texas Ranger che si chiama Captain Woodrow F. Call. I personaggi vanno dal Messico al Montana per mettere su un ranch e la storia racconta questa lunghissima transumanza. Dopo aver visto la serie scherzavo sempre con il mio amico che ora è a Winnipeg, James, dicendo che avrei chiuso il negozio per andare in Messico a comprare cinquemila bovini da portare fino in Montana. I due personaggi di Lonesome Dove sono Woodrow e il suo amico Augustus e a quel tempo mi ero convinto che se non attuavo questo piano era solo perché non sapevo se fossi Woodrow o Augustus. Poi un giorno James mi guardò, come se stesse valutando sul serio la domanda, e mi disse “Tu sei Woodrow”. Così mi venne la bizzarra idea di questo mio lontano parente che era un ex Texas Ranger e che aveva fatto questa lunga transumanza, per poi spostarsi in età matura dal Montana a Newmarket, facendo del Northern American Hotel sulla Main Street il suo quartier generale. E alla fine divenne il personaggio del mio libro. L’idea del personaggio è dunque ripresa totalmente da Lonesome Dove anche se mi sembra di aver raggiunto un risultato diverso alla fine.

Il volume raccoglie la storia principale con Woodrow protagonista ma anche paesaggi, un testo scritto a mano che parla di rapine in hotel, dei ritratti di donne a firma William Bobo…

Beh, cerco di soddisfare qualsiasi interesse…

Sì, c’è un po’ di tutto. Ma pensi che la vera protagonista sia Newmarket?

Sì, penso di sì, e più il tempo passa e più mi rendo conto che il motivo principale per cui mi piaceva lavorare a The Journal era perché così potevo disegnare la città. E c’è ancora più enfasi su questo aspetto nel secondo volume, su cui sto lavorando in questo periodo, sarà un vero diario di viaggio, una rappresentazione visiva della città ma anche di molto altro. E’ un volume di 250 pagine e circa 150 rappresentano una sorta di tour del paese, la gran parte degli sfondi vengono da riferimenti reali di posti che si trovano qui a Newmarket.

Hai cercato dei riferimenti fotografici o iconografici per descrivere la Newmarket del passato?

Ho tantissimo materiale sulla storia della città e un sacco di riferimenti visivi. Vivo qui da sempre e quindi è stato davvero facile capire come sarebbe stato questo viaggio attraverso la città. Potrei sedermi, chiudere gli occhi e riconoscere esattamente ogni angolo, ogni posto. Non è difficile trovare le diverse location, vivo qui e quindi posso uscire e andare a fare delle foto se mi serve qualcosa.

Zines and comics by Steven Gilbert

Fanzine e comic book di Steven Gilbert

Ok, parliamo del libro di Colville adesso. Credo che la storia sia molto più forte letta tutta insieme perché la reiterazione della scena chiave è molto importante e dà forza all’intero lavoro. Quest’idea non era già nel primo comic book, giusto? 

Quando mi venne l’idea di lavorare al seguito del primo comic book, non avevo nessuna soluzione visiva per dare unità alla storia. In quelle prime 64 pagine a un certo punto feci comparire Paul Bernardo, che fu una cosa molto spiacevole, perché era una persona reale, un vero serial killer e stupratore seriale dell’area di Toronto nei primi anni ’90. Il suo giocattolo preferito era la telecamera, e quando decisi che Bernardo avrebbe avuto più spazio nel secondo e nel terzo capitolo, mi venne l’idea di ripetere la scena del crimine, per cui utilizzare questo tizio tra i cespugli che registrava sembrò la cosa giusta da fare. Lui faceva veramente cose del genere, seguiva la gente, li riprendeva e così via. Colville è una storia in tre parti ma in origine stavo lavorando su un’altra parte, un capitolo in cui venivano mostrati i poliziotti che investigavano. Disegnai circa 25 pagine e poi le scartai perché si allontanavano troppo dalla ripetizione visiva del crimine. Quando le disegnai la seconda volta divennero simili al film Rashomon, dove viene mostrato lo stesso crimine da quattro prospettive diverse. E fu molto utile per sviluppare la trama coinvolgendo al tempo stesso gli altri personaggi.

Sì, è interessante perché questa soluzione crea un legame tra le diverse vicende, e questo mi fa pensare di nuovo alla città come vera protagonista della storia.

Mi sforzo parecchio per rendere l’ambientazione una parte del racconto, mi piacciono le storie che parlano di zone specifiche, in cui lo spettatore segue le vicende dei personaggi ma ha anche la possibilità di guardare i paesaggi, scoprire la geografia del posto e così via.

E la storia non parla soltanto della città ma anche dell’organizzazione criminale della città, come dice il titolo del libro spedito da Tracy insieme all’adattamento di Twilight of Superheroes, un fumetto inedito di Alan Moore…

Sì, lo chiamo il finale alla Watchmen

Infatti è molto simile, e ti volevo proprio chiedere qualcosa a questo proposito. Volevi che fosse soltanto una citazione o hai volutamente riscritto la sequenza finale di Watchmen?

Non ho consapevolmente pensato a un riferimento diretto. C’era un periodo anni fa, negli anni ’90, quando mi piaceva fantasticare di tanto in tanto sul finale della storia e immaginavo una scena in cui Tracy mandava le tavole all’autore del vero libro, cioè a me. Infatti sin dall’inizio il ragazzo doveva disegnare questo fumetto sulle attività criminali della città, ma poi a un certo punto pensai di lasciar perdere perché volevo ambientare la scena in cui Tracy spediva il fumetto in un ufficio postale e avrei avuto bisogno di scattare delle foto per poterlo disegnare, e mi sembrava complicato mettermi a fare delle foto alle poste…

E quindi hai usato la cassetta delle lettere…

Sì, ho capito che potevo farlo senza dover disegnare un ufficio postale. Il titolo del libro, Nomenclature of a Small Town Criminal Organization, è un piccolo tributo al mio periodo JFK, c’era questo libro autoprodotto che avevo comprato – era un libretto fotocopiato che si poteva ordinare solo per posta – si chiamava Nomenclature of an Assassination Cabal e io ho sempre pensato “Che cazzo di titolo fantastico”. E così questa semplice idea di Nomenclature of a Small Town Criminal  Organization era un piccolo dettaglio che mi è rimasto in mente per 10 o forse 15 anni. Ma poi quando lo stavo disegnando ho pensato “E’ molto simile al finale di Watchmen“.

E questa nomenclatura è in fondo il libro stesso, pagina dopo pagina il lettore incontra criminali sempre più malvagi, all’inizio abbiamo David, poi Van, quindi Alan Gold e infine Paul, il più inquietante di tutti… Hai pianificato dall’inizio questa sorta di crescendo?

Non avevo l’idea di creare un’escalation, no… Ma forse una delle ragioni per cui non sono riuscito a lavorare al libro per così tanto tempo è che il finale che avevo deciso mi metteva davvero a disagio. Inizialmente avevo già pianificato di dedicare dieci pagine a Paul Bernardo nel seminterrato con la ragazza ma mi sembrava di non essere in grado di disegnare delle scene così tremende, così è come se mi fossi rifiutato di finire il libro per tutto questo tempo. E’ un argomento orribile.

Colville interior 2

Ma avevi deciso che questo argomento dovesse essere nel tuo libro.

E’ strano perché avrei potuto cambiare la storia e fare qualcosa di diverso, ma anni fa avevo deciso che il finale sarebbe stato quello, quindi per me non c’era realmente la possibilità di fare delle modifiche.

Potrebbe essere un altro motivo per cui avevi smesso di fare fumetti… 

Sai, aprire il negozio è stato probabilmente il motivo principale ma mi sembrava anche di non avere ciò che mi serviva, qualunque cosa fosse, per disegnare quelle pagine, era materiale terribile per me. Avevo letto dei libri su Paul Bernardo e quindi sapevo quanto fossero tremendi quei crimini, così quando iniziai a utilizzare quel materiale nella storia di fantasia del fumetto, facendo diventare il personaggio della ragazza una vittima di Bernardo, capii che non sarebbe stato piacevole da disegnare. Non volevo che fosse eccitante, volevo che fosse orribile. E mi sentii orribile a disegnarlo, e ho parlato con persone che hanno trovato orribile leggerlo, quindi suppongo di aver raggiunto l’obiettivo se è possibile dire una cosa del genere.

Quindi finire il libro è stata una sorta di liberazione?

Sono felice di averlo finito e non ho alcun interesse a fare di nuovo quel genere di storia lì. Le storie di The Journal of The Main Street Secret Lodge hanno dei momenti violenti e piuttosto cruenti ma al tempo stesso c’è anche una componente di divertimento e di gioco, non vanno prese sul serio per la gran parte.

Sì, e anche i disegni sono molto diversi, Colville è più realistico.

Beh, a mio parere Colville è la cosa migliore che io abbia mai disegnato. Mi piacciono molto anche alcune pagine del prossimo Journal ma non penso che lavorerò così tanto a un altro fumetto come ho lavorato a Colville.

Immagino che le pagine di Colville abbiano richiesto una lavorazione più complessa rispetto a quelle del Journal, il tratteggio è molto dettagliato, soprattutto nella seconda e nella terza parte. E il tratteggio è una sorta di marchio di fabbrica per te.

Le tavole di Colville sono state disegnate per la gran parte in formato più grande e sì, ci ho messo una vita per farle. Per quanto riguarda il tratteggio, beh, non lo consiglierei a nessuno. Alcune volte i fumettisti mettono un sacco di linee sulla pagina per mascherare il fatto che non sanno disegnare. Ma nei miei fumetti i disegni brutti sono sotto gli occhi di tutti. Non c’è l’intenzione di nascondere i disegni mal riusciti, ho scelto di usare il tratteggio per creare una sorta di atmosfera. Forse nei miei primi fumetti il disegno era più stilizzato, poi è diventato più realistico e ora sto tornando a qualcosa di più stilizzato nel prossimo lavoro. Lo stamperò nei toni del grigio, disegnando in strati separati bianchi e neri, un processo diverso da quanto ho fatto in passato. Spero che sia un cambiamento positivo, anche se sono sicuro che il libro che farò dopo il nuovo Journal avrà un sacco di tratteggio, probabilmente più di tutti gli altri.

In pratica stai andando avanti e indietro…

Sì, penso proprio di sì. (ride).

Steven Gilbert nel suo negozio

Un’intervista a Conor Stechschulte

(English text)

In occasione della prossima imminente edizione di BilBOlbul, dal 24 al 26 novembre a Bologna, Conor Stechschulte sarà protagonista di una mostra intitolata Il peso dell’acqua, che inaugurerà presso la galleria Spazio & il 24/11 alla presenza dell’autore, per poi prolungarsi fino al 20 dicembre. Negli stessi giorni troverà pubblicazione in Italia per 001 Edizioni I dilettanti, traduzione di The Amateurs, graphic novel edito nel 2014 da Fantagraphics dopo una prima versione autoprodotta. E a breve è prevista inoltre l’uscita del terzo capitolo di Generous Bosom, la serie che il cartoonist americano sta realizzando per gli inglesi di Breakdown Press.

Per presentare Conor al pubblico italiano gli abbiamo rivolto qualche domanda sulla sua formazione, le sue opere e il suo processo creativo. L’intervista è stata realizzata via e-mail tra settembre e ottobre 2017 da Alessio Trabacchini e Gabriele Di Fazio, cui si è aggiunta in seguito Elisabetta Mongardi. La traduzione in italiano è di Mauro Meneghelli. Buona lettura.

The Amateurs mostra la tua capacità di far scorrere il mistero nel quotidiano, sembra che attraverso i vari personaggi (nella storia principale e nella cornice) la storia illustri diverse modalità di rapportarsi all’elemento misterioso e non razionale dell’esistenza. Non sappiamo se sei d’accordo con questa lettura ma vorremmo cominciare proprio dal tuo rapporto con questo elemento e da come pensi che possa essere trasmesso, mostrato o evocato attraverso l’arte.

Le storie di fantasia possono aiutare a guardare da altri punti di vista ciò che viviamo. Questo è un grande dono che ho ricevuto dell’arte, e che cerco di trasmettere. Inoltre mi piace molto quando sogno qualcosa di veramente banale – come aver spostato un oggetto nel mio appartamento o aver ritrovato qualcosa in macchina – e poiché si adatta perfettamente alla realtà è come una strana ma noiosa bomba a orologeria che esplode all’improvviso. Rende il resto della mia giornata un po’ irreale. Mi è successo anche di recente, ho sognato di aver inviato alcune foto sul mio cellulare a un estraneo, che ha risposto semplicemente “Ah!”. Qualche giorno dopo il sogno, ho avuto un momento di assoluto panico al pensiero che questa cosa leggermente imbarazzante fosse successa davvero.

Quindi, se sognare oggetti comuni è importante per la tua arte, è anche vero che l’incipit di The Amateurs mostra il processo contrario, dato che qualcosa di insolito si materializza nella vita di tutti i giorni. La testa ritrovata nel fiume innesca infatti una serie di eventi straordinari, come succede con l’orecchio tagliato trovato nel campo all’inizio di Velluto blu di Lynch. Se i tuoi fumetti svelano la permeabilità tra il mondo reale e quello onirico, puoi raccontarci meglio come l’esperienza del sogno influenza il tuo lavoro? Inoltre, ci sono autori che ami particolarmente tra coloro che hanno percorso questa strada?

Mi piacerebbe parecchio fare dei sogni lucidi, ma finora non ci sono riuscito se non in quei momenti, la mattina presto, in cui posticipo continuamente la sveglia. Ho trovato molte soluzioni a problemi di sceneggiatura o di disegno in questo “spazio” (mi ricordo per esempio l’immagine finale di The Dormitory con il ragazzo che fuma alla finestra del seminterrato).

Un autore che mi viene subito in mente a questo proposito è Jesse Ball. Ho avuto il privilegio di averlo come tutor durante il mio semestre alla School of the Art Institute di Chicago la scorsa primavera e ho appena letto Sleep, Death’s Brother, il suo libro sul sogno lucido. Le sue idee sui sogni sono molto più interessanti delle mie e mi piace particolarmente la sua concezione dello spazio onirico come un territorio dove allenare la volontà; il suo libro è infatti destinato ai bambini e ai detenuti per l’esercizio della forza di volontà in circostanze particolari.

La gran parte dei miei autori e artisti preferiti ha “percorso questa strada”. Uno dei più importanti per me è Kobo Abe, e per Generous Bosom mi sto ispirando molto al suo libro Secret Rendezvous. Nei suoi quaderni Werner Herzog non fa distinzione tra avvenimenti quotidiani e immaginario onirico (sebbene affermi di non sognare la notte). L’idea seminale per The Amateurs è scaturita da una scena che ho letto nei suoi diari in cui descrive dei macellai incapaci sulle sponde di un fiume a Iquitos. Nell’ambito del fumetto penso che Olivier Schrauwen sia un maestro delle situazioni sognanti/fantasiose/soggettive e nel giocare con il loro scarto umoristico rispetto alla realtà circostante. Altri libri/autori/artisti per me importanti in questo filone sono L’allegra compagnia del sogno di J.G. Ballard, Solaris di Stanislaw Lem, Il pellegrinaggio in Oriente di Hermann Hesse, L’uccello che girava le viti del mondo di Haruki Murakami, chiaramente Borges, Philip K. Dick,  Apichatpong Weerasethakul, Tarkovsky, sicuramente Lynch… E molti altri che sto dimenticando.

L’edizione Fantagraphics di The Amateurs presenta alcune differenze dalla prima versione che ti sei autoprodotto nel 2011. La più significativa è la sostituzione dell’introduzione scritta a mano con una storia completamente nuova di due studentesse che trovano la testa di un uomo nel fiume, lo stesso fiume dove faranno un rito per celebrare la promozione insieme alle compagne di scuola. Perché hai deciso di modificare l’originale e come hai creato questa nuova storyline?

Ero semplicemente insoddisfatto della lettera da un punto di vista estetico. Era una delle ultime cose che avevo aggiunto al fumetto e più la guardavo meno mi convinceva. Un paio di mesi dopo aver pubblicato l’albo ho avuto l’idea di questa seconda storyline e ho pensato: “Se mai avrò modo di ristamparlo l’aggiungerò”. Così quando Fantagraphics me ne ha dato l’opportunità è stata una delle prime cose che ho fatto.

Gli animali hanno un ruolo chiave in The Amateurs, sembrano forti e consapevoli, mentre Jim e Winston, i due macellai protagonisti della storia, sono deboli e confusi. Inoltre la violenza brutale di alcune sequenze in cui gli animali sono considerati semplicemente come cibo sembra condannare la scelta di mangiare carne animale. Volevi comunicare una sorta di “messaggio” con questa storia? O l’interpretazione è più metaforica?

Ho deciso che Jim e Winston dovessero essere dei macellai perché volevo facessero un lavoro intimamente correlato con la morte. Volevo raccontare come le persone, invece di fare i conti con la morte, la considerano una cosa che non li riguarda e finiscono per collocarla nel corpo altrui. E questo porta sempre a un danno per se stessi e per gli altri.

Detto questo, quando ho realizzato il libro ero vegetariano da dodici anni. Ma poi ho ricominciato a mangiare carne. Ahah, non so se questo spiega qualcosa della storia… Se qualcuno decidesse di diventare vegetariano dopo aver letto il libro sarebbe fantastico.

Leggendo The Amateurs, l’impressione è che il genere dei tuoi personaggi non sia casuale. Oltre ad alcuni indizi evidenti (la scuola femminile, le due clienti), tutti gli animali che ad un certo punto si ribellano contro gli umani sono femmine (la scrofa, la giumenta, la mucca) mentre i maschi sono più sottomessi (il maiale va nel mattatoio di sua iniziativa, la tartaruga viene torturata nel bosco). Sembra anche che il potere minaccioso del fiume, quale che sia, non colpisca le donne: lo usano per fare il bagno, lavare i panni, fare dei riti senza che gli succeda nulla. Quando, invece, Winston e Jim entrano nell’acqua vengono letteralmente fatti a pezzi. C’è anche una scena in cui Winston, subito dopo essersi macinato le dita, urla alle due clienti che non tollererebbe mai che una donna criticasse il suo lavoro. Per non parlare del fatto che gli torna in mente che quando erano bambini le due clienti lo avevano vestito da femmina. Ci sembra dunque che il tuo libro sia pieno di sottili riferimenti alle relazioni tra uomini e donne (o alla concezione generale di mascolinità e femminilità). Tutto ciò è intenzionale o lo stiamo sovrainterpretando? E il fiume c’entra qualcosa con la rappresentazione della femminilità nel libro?

Grazie per questa lettura così accurata. È assolutamente vero che, almeno nelle mie intenzioni, il genere era un aspetto fondamentale che volevo affrontare.

Anche a rischio di spiegare troppo o escludere interpretazioni migliori e più interessanti, direi che The Amateurs è un tentativo di prendere in giro, ridicolizzare e fare a pezzi (letteralmente, ahah) la concezione di una mascolinità autosufficiente, non-relazionale, quella dell’uomo che ha tutte le risposte. È questo ciò che Jim e Winston tentano di rappresentare per i personaggi femminili del fumetto.

Di grande ispirazione per The Amateurs è stato il libro di Kaja Silverman Flesh of my Flesh, che propone di sostituire il mito di Edipo con quello di Orfeo per quanto riguarda il genere – una storia basata sulla mortalità invece che sulla castrazione. Afferma che la nostra mortalità ci permette di relazionarci gli uni con gli altri per analogia, attraverso le nostre somiglianze, piuttosto che metaforicamente, cosa che presuppone sempre una gerarchia. Ho utilizzato molte di queste idee e ho preso in prestito l’immaginario del mito di Orfeo (ad esempio la testa trascinata sulla riva).

Grazie per aver evidenziato l’aspetto del genere a proposito degli animali ma non penso di averlo fatto intenzionalmente. Credo che un modello simile emerga anche in Generous Bosom, dove il protagonista e “eroe” della storia è in realtà molto passivo.

Quanto all’acqua, credo sia rappresentativa di uno stato estatico/trascendente/indefinito e non riferita al concetto di genere.

L’acqua è un elemento ricorrente nei tuoi fumetti, e talvolta ha un ruolo fondamentale. Può essere il fiume rituale in The Amateurs, la pioggia da cui prende forma Generous Bosom, il lago delle tensioni acute ma impalpabili di Glancing, il mare che accoglie i giochi di Water Phase e il flusso narrativo di Christmas in Prison. Se la consideriamo come un simbolo, l’acqua è necessariamente sfaccettata, fluida, e sembra collegata al desiderio, al cambiamento, all’epifania. È dove succedono le cose, dove si raccontano le storie e si svelano i segreti. Perché l’acqua è così importante per te?

Grazie per aver rintracciato in maniera così completa questa immagine nei miei lavori! Avete delineato così bene il modo in cui ho utilizzato l’acqua che non so se posso aggiungere altro…

Dei significati simbolici che avete elencato mi identifico maggiormente con l’idea di cambiamento. L’acqua è dove i confini si infrangono, le cose si dissolvono, le definizioni si spostano.

Per quanto si debba essere chiari ed esplicativi nel raccontare una storia, soprattutto con i fumetti (ecco un tizio, ed eccolo di nuovo, vedi? Porta le stesse scarpe e lo stesso cappello, a parte il fatto che gli è caduto l’ombrello, ed eccolo, è di nuovo lui che si sta chinando per raccoglierlo), l’acqua concede uno spazio necessario alla vaghezza.

È un luogo che permette di sospendere l’interruzione tra le varie vignette (o forse è un modo di rappresentare quel non-spazio tra loro). Puoi raffigurare un personaggio con tratti puliti e decisi per la maggior parte della tua storia ma, se pensi allo stesso personaggio in una vasca piena d’acqua, le linee diventano tutte ondulate. E possono essere diverse, dunque.

Questo conferma la tua tendenza a cercare modalità sempre nuove per raccontare una storia. Per esempio anche il tuo ultimo lavoro, Tintering, è innovativo, perché invece di disegnare i personaggi racconti la storia di cinque artisti autodidatti attraverso diversi oggetti rotti e usando vignette molto simili tra loro, mentre il contenuto è veicolato soprattutto attraverso il testo. Come sei arrivato a questo e perché è importante per te puntare l’attenzione sugli oggetti?

L’ispirazione per il soggetto del fumetto è stata una lezione di storia dell’arte di Lisa Stone, che è un’insegnante incredibile, generosa e acuta sul tema degli artisti autodidatti e vernacolari. Il modo in cui questi artisti si rapportavano agli oggetti era diverso da come noi abitualmente facciamo (o dobbiamo fare) nella quotidianità. Kea Tawana, per esempio, smontava con meticolosità e attenzione quei vecchi edifici di Newark. Aveva un’enorme sensibilità per l’artigianato e non poteva sopportare che dei materiali utili andassero sprecati. Buona parte del lavoro di questi artisti autodidatti è una risposta alla produzione massiva di oggetti tipica della nostra cultura, e all’incuria e spreco successivi.

Inizialmente pensavo che il fumetto dovesse essere come quelle sezioni di Christmas in Prison in cui il personaggio fa una sorta di monologo rivolto al lettore. Allora ho disegnato un tipo dietro un albero e poi ho pensato che avrebbe allungato una mano e spezzato un ramo. A quel punto mi è sembrato più corretto che fosse il ramo a parlare. La maggior parte delle storie di questi artisti iniziano e finiscono tragicamente – subiscono una perdita, creano qualcosa di bello che viene distrutto. Mi è sembrato giusto che fosse qualcosa di rotto a raccontare queste storie e che parlasse dalla parte della ferita.

In Generous Bosom esplori in maniera approfondita un tema per te ricorrente. Potremmo chiamarlo “voyeurismo” ma sarebbe semplicistico, è piuttosto la questione continua di “chi guarda” e delle dinamiche del guardare. Questo tema è presente in molte delle tue opere ed è fondamentale nel tuo albo autoprodotto The Dormitory. Ma chi è il vero voyeur, l’autore o il lettore? O qualcun altro?

Difficile rispondere brevemente a questa domanda, soprattutto perché la considero una questione aperta, su cui sto ancora lavorando… Non credo che qualcuno possa semplicemente guardare qualcosa senza, consapevolmente o meno, partecipare o alterare ciò che sta guardando. Non penso di poter dire chi sia il “vero” voyeur.

Forse i fumetti si basano proprio sul fatto che l’atto di osservare influenza ciò che si guarda. Ci puoi parlare della tua esperienza di lettore? Come ti piace leggere/guardare i fumetti?

Sì, credo che questa sia una giusta considerazione. In un fumetto non si sfugge al fatto che qualsiasi cosa si trovi sulla pagina è stata messa lì da qualcuno e nel disegnare non c’è differenza tra ciò che si vede e come lo si vede.

Detto questo, come lettore mi piace molto considerare il fumetto come un medium in cui mettere del tuo. Non è la stessa cosa di guardare un film, qui è il pubblico/lettore ad animare l’azione. Per rispondere alla domanda, penso che Generous Bosom indaghi la dinamica della lettura dei fumetti – puoi pensare di osservare qualcosa che succede sia come lettore che come autore ma in realtà sei tu a far succedere quella cosa.

Mi piace leggere più volte i fumetti. E mi piace il fumetto perché è un mezzo che incoraggia questo processo; è sempre facile ritrovare una scena preferita, è a portata di mano. E inoltre leggendo i fumetti si può passare velocemente dall’oggetto della storia al mezzo con cui è raccontata. La densità e la profondità di un fumetto davvero bello sono immediatamente accessibili.

I tuoi fumetti bilanciano flusso e struttura in una maniera unica e originale e in genere è molto difficile capire se sei partito dalla trama o dai disegni. Glancing, un’opera basata sull’accostamento di acquerelli senza testo, potrebbe essere un ottimo esempio. Qual è la tua concezione di fumetto e narrazione?

Grazie! Sulla mia concezione di fumetto e narrazione penso si possa tornare a ciò che ci siamo detti sull’acqua e sulla comparsa del misterioso e dell’irrazionale nel quotidiano. Struttura=Vita quotidiana=Narrazione principale di un fumetto/Disegni lineari/Chiarezza, mentre Flusso=Mistero=Acqua/Cambiamento/Irrazionalità.

Nei miei fumetti tento di mettere tutti i pezzi in fila, di raccontare una storia, e per farlo bisogna stabilire delle regole che il lettore possa seguire e su cui possa fare affidamento (credo che questo sia ciò che intendete con “struttura”). Queste regole si accumulano e possono presto diventare ostacoli alla libertà e alle potenzialità proprie del mondo che ho creato, che sono la fonte di energia per il seguito della storia. Per me a questo punto è il momento di cambiare le regole, o di lavorare a un altro progetto con regole diverse o ancora imprecise.

Lavorare a Glancing è stato in questo senso molto divertente e dinamico, perché facevo tre o quattro disegni e poi potevo inserirne altri nel mezzo, o dopo, o prima. Potevo osservare tutto il lavoro disposto sul pavimento e farmene un’idea complessiva. Voglio lavorare ad altri fumetti in questo modo.

Un altro aspetto interessante del tuo lavoro è che in genere eviti l’opposizione tra fumetti narrativi e non-narrativi – e tra “fiction” e “poetry comics” – alternando le due modalità o dimostrando la loro sostanziale identità nel campo del fumetto. Concordi con questo punto di vista?

Grazie di nuovo! Sì, ritengo che anche questo aspetto sia collegato alla domanda di prima. Aggiungerei che le decisioni sulla struttura, se qualcosa debba essere “poetico” o “narrativo” e così via, sono prese seguendo l’entusiasmo per ciò su cui sto lavorando. Spesso inserisco qualcosa di misterioso/poetico/irrazionale/non-narrativo perché mi sto per annoiare di una fase della storia o perché voglio evitare una scena che non mi sembra interessante da realizzare o da leggere.

Il tuo lavoro guarda sia ai fumetti letterari degli anni ‘90 sia alla sperimentazione formale che si distingue dagli standard del graphic novel, come Fort Thunder e gli art comics in genere. Ma qual è il tuo background? Anche al di fuori dei fumetti, ovviamente.

La mia più grande influenza sono gli amici che ho trovato al Maryland Institute College of Art, le persone che facevano parte del gruppo Closed Caption Comics. Da giovani abbiamo imparato tutti insieme a fare fumetti. Era il periodo in cui stava nascendo PictureBox e molte delle cose di Fort Thunder stavano emergendo ed era perfetto – sembrava che l’immediatezza di quei lavori e la loro forza visuale si rivolgessero proprio a noi. Kramers Ergot 4 e 5, il vecchio sito di Fort Thunder e conoscere CF e Brian Chippendale alla Small Press Expo ci fece capire che quello era il mondo dell’arte in cui potevamo trovare il nostro spazio. Direi che per un bel po’ quella è stata la dimensione che mi interessava: la mia cerchia di amici e quel paio di spiriti guida là fuori.

Oltre a questo, crescere nella Pennsylvania rurale ha avuto una grande influenza sui mondi immaginari dei miei libri. Ho letto anche molta letteratura. Ho appena terminato un master alla School of the Art Institute di Chicago. Non so se però siete più interessati alla mia formazione e alle mie influenze o alla mia biografia…

Soprattutto alle tue influenze, ma anche all’aspetto biografico nella misura in cui ha influenzato il tuo lavoro…

Oltre a Closed Caption Comics, ho partecipato ad altri progetti artistici che hanno avuto un grande impatto sulla mia vita. Appena finita la scuola, ho dato una mano alla creazione della galleria Open Space a Baltimora. Abbiamo curato degli spettacoli, ospitato performance, creato una biblioteca di fanzine e abbiamo messo in piedi la Publications and Multiples Fair. Sto anche aiutando a organizzare la prima Chicago Art Book Fair.

Per sette anni sono stato anche in una band chiamata Witch Hat che ho fondato con Noel Freibert e Lane Milburn. Dopo tre anni Lane ha lasciato la band e si è unito a noi Chris Day. Chris e io ora siamo in una nuova band che si chiama Lilac, con Anya Davidson e Kenny Rasmussen, qui a Chicago (io e Chris ci siamo trasferiti nello stesso periodo). Quando sono entrato nella scena underground dei fumetti c’erano molti punti di contatto con la scena musicale underground. Ho incontrato molti musicisti grazie ai fumetti e molti fumettisti grazie alla musica.

Pensi che la tua arte o il tuo approccio all’arte siano cambiati da quando non sei più a Baltimora? A Chicago c’è una scena fumettistica importante e una lunga tradizione di arte contemporanea che sicuramente ti avranno stimolato, ci viene da pensare agli Hairy Who ma ci sono probabilmente molte cose che in Europa sono poco conosciute.

La mia arte e il mio approccio sono sicuramente cambiati molto da quando ho lasciato Baltimora. Ho frequentato una nuova scuola negli ultimi due anni e l’essere in contatto con tantissime nuove opere, persone e idee è stato incredibilmente rinvigorente e travolgente. Penso che per digerire tutto ciò mi ci vorranno degli anni.

Quanto allo stile di vita, trasferirmi qui e frequentare la scuola mi ha permesso di evitare i lavori non artistici (almeno per ora). È una grande opportunità che prima non pensavo di potermi permettere. Ora sono più concentrato sull’idea di fare arte a tempo pieno, o almeno di farla e insegnarla.

Chicago è una città fantastica per i fumettisti. C’è una comunità splendida, di grande supporto, e realtà come la serie di reading Zine Not Dead gestita da Matt Davis e Brad Rohloff, che porta avanti la tradizione delle letture performative di fumetti avviata da Lyra Hill con Brain Frame. E poi a soli cinque isolati da casa mia vivono tutti insieme Anya Davidson, Lane Milburn, Margot Ferrick e Andy Burkholder (anche Edie Fake viveva lì, nella mansarda). A due isolati di distanza ma in un’altra direzione vivono i miei cari amici Molly O’Connell e Chris Day – i quali fanno entrambi cose molto belle, nell’ambito dei fumetti e non solo.

Abbiamo già parlato di Conor Stechschulte qui:

Qualche fumetto dalla Small Press Expo (Mountain Comic & Generous Impression)

Best Comics of 2014: The List (The Amateurs, Generous Bosom, Glancing)

Generous Bosom #1-2

Christmas in Prison

Misunderstanding Comics #8 (The Fence)