Annunciato “Kramers Ergot” #9

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Dopo la pubblicazione dell’ottavo numero di Kramers Ergot nel 2011 per Picture Box, nel giugno dell’anno successivo l’editor Sammy Harkham annunciava con un tweet un imminente seguito, descrivendolo come “350 pages of wicked wanda and Ian Svenonius essays” (Svenonius, conosciuto ai più come frontman dei Nation of Ulysses e dei Make-Up aveva già contribuito al numero 8 con il saggio Notes on Camp, part 2). Da allora Picture Box ha chiuso, Harkham ha pubblicato dopo un’altra lunga attesa il quarto numero di Crickets, e di Kramers Ergot non si è saputo più nulla, almeno fino a oggi, quando su Amazon è comparsa questa copertina (che credo sia opera di John Pham) e la possibilità di prenotare il nono numero della fondamentale antologia che nel corso degli ultimi quindici anni ha ospitato i migliori talenti dell’underground statunitense e non solo. Il nuovo editore sarà Fantagraphics e la data di uscita prevista è il 18 marzo 2016, per 250 pagine (e non 350 a quanto pare) a opera di Michael DeForge, Noel Freibert, Steve Weissman, Anya Davidson, Stefan Marx, Abraham Diaz, Leon Sadler, Julia Gfrörer, Adam Buttrick, Kim Deitch, Ben Jones, Andy Burkholder, Antony Huchette, Trevor Alixopulos, Antoine Cossé, Archer Prewitt, Kevin Huizenga, Renée French e altri che verranno annunciati in seguito. Che dire, la lista è come al solito impressionante e a questo punto non ci resta che attendere.

Il meglio del web – 4/6/2015

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Dopo qualche settimana di assenza, torna questa scintillante rubrica, in cui cercherò di mettere insieme le notizie e i link più interessanti degli ultimi tempi. Iniziamo dai festival in giro per il mondo, che questo weekend sono davvero tanti. A Chicago c’è uno dei principali eventi del fumetto underground, il CAKE, con un poster di Ivan Brunetti, ospiti come Gilbert e Jamie Hernandez, Dash Shaw, Lale Westvind, Eleanor Davis, Keiler Roberts, Zak Sally, Jillian Tamaki, incontri, disegno dal vivo, lezioni di tecniche di stampa e tante novità al debutto. Per approfondimenti vi rimando al blog della manifestazione. Gli artisti ed editori americani che non potranno raggiungere Chicago si divideranno tra la terza edizione del Grand Comics Fest di Brooklyn, l’Olympia Comics Festival e il New South Festival of Literary Arts & Cartooning di Austin in Texas, con un bel poster disegnato da Inés Estrada.

New South Fest

In Europa sono invece in programma il Copenhagen Comics, con ospiti di altissimo livello come Art Spiegelman, David Lloyd, Herr Seele, Simon Hanselmann, Tommi Musturi, il Munchen Comic Festival, incentrato su autori inglesi come Dave McKean e Bryan Talbot, e il Crouch End Cartoon Arts Festival di Londra, di cui Andy Oliver ci fornisce un’esauriente anteprima. Dall’11 al 13 giugno arriverà poi l’Oslo Comics Expo, che avrà come ospite ancora Hanselmann ma anche Ed Piskor, Lando, Aisha Franz, Paul Paetzel, Antoine Cossé, Joe Kessler. Passando ai festival già conclusi, su Broken Frontier ci raccontano del Klaxon di Anversa, mentre Robyn Chapman di The Tiny Report e Zainab Akhtar di Comics&Cola scrivono da Toronto. Sempre su Comics&Cola vi segnalo un paio di articoli su un’artista che a me piace parecchio e di cui prima o poi vi parlerò, Lala Albert: si parla del recente R.A.T. e della sua libreria.

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Veniamo dunque a qualche approfondimento di rito sugli ultimi articoli pubblicati su JustIndieComics e in particolare sulla chiacchierata con Dylan Horrocks dello scorso 22 maggio alla libreria Giufà di Roma. Il passaggio di Horrocks in Italia per il tour di presentazione di Sam Zabel e la penna magica ha prodotto qualche altra interessante intervista, come quelle pubblicate su Bad Comics e Fumettologica, in cui vengono toccati anche temi rimasti fuori dalla conversazione romana.

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A proposito di interviste, ormai non si contano più quelle a Daniel Clowes e forse me ne sono persa anche qualcuna: tra le ultime ci sono quelle a Boing Boing, a Vulture e a The Guardian, secondo cui l’autore di Eightball “scrive i più divertenti fumetti tristi o i più tristi fumetti divertenti del mondo”. Inoltre Clowes ipotizza anche di ritornare, un giorno o l’altro, ai suoi vecchi personaggi, come Enid e Rebecca di Ghost World, o anche Lloyd Llewelyn, mentre Wilson diventerà un film con Woody Harrelson e Laura Dern. Intanto l’organizzazione del Comic Arts Brooklyn, in programma il prossimo 7 novembre, annuncia che Clowes sarà ospite del festival e che in quell’occasione si vedranno in anteprima le prime copie del suo nuovo libro, Patience. Come già saprete a pubblicarlo sarà la Fantagraphics, che nel frattempo ha rinnovato il suo sito. La stessa casa editrice di Seattle annuncia la raccolta di Wimmen’s Comix, fondamentale antologia underground.

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Mentre su Boing Boing anticipano qualche pagina da un lavoro inedito – e purtroppo ancora incompiuto – di Joe Matt tratto dal libro celebrativo per i venticinque anni della Drawn & Quarterly (di cui spero di parlare prossimamente), a Pittsburgh esce l’ottavo numero del sempre interessante Comics Workbook Magazine, con un’intervista agli editor di š! a firma Laila Milevski, un saggio su Julie Doucet a opera di Daryl Seitchik e un’intervista al cartoonist “misterioso” GG di Jamie McMorrow. La rivista è distribuita da Copacetic Comics, nel cui shop virtuale potete trovare anche BW, una nuova zine assemblata dal cartoonist Jim Rugg che mette insieme una serie di spettacolari immagini tratte da misconosciuti fumetti anni ’80 e di cui ha parlato anche Frank Santoro sul sito del Comics Journal.

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Cinque tavole da “UDWFG” #3

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Di Under Dark Weird Fantasy Grounds ho parlato a più riprese su queste pagine, prima con la recensione del numero di debutto, poi inserendo le prime due uscite tra le migliori cose lette nel 2014 e quindi traducendo in inglese un’intervista a Michele Nitri realizzata da Matteo Stefanelli e pubblicata su Fumettologica. Se negli scorsi mesi la Hollow Press ha ampliato le sue proposte editoriali con due libri a firma Shintaro Kago e Tetsunori Tawaraya (qui ne avevo fatto un’anteprima), il terzo numero di UDWFG inizialmente previsto per aprile ha subito un paio di mesi di ritardo a causa degli impegni di alcuni degli artisti coinvolti. Ma adesso le pagine sono tutte pronte e tra qualche giorno saranno dati alle stampe i nuovi capitoli delle storie di Mat Brinkman, Miguel Angel Martin, Tetsunori Tawaraya, Ratigher e Paolo Massagli. Di seguito, senza far torto a nessuno, una tavola per ogni artista. Buona visione.

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Mat Brinkman

 

Miguel Angel Martin

Miguel Angel Martin

 

Tetsunori Tawaraya

Tetsunori Tawaraya

 

Ratigher

Ratigher

 

Paolo Massagli

Paolo Massagli

“From Now On” con Malachi Ward

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Malachi Ward è l’autore di Ritual, una serie pubblicata dalla Revival House Press, e di From Now On, una raccolta di storie brevi che uscirà a giugno per la Alternative Comics. Insieme a Matt Sheean ha creato un’altra serie, Expansion, e ha realizzato alcune storie per il Prophet di Brandon Graham. Negli scorsi giorni ho scambiato alcune e-mail con Malachi e ne è venuta fuori l’intervista che segue.

Dato che hai già parlato della tua formazione come artista e delle tue ispirazioni in questa intervista con Dave Nuss della Revival House Press, salterei questi argomenti e inizierei subito da From Now On. Questo è il tuo primo libro vero e proprio e sarebbe interessante presentarlo ai lettori. Dando un’occhiata al sommario, l’antologia si apre con Utu, una sorta di classico nella tua produzione, dato che è uno dei primi fumetti se non esattamente il primo che hai stampato. Pensi che l’uscita di Utu nel 2009 possa essere considerata un momento chiave della tua carriera?

Dopo il college iniziai a leggere molti più fumetti e a flirtare con l’idea di diventare un cartoonist. Ovviamente con il termine “fumetti” si può intendere quasi qualsiasi cosa e io non sapevo ancora cosa fare di preciso. Non so come poter definire il mio stile dell’epoca… Forse stravagante? Comunque, tra il 2007 e il 2009 avevo più o meno focalizzato ciò che volevo fare e così nel 2009 iniziai Utu e cominciai a lavorare anche a The Scout, per l’antologia Hive di Jordan Shiveley. Li finii entrambi in tempo per l’Alternative Press Expo del 2009. Entrambe queste storie rappresentarono un’importante svolta per me. Erano i primi lavori che finivo e che mi sentivo di stampare e far vedere in giro. E in qualche modo ancora mi piacciono.

Penso che Utu sia veramente originale, perché inizia in un modo e poi si sviluppa in una direzione completamente differente. Inoltre utilizza parecchi registri, inizialmente sembra una sorta di racconto mitologico, poi diventa divertente e alla fine è anche triste. Hai cominciato a lavorare alla storia con l’intenzione di utilizzare diversi toni e atmosfere, oppure la trama è venuta fuori di getto, in modo naturale?

Per me una delle attrattive di Utu era proprio quella biforcazione della trama, infatti sembra un certo tipo di storia e poi di colpo diventa tutta un’altra cosa. Non sono un grande appassionato dei colpi di scena, ma a chi non piace quando una storia ti sorprende, specialmente se tutto è al posto giusto? Sono molto attratto da questo espediente narrativo… E’ qualcosa che cerco di inserire spesso in una storia, anche se non funziona! Ognuna delle storie di Ritual ha in misura diversa un elemento del genere.

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Prima hai citato The Scout, un fumetto del 2009 che sarà riproposto in From Now On, in cui hai trattato a modo tuo i concetti di tempo e di ripetizione. The Scout è basato su una griglia di sei vignette per ogni pagina e, guardando le tue vecchie cose, ti sei avvalso di una struttura ben definita anche in molte altre occasioni. D’altra parte, il lavoro più recente utilizza un layout regolare ma sicuramente meno rigido. Pensi che questo possa riflettere un tuo miglioramento come cartoonist o si tratta semplicemente di una coincidenza?

Per quanto riguarda The Scout, ero preoccupato di dover raccontare la storia in poche pagine (dato che era per un’antologia e avevo uno spazio limitato) ma al tempo stesso di renderla leggibile e scorrevole, senza farla sembrare troppo compressa. E penso che questo sia più facile mantenendo un layout regolare. Ho fatto lo stesso per un’altra storia di From Now On intitolata Henix, per ragioni simili. Inoltre credo che un layout di sei vignette funzioni bene in un mini-comic di 5.5″x8″. Anche se sono sicuramente migliorato da allora, tornerei ancora a un layout rigido come quello se si adattasse al fumetto che sto realizzando. Anche quando i miei fumetti presentano vignette di varie dimensioni e utilizzano composizioni di volta in volta diverse, di solito seguono una struttura regolare da cui non mi discosto.

Un altro fumetto in From Now On è Top Five, una specie di metanarrazione fantascientifica a tema Star Trek, che per te è una passione oltre che una fonte di ispirazione. Anche Sweet Dreams e The Oviraptor sono reinterpretazioni di alcuni stereotipi della fantascienza. Penso che questa cosa contribuisca a rendere i tuoi fumetti freschi e originali, mi riferisco cioè al fatto che usi alcune idee prese dai film di fantascienza e dalle serie tv e li rivisiti secondo la tua sensibilità, creando un mix che non è così diffuso attualmente nel mondo dei fumetti alternativi… 

Qualche volta, per me, una storia inizia pensando a come posso maneggiare un tropo tipico di un certo genere. Forse l’obiettivo è trovare il nucleo dell’idea, qualunque essa sia, quel momento emotivo che fa scattare qualcosa, gli elementi tematici o di atmosfera che possono coinvolgere il lettore, e poi partire da lì evitando tutti i tipici errori in cui può cadere una storia di fantascienza, fantasy o horror.

Oltre a quelle di cui abbiamo parlato finora, non conosco le altre storie di From Now On. Puoi presentarne qualcuna a me e ai lettori?

C’è un nuovo fumetto interamente a colori intitolato Disconnect (di cui trovate una tavola inedita qui sotto, ndr) che si svolge nello stesso mondo in cui sono ambientate Top Five, The Oviraptor Hero of Science, seguendo le avventure di uno degli altri personaggi che sono scomparsi quando la squadra ha viaggiato indietro nel tempo. Tra le altre storie c’è Beasts of Kay-7, in cui racconto la mia versione di un team alla Star Trek che esplora un nuovo pianeta abitato da mostri misteriosi. Henix, a cui accennavo prima, è una storia dai forti connotati fantasy a proposito di un prigioniero deformato (almeno agli occhi dei protagonisti) che nasconde dei segreti sulla famiglia reale.

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A questo punto possiamo passare a Ritual, la serie che pubblichi per la Revival House Press, in cui ogni numero è una storia autoconclusiva di 20-30 pagine. Prima di comprare Ritual #2 – The Reverie, avevo visto il tuo lavoro soltanto su internet e quando ho letto quella storia sono rimasto veramente colpito… Era grandiosa! Poi ho letto altri tuoi fumetti e con il senno di poi posso dire che The Reverie è probabilmente la storia più “seria” e toccante che hai realizzato fino ad ora. E, a differenza degli altri numeri di Ritual, si basa su una narrazione estremamente lineare. Mi piacerebbe sapere come sei arrivato a raccontare questa storia, se è nata dalle tue paure o magari da un incubo.

The Reverie è incentrata su una tragedia familiare, quindi rispetto agli altri miei lavori contiene sicuramente delle situazioni molto più forti dal punto di vista emotivo. La morte di un familiare è un espediente narrativo a buon mercato, su cui si basano spesso le motivazioni del protagonista di una storia, quindi ho cercato di permeare con più empatia possibile il crescendo e poi la ricaduta relativi a questo tipo di situazione. L’idea mi è venuta dal mio interesse per la gamma di comportamenti di cui una singola persona è capace, e anche da come l’opportunità determina la nostra capacità di agire in modo morale. Ha anche a che fare con il concetto di rimpianto – ho sentito parecchie persone parlare di cosa avrebbero dovuto fare con le loro vite, o di come pensavano che le cose sarebbero dovute andare. Per me questo è sempre stato un sentimento completamente estraneo, qualcosa che ho grossi problemi a comprendere. E’ un’idea che molto probabilmente esplorerò più a fondo in futuro.

In The Reverie il tuo stile sembra meno controllato e definito del solito e per me questa non è una cosa negativa, perché in alcune sequenze hai fatto un bellissimo lavoro nella raffigurazione dei panorami e della rabbia del protagonista. Ma forse stavi cercando di fare un po’ di sperimentazione…

Penso che la prima metà di quel fumetto sia ancora abbastanza controllata. Tutto ciò che succede al di fuori della dimensione del titolo (la “Reverie” è una dimensione creata da uno scienziato in cui ogni desiderio si avvera e dove si rifugia uno dei personaggi dopo la morte della moglie, ndr) è inchiostrato con un brush e disegnato in maniera abbastanza accurata. In realtà non avevo molto tempo mentre stavo lavorando alla storia e la gran parte della seconda metà è stata disegnata nel giro di un paio di settimane. Inizialmente avevo intenzione di cambiare un po’ lo stile all’interno della dimensione del desiderio, per esempio inchiostrando con una penna invece che con un brush, ma a causa del poco tempo che avevo a disposizione quella parte della storia risulta stilisticamente più approssimativa.

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Ritual #1 – Real Life e Ritual #3 – Vile Decay sono abbastanza simili nella struttura, mentre per quanto riguarda i contenuti Real Life rappresenta una situazione quotidiana che si sviluppa in modo veramente spaventoso, mentre Vile Decay parla del futuro e di come le persone stanno rovinando il mondo. Nel complesso questa serie tratta tanti temi importanti, come la famiglia, le relazioni, la morte e – nel terzo numero – anche la politica e l’ecologia. Ma tutti e tre i numeri di Ritual parlano soprattutto delle tue paure. O almeno è il modo in cui la vedo io…

La mia intenzione iniziale con Ritual era di creare un’antologia horror. In realtà, alla fine soltanto Real Life ha degli elementi che potrebbero essere ricondotti all’horror, ma ogni numero è essenzialmente legato al concetto di paura. Real Life prende spunto da incubi che ho fatto veramente: mia moglie che mi abbandona in maniera rabbiosa, e io che divento “malvagio”. Anche The Reverie nasce da un’idea simile, infatti all’epoca stavo riflettendo su come potrei facilmente diventare una persona meschina se si presentassero certe situazioni. Vile Decay, se apparentemente parla del degrado della società, in realtà è incentrata più sulla mia paura di disconnettermi dal mondo, basata sul fatto che invecchiando diventerà sempre più facile farlo.

Un altro modo di leggere il primo e il terzo numero di Ritual è considerarli degli episodi pilota di una serie tv, ma in realtà i tuoi fumetti non avranno mai un seguito, così il lettore deve immaginare o cercare di interpretare le storie sfogliando avanti e indietro le pagine…

Ritual #3 utilizza uno stile narrativo molto sfuggente… Può essere una lettura poco soddisfacente per parecchie persone. Se il lettore pensa che ne valga la pena, ci sono abbastanza elementi che gli consentono di comprenderlo, o almeno il fumetto invita a mettere insieme i diversi pezzi della storia. Nei miei prossimi fumetti sto reagendo in qualche modo a questo approccio (che tendo ad avere per non so bene quale ragione), creando delle storie con delle risoluzioni molto più definitive.

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Stai lavorando anche al quarto numero di Ritual?

Ho già una bozza dettagliata di cui sono molto soddisfatto. Al momento l’unica cosa che devo fare è trovare il tempo per disegnarlo. Per ora il titolo di Ritual #4 è The Left Hand Path.

Quindi potrebbe essere sulla tua paura di diventare mancino… 

Come fai a saperlo??? Quella è la mia vera paura più profonda.

Il nuovo numero userà due colori come il precedente? Mi è piaciuto tantissimo il rosa/arancio di Vile Decay, l’uso del colore ha contribuito a creare un’ambientazione vaga e irreale.

Dave Nuss e io stiamo pensando di stampare Ritual #4 a colori, anche se con una gamma limitata.

So che stai lavorando a una serie di nuovi progetti con il tuo amico Matt Sheean, con cui hai già collaborato per Expansion e per il Prophet di Brandon Graham. Ho letto che tu e Matt vi dividete totalmente le differenti fasi del processo creativo e sono curioso di sapere come riuscite a fare una cosa del genere.

Per il progetto su cui stiamo lavorando adesso (Ancestor, che farà parte dell’antologia Island pubblicata dall’Image), Matt e io ci dividiamo il lavoro in questo modo. Innanzitutto parliamo della trama di ogni numero e buttiamo giù una bozza, di solito insieme. Se la bozza richiede delle parti importanti di dialogo, prendiamo una sequenza ciascuno e la scriviamo. Poi, in un paio di giorni molto intensi, facciamo gli schizzi per l’intero numero. A quel punto Matt disegna, io inchiostro e coloro, e Matt aggiunge gli effetti di luce. Quando la pagina è finita, io aggiungo il lettering.

Mi sembra un modo molto interessante di sviluppare una collaborazione… Ancestor sarà una storia lunga?

Alla fine Ancestor sarà più lungo di qualsiasi cosa abbia mai fatto, probabilmente 120 pagine quando sarà finito.

Oltre ad Ancestor stai lavorando ad altre storie lunghe o continuerai con le storie brevi? 

Al momento sto lavorando agli schizzi di un fumetto a colori che sarà di circa 80 pagine. Ho in programma di fare soprattutto storie lunghe da questo momento in avanti.

Mi piacerebbe concludere questa chiacchierata parlando di cosa ti piace al momento, se stai ascoltando della musica in particolare, o se c’è un fumetto, un romanzo o un film che ti ha entusiasmato negli ultimi tempi…

Ho appena finito di rileggere Going Clear di Lawrence Wright, un libro con cui mi sono abbastanza fissato. Poi sto facendo alcune ricerche sulla cultura indoeuropea, che trovo veramente interessante. Nel mondo del fumetto ho trovato fantastica e stimolante Sex Coven, la storia di Jillian Tamaki per l’antologia Frontier. Lo stesso vale per il nuovo numero di Crickets di Sammy Harkham. Non ho visto molti film che mi hanno veramente entusiasmato quest’anno, ma mi è piaciuto molto Ex Machina, e Mad Max: Fury Road è stato divertentissimo. Mentre scrivo sto ascoltando l’album del 1988 Encounter di Michael Stearns e anche un sacco di Jean-Michel Jarre.

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I numeri 2 e 3 di Ritual sono disponibili nello shop di Just Indie Comics.

I territori oscuri della Hollow Press

Per chi fosse interessato, propongo su queste pagine la versione inglese di un’intervista realizzata da Matteo Stefanelli a Michele Nitri della Hollow Press, che potete leggere su Fumettologica nella sua veste originale in italiano. Qui trovate invece la traduzione, fatta soprattutto con l’idea di far conoscere meglio questo ottimo esempio di editoria made in Italy a chi legge da altre parti dell’Europa e del mondo. Grazie a Matteo e a Michele per avermi dato il permesso di tradurre l’articolo e per i preziosi consigli. Buona lettura.

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Dylan Horrocks e la penna ritrovata

A breve distanza dall’incontro con Charles Burns, di cui potete leggere qui, la Libreria Giufà di Roma ha ospitato lo scorso venerdì 22 maggio un altro fumettista di fama internazionale, il neozelandese Dylan Horrocks, che i più ricorderanno come l’autore dell’indimenticabile Hicksville. La tappa romana ha concluso una serie di quattro incontri in cui Horrocks ha presentato in Italia la sua nuova fatica, Sam Zabel e la penna magica, uscito da qualche mese per i tipi di Bao Publishing, dialogando con fumettisti italiani come Zerocalcare, Vanna Vinci e, proprio nell’occasione di venerdì 22, Roberto Recchioni. A presentare i diversi appuntamenti Michele Foschini di Bao, che faceva anche da interprete. Di seguito la trascrizione integrale della chiacchierata. Buona lettura.

Michele Foschini: Questo libro esce dopo diciassette anni dal precedente lavoro lungo di Dylan, Hicksville, che alcuni avranno letto nell’edizione Black Velvet e che un giorno Bao ripubblicherà. Lascio subito la parola a Roberto per le domande.

Roberto Recchioni: Partiamo subito con un argomento che hai appena toccato, la lunga pausa tra Hicksville e il nuovo libro. Diciassette anni sono tanti anche per gli standard di Axl Rose quando fa Chinese Democracy… Che cosa è successo in mezzo?

Dylan Horrocks: Ho perso le mie penne… Non sapevo dove erano finite e ci ho messo un sacco di tempo a ritrovarle… Beh, seriamente quello che è successo è che ho perso la mia fede nelle storie e nei fumetti. Quando uscì Hicksville ebbe più successo di quello che mi aspettavo, non economicamente perché non mi ha fatto fare molti soldi, ma di critica, perché ha avuto delle recensioni veramente buone ed è stato oggetto di tesi di laurea. In qualche modo l’idea di iniziare un nuovo libro dopo Hicksville mi intimidiva. Inoltre mi sono posto alcuni problemi, perché innanzitutto volevo imparare a disegnare meglio, cosa che mi ha portato a guardare agli autori che mi piacevano, e poi volevo cercare di scrivere una storia che fosse artisticamente e contenutisticamente più profonda di Hicksville. Tutto ciò mi ha in qualche modo prosciugato, al punto che mi sono bloccato completamente. La salvezza è arrivata sotto forma di un lavoro per la Dc Comics e così per quattro anni ho scritto dei comic-book mensili per la Dc (Batgirl e Hunter: The Age of Magic, ndr), una cosa positiva perché mi ha salvato dalla bancarotta totale, anche se in realtà scrivevo delle storie in cui non credevo, che non erano il mio genere. Da quel momento ho cominciato a interrogarmi sul significato delle storie, mi chiedevo cioè se le storie potessero essere utili o se fossero soltanto delle bugie, che distorcevano la realtà e il nostro modo di essere. A quel punto non riuscivo più non solo a disegnare i fumetti, ma non avevo neanche più la forza di leggerli, come non riuscivo nemmeno a leggere i romanzi e a vedere i film. Era come se avessi perso la mia fede nelle storie.

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Recchioni: Leggendo il romanzo, la prima parte sembra quasi la riproduzione letterale di ciò che ti è successo. Il protagonista è un fumettista che ha scritto un primo romanzo di successo, è molti anni che non ne fa un secondo e sta scrivendo una brutta serie di supereroi con una supereroina che mena alla gente ma che ha alle spalle un passato glorioso. Il libro è un esercizio di cura o un esercizio di analisi? Hai cercato di capire la situazione o hai cercato di curarti da quello che ti stava succedendo?

Horrocks: Beh, quando ho iniziato il libro stavo cercando di trovare un’uscita dalla trappola in cui ero caduto ma non sapevo come fare. Penso che il libro sia tutte e due le cose, perché mi volevo curare ma non sapevo qual era la medicina, di cosa avessi veramente bisogno. Sapevo qual era il problema e così ho creato una situazione per il mio personaggio simile al problema che stavo vivendo e l’ho esplorata, in un certo senso ho cercato di capire cosa avrebbe fatto il personaggio. E penso che questo mi abbia aiutato a trovare una via d’uscita. Alla fine ha funzionato…

Recchioni: Una cosa che ho notato nel libro, e l’ho notata in un senso un po’ critico, è che alla fine il tuo personaggio trova una via d’uscita ma la trova guardando a un passato che è molto dorato, i fumetti precedenti al sistema, quelli della golden age, una realtà diversa da quella attuale. E’ tutto molto incantato e attraverso questa visione più pura e più ingenua del mondo dei fumetti e delle storie ritrova la sua vena, ritrova se stesso. E’ davvero così, dobbiamo così tanto guardare a un passato che forse nemmeno esiste realmente?

Horrocks: Nel mio primo libro, Hicksville, una delle cose che ho fatto è stata immaginare nuove strade per il fumetto immaginando un nuovo passato. Hicksville presenta una storia immaginaria del fumetto, una serie di eventi che in realtà non sono mai successi ma che in qualche modo io volevo che fossero successi. Pensavo, se quello fosse il nostro passato, immagina i fumetti che potremmo creare ora… Con La penna magica mi sono sentito abbastanza intrappolato dal passato dei fumetti e anche dal presente. Il libro esplora la storia del fumetto ma introduce anche un personaggio, Alice, che è realmente il futuro dei fumetti, lei è quella che salva la situazione ogni volta, che ogni volta è così coraggiosa da tentare qualcosa di nuovo. La penna magica parla in realtà del futuro del fumetto e questo è piuttosto chiaro sin dall’inizio della storia… Ma non voglio anticipare troppo… Comunque ho un profondo rispetto per la storia del fumetto, anche per quei fumetti con cui ho dei problemi, che riflettono una visione del mondo sessista o in genere molto ristretta. Anche lì c’è qualcosa di magico da cui possiamo attingere e spero che questo filtri dalla mia storia.

Recchioni: Oltre che di magia io parlerei proprio di ingenuità, di una purezza che sembra il cuore portante della storia…

Horrocks: Sì, al cuore del libro c’è una domanda, che mi stava tormentando quando l’ho iniziato… Siamo moralmente responsabili per le nostre fantasie? E’ importante ciò su cui fantastichiamo? E penso di non avere una risposta a questa domanda ma la conclusione a cui sono giunto è che abbiamo la responsabilità di essere onesti, onesti a proposito delle nostre fantasie, dei nostri desideri, delle nostre paure e anche delle cose che ci danno semplicemente piacere… Mi rendo conto che da lettore le storie che amo veramente sono quelle che danno la sensazione di provenire da un luogo interiore, non quelle che vengono create perché la gente pagherà per leggerle o perché la gente si aspetta di leggerle o quelle che semplicemente ci eviteranno di finire nei guai, ma quelle di cui ci importa veramente.

Recchioni: Da italiano leggendo il libro ho sentito forte il tema del senso di colpa, della responsabilità rispetto alle nostre fantasie. Il libro è molto solare ma ha anche un forte conflitto all’interno del personaggio, che vive un costante dilemma morale a proposito delle sue fantasie, quelle che vorrebbe vivere come uomo, le fantasie sessuali… Vorrei chiederti qual è stata la tua formazione religiosa perché sembri quasi un cristiano per il senso di colpa che si percepisce…

Horrocks: A dire il vero sono stato cresciuto da degli hippy intellettuali che negli anni ’60 facevano parte di una cellula trotskista rivoluzionaria americana… (risate) Erano anche poeti, che hanno scelto il mio nome sia per Bob Dylan che per Dylan Thomas e che hanno chiamato mia sorella ispirandosi a Simone de Beauvoir. Così sono cresciuto senza alcuna educazione religiosa ma con un fortissimo senso di responsabilità personale, politica ed etica. Mio padre era un grande appassionato di fumetti e insegnava cinema, così ho potuto leggere Robert Crumb quando avevo solo dieci anni e più o meno alla stessa età ho visto Ultimo tango a Parigi, perché mio padre ne doveva parlare a scuola e lo ha portato a casa proiettandolo su una parete la sera prima della lezione per prendere appunti… Mi ricordo che lo vidi e pensai “ma cosa starà facendo con quel burro?”. Quindi sono cresciuto in un contesto molto liberale ma è anche vero che sono stato adolescente negli anni ’80, un periodo in cui la gente era molto coinvolta nella politica e si discuteva di argomenti importanti, come la pornografia… Io avevo sedici anni e ovviamente mi piaceva abbastanza la pornografia ma mi sentivo anche in colpa per questo e non a causa della morale cristiana ma per le politiche femministe. Sono cresciuto con dei genitori femministi e sembra strano definirmi femminista da uomo ma era come mi consideravo io e la discussione sulla pornografia mi metteva seriamente in difficoltà… Avevo volumi di Milo Manara nella mia libreria… E mi piacevano non poco…

Foschini: Sì, ne abbiamo parlato anche troppo l’altra notte… (risate)

Horrocks: Personalmente mi sono interrogato su questi argomenti per trent’anni ma di recente il dibattito su come vengono trattati i temi di genere è tornato di estrema attualità nel mondo dei fumetti anglofono. La penna magica inizia con due citazioni, una del poeta Yeats che dice “Nei sogni iniziano le responsabilità”, l’altra di Nina Hartley – una performer americana, produttrice di porno, che riesce a parlare con intelligenza di pornografia – che dice “Il desiderio non ha morale”… Ho voluto che il libro iniziasse con queste due citazioni, perché penso che siano vere entrambe anche se sono completamente contraddittorie. E mi interessava esplorare lo spazio tra le due affermazioni, per cercare di comprendere perché io le ritengo entrambe vere…

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Recchioni: Rimango sulla sessualità perché secondo me è un tema molto importante nel libro… Abbiamo due situazioni in particolare, una che riguarda delle donne che vengono violentate dai cattivi e si ribellano, ma poi decidono che tutto sommato gli piaceva e quindi fanno la pace, così che iniziano a farlo in modo consenziente e ricomincia una sorta di gioco… Quel tipo di fantasia delle donne inseguite dagli alieni, tipica degli anni ’50, viene alla fine vista con uno sguardo gentile, mentre dall’altro lato il cattivo è l’hentai, il fumetto porno giapponese, che invece è visto sotto un aspetto prettamente negativo.

Horrocks: Una delle cose che mi interessano è come possiamo utilizzare e interpretare in modi diversi anche le fantasie che troviamo moralmente problematiche. Mi è capitato di sentirmi attratto da arte che esprimeva idee veramente orribili, ma magari stava esprimendo un’ossessione o una fantasia che è potente, che ha un valore… Uno degli elementi centrali del mio libro è che alcuni fumetti presenti all’interno della storia sono reali, il personaggio li disegna con una speciale penna magica e quindi quando i personaggi ci entrano trovano altri personaggi reali, che stanno compiendo delle azioni vere e proprie. Uno dei personaggi del fumetto viene da una di queste storie che vengono visitate e non le piace per niente dove sta andando la trama, anche perché riesce a vedere cosa sta per succedere. Una delle mie intenzioni con il libro era anche quella di esplorare la relazione tra i personaggi e l’autore, perché io certe volte mi sento in qualche modo responsabile per i miei personaggi e così ho cercato di salvare questa ragazza da quella situazione che riecheggia certi manga, perché lei non è assolutamente contenta di ciò che gli sta capitando. Ogni volta che nel libro sta arrivando a una risposta semplice, a dire “questo è giusto” o “questo è sbagliato”, qualcosa sconvolge questa convinzione. Nello stesso modo, anche nella storia di ispirazione manga, ci sono scene che mi dava fastidio immaginare, ma le ho disegnate comunque perché volevo esplorare non solo i turbamenti morali ma anche i piaceri che possono derivare dalle fantasie. E in generale credo che quando si parla di fantasie erotiche ed etica, non si può avere una conversazione seria e onesta se non si parla anche della gioia e dei piaceri legati all’erotismo. E anche quel personaggio che non vuole essere la vittima della fantasia manga mostra un comportamento ambivalente… Conosco parecchie persone che hanno delle forti fantasie ma che non vorrebbero averle, e io volevo parlare proprio di cosa facciamo delle nostre fantasie, se le abbracciamo o se cerchiamo di sopprimerle…

Recchioni: Oppure le possiamo vivere…

Horrocks: Beh… (risate). Credo che la differenza tra disegnare una fantasia e viverla nella vita reale sia enorme. Negli ultimi mesi, da gennaio in poi, dopo gli eventi di Charlie Hebdo, c’è stato un intenso dibattito a proposito del potere dei disegni, e la domanda che ci si è posti è se certe cose debbano essere disegnate o meno… E durante questa discussione ci sono delle frasi che ho sentito spesso da persone diverse, “questi disegni fanno del male alla gente”, “questi disegni sono violenti”. E la cosa che mi ha disturbato è che molte persone stanno perdendo la distinzione tra le sensazioni che provi quando guardi un disegno e la vera violenza fisica. E questo è veramente fastidioso, è una cosa che non riesco a concepire e che mi fa pensare che ci stiamo muovendo in un territorio molto pericoloso…

Foschini: A questo punto il tempo è quasi finito, quindi lascerei spazio alle domande dal pubblico.

Recchioni: Ne vorrei prima fare un’ultima io, per concludere… Alla fine del libro sembra che ti sei riconciliato con te stesso, che hai trovato le tue penne…

Horrocks: Sì, erano sotto alla scrivania, prima o poi dovevo guardarci, no?! (risate) Più o meno a metà del libro mi sono reso conto che mi stavo divertendo disegnando un fumetto più di quanto avessi mai fatto in vita mia… Quindi sotto questo punto di vista l’atto di guarigione sicuramente ha funzionato.

Recchioni: Infatti il libro a un certo punto sembra proprio un atto di piacere, è un libro fatto con piacere e questo piacere traspare…

Horrocks: Beh, grazie! Per me è stato un viaggio di esplorazione, di scoperta, perché non sapevo quale fosse la medicina o la cura ma ne avevo bisogno. E hai ragione, parte di quello che ho trovato è stato il piacere, il piacere di raccontare una storia, il piacere di disegnare, il piacere della fantasia erotica… Ho riscoperto tutte queste cose e sono riuscito a metterle al centro di ciò che stavo facendo e penso che questo sia stato importante, significativo e profondo… E cazzo, è stato veramente divertente!

Dal pubblico: Non so quanto sarà contento della domanda, ma io volevo chiedere se questo processo di guarigione lo porterà a proseguire Atlas, che è il lavoro che ha interrotto da qualche anno a questa parte…

Horrocks: Vuole sapere di Atlas, vero? (risate) Mi piace la tua t-shirt degli Yo La Tengo… Beh, Atlas era una serie che ho iniziato dopo Hicksville, veniva pubblicata nell’omonima rivista formato comic-book (l’antologico interamente realizzato da Horrocks per la Drawn and Quarterly, tre numeri pubblicati dal 2001 al 2006, ndr) e doveva essere la mia successiva graphic novel. Ma nel secondo numero cominciai a serializzare anche La penna magica, che iniziò come una storia secondaria e non doveva diventare una storia lunga, ma poi prese il sopravvento, divenne la storia che volevo veramente raccontare e così Atlas venne messa da parte… La stessa cosa successe con Hicksville, che iniziò come una storia secondaria in un mio magazine (Pickle, di cui sono usciti dieci numeri dal 1993 al 1997 per Black Eye Books, ndr) in cui serializzavo una graphic novel molto più seria che si chiamava Café Underground… E non ho mai completato nemmeno Café Underground, Hicksville ha preso il sopravvento, ha cominciato a ossessionarmi e l’ho dovuto finire…

Foschini: A questo punto io dovrei tradurre il volume Incomplete Works (uscito l’anno scorso per la neozelandese Victoria University Press, ndr), così potete avere tutti questi pezzettini…

Horrocks: Ci sono un sacco di storie che ho iniziato ma non ho mai finito… Vorrei finire Atlas un giorno, ma non so quando succederà perché continuo a cambiare idea su dove deve andare la storia e altri progetti stanno prendendo la precedenza…

Dal pubblico: Potresti mettere Atlas come storia secondaria in una rivista, così la finirai sicuramente…

Horrocks: (risate) Questa è veramente una bella idea…

Incomplete Works

Dal pubblico: Io vorrei chiedere invece, partendo dal ruolo della web artist presente in questo libro, cosa ne pensa lui del fumetto web e come ritiene che il fumetto digitale influenzerà l’editoria…

Horrocks: Amo l’idea dei web comics, penso che sia veramente eccitante. Negli anni ’80, quando iniziai a disegnare seriamente fumetti, c’erano le macchine fotocopiatrici, erano economiche e ti permettevano di fare i tuoi fumetti in economia… Il mio primo fumetto è stato stampato negli uffici della scuola, ero veramente gentile con le segretarie e loro mi facevano usare la fotocopiatrice… Ed è così che ho iniziato a pubblicare i miei fumetti.

Recchioni: Anche io, stessa storia…

Horrocks: A scuola? Con le segretarie? (risate) Le segretarie sono gli eroi mai celebrati del fumetto! Comunque questo ha portato a una rivoluzione del fumetto, perché la gran parte dei cartoonist che sono emersi negli anni ’80 a Sydney, in Nuova Zelanda, oppure negli Stati Uniti, in Canada o in Inghilterra, vengono dalle fanzine fotocopiate… La rivoluzione non era soltanto avere tanta gente che faceva fumetti, ma avere nuove persone che facevano fumetti e tanti tipi di persone diverse che facevano i fumetti, c’è stata un’esplosione di diversità nelle voci che producevano fumetti… Internet è come questa rivoluzione ma mille volte più potente, è straordinario quello che sta succedendo, ci sono cartoonist da tutto il mondo, ognuno con il suo background, ognuno che fa un fumetto diverso dall’altro, un sacco di donne, cartoonist transgender, omosessuali, asessuali, di tutto… E per me questo è fantastico… Anche io ho iniziato a pubblicare Sam Zabel e la penna magica come un web comic, soprattutto perché volevo vedere cosa si provava…

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Everything is ending “Here”

Here apertura“Di tanto in tanto arriva un artista che prende il potenziale accumulato dalla sua disciplina e lo rielabora in nuovi modi di vedere e sentire. Cézanne ci è riuscito nella pittura, Stravinskij nella musica, Joyce nella scrittura – e penso che Richard McGuire lo abbia fatto con i fumetti”.

Basterebbe questa frase di Chris Ware per capire l’importanza della prima incarnazione di Here di Richard McGuire, una storia di 6 pagine apparsa nel 1989 in Raw vol. 2 #1 e che è possibile leggere qui. Era quello il famoso fumetto – rivoluzionario, stracitato, oggetto di saggi, convegni e persino di un cortometraggio – in cui l’artista statunitense – copertinista del New Yorker, bassista della band Liquid Liquid, autore di libri per bambini e film d’animazione, grafico e altro ancora – raccontava con un approccio estetico essenziale la storia di un angolo di mondo in diversi momenti storici,  definiti di volta in volta da una data. Ma la caratteristica principale di Here erano le finestre che apparivano e si affastellavano creando il caos nelle sei ordinate vignette di ogni pagina, dando vita a passaggi temporali repentini che portavano il lettore a spostarsi in meno di un batter d’occhio dalla preistoria al futuro, mostrandoci per lo più l’angolo di una stanza ma a volte anche cosa c’era e cosa ci sarà in quell’angolo, come uno scenario lavico nel 500.957.406-073 a.C., l’edificio ancora in costruzione nel 1902, pompieri che spengono un incendio nel 2029, una cerimonia all’aperto nel 2033.

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“Avevo realizzato due strisce che erano state pubblicate poco prima di Here – ha raccontato McGuire in un’intervista a Thierry Smolderen pubblicata sull’ottavo numero di Comic Art del 2006, dove è stato ristampato anche il fumetto originale e dove è apparso il saggio di Ware citato in apertura – in un piccolo magazine chiamato Bad News, curato da Mark Newgarden e Paul Karasik. L’idea iniziale mi venne dall’appartamento in cui mi ero appena trasferito. Pensavo a chi aveva vissuto lì prima di me. Feci alcuni sketch di una pagina divisa in due parti verticali, dove sulla sinistra il tempo si muoveva avanti, mentre sulla destra si muoveva all’indietro. All’epoca, stavo frequentando delle lezioni tenute da Newgarden e Karasik sul fumetto (dopo una serie di conferenze di Spiegelman che avevo già seguito poco prima), e loro mi incoraggiarono ad andare oltre i semplici sketch per svilupparli in una storia. Un giorno ero in giro con un mio amico, Ken Claderia – con cui andavo a scuola e che adesso è uno scienziato che lavora per la Stanford University – e fu un suo commento che fece a proposito di Windows che mi portò a pensare che poteva trattarsi di una vista multipla piuttosto che di uno split screen. Fu quello il momento “eureka”. L’idea è basata su una concezione multi-dimensionale del tempo – nel pensare il tempo non come lineare, ma come se tutto il tempo esistesse simultaneamente. Volevo che lo spettatore pensasse all’immagine più ampia, al fatto che noi entriamo in contatto soltanto con una parte della realtà. I dinosauri stanno ancora camminando da qualche parte in questo spazio ma in un altro tempo”.

Da allora il fumetto di McGuire è stato paragonato a tante opere che hanno rivoluzionato la forma delle arti, ognuna ovviamente a suo modo. Ware lo paragona all’Ulisse di Joyce o anche a Fuoco pallido di Nabokov, citato per l’uso delle note a pié pagina, soluzione poi portata alle estreme conseguenze da David Foster Wallace. Matt Seneca in una bellissima recensione per The Comics Journal del nuovo Here utilizzava Il pasto nudo di William Burroughs e Viaggio nella luna di Méliès come opere altrettanto fondamentali per la loro ambizione formale. L’uso dello split screen nel cinema ha avuto sicuramente un ruolo importante nello sviluppo dell’idea iniziale di Here: esempi celebri sono Lo strangolatore di Boston, Il caso Thomas Crown, Carrie – Lo sguardo di Satana, probabilmente ben noti a McGuire. Per rimanere ai fumetti, invece, lo stesso Ware citava come possibili ispirazioni di McGuire The Malpractice Suite di Art Spiegelman e A Short History of America di Robert Crumb, il primo per la scomposizione quasi cubista della vignetta, il secondo per il modo in cui mostra l’evoluzione di uno stesso punto dello spazio nel corso del tempo. Di seguito le due opere citate (quella di Crumb è nella sua versione più recente, con l’aggiunta delle ultime tre vignette).

Malpractice Suite

A short history of America

A me, innanzitutto appassionato dei comics nella loro declinazione anglo-americana, quando per la prima volta lessi Here venne banalmente in mente il quarto capitolo di Watchmen di Alan Moore e Dave Gibbons, non solo per il modo in cui la memoria del Dottor Manhattan salta da un anno all’altro, ma anche per come Moore dava veste divulgativa a quel concetto di simultaneità poi diffusissimo nella cultura popolare degli ultimi vent’anni, dal cinema al fumetto alle serie tv. Sicuramente le conoscerete già a memoria, ma queste sono le due pagine iniziali di Watchmen #4.

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Subito dopo assistiamo alla scena del 7 agosto 1945 in cui il padre del Dottor Manhattan, dopo aver mostrato al protagonista la prima pagina del New York Times con la notizia della bomba atomica su Hiroshima, prende gli ingranaggi di un orologio e li butta dalla finestra. “Questo cambierà tutto. Ci saranno altre bombe. Sono loro il futuro. E mio figlio dovrà proseguire il mio lavoro obsoleto? (…) La scienza atomica… E’ di questo che il mondo ha bisogno! Basta con gli orologi! Il professor Einstein dice che il tempo varia da luogo a luogo. Hai idea? Se il tempo non è reale, a che servono gli orologiai, eh?”. Se il tempo è obsoleto nella realtà, figuriamoci nel fumetto, dove poco ci vuole a rompere il concetto tradizionale secondo cui i fatti raccontati in una vignetta siano precedenti a quelli che si vedranno nella successiva. E lo stesso vale nella letteratura, dove ci vuole ancor meno ad abbandonare l’idea di romanzo come successione di eventi per raccontare la storia di un luogo, come tra gli altri ha fatto lo stesso Alan Moore con la sua bellissima e sghemba storia di Northampton contenuta in La voce del fuoco.

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Prima ho usato in modo un po’ criptico l’aggettivo “nuovo” riferendomi a Here. Ma d’altronde ormai ben saprete che McGuire ha rivisitato il concept originale in una nuova edizione, che dopo una lunga gestazione è uscita lo scorso anno sotto forma di un libro a colori di oltre 300 pagine pubblicato da Pantheon Books e arrivato anche in Italia da qualche settimana grazie a Rizzoli Lizard con il prevedibile titolo di Qui. Se qualche fedele lettore di queste pagine si fosse chiesto perché non avevo incluso il volume nella lista dei migliori fumetti del 2014, è perché all’epoca ancora non avevo letto il nuovo Here, dato che una copia spedita in anteprima grazie a qualche aggancio oltreoceano si era perduta nei meandri del sistema postale mondiale e si era infine palesata dopo mesi di attesa, quando il libro era già da un bel po’ di tempo nelle librerie.

Here parla dell’essere umano, sia nel senso di “umanità” che in quello di “uomo” e l’opposizione o meglio la giustapposizione di questi due concetti è ancora più evidente nella versione graphic novel. Se le sei pagine originali sfoggiavano una narrazione convulsa, veloce, dinamica, rappresentando come nessun fumetto aveva mai fatto prima le dinamiche del pensiero, le 300 pagine della versione 2014 sono lente, pacate, a tratti malinconiche nel modo di accostare l’inesorabilità del Tempo e della Storia alle piccole vicende quotidiane delle persone comuni, a ricordarci, come diceva McGuire, che noi sperimentiamo soltanto una parte delle possibilità di questo mondo, che quello che accade nel nostro piccolo è niente rispetto alle ere geologiche, all’estinzione delle specie, a un futuro che – almeno secondo quanto dicono queste pagine – riporterà la Terra indietro, verso le sue origini. Il tutto è ovviamente riportato secondo la sensibilità di un uomo occidentale che ha vissuto e vive tra il XX e il XXI secolo, ma non potrebbe essere altrimenti, dato che pur trattando di temi universali si tratta sempre di un’opera personale, in cui l’autore ci ha inevitabilmente messo del suo.

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Il solito Chris Ware è tornato su Here per parlare delle sua nuova incarnazione, dicendo che “con quelle prime sei pagine nel 1989, McGuire ha introdotto un modo nuovo di fare una striscia a fumetti, ma con questo volume, nel 2014, ha introdotto un nuovo modo di fare un libro”. Ma cosa c’è, dunque, dentro queste 300 pagine? Innanzitutto c’è una visione più ampia di quel famoso spicchio di realtà. Se nella striscia infatti l’unità narrativa era rappresentata dalla vignetta, qui è costituita dalla doppia pagina, cosa che permette all’autore di allargare la prospettiva mostrandoci non solo quell’angolo in alto a sinistra (secondo la nostra percezione) ma anche altre porzioni delle stanza. Per esempio guardando la prima versione non avevamo mai visto il camino, lo specchio, quel tavolino, quell’abat-jour. Inoltre non avevamo mai visto i colori, realizzati grazie all’aiuto di Min Choi, Maëlle Doliveux, Keren Katz, definiti come “Team Here” perché hanno aiutato l’autore negli aspetti più tecnici del processo creativo, portando alla realizzazione di un affascinante ibrido tra matite, computer grafica, colori digitali e splendidi acquerelli. L’uso del colore cambia l’estetica della storia e anche se la tavolozza cromatica è molto ampia, a prevalere sono i temi tenui del giallo/marrone/ocra, che ricreano un mood simile a quello dei quadri di Edward Hopper. E spesso, vedendo quel salotto e le sue evoluzioni nel corso del Novecento, sembra di stare in un libro di qualche maestro del racconto americano come Richard Yates o Raymond Carver.

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D’altronde Here è a suo modo un libro di racconti, in cui brevi storie si accumulano, si sviluppano e a volte si intrecciano. Ma è anche un susseguirsi di associazioni di idee, di temi che vengono trattati per qualche pagina per poi lasciare spazio ad altri, mentre le finestre si aprono e si incastrano tra loro e gli anni vanno avanti, indietro, avanti e ancora indietro. Dentro c’è la rappresentazione di panorami astratti dai colori vivacissimi nel 3.000.500.000 a.C., di animali preistorici nel 10.000 a.C., di splendidi e incontaminati scenari lacustri nell’8000 a.C. come nel 1203 e nel 1307, di due indigeni che fanno l’amore nel 1609, di Benjamin Franklin che discute di politica con il figlio nel 1775, di case che vengono costruite nel 1907, della vita secondo le forme ben conosciute del XX secolo (poi raccontata da una guida turistica nel 2213), del mondo dopo un non meglio identificato evento catastrofico nel 2313, di animali a noi sconosciuti che vagano nell’oscurità del 10175, di forme di vita nuove e colorate che appaiono nel 22175. Ci sono foto di famiglia fatte in anni diversi sullo stesso divano, madri che tengono in braccio i loro figli nel 1924 come nel 1945, nel 1949 e nel 1988, feste di carnevale, party, bambine che ballano. C’è una bellissima pagina ambientata nel 1949 in cui lo specchio sopra al camino cade e mentre una vignetta più grande ci mostra l’acqua che entra in casa dalla finestra in una notte del 2111, ci sono tantissime finestrelle che ci mostrano piatti e bicchieri che si rompono e insulti che volano letteralmente in aria, neanche fossimo in un trattato sociologico sull’evoluzione del linguaggio. E poi c’è la storia della stanza, con la carta da parati che viene sostituita nel 1949 per poi essere coperta dalla pittura nel 1960, lo specchio sopra al camino che lascia spazio a un quadro, poi sostituito da un altro specchio, quindi da un televisore da parete che diventerà obsoleto nel 2050 davanti alle nuove tecnologie da salotto. C’è anche il dramma in Here, dato che nelle prime pagine siamo nel 1989 e un uomo dopo aver ascoltato una barzelletta inizia a ridere, quindi a tossire e infine cade a terra, anche se per vedere la reazione dei familiari dovremo aspettare di arrivare quasi a metà volume, in una pagina ambientata sempre nel 1989 ma in cui c’è anche una donna che nel 1960 dice “Did you lose something?”, collegandosi alla morte dell’uomo e contemporaneamente dando il via a una sequenza di diverse pagine con personaggi che perdono oggetti personali oppure la testa, la vista, l’udito.

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Capita raramente di trovare delle opere formalmente innovative che siano in grado al tempo stesso di parlare al cuore del lettore. Here è una di queste e l’effetto ottenuto da McGuire è ancora più straordinario se pensiamo che riesce a pungolare, a emozionare, a stupire senza fare uso di trame né di protagonisti, ma semplicemente raccontando la Storia e le storie, il grande e il piccolo, il grave e l’irrilevante, il serio e il faceto. La metafora più efficace di tutto ciò è nelle pagine iniziali, quando nel 1957, l’anno da cui partiva la versione originale di Here, una donna entra nella stanza e si chiede “Hmm… Now why did I come in here again?”. La domanda – autobiografica e metanarrativa – rimane in sospeso mentre leggiamo e la risposta arriva soltanto alla fine: la donna è entrata per prendere un libro. E – come cantavano i Pavement – tutto finisce qui.

Le prime pagine di “Frontier” #8 di Anna Deflorian

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Ha esordito lo scorso fine settimana al Toronto Comic Arts Festival l’ottavo numero di Frontier, l’antologia monografica pubblicata dalla Youth In Decline di San Francisco, realizzato dalla nostra Anna Deflorian. Ryan Sands, patron della casa editrice, aveva conosciuto la Deflorian grazie al contributo dell’illustratrice trentina al nono numero dell’antologia baltica š!. Le tematiche di quel breve racconto e le inquietudini, le pulsioni, le emozioni nascoste delle protagoniste di Roghi, volume del 2013 targato Canicola Edizioni, tornano in queste pagine. Due donne, un uomo incontrato in palestra, un cellulare smarrito con qualche foto osé sono gli elementi di una narrazione scandita attraverso tavole finemente decorate e dalle geometrie inusuali. Di seguito le prime pagine di Faith in Strangers.

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Due fumetti di Nina Van Denbempt

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Nina Van Denbempt è un’autrice belga classe ’89, cresciuta artisticamente a Gent, splendida cittadina delle Fiandre che di recente ha sfornato i talenti di Brecht Evens e Brecht Vandenbroucke. Insieme ad alcune compagne della scuola d’arte Sint-Lucas, dove si è diplomata in illustrazione, Nina ha formato il collettivo Tieten Met Haar ed è nel quarto numero del’omonima antologia che ho visto per la prima volta il suo lavoro, in cui i corpi deformati, il lettering irregolare, la giustapposizione di tecniche diverse danno vita a pagine coraggiose e mai banali, come potete vedere dai due fumetti in basso. Il primo è It is not out of the ordinary to dance to jazz music anymore, una storia di quattro pagine vista sia sull’antologia Tieten Met Haar che sulla zine autoprodotta Captain Foggy Brain, caratterizzata da un lirismo stemperato dalla giusta dose di ironia. Uno dei leitmotiv dell’opera della cartoonist belga sembra la banalità del quotidiano e dei suoi rituali e si trova anche nella seconda proposta, Runbeast & Lola in Technoland, dalla trama più strutturata e ambientata in un futuro regime repressivo, con un uso originale del colore. Nina è attualmente a lavoro sulla sua prima opera lunga, Barbarians, una storia d’amore sullo sfondo di un’Europa post-apocalittica.

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“Salz and Pfeffer” di Émilie Gleason, un’anteprima

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Nata in Messico, Émilie Gleason ha vissuto tra Belgio e Francia e sbarca ora negli Stati Uniti con il suo primo libro per il mercato nord-americano, pubblicato dalla 2D Cloud di Minneapolis e presentato lo scorso fine settimana al Toronto Comic Arts Festival alla presenza dell’autrice. Un uomo baffuto, ordinato, rispettabile, Pfeffer sogna di fare il disegnatore per bambini ma una notte viene rapito dagli alieni, in realtà tre versioni oblunghe e cattive di Mickey Mouse. Salz and Pfeffer è un libro divertente, disegnato con uno stile a matita d’altri tempi e dotato di un forte senso della dinamicità. Il lavoro della Gleason rilegge in chiave cartoon quello di autori come C.F. e Gabriel Corbera e questo viaggio di 76 pagine violento, ironico, surreale merita la vostra attenzione, come d’altronde i lavori autoprodotti dall’autrice, disponibili nel suo negozio online. Di seguito le prime pagine del volume.

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