JICBC PT. 3 – “Our Mother” di Luke Howard
Dopo Blammo #9 di Noah Van Sciver e Get Out Your Hankies di Gabrielle Bell, è Our Mother di Luke Howard il terzo fumetto “uguale per tutti” del Just Indie Comics Buyers Club, il servizio di sottoscrizione entrato nel vivo della sua seconda edizione. Per chi ancora non sapesse di cosa sto parlando, il Buyers Club è un abbonamento annuale che permette a chi ha aderito entro lo scorso 10 gennaio di ricevere 4 oppure 8 fumetti all’anno in quattro spedizioni a cadenza trimestrale. L’idea è quella di rendere disponibili al pubblico italiano comic book, antologie e mini-comic autoprodotti difficilmente reperibili in Europa, dato che escono fuori dalle logiche distributive e commerciali del fumetto di massa, ormai standardizzate nel formato graphic novel. Se per le spedizioni di gennaio e aprile ho scelto due autori sicuramente noti a chi ha seguito le evoluzioni del fumetto indipendente e d’autore statunitense degli ultimi anni, con la terza mandata ho fatto una scelta di nicchia, dato che Luke Howard è autore meno conosciuto al grande pubblico. Diplomato al Center for Cartoon Studies di White River Junction nel Vermont, Howard ha iniziato ad autoprodurre i suoi fumetti e a collaborare a riviste e antologie sin dagli anni passati nella scuola di James Sturm. Seppur stilisticamente altalenanti, queste prove avevano già diversi spunti interessanti, basti pensare a Junior, Dance Yourself to Death (per Irene #3, che avevo recensito qui) e Trevor, pubblicato nel secondo numero dell’antologia in scatola Dog City e nominato agli Ignatz Awards. Howard, diventato nel frattempo insegnante del CCS, si è così fatto notare agli occhi degli editori di settore ed è riuscito a pubblicare lo scorso anno due fumetti di maggiore ambizione e portata, ossia Talk Dirty to Me, graphic novel uscita per AdHouse Books, e appunto Our Mother, dato alle stampe da Retrofit Comics proprio sul finire del 2016. Se la prima prova sulla lunga distanza ha pregi e difetti e non convince ancora appieno, con Our Mother Howard ha mostrato tutt’altro passo, raccontando con una struttura frammentata e sghemba una serie di storie legate alla figura della madre, vittima di disturbi d’ansia e attacchi di panico, senza mai finire nell’autobiografico e cercando anzi la strada della metafora, dell’ellissi, del fantastico. Su Our Mother mi ero già brevemente soffermato in questa puntata di Misunderstanding Comics. Qui sotto trovate invece le prime 4 pagine del fumetto, che a giorni gli abbonati potranno leggere nella sua completezza e che vi mostro grazie alla collaborazione dell’editore. Buona lettura.
Cos’è successo al Just Indie Comics Fest
Alcuni di voi avranno già visto le foto sui social o meglio ancora avranno partecipato all’evento, ma mi sembra comunque doveroso pubblicare su queste pagine un sintetico reportage dal festival nato come diretta emanazione di questo sito e che ho organizzato insieme a Serena Schinaia e Donato Loforese dello studio di progettazione grafica Co-Co e con la collaborazione di Serena Dovì. Proprio la sede di Co-Co al Pigneto a Roma è stato il luogo in cui si è svolto il Just Indie Comics Fest dal 2 al 4 giugno scorsi. Per la genesi del progetto vi rimando alla presentazione che ho pubblicato tempo fa, mentre qui mi limito a farvi la cronaca di quanto successo. E prima di iniziare colgo l’occasione per ringraziare tutti coloro che hanno collaborato e che ci sono venuti a trovare.
Venerdì 2 giugno
Il programma del primo giorno era incentrato sull’inaugurazione delle personali di Diego Lazzarin e Alessandro Galatola, entrambi ospiti del festival in carne e ossa. In breve, le mostre. Quella di Lazzarin, autore del volume Aminoacid Boy and the Chaos Order autoprodotto nel 2015 con una campagna di crowdfunding, si incentrava su alcuni originali tratti dal libro e su stampe appositamente realizzate per l’occasione, anticipazioni del prossimo lavoro Protector of the Kennel, tuttora in lavorazione. In più trovavano spazio quattro sculture in argilla che raffiguravano i personaggi dei lavori di Lazzarin, mostri, alieni ed esseri deformi che in realtà nascondono la visione del mondo del loro demiurgo e persino autobiografia.
Nelle pareti dedicate a Galatola spiccavano invece le tavole originali tratte dall’albo Dio di me stesso, coprodotto da Just Indie Comics e Co-Co in occasione del festival, con il loro bianco e nero netto e dettagliato. In più una selezione di stampe a colori, che davano conto delle recenti sperimentazioni del nostro con brevi narrazioni di quattro vignette. E in un paio di casi era possibile vedere gli originali in bianco e nero di tavole poi trattate con la colorazione digitale.
Il pubblico, che non è mancato nonostante il giorno festivo, si è potuto godere anche il dj set di “musica sbagliata” a firma MICA e MICS, che alternava Thurston Moore al trio Morandi-Tozzi-Ruggeri, i Blonde Redhead a Partiti adesso di Giusy Ferreri.
Sabato 3 giugno
Sabato è stata sicuramente la giornata migliore per affluenza di pubblico, tra l’altro curioso e preparato. Le mostre e il bookshop di Just Indie Comics sono rimasti aperti dalle 16 fino a tarda sera, mentre nel corso del pomeriggio si è tenuta una presentazione condotta da me e Alessio Trabacchini su alcuni fumetti statunitensi che ben rappresentano i temi di Just Indie Comics. Si è passati quindi da Puke Force di Brian Chippendale ai fumetti di Conor Stechschulte finendo con le pubblicazioni della Domino Books di Austin English.
Alessio Trabacchini su Puke Force: “E’ un libro che ti sorprende continuamente, perché riesce ad essere super-profondo e super-scemo nello stesso momento, alternando per esempio un lunghissimo flashback sulla formazione di un terrorista della destra fondamentalista americana alla descrizione dettagliata di una partita a solitario. Con la costruzione bustrofedica della pagina e i suoi salti avanti e indietro nel tempo, Puke Force è leggibile all’infinito, come tutti i fumetti belli d’altronde”.
Subito dopo ho fatto un po’ di domande a Diego Lazzarin e Alessandro Galatola sul loro lavoro e sulle opere in mostra al festival. Ho già pubblicato la trascrizione di questa intervista informale in un altro post, quindi non mi dilungo ulteriormente.
Di seguito vino, birra, chiacchiere varie, un po’ di acquisti dei fumetti di cui si era appena parlato e che erano tutti disponibili per l’occasione, e soprattutto il live di Marco Bonini in arte uBiK con la sua chitarra e i suoi effetti, le sperimentazioni noise che finiscono per formare avvolgenti melodie.
Domenica 4 giugno
E’ un’assolata domenica di giugno ma gli avventori sono sempre attenti e interessati. Chi non aveva visto le mostre ne ha approfittato, altri ancora sono venuti per assistere all’ultimo incontro della serie, con Serena Schinaia che giocava in casa per parlare della sua nuova storia breve Souvenir e i ragazzi di Studio Pilar per la prima presentazione “ufficiale” della loro ultima fatica, l’Atlante illustrato delle nuove Costellazioni, al debutto soltanto una settimana prima all’Arf!.
Con Serena si è parlato di storie mentali, sintesi narrativa, comics as poetry, storytelling fotografico e Frank Miller, e se un giorno leggerete Souvenir (presto disponibile on line nel webshop) capirete perché.
Serena Schinaia sul suo metodo di lavoro: “Preferisco raccontare storie che non si compiono o che probabilmente non sono neanche storie. L’utilizzo di un testo sintetico crea ritmo all’interno della pagina e dà vita a un’energia silenziosa. Quando inizio ho un testo leggermente più lungo ma poi tendo ad eliminarlo passo dopo passo, perché mi piace arrivare al nocciolo delle cose. Le mie storie non hanno un personaggio definito, il protagonista non ha un nome, non ha un volto, è un universale e quindi una voce così sintetica è più adatta a un racconto universale che a uno particolare“.
Con Giulia Tomai, Andrea Chronopoulos e Giulio Castagnaro (mancava Andrea Mongia, in trasferta all’Inchiostro Festival di Alessandria) siamo invece entrati nei dettagli del nuovo progetto di Studio Pilar, che ha visto 62 illustratori internazionali confrontarsi con la creazione di una nuova immaginaria costellazione realizzando poi un disegno ispirato alle sue forme. Ne è venuto fuori un libro affascinante, molto vario nei contenuti ma fortemente coeso nel suo insieme, grazie soprattutto alla decisione di utilizzare il bianco e nero.
Dopo l’incontro ancora qualche ora per tenere aperte le mostre, poi serrande abbassate e arrivederci – magari, chissà – al 2018.
Quattro chiacchiere con Lazzarin e Galatola
Sabato 3 giugno durante il Just Indie Comics Fest ho fatto qualche domanda a Diego Lazzarin e Alessandro Galatola a proposito delle mostre allestite in quell’occasione e del loro lavoro, soffermandomi in modo particolare su Aminoacid Boy and the Chaos Order e Dio di me stesso. Ne è venuta fuori una chiacchierata che mi è sembrata interessante e che ho dunque trascritto ed editato con la collaborazione dello stesso Galatola. Non vi dico di più perché probabilmente, se seguite questo sito, già sapete di cosa si sta parlando. Per ulteriori dettagli vi rimando a un prossimo reportage dal festival. Buona lettura.
Gabriele Di Fazio: Allora, partiamo da te Diego per ordine di età, dato che sei sicuramente più anziano di lui.
Diego Lazzarin: Sì, sono il papà…
GDF: Beh, non fino a questo punto… Diego è autore di Aminoacid Boy and the Chaos Order, un libro di cui in Italia non si è parlato tanto quanto avrebbe meritato, forse perché nel nostro mondo del fumetto cosiddetto “indipendente” ci sono tante persone, tanti collettivi che si conoscono tra loro e che ricevono più attenzioni perché sono nella “scena”, mentre Diego è un outsider che non conosce nessuno e non legge neanche tanti fumetti, quasi per niente anzi…
DL: No, qualcosa… Chippendale!
GDF: Ok, allora mi correggo… Dunque, Diego si è autoprodotto dal nulla questo libro ormai nel 2015 e ha fatto una campagna di crowdfunding su Indiegogo. Si era proposto di arrivare a 6500 euro e ne ha raccolti 9000, il libro è stato pubblicato direttamente in inglese e questo gli ha permesso di andare benissimo anche all’estero, dove è riuscito a vendere anche parecchie tavole originali. Al di là del risultato commerciale per me la cosa stupefacente, soprattutto perché questo è il tuo primo fumetto, è la capacità con cui ti sei confrontato sul formato lungo, perché Aminoacid Boy è una sorta di graphic novel se vogliamo chiamarlo così, ed è riuscito perché rispetta i tempi narrativi, c’è una storia, c’è un’inizio e una fine. Volevo capire come hai lavorato per realizzare questo libro, perché vedendo gli originali che sono in mostra qui in occasione del festival la cosa che salta agli occhi è che non ci sono le pagine finite ma soltanto immagini singole, tutte di formato diverso, che poi ritroviamo all’interno della narrazione. Sei partito dalla pittura, dall’aspetto visivo, o comunque avevi già in testa la storia?
DL: In realtà quando ho iniziato a lavorare al libro avevo in mente la storia da un sacco di tempo, da veramente tanti anni, ma io venivo dall’animazione, quindi ero abituato a un processo completamente diverso e in questo caso mi sono dovuto confrontare con il linguaggio della narrazione. Per me lavorare sulle illustrazioni è stata proprio una scuola. Le illustrazioni sono singole perché non ero in grado di fare una pagina intera, e soprattutto durante la lavorazione del primo capitolo le ho fatte e rifatte decine di volte. Soltanto dopo almeno tre capitoli ho cominciato a ragionare sul formato pagina e quindi sulla composizione. Successivamente mi sono stancato della composizione della pagina e anche un po’ della storia, della narrazione, così ho cambiato nuovamente metodo e ho voluto divertirmi con delle pagine piene di sola illustrazione.
GDF: Infatti il penultimo capitolo è composto interamente da splash page o addirittura da pagine doppie che però non sono fini a se stesse, dato che rappresentano anche quello che sta succedendo nella storia.
DL: Il cambiamento avviene in parallelo all’evolversi della storia, perché succedono delle cose caotiche non più legate al personaggio, ma all’ambientazione.
GDF: A questo punto mi sembra inevitabile riassumere qual è la trama del libro per chi non la conosce.
DL: Vai, provaci!
GDF: Allora, c’è questo mondo alieno o comunque una realtà diversa dalla nostra, in cui un dio fatto di carne e metallo invia Aminoacid Boy sulla Terra per capire come funziona il mistero della vita umana, cioè perché gli uomini fanno quello che fanno, perché sono dotati di volontà, di desiderio, insomma come fanno ad avere delle pulsioni che gli consentono di avere un obiettivo, di superare il caos naturale dell’esistenza…
DL: O anche di non superare…
GDF: Esatto… Insomma, il dio manda Amino sulla Terra con il compito di scoprire questo mistero e di comunicare le informazioni che raccoglie attraverso internet, solo che per un errore spazio-temporale il protagonista arriva sul nostro mondo tanti anni fa, così che la sua prima esperienza è l’incontro con il Pequod impegnato a dare la caccia a Moby Dick. Già questi primi sviluppi fanno anche un po’ ridere e infatti il libro, nonostante sia pieno di mostri ed esseri deformi, è raccontato con uno spirito naif, ironico. Poi nel corso del tempo Amino passa attraverso varie fasi, fino ad arrivare ai giorni nostri… Dico bene?
DL: Sì, passa attraverso varie fasi e di volta in volta muta cambiando il suo DNA, perché lui assorbe il DNA degli esseri che si trova vicino, come gli animali e infine l’uomo…
GDF: In una delle sue evoluzioni diventa cantante di un gruppo punk e dopo, in vecchiaia, un rispettabile padre di famiglia che guarda la tv sul divano. Il tutto si svolge con il personaggio principale che guarda la realtà sempre con gli occhi dell’alieno, in modo disincantato, facendo sembrare ridicoli o vani certi nostri costumi. Questo sembra contenere una critica sociale da parte tua, e mi chiedo se ti sia venuta così oppure se c’era intenzionalmente dal principio.
DL: In effetti nel libro c’è proprio la mia visione del mondo, la mia percezione della realtà, soprattutto quando verso la fine arriva il Caos sulla Terra. La visione del personaggio è invece la mia visione personale, è proprio un cammino di crescita, infatti vi sono rappresentate le varie fasi della vita e Amino è costantemente alla ricerca del motivo, della ragione del volere, ma non riesce mai a capirlo, solo a un certo punto guardandosi indietro si accorge che in una fase della sua vita stava provando la gioia dell’interesse nelle cose, ma poi perde di nuovo i punti di riferimento e la realtà lo confonde di nuovo.
GDF: Quindi c’è una vera e propria ricerca personale nel racconto, tanto che, pur se apparentemente fantastico, Aminoacid Boy è in realtà un libro autobiografico…
DL: Fanta-autobiografico!
GDF: Ok, a questo punto passiamo ad Alessandro. Anche con te vorrei iniziare un po’ su come lavori, perché leggendo le tue storie contenute in Dio di me stesso, l’albo che abbiamo pubblicato in occasione di questo festival, ci si rende conto che non sono storie vere e proprie, sono più che altro delle digressioni, quindi c’è un argomento, o piuttosto una situazione – non so, un uomo chiuso in una stanza – e da lì tu cominci a immaginare tutta una serie di cose che succedono. E poi è molto letterario, c’è un testo forte, ci sono delle visioni molto potenti a livello grafico, con tutti questi pattern, anche degli inserti del mondo dei cartoon, dei videogiochi e via dicendo. Quindi volevo sapere se tu di solito parti da un’idea o da una storia e se fai uno storyboard, perché in realtà sembra che questi fumetti siano realizzati seguendo una sorta di flusso di coscienza.
Alessandro Galatola: Sì, in effetti lavoro in maniera quasi del tutto casuale, magari parto da un’idea o da un’immagine che ho avuto, o da delle sensazioni che voglio descrivere, e quindi cerco di trovare le immagini giuste che possano rappresentarle. Tra le varie idee secondo me quelle che rendono meglio sono quelle mi girano in testa per un sacco di tempo: a volte mi rendo conto che in qualsiasi situazione mi trovo, qualsiasi problema mi trovo ad affrontare mi viene quell’immagine in testa, quindi quando ho una fissazione la metto lì e cerco di capire cosa ci può girare intorno, cosa può succedere. In particolare la storia che è ambientata tutta in una stanza chiusa e parla appunto di un tipo che è ingabbiato lì dentro…
GDF: Crocefisso su un letto di rose.
AG: Sì, la seconda storia dell’albo… Lì volevo fare una storia d’amore e quindi volevo divertirmi raccontandola, e non so perché quando non ho assolutamente nessuna idea su cosa fare, su cosa disegnare, mi vengono in mente le stanze chiuse perché le trovo molto confortevoli. E quindi mi sono detto ok, immaginiamo che ti trovi in una gabbia dentro una stanza chiusa, che diavolo può succedere in una situazione così estrema, che non puoi fare niente e non c’è nessuno insieme a te? E quindi da lì ho cercato di trovare tutte le possibili soluzioni a questo problema. Per quanto riguarda il metodo, questa era l’idea iniziale e avevo un senso generale della struttura e delle sensazioni che doveva trasmettere la storia, però fondamentalmente ho proceduto vignetta per vignetta ma aiutandomi comunque con uno schema di partenza, perché se non l’avessi avuto non sarei finito da nessuna parte. Dovevo avere per forza un qualche tipo di struttura che mi aiutasse a scrivere mentre disegnavo e quindi ho fatto semplicemente una griglia quadratissima, sono tutti quadrati e sono tutti uguali, e ho proceduto a riempire gli spazi volta per volta. Come? Dipende, dipende da quello che mi succedeva in quel periodo, quindi se mi girava un pensiero in testa o se avevo appena vissuto qualcosa, non so, con una ragazza o in qualsiasi altro modo che mi facesse venire un’idea che si potesse ricollegare a quel mondo, a quelle sensazioni, lo inserivo e poi cercavo di far quadrare tutto quanto. Quindi magari c’era qualcosa che veniva prima, qualcosa che veniva dopo, e io cercavo di cucire tutto insieme cercando di mantenere comunque un flusso costante e dinamico. Sicuramente ci sono delle parti un po’ più chiare, un po’ più leggere, un po’ più divertenti e delle parti che sono esattamente l’opposto. Comunque l’obiettivo era in qualche modo far divertire molto ed emozionare molto i lettori.
GDF: Infatti succedono tutte e due le cose. Prendi quest’uomo chiuso in una stanza, che è una situazione, un argomento, un tema, fai delle digressioni su quest’argomento, lo guardi da tutte le possibili sfaccettature fino a portarlo al paradosso più totale, all’esagerazione e a creare sia divertimento che emozione. Secondo te, che poi è molto difficile rispondere a una domanda del genere, c’è più dramma o più ironia nei tuoi lavori?
AG: Ehm… C’è… C’è molto paradosso.
GDF: Non si capisce se si deve ridere o piangere.
AG: Non lo so, o meglio, è questo il punto. Mi piace raggiungere quel punto nelle cose in cui i due aspetti coincidono completamente e quindi raggiungi un livello di saturazione emotiva e ti scarichi completamente e sei pulito e stai bene. Per questo mi piaceva fare questa specie di saliscendi tra le varie emozioni, in modo che tu avessi esplorato tutto e arrivassi alla fine in qualche modo completamente depurato e con la mente libera e felice e contenta.
GDF: Io avevo già visto un’altra cosa che hai fatto prima di questa, l’antologia che ti eri autoprodotto nel 2015, che si chiamava SAFE SPACE, e lì c’erano dei fumetti secondo me molto diversi rispetto a Dio di me stesso, sia stilisticamente sia soprattutto per i contenuti, perché erano più legati alla grafica, più giocosi rispetto a questi che invece sono più scritti e densi. C’è una bella differenza fra l’uno e l’altro, anche perché sono passati circa due anni da quel primo albo e i nuovi sono senz’altro più recenti…
AG: Sì, li ho cominciati a fare nel 2015 e li ho finite a Natale scorso.
GDF: Però secondo me c’è un grosso stacco fra quello che facevi prima e quello che fai adesso, sembra come se tu avessi letto o visto qualcosa di importante, come se fosse successo qualcosa che ti ha fatto cambiare. Secondo te a cosa è dovuta questa evoluzione?
AG: Sicuramente prima ero più piccolo, quindi cercavo di esplorare varie strade, cercavo di divertirmi e basta, fare delle cose che mi piacessero, senza particolari ambizioni. E poi in generale vedevo ancora un sacco di altri autori e di artisti, quindi continuavo ad assorbire tante cose diverse, fin quando questa cosa mi ha rotto le palle e mi sono detto voglio fare una cosa mia, punto e basta, perché se continuo a guardare troppo al mondo esterno non riuscirò più a trovare una soluzione mia, comincerò a non sapere più chi sono, e quindi ho deciso di chiudermi completamente e di cercare di far quadrare tutti i riferimenti che avevo fino a quel momento.
GDF: Quindi hai cercato di raccontare qualcosa di tuo.
AG: Sì, l’unica cosa che mi concedevo era vedere cose dal passato, guardando ad artisti che non avrei mai avuto la possibilità di conoscere se non avessi avuto internet, o cose del genere, quindi scaricavo un sacco di fumetti, me li leggevo, leggevo articoli eccetera e cercavo di selezionare le cose che sentivo come mie, che in qualche modo mi facessero sentire a casa provando semplicemente a mischiare tutto insieme. Questo dipende anche dal fatto che stavo finendo l’università però non mi andava per niente, quindi cercavo qualsiasi modo che mi tenesse lontano dallo studio e più incollato alla pagina, più dentro il mio mondo, perché in quel momento la trovavo la cosa più appagante.
GDF: Infatti nel tuo lavoro ci sono tanti riferimenti a cose più vecchie, io avevo citato quando c’eravamo visti tempo fa Mark Beyer, che magari tu anagraficamente non potevi conoscere. Sembra che questo fumetto sia l’opera di un autore molto più grande di te, che viene da una scena diversa…
AG: Volevo crescere, volevo darmi un po’ di forza, volevo capire chi fossi, quindi ho cercato di basarmi su tutto quello che mi apparteneva a un livello più profondo. Per quanto riguarda i fumetti mi sono sempre piaciute le cose più stilizzate, più vicine ai graffiti o anche più primitive. Poi mi piacevano i videogiochi, soprattutto quelli a cui giocavo da piccolo, tipo Zelda o i Pokemon mi piacevano un casino, anche perché mi facevano sentire a casa. Ci vedo una specie di coerenza estetica in tutto questo, quindi mischiavo i due piani, quello dei fumetti e quello dei videogiochi, perché se questi due mondi si incontrano sento che la cosa mi appartiene.
GDF: Allora, per concludere, parliamo delle altre cose che vediamo qui esposte, partendo di nuovo da Diego. La tua mostra ha infatti una parte incentrata sugli originali di Aminoacid Boy e un altra è invece tratta da un libro a cui stai ancora lavorando, che si chiamerà Protector of the Kennel. C’è un netto distacco fra i due, perché i materiali di Aminoacid Boy sono pittura, acrilico, le altre invece sono stampe, perché gli originali sono stati modificati in digitale a livello di colorazione.
DL: Per questo lavoro qui sono partito da alcune textures che ho fatto sempre in acrilico però poi ho acquisito in digitale per spingerle con il colore in Photoshop. E’ un lavoro in cui sto cercando di tirare fuori queste tinte sparate utilizzando filtri ed effetti. Passo parecchie ore a lavorare al computer, però parto sempre dal lavoro in acrilico.
GDF: Come mai hai deciso di cambiare metodo di lavoro?
DL: Perché mi annoio se, quando divento troppo consapevole di cosa sto facendo, non mi sorprendo più. E quindi ho cambiato.
GDF: Più o meno di cosa parlerà il libro nuovo?
DL: Non lo so ancora ma a grandi linee è la storia di una separazione dopo una lunga relazione.
GDF: Però con i mostri.
DL: Sì, c’è questo essere che stava facendo un percorso con la sua compagna per finire il suo ciclo vitale e quindi riprodursi, però doveva andare molto lontano dal posto in cui vive. A un certo punto la sua compagna muore e lui rimane senza endorfine perché avevano un legame simbiotico, e vive in questo mondo in cui non c’è tecnologia ma tutto si ripara biologicamente. Solo che mentre lui torna sono arrivati degli altri alieni che hanno portato la tecnologia, quindi sta cambiando tutta la situazione… Ma non so ancora che cosa succederà dopo.
GDF: Ok, speriamo di scoprirlo presto. Invece Alessandro oltre agli originali tratti dal libro ha in mostra quelle stampe in fondo che abbiamo fatto per l’occasione, si tratta di materiale in bianco e nero colorato in digitale. Tranne un paio di illustrazioni, sono tutti fumetti di quattro vignette e a colori, quindi mi chiedevo perché avevi iniziato a lavorare così e se parallelamente stai portando avanti anche storie più lunghe…
AG: Cose lunghe zero.
GDF: Ormai stai andando sulle quattro vignette.
AG: Ho delle idee in testa però non è ancora il momento di lavorarci, ci vorrebbe troppo tempo quindi le lascio un po’ maturare, nel frattempo faccio questi piccoli fumetti in cui in uno spazio così ridotto posso permettermi di esprimere qualcosa e allo stesso tempo fare degli esperimenti grafici, trovare delle soluzioni che mi interessano. Ho scelto il colore perché dopo aver lavorato tanto in bianco e nero ho bisogno di fare le cose in maniera un po’ più dinamica, un po’ più leggera e mi sembrava che, senza rinunciare a una certa dose di potenza ed energia, il colore fosse perfetto per questo genere di cose, perché sono anche più veloci da realizzare, da leggere, sono come delle piccole poesie in un certo senso.
Anteprima di “Dio di me stesso”
Dio di me stesso di Alessandro Galatola è la prima produzione targata Just Indie Comics, pubblicata in collaborazione con lo studio Co-Co in occasione del Just Indie Comics Fest. Per chi segue queste pagine è facile capire perché ho deciso di pubblicare il lavoro di Alessandro, che seguo sin dagli esordi, quando l’ho notato su Facebook e sul suo Tumblr. Al Crack! di Roma del 2015 l’ho poi conosciuto di persona e ho avuto la possibilità di vederne il lavoro su carta grazie a Safe Space #1, il fumetto che si era autoprodotto in quel periodo. Ne avevo parlato qui, elogiandone lo spirito indipendente e “out” rispetto a quanto siamo abituati a vedere dalle nostre parti, e ne avevo poi distribuito qualche copia ai vari festival e nel webshop.
Quel primo albetto mi aveva già fatto presagire notevoli sviluppi, che sono puntualmente arrivati in Safe Space #2, il fumetto che in realtà non esiste. Galatola lo aveva infatti pubblicato soltanto in una manciata di prototipi per farlo girare tra gli addetti ai lavori, con l’idea di cercarsi un editore senza dover nuovamente ricorrere all’autoproduzione. Quando me l’ha consegnato di persona nel dicembre scorso a Martina Franca durante il festival Manuscripta, sono rimasto sbalordito per i passi avanti fatti dal nostro e per l’originalità della sua proposta, che mediava le nuove tendenze del fumetto con una scrittura mentale, a volte malata altre ironica, più spesso tutte e due le cose insieme ma comunque potente, coraggiosa, consapevole. Ho dunque inserito “il fumetto che non c’è” nel mio Best of 2016 e ho pubblicato la storia Dio di me stesso su questo sito. Va da sé che quando Serena Schinaia e Donato Loforese di Co-Co mi hanno proposto di organizzare un festival di Just Indie Comics a Roma, la scelta di coinvolgere Alessandro Galatola è stata quasi scontata. Abbiamo dunque scelto tre sue storie inedite lette sul prototipo di Safe Space #2 che ci sembravano dense di contenuto, interessanti graficamente nonché omogenee tra loro per metterle insieme in un albo spillato di 32 pagine in bianco e nero intitolato appunto Dio di me stesso. Oltre alla storia che dà il nome alla raccolta, vi trovate gli altri due racconti brevi Crocefisso su un letto di rose e Il club del vomito. Di più non dico, perché entrare nei dettagli di un albo che ho co-pubblicato mi farebbe raggiungere ulteriori livelli di ridondanza. Vi lascio dunque alla descrizione di Dio di me stesso e ad alcune immagini in anteprima. L’albo è ovviamente disponibile nel webshop di Just Indie Comics. Buona visione e – spero – buona lettura.
Corpi cadenti e lesionati, volti sudati, pattern in bianco e nero, disturbi di frequenza, riferimenti al mondo dell’animazione e dei videogiochi, disinteresse per ogni forma di figurativismo. Nata sulla scia di cartoonist contemporanei come i canadesi Michael DeForge e Jesse Jacobs, l’arte di Alessandro Galatola ha saputo smarcarsi dai modelli iniziali per creare qualcosa di unico nell’attuale panorama del fumetto italiano. Per andare avanti il giovane fumettista pugliese ha dovuto guardarsi indietro, integrando nel suo immaginario l’estetica cyber anni ’80, il lato sporco della beat generation di William Burroughs, l’underground malato e a volte ironico di Mike Diana e Mark Beyer. All’aspetto estetico si accompagna una dimensione testuale densa di contenuto, capace di rappresentare alterità, disagio, alienazione ma anche di rivolgere un sorriso beffardo alle consuetudini sociali.
“Dio di me stesso” è un albo di 32 pagine in bianco e nero pubblicato da Just Indie Comics e Co-Co in occasione del Just Indie Comics Fest e contenente oltre alla storia omonima gli altri due fumetti brevi “Crocefisso su un letto di rose” e “Il club del vomito”.
Alessandro Galatola è nato a Bari nel 1993 e frequenta l’ISIA di Urbino. Ha pubblicato su riviste indipendenti come Snuff Comix, Fumé, Gestopo Propaganda, Carousel e online su Verticalismi, 4Panel, Curzio. Nel 2015 fa uscire l’albo autoprodotto “Safe Space” #1, che porta al Crack! Festival di Roma. Si dedica ai graffiti per divertimento.