“Christmas in Prison” di Conor Stechschulte
Se non avete niente di meglio da fare e siete fedeli lettori di Just Indie Comics, sapete già che Conor Stechschulte è uno dei miei cartoonist preferiti di oggi. Il suo The Amateurs è una pietra miliare del fumetto contemporaneo (l’ho inserito nel mio Best of 2014) e la serializzazione di Generous Bosom per Breakdown Press ha già fornito motivi di meraviglia e interesse (per sapere quali potete leggere la mia recensione).
Nonostante la pubblicazione per case editrici affermate nel panorama del fumetto alternativo, Stechschulte continua a essere un sostenitore dell’autoproduzione, in quanto concepisce il fumetto come un medium fortemente legato ai processi di stampa. Christmas in Prison è finora la sua fatica più impegnativa in questo campo, un volumetto 18×14 cm di 96 pagine realizzato in una molteplicità di tecniche diverse (risograph, serigrafia, offset) e rilegato a mano. L’oggetto già di per sé varrebbe la spesa ma il contenuto è ancora più interessante per molteplici motivi, a partire dal fatto che conferma Stechschulte come un autore con una propria poetica, capace di creare un universo di temi e contenuti.
All’interno troviamo “pezzi” più che “storie”, dato che a volte il messaggio non è propriamente narrativo e l’interconnessione tra ciascuno di essi, basata sul meccanismo della ripetizione, fa pensare a un LP più che a un’antologia di fumetti o racconti. Prendiamo come esempio le pagine iniziali. Una mano sfoglia un libro, che mostra due volti umani che nella vignetta successiva si fondono tra loro. Ecco dunque una casa con una finestra illuminata, la stessa casa in mezzo al mare con una sagoma all’interno (solo una delle tante silhouette in questo libro), il mare alla luce della luna, nuvole, la figura di un uomo sovrapposta ai rami di un albero, ancora alberi, corpi, uomini, case, una lampada da scrivania, di nuovo il libro, le mani, una figura che barcolla in mezzo al verde, le mani che da eteree e indefinite arrivano a mostrare linee e pieghe. Sarebbe sbagliato ridurre tutto ciò a libere associazioni di idee, sotto c’è un contenuto che va al di là della logica, che parla al nostro emisfero destro, che è sogno, poesia, musica, improvvisazione ma anche rappresentazione di un processo, performance più che fumetto.
Il tema del libro e della metanarrazione torna più volte, come tornano il voyeurismo, il controllo, il continuo senso di inquietudine, la solitudine, il dualismo uomo/natura, l’acqua come luogo di mistero, novità, rinascita. Christmas in Prison (o The Many Ways of Doing and the Wrong Way That It’s Done, come viene ribattezzato sul dorso) è così un’opera autonoma, con una fortissima coerenza interna, ma anche una sorta di campionario di sperimentazioni con cui Stechschulte ha arricchito o arricchirà le opere propriamente narrative. E la stessa dinamica era già presente in autoproduzioni come Wather Phase, Lurking/Nocturners, Mountain Comic. Certo, mai il cartoonist statunitense aveva mostrato in passato una tale forza nello sperimentare e nel proporre qualcosa di così organicamente rivoluzionario. E a confermarlo ecco la parte finale del volume, una lunga storia su voyeurismo, percezione e consapevolezza raccontata da una donna immersa nell’acqua e che affonda le radici sin nella letteratura ottocentesca. E’ questo l’episodio più tradizionalmente narrativo del lotto, ma la linearità apparente nasconde mille interrogativi, espressi prontamente nelle pagine conclusive, in cui i balloon rubano la scena al figurativismo con domande esistenziali di un’intensità sempre crescente.
Se siete interessati a Christmas in Prison, ne trovate ancora qualche copia nel negozio di Just Indie Comics. Oppure potete ordinarlo direttamente dal sito dell’autore.
“Suicida” #1 di Abraham Diaz
Voyeurismo, sadismo, masochismo, autolesionismo, morte, omicidio, suicidio, violenza gratuita, sesso, masturbazione, teledipendenza, degrado metropolitano. Nel suo debutto solista Suicida #1 Abraham Diaz lavora con questi ingredienti, li mescola, li forgia a suo piacimento creando un cartooning compatto e sempre ironico, salace, acido quanto basta. A fine 2015 l’artista messicano ha stampato insieme ai suoi compari dell’etichetta Ediciones Joc Doc 200 copie di questo albo 28×20 cm con testi in inglese e spagnolo, copertina serigrafata, carta bianca e nera con l’aggiunta del verde, utilizzato a volte come inchiostro ma anche per le pagine degli inserti. Un oggetto bello a vedersi e al tempo stesso sporco, che ricerca nell’estetica punk il feeling underground dei comic book monografici di una volta, con tanto di pagina delle lettere (unica differenza, i messaggi dei lettori non arrivano più per posta ma su Tumblr). Si inizia con The Witness, protagonista un solitario uomo di mezza età con tanto di baffetto intento a raccontare un omicidio a cui ha assistito spiando nel bagno della vicina di casa. Il tratto di Diaz è caricaturale, storpia i corpi dei personaggi, allunga i nasi, storce i denti, in uno stile che guarda a tanti artisti che abbiamo amato negli ultimi trent’anni (Ivan Brunetti, Kaz, Johnny Ryan) ma anche a Mad, ai gag cartoon, alle newspaper strip. Non a caso all’interno dell’albo troviamo due mezzi fogli con quattro Misery Funnies, classiche gag con testo sotto la vignetta, del tipo uomo tutto nudo sul water, una tazza fumante in una mano, la cornetta del telefono nell’altra e sotto “You don’t seem to understand… I’m my mother’s only child!”. E la cornetta del telefono è un dettaglio da non trascurare, perché tutto l’albo è fermo per estetica e scenari agli anni ’80 o prima ancora, non c’è volutamente traccia di cellulari, computer e tanto meno internet.
Sulle stesse coordinate nostalgiche e irriverenti delle Misery Funnies è l’inserto in formato orizzontale Tito, che mostra la versione Diaz di Sluggo, l’amico di Nancy nella strip di Ernie Bushmiller (Tito è il nome con cui il personaggio è noto nei paesi di lingua spagnola). Pax Noctis, già vista su Kovra #6 delle Ediciones Valientes, è un altro pezzo forte, una storia di guerra e desiderio, un uomo costretto in trincea che ricorda o più probabilmente immagina un inseguimento in un bosco. La situazione culmina con una donna legata a un albero e frustata, poi si torna al soldato nella trincea che si masturba, fino al finale che unisce di nuovo sesso e morte come nel pezzo d’apertura. Suicida #1 sembra la conseguenza di una settimana passata chiusi in casa a fare zapping al buio davanti alla tv, con i nervi a fior di pelle, gli occhi che pulsano, il corpo in preda a una frenesia isterica che scatena le pulsioni più becere. Ma il cartooning di Diaz non è tutto qui, perché spesso denuncia e mette alla berlina senza mezzi termini l’idiozia umana: se Pax Noctis si prendeva gioco della guerra e dei deliri di onnipotenza sessisti, Milagro En El Congo è invece la storia animalista di un povero scimpanzé stampata su sfondo in risograph verde giungla. Arriviamo dunque a un altro inserto, questa volta apribile formato poster, dove troviamo tre fumetti di una pagina sui temi abituali, ribaditi anche nel successivo ¡Esta Fue Tu Vida!, che introduce la novità del sesso esplicito ma senza dimenticare l’ironia spietata e il gusto per lo storytelling, presenti ovunque nella produzione del messicano. Home è il fumetto conclusivo, un trionfo di linee impazzite che riproducono il caos metropolitano (stessa soluzione adottata in Home Is Where the Hatred Is, storia breve di Diaz per š! #24): un carcerato esce di prigione ma deve subire gli stimoli continui della città, rappresentati in modo parossistico con nudità esibite senza remore, uomini al guinzaglio di donne dai leggings attillati, gente che copula in ogni angolo. Il cruento finale ve lo potete immaginare oppure potete leggerlo sulle poche copie rimaste di Suicida #1, esaurito presso l’editore ma ancora disponibile, almeno al momento in cui scrivo queste righe, su Fatbottom Books, Dripper World e Feel It Records. Oppure potete procurarvi Kramers Ergot #9, dove sono state ristampate di recente Pax Noctis, Home e due delle Misery Funnies. Intanto Diaz è al lavoro sul secondo capitolo e noi restiamo così in trepidante attesa di leggere altri dei suoi fumetti old school.
Misunderstanding Comics #5
Dopo una lunga pausa riprendo a segnalare un po’ di fumetti, che di recente si sono davvero accumulati sulla mia libreria (e scrivania, e comodino, e divano, e lavatrice, ecc. ecc.). Impossibile stare dietro a tutto quello che esce e difficile anche scrivere di tutto quello che leggo. Ci provo cercando di essere sintetico e sapendo benissimo che questi fumetti meriterebbero una trattazione ben più approfondita della mia. Ma, come al solito, faccio ciò che posso.
Negli ultimi mesi si è parlato parecchie volte di Martin López Lam su Just Indie Comics ma io devo ammettere di aver letto soltanto di recente il suo Sirio, uscito a inizio anno per l’eccellente casa editrice spagnola Fulgencio Pimentel. Strana coincidenza, ho sottratto il volume all’infinita pila di libri da leggere proprio quest’estate, in un paio di settimane tra fine luglio e inizio agosto che ho passato in ferie ma, per una serie di circostanze, senza andare in vacanza. Non sono stato recluso come i personaggi della storia di López Lam né è stato trovato un cadavere nella piscina vicino casa mia, ma l’atmosfera di costante attesa, la canicola estiva che aumenta giorno dopo giorno, i paesaggi brulli e i personaggi che girano e rigirano intorno a se stessi mi hanno fatto entrare ancor di più nella storia.
Più che un giallo, Sirio è il racconto di una separazione che vede protagonisti personaggi che sembrano per la maggior parte del tempo fantasmi, con i loro stati d’animo resi splendidamente attraverso un’infinita serie di soluzioni grafiche diverse e i due colori utilizzati, blu e ocra, che sono parte integrante della narrazione. C’è un gran senso di libertà, di sperimentazione in queste pagine, ma al tempo stesso nessuna linea, nessuna sovrapposizione di colori, nessun cambiamento di registro è sprecato. Il volume è in spagnolo ma a richiesta è disponibile un libretto con traduzione inglese allegata. Cercate di recuperarlo perché ne vale la pena.
Un altro autore che propone una ricerca stilistica autonoma, lontana da ogni moda, è senz’altro Austin English, di cui ho avuto l’opportunità di parlare in precedenza come patron dell’eccellente etichetta Domino Books di Brooklyn. Come López Lam, English non cerca assolutamente un disegno facile e attraente. La sua è un’estetica volutamente sgraziata e imperfetta, che mescolando energicamente tecniche, materiali e colori sfocia nell’arte delle avanguardie storiche e dell’espressionismo astratto. Tuttavia la voglia di dipingere, disegnare e sperimentare non porta mai l’autore a trascurare l’impianto fortemente narrativo dei suoi fumetti. Le storie hanno sempre una trama definita, anche se sembrano più sceneggiature di opere teatrali che fumetti tradizionalmente intesi per il modo in cui trattano i personaggi, non soggetti con una personalità e un background alle spalle ma figure che compiono azioni in uno scenario delimitato.
Proprio lo spazio è il protagonista delle cinque storie raccolte di recente da 2dcloud nel volume Gulag Casual. Si tratta di The Disgusting Room (2010), My Friend Perry (2011), Here I Am! (2011), Freddy’s Dead (2012) e A New York Story (2015): tutte hanno in comune la tematica della casa vista come luogo familiare e rassicurante che viene invaso dalla violenza e dall’aggressività del mondo esterno.
Ancora per 2dcloud è uscito Someone Please Have Sex with Me di Gina Wynbrandt, anche in questo caso un’antologia di fumetti in gran parte già visti in albi autonomi. Le storie raccontano la fissazione per Justin Bieber (One Less Lonely Girl, 2012), una puntata ai Teen Choice Awards sotto la guida di Kim Kardashian (Tiger Beat Exclusive, 2013), la ricerca disperata di un partner sessuale che arriva fino a un lontano futuro (il racconto che dà il titolo alla raccolta, 2014), gatti parlanti che mettono incinta la protagonista (Big Pussy, 2015) e videogiochi che la trasformano in una spietata cacciatrice di uomini (Manhunt, 2016).
La cosa che più colpisce della Wynbrandt è la capacità di focalizzarsi su pochi elementi per poi portarli all’estremo: il plot parte sempre da particolari realistici e autobiografici, apparentemente insignificanti, che vengono sviluppati in situazioni ai limiti, paradossali, divertenti, a volte surreali. Si tratta di un modus operandi che l’autrice dimostra di saper gestire sin dalle prime prove, segno di una cartoonist giovane ma dalle idee chiare. Anche dal punto di vista grafico la Wynbrandt è bravissima a rappresentare il suo alter-ego nei minimi dettagli, concentrandosi soprattutto sulle espressioni facciali, con una serie veramente infinita di smorfie, e sui suoi capelli, disegnati con una cura certosina. Ma d’altronde sarebbe un crimine trattare con superficialità dei capelli così lunghi.
Visto che ci siamo, rimaniamo in tema di autrici femminili con due albi pubblicati da Retrofit Comics: Hellbound Lifestyle della coppia Alabaster Pizzo-Kaeleigh Forsyth e Late Bloomer di Maré Odomo. Il primo è un diario della Forsyth, al suo debutto nel mondo del fumetto, illustrato dall’autrice di Mimi and the Wolves: una collaborazione nata, come svela la bio pubblicata alla fine dell’albo, da circostanze particolari, dato che le due si sono conosciute dopo aver scoperto che stavano uscendo con la stessa persona da un anno. Diventate ottime amiche, hanno realizzato un fumetto divertentissimo scandito da note e conversazioni tratte da uno smartphone, pieno di situazioni assurde, di buoni propositi finiti male, di ragionamenti contorti e soprattutto di idee, idee, idee una dietro l’altra che ci si potrebbero riempire tanti altri fumetti o intere stagioni di serie tv. Belli anche i colori sparati che donano un’estetica pop a un’opera che potrebbe piacere anche a chi non legge abitualmente i fumetti.
Late Bloomer è invece un volumetto in bianco e nero di piccolo formato (14 x 11 cm) in cui Maré Odomo raccoglie con il modus operandi già mostrato nei due mini Internet Comics usciti per Sacred Prism (ne avevo parlato brevemente qui) riflessioni, disegni, schizzi, scarabocchi, cancellature, frasi. Le prove precedenti affascinavano per l’uso del colore e per la stampa in risograph, risultando esteticamente molto attraenti, mentre questa versione in bassa fedeltà ha l’aspetto di uno sketchbook. Ma in qualsiasi modo vengano pubblicati vale sempre la pena di sfogliare, leggere, guardare gli haiku visivi della Odomo: c’è un sentimento qui dentro che più di ogni narrazione restituisce le emozioni provate dall’autrice, lasciando al lettore un’impressione, un qualcosa difficile da verbalizzare o razionalizzare. Pagina dopo pagina si va avanti tra momenti di realismo (I will forget this), domande che ci si potrebbe fare per una vita intera (Where’d you go?), storie che finiscono (If i see you, I will walk away), vuoto esistenziale (Nothing to cry about), chiusura in se stessi (Don’t wanna talk about it). Quando si arriva all’ultima pagina non si ha un’idea precisa di ciò che abbiamo appena letto ma soltanto la sensazione che qualcosa dentro di noi è successo.
“Fobo” di Gabriel Delmas
di Weedzie Kalashnicock
Fobo è una metafora della follia dell’amore, una canzone sullo squilibrio chimico, un poema per tutti coloro che cercano e un lamento per coloro che trovano. In sintesi, un’allucinazione metafisica.
E’ anche il divertente racconto di uno spermatozoo che, come tutti gli spermatozoi prima di lui, ha assolutamente bisogno di trovare un uovo per assicurarsi un posto nell’eternità. Ma, mentre tenta di compiere il suo destino, diventa ossessionato da qualcos’altro. Ciò che vuole veramente è penetrare il cuore dell’universo. E questo desiderio lo porta a inseguire ogni barlume, ogni bagliore, ogni buco nero, ogni punto lontano, fino a dove e fino a quando riesce a farlo.
All’inizio è pieno di speranza. Riesce ad attraversare ogni paesaggio immaginabile. Incontra la donna con un occhio solo, la insegue, gioca con lei. E’ aiutato da una vegetazione amichevole, i cui tentacoli ricurvi lo salvano quando pensava che stessero per strangolarlo. Viene mangiato da strane creature fluttuanti con i ventri rigonfi e i volti sorridenti, un po’ stupide ma anche affettuose, che in realtà non vogliono fargli del male, dato che lo portano verso nuovi e ancor più stimolanti territori. E’ costretto a fermarsi, incapace di proseguire, ma poi riprende la sua corsa. Riesce a prevenire ogni catastrofe e a muoversi sempre più avanti nella sua ricerca. Le sue avventure sono spaventose e divertenti. Sembra essere (e comincia a credersi) invincibile. Diventa il capo di alcune creature che incontra lungo la strada. E’ così euforico da sentirsi onnipotente, sembra che non ci sia niente che non possa fare.
Fobo si sente tutt’uno con l’universo e con le creature intorno a lui. Sembra che tutti facciano il tifo per lui. Si sente coccolato.
Ma cosa sta succedendo? E’ vero che sono tutti dalla parte di Fobo? Ogni creatura lo porta più vicino, ma a cosa? Tutto ciò è amore o un inganno? Dove si trova?
Fobo guarda le cose sotto un’altra luce. Ciò che sembra essere una cosa, subito dopo comincia a sembrarne un’altra. Ogni volta che Fobo emerge da una cavità, ne trova un’altra e un’altra ancora. E sono le cavità a guardare Fobo, non il contrario. Ne può penetrare una ma ce n’è sempre un’altra dietro l’angolo. Sia che guardi giù o su, che entri o che esca, non è mai dall’altra parte. E’ imprigionato, proprio come tutti gli altri esseri in questo labirinto umido e oscuro.
E’ forse un clone? O un drone? Pensava di essere migliore! Diverso! Che cos’è?
Prima Fobo trovava tutto eccitante, folle e misterioso mentre ora pensa: “Devo essere provocato e stimolato in eterno? Riuscirò mai a penetrare il mistero che sto cercando di comprendere? Devo essere preso in giro per il resto dei miei giorni, e tutto il mio tempo, tutti i miei sforzi non serviranno a niente?”
Questa non è la storia di una razza che cerca di sopravvivere, e neppure la storia di una selvaggia lotta per essere il miglior spermatozoo dell’universo. E’ la storia della disillusione del vincitore. La sua sofferenza è esistenziale.
La verità è che Fobo ha una pistola sempre carica ma può sparare soltanto a salve, per l’eternità.
Questa è la storia dell’Orrore.
“Hotel Massilia” di Emidio Clementi e Maurizio Lacavalla
di Serena Di Virgilio
Hotel Massilia è un racconto scritto da Emidio Clementi (frontman dei Massimo Volume, poeta e scrittore) e illustrato da Maurizio Lacavalla. È un libro spillato di 48 pagine a colori di formato quadrato autoprodotto da Sciame, un collettivo di studenti del corso di fumetto e illustrazione dell’Accademia di Belle Arti di Bologna, dove Clementi insegna.
Hotel Massilia è stato presentato a Bologna con una mostra delle illustrazioni di Lacavalla presso la galleria Adiacenze e con un reading di Clementi presso la libreria Modo Infoshop.
Un complesso musicale attraversa la Spagna in autobus per arrivare in una città di mare in cui si parla francese. Dopo un primo albergo troppo ordinario si sistema al Massilia. Qui una stanza viene adibita a studio di registrazione, dove i tre amici cercheranno di mettere insieme il loro album, con poca convinzione.
La storia è sostanzialmente autobiografica e parla della sofferta genesi dell’album Stanza 218 di El Muniria, progetto di Clementi dopo il (temporaneo) scioglimento dei Massimo Volume.
La città è Tangeri in Marocco, e l’albergo è quello in cui William Burroughs scrisse Il pasto nudo, e il gruppo si era recato lì in cerca di ispirazione.
Fornito di testo e qualche foto del viaggio, Lacavalla fa del luogo il protagonista delle sue illustrazioni, ricreandolo ispirandosi ad un’altra città del Mediterraneo: la sua Barletta di palme, parcheggi, piscine e spiagge.
L’occhio si fissa poco su persone, avvenimenti ed emozioni; guarda la città e le stanze dall’alto, oppure si avvicina ai particolari degli oggetti. Le forme, di tetti e strade o chitarre e tastiere, sinuose e squadrate, stanno le une vicine alle altre come in un dipinto astratto o una foto aerea.
Alternato al bianco e nero, l’azzurro intenso fa da linea guida, dall’autobus ai muri dell’albergo, al fazzoletto con cui uno dei membri del gruppo cerca di nascondere il bozzo che gli cresce sul collo.
Il testo è rado, pieno di silenzi che lasciano la pagina bianca e le immagini a prendere il sopravvento. Il tono è amaro mentre si sofferma sullo sgretolarsi della creatività e sull’insofferenza crescente. Intanto un’umanità varia s’insinua nel racconto attraverso brevi quadretti, impressioni da estranei che si passano accanto e a volte si sfiorano.
Sul muro dell’albergo, un cartello. Fotografato da Clementi, che ha appeso in casa sua la foto, riscritto a matita da Lacavalla che a sua volta l’ha tenuto nella sua stanza, e infine dipinto e inserito nel libro.
Le Silence
de chacun
assure le repos
de tous
Grazie a Nicola.
E’ nata Flag Press!
Forse non tutti sanno che insieme a Ratigher ho fondato una piccola casa editrice, la Flag Press, che si propone di pubblicare fumetti in un unico formato, poster orizzontali 70×100 con due pagine affiancate. Abbiamo presentato il progetto all’Arf! di Roma sabato 21 maggio e subito dopo ha debuttato il nostro sito, dove è possibile acquistare il primo poster della serie, intitolato Teoria, pratica e ancora teoria, a firma dello stesso Ratigher.
Probabilmente molti di voi avranno già notato la notizia sui vari social network, siti di informazione e soprattutto sul blog del mio socio, a cui vi rimando per leggere le cose come veramente stanno. Qui mi preme dire che il mio coinvolgimento in Flag Press nasce per volontà dello stesso Ratigher, che covava il progetto da un bel po’. Mi ricordo, anzi, che quando lo incontrai al Fumetto Festival di Lucerna del 2015, mi disse che aveva un’idea e aveva disegnato già il logo per una piccola casa editrice che avrebbe coinvolto autori internazionali e pubblicato fumetti “in un formato un po’ strano”.
Io già pensavo a cubi, scatole o telefoni ma in realtà no, si trattava di poster, come mi avrebbe rivelato qualche mese dopo invitandomi a diventare la sua spalla nell’impresa (a proposito non provate a fregarmi l’idea della Phone Press, fumetti a forma di telefono). Da allora abbiamo pensato bene a cosa volevamo fare con Flag Press e, al di là della scelta degli autori, la nostra idea si è concentrata sul concetto di “storia”. A tutti e due piacciono le sperimentazioni, i fumetti assurdi e a volte anche apparentemente senza senso, ma quello che qui ci preme realizzare è raccontare su un poster, far diventare narrativo un oggetto che è sempre stato principalmente figurativo, dando inoltre la possibilità agli autori di sbizzarrirsi graficamente sul formato editoriale più grande possibile. E credo che Teoria, pratica e ancora teoria di Ratigher sia veramente il “manifesto” di questa nostra idea, con una storia piena di personaggi, i dialoghi incalzanti, le piccole vignette e l’aereo gigante che viene tagliato in due dallo spazio bianco tra le tavole. Ah, sul retro del poster trovate in bianco e nero la traduzione in inglese della storia. In futuro, se il fumettista scriverà in inglese, sul retro troverete la traduzione in italiano.
Quali autori pubblicheremo con Flag Press? Innanzitutto stiamo lavorando con Ruppert&Mulot, Manuele Fior e Dash Shaw. E poi? Ai poster l’ardua sentenza!
Misunderstanding Comics #4
Come promesso nella precedente puntata di questa rubrica, torno a scrivere di un po’ di fumetti che mi sono stati inviati/consegnati dai lettori di Just Indie Comics. Si tratta di una selezione del materiale che ho trovato più interessante, perché purtroppo non ho davvero il tempo di occuparmi di tutti e tutto. Ci aggiungo Hax di Lale Westvind, uscito già da un po’ per Breakdown Press ma che ci tengo a recuperare. Terrò questa volta fede al titolo della rubrica parlando di tutto con estrema brevità, me ne scuso con gli interessati e con voi che leggete.
NOTA: Alcuni di questi fumetti potrebbero essere in vendita nel negozio on line di Just Indie Comics. In questo caso il link sul titolo vi porterà direttamente alla relativa pagina del negozio. I miei giudizi cercheranno di essere comunque obiettivi, ammesso che ciò sia possibile. Buona lettura.
Iniziamo proprio da Hax, ennesimo pirotecnico esperimento di un’artista che è una delle voci più originali nel fumetto contemporaneo, espressione di una sensibilità altra che oserei definire ballardiana per come lavora sull’incontro/scontro tra corpi e macchine, oltreché sui concetti di movimento, velocità, azione. Ossessiva nel riproporre temi, immagini, contenuti come lo è per esempio lo spagnolo Gabriel Corbera, la Westvind realizza con Hax un esperimento coloratissimo che sfrutta appieno, come è ormai tradizione in casa Breakdown, le sovrapposizioni di colori tipiche della stampa in risograph. Il riferimento più immediato è il video che l’artista di Brooklyn ha realizzato per The Metal East dei Lightning Bolt, un viaggio bidimensionale che sembra la versione animata di Mad Max: Fury Road. Anche Hax è un viaggio ma il tono è più algido rispetto al video. La storia si dispiega muta e misteriosa per 24 densissime pagine in cui tre o anche più personaggi femminili affrontano prove e battaglie in uno scenario di guerra, con esplosioni continue, aerei che volano, macchine luccicanti.
Alla fine arrivano in un museo, appare un telefono e dall’altro capo della linea c’è un minaccioso signore della guerra vestito di nero. La trama è labile, siamo più dalle parti di un trip psichedelico ricco di associazioni di idee. Eppure viene voglia di sfogliarlo e risfogliarlo per afferrare sempre nuovi dettagli e possibili interpretazioni. Bellissimo.
Psichedelico anche se di tutt’altro genere è il secondo numero di Abyssal Yawn di Bill Wehmann e Ed Steck, autoprodotto sotto il marchio Pacific Reverb Society. Se volete farvi un’idea del tono e delle tematiche di questa saga cosmica vi rimando alla mia recensione del primo numero, qui mi limito a segnalarvi l’uscita, dopo due anni di attesa, del secondo capitolo delle avventure di Birch Twig (“un Silver Surfer con trecce rasta e senza slip né misteriosi vuoti in mezzo alle gambe”, autocit.) e del cane parlante Max, pronti finalmente a dare battaglia alla malvagia Mother Sky Corporation. Abyssal Yawn continua a intrigare per la prosa ricca e pomposa di Steck, che rimanda alle saghe kyrbiane, e per l’approccio visionario. Se il primo numero era ambientato su un pianeta frutto della proiezione mentale di Max, in questa seconda uscita i due protagonisti entrano in un wormhole già a pagina tre e devono affrontare delle versioni alternative di se stessi.
Niente è come sembra da queste parti, nemmeno nello spazio, e la dimensione fantascientifica è innanzitutto mentale. Il disegno volutamente “zozzo” di Wehmann, la colorazione da saga cosmica made in Marvel, i riferimenti socio-politico-ambientalisti e i personaggi da cartoon fanno il resto, creando un ibrido difficilmente definibile, al tempo stesso saga cosmica e parodia di se stessa.
Torniamo decisamente sulla terra con un fumetto autobiografico, First Weeks della polacca Anna Krztoń, che avevo già notato su SW/ON #2 per un bel contributo graficamente arzigogolato. Ho seguito pian piano la sua crescita tra albi autoprodotti e contributi a varie antologie internazionali e credo che questo First Weeks, mini-comic in bianco e nero uscito a gennaio in 100 copie, sia la sua cosa migliore fino a oggi. Lo stile naif sintetizza perfettamente l’anima astratta e quella figurativa dei precedenti lavori dell’autrice, rappresentando con essenzialità ma anche con poesia le sue prime settimane a Varsavia. Siamo dalle parti di John Porcellino e dei comics-as-poetry per capirci, con un approccio diaristico che non è mai didascalico ma cerca sempre la poesia nel quotidiano. E alla fine della lettura rimane un pizzico di malinconia, segno che l’autrice ha centrato l’obiettivo. Di seguito qualche tavola per rendere meglio l’idea.
L’albetto è ovviamente in inglese e per richiederlo potete scrivere a krztonia@poczta.onet.pl. Oppure aspettare che arrivi nel negozio on line di Just Indie Comics, cosa che spero accada al più presto.
Se First Weeks lascia un senso di malinconia, Ceniza/Cenere di Serena Schinaia restituisce un senso di abbandono come pochi fumetti riescono a fare. E ci riesce in sole 16 pagine e poche, pochissime parole. Anche qui il fumetto è poesia e il riferimento più prossimo è l’ermetismo. D’altronde la Schinaia aveva già dimostrato in Deriva, albo autoprodotto che raccoglieva le sue storie brevi, di prediligere una scrittura fatta di frasi essenziali ma pregne di significato, lasciate a mò di didascalia sotto disegni carichi di un bianco e nero intenso. Ceniza/Cenere sviluppa questo stile in qualcosa di nuovo e diverso. Il tratto è più definito, la linea regolata e meno spigolosa, il bianco e nero viene abbandonato a favore del blu e del grigio.
A dialogare sono due piani temporali, il presente e il passato, il primo caratterizzato da una partenza, e quindi dalla malinconia, il secondo da un addio, e dunque dal dolore. E solo il fumetto può unire con tale sintesi e brevità emozioni così complesse, in quella che è una storia essenzialmente sull’andare avanti lasciandosi alle spalle non solo le difficoltà ma anche le proprie radici. Bellissima anche l’ambientazione, con il paesaggio vulcanico, il villaggio, le sue strade, i pali della luce, i pescatori. L’albo è pubblicato dalle Ediciones Valientes di Martin López Lam, in spagnolo e italiano. Ne trovate qualche copia nel mio negozio on line, e credo che al momento sia l’unica distribuzione italiana.
Concludo questa rassegna parlando di Rhizome, antologia spillata in risograph con testi in francese pubblicata dai belgi de La Boîte À Zines, in cui ogni numero trovano spazio gli artisti del collettivo più un ospite speciale. Dopo averne curiosamente spiato le vicissitudini on line, ho infine messo le mani sull’undicesima uscita, ormai risalente a un paio di mesi fa, che sceglie come tema un’immagine (una luce rossa nella neve, rappresentata in copertina) ispirata a un haiku di Michel Onfray (Un feu rouge/Dans un chaos de flocons/Soleil miniature) dando luogo a interpretazioni molto diverse tra loro. A spiccare, almeno da quanto ho capito grazie al mio francese tutt’altro che perfetto, sono i contributi di Antoine Houcke con Vacuité, una storia ricca di immagini suggestive e squisitamente meditativa, di Gilles T con Cassandra, il fumetto più sghembo del lotto con il suo mix di fantasy postmoderno e ironia, dell’ospite Blaise Dehon con Hors les clous, quattro fascinose pagine mute che illustrano un vagabondaggio per le strade della città sovrapponendo una figura umana in rosso alle vignette in blu. Gli altri contributi sono di Didier Vander Heyden ed Emilie Maidon. Nel frattempo vi segnalo che è già uscito il dodicesimo numero, che vede come ospite la finlandese Anna Sailamaa.
“š!” #24 + “mini kuš!” #38-41
In uno dei miei Best Of del 2015 avevo incluso š! #23, un’uscita particolare dell’antologia lettone, che rompeva il tradizionale canovaccio per raccontare con cinque storie più lunghe e impegnative del solito il tema delle vittime del nazismo. Chiusa quella parentesi si torna all’antico con un nuovo numero, introdotto da una bella cover di Līva Kandevica e contenente oltre venti fumetti brevi di artisti internazionali, questa volta sul tema Urban Jungle. Se il tono generale di questi volumetti formato A6 è giocoso, estemporaneo, ironico, personalmente mi diverto sempre a cercare in ogni numero di š! qualche voce off, che sia grezza, meditativa o astratta. Per esempio in una delle uscite più recenti, quella dedicata al tema Fashion (š! #22), c’erano i contributi di Hetamoé e Léo Quievreux a spiccare su tutti per il modo in cui rileggevano il tema “fashion” come fascinazione legata ai corpi e alla carne. E la stessa Marie Jacotey, che curava la copertina e firmava la storia di apertura, è una cartoonist piacevolmente atipica, dato che il suo stile a matita nasconde sotto la facciata rassicurante una spigolosità sia nel tratto che nel contenuto.
Quali sono dunque le voci off di questa nuova uscita? La mia preferenza va senz’altro ad Abraham Diaz, cartoonist messicano classe 1988 di cui sentirete riparlare su Just Indie Comics a proposito del suo Suicida #1. Diaz ha un tratto cartoon scombinato come piace a me e disegna personaggi dalle teste enormi e dalle espressioni tra lo stupido e l’incazzato. Le sue tavole sono piene di righe che vanno per conto loro, di colori che non riempiono mai del tutto lo spazio, di un lettering sgraziato che racconta vicende ironiche e assurde. Esteticamente alieno rispetto al resto è anche G.W. Duncanson, con un bel contributo pittorico in stile urban art, bianco e nero intenso fatto di graffiti, metropolitane, grattacieli: è questo uno di quei fumetti che mi piacerebbe rivedere un giorno in un formato più grande.
Sia Diaz che Duncanson sono al debutto sulla rivista, segno che gli editor David Schilter e Sanita Muižniece hanno successo nel ricercare nomi nuovi da aggiungere a quelli abituali. Il che è confermato da altri due debuttanti, più in linea con il tono generale dell’antologia ma non per questo meno interessanti. Mi riferisco in primis a Sami Aho del collettivo finlandese Kutikuti, con un tratto cartoon (ma più armonico rispetto a quello di Diaz) e colori sparatissimi: Fooled Again ricorda esteticamente il lavoro di Anya Davidson ed è un esempio di storia breve divertente e compiuta con un bel feeling underground d’altri tempi. E poi c’è la belga Mathilde Van Gheluwe di Tieten met Haar, con colori acquerello caldi, uno stile affascinante che ricorda l’altro fiammingo Brecht Evens e uno storytelling preciso ed efficace. Non mancano comunque contributi interessanti anche da parte di qualche habitué: penso soprattutto a Dace Sietiņa, il cui stile in costante crescita è sempre più vicino esteticamente all’arte russa degli anni ’50-’60, ad Amanda Baeza che per una volta abbandona la geometria per un bel contributo figurativo in bianco e nero, a Jean de Wet che conferma quanto di buono già aveva fatto vedere nel mini-kuš! #20 (ne parlavo qui).
E a proposito di mini-kuš!, il 17 marzo scorso ne sono usciti altri quattro, tutti di artiste donne. Ne approfitto per darvi una rapida occhiata, a partire dal #38, Three Sisters di Ingrīda Pičukāne, storia appunto di tre sorelle che trovano un uomo nudo in mezzo alla foresta, probabilmente ubriaco. Le donne parlano in francese, l’uomo in russo. E non ci sono sottotitoli, cosa che rende l’albetto un oggetto alieno, una favola moderna che si sviluppa tutta in orizzontale, lasciando i bordi superiore e inferiore della pagina in bianco, in modo da ritagliare una cornice dove raffigurare la coloratissima foresta con un effetto mosaico. Il dualismo femminile/maschile è qui più contrasto che dialogo e la rappresentazione delle protagoniste è quasi esplosiva, con i loro occhi grandi e una sensualità raffinata e intensa. Potremmo quasi opporre questo stile “caldo” e dionisiaco alle atmosfere algide e rigorose del mini-kuš! #40 di Hanneriina Moisseinen. 1944 racconta, come suggerisce il titolo, un episodio di guerra e precisamente l’evacuazione della Carelia, che la cartoonist finlandese mette in parallelo con il parto di un animale, rappresentando la crudeltà della natura e della guerra insieme. Alla storia lineare, seppur a modo suo brutalmente poetica, manca l’impennata decisiva e le matite della Moisseinen sono gradevoli ma troppo didascaliche per i miei gusti.
I mini-kuš! #39 e #41 sono entrambi senza parole e sono per me anche i migliori del lotto. Il primo è opera dell’americana Tara Booth, che ha fatto il suo debutto nella famiglia lettone proprio su Urban Jungle. Tipica storia di “a day in the life”, Unwell è tutto tranne che ordinaria. La protagonista si risveglia al fianco di un improbabile hipster, sgattaiola via non prima di avergli vomitato nella toilette, inforca la bicicletta, ripensa a quando ha messo gli slip in testa all’amante, dipinge un quadro letteralmente con il culo, esce di casa con il cane, incontra un maniaco in un parco, si ubriaca di nuovo… Non vi svelo il finale ma tutto funziona alla perfezione in questo divertentissimo fumetto che potrebbe sembrare un film muto, disegnato con uno stile patchwork da cartone animato alla South Park e con un bell’uso del colore. La pagina è completamente al servizio della protagonista e dei suoi movimenti, tanto che la scansione in vignette è spesso rotta dai suoi movimenti in verticale. Consigliatissimo, proprio come il mini-kuš! #41, in cui ammiriamo una Aisha Franz in versione technicolor disegnare i contorni di un futuro-non-così-futuro tecnologico, tra droni, identità sessuali cangianti, macchine del piacere. Meno narrativo rispetto al lavoro della Booth, EYEZ punta tutto sull’approccio visivo e su un disegno semplificato rispetto ai lavori precedenti della Franz, che in questa versione iper-pop affascina non poco.
Per maggiori dettagli sulle nuove uscite e qualche immagine in più vi rimando al blog e al sito di kuš!, ricordandovi che l’editore lettone sarà ospite al Ratatà Festival del 14-17 aprile a Macerata, con un banchetto dove troverete tutte le pubblicazioni e una mostra dedicata alle artiste lettoni Anna Vaivare, Ingrīda Pičukāne, Līva Kandevica e Zane Zlemeša.
“Generous Bosom” #1-2 di Conor Stechschulte
Ho parlato più volte di Conor Stechschulte su Just Indie Comics ma senza entrare finora nei dettagli. Sin dall’edizione autoprodotta di The Amateurs, Stechschulte mi ha colpito per la potenza e l’integrità del suo stile, in quell’occasione al servizio di una storia ironica e brutale al tempo stesso, quella di due macellai che all’improvviso dimenticano come fare il proprio mestiere. Ristampato da Fantagraphics, The Amateurs è uno dei fumetti migliori degli ultimi anni ma è in realtà soltanto un tassello di una produzione che si conferma passo dopo passo eccelsa, dalle storie brevi pubblicate sulle antologie del collettivo Closed Caption Comics, di cui Stechschulte è stato uno dei principali animatori, ad albi autoprodotti come gli splendidi The Dormitory e Glancing, quest’ultimo interamente realizzato con l’acquerello. Non c’è dunque da stupirsi se l’autore statunitense, che di recente ha vissuto tra Baltimora e Chicago, è stato messo sotto contratto dall’inglese Breakdown Press, attentissima a quanto di meglio arriva dagli Stati Uniti e non solo.
Aperto da una citazione di Abe Kobo (“The night is not an invited guest but rather the air that fills this room”), il primo numero di Generous Bosom inizia con una pagina a quattro vignette orizzontali, le prime due segnate da un intenso tratteggio blu a matita volto appunto a raffigurare la notte, il buio e la pioggia, le altre due in cui la pioggia si assottiglia e lascia spazio alla cornice del racconto, il protagonista di spalle seduto in un bar, il cellulare in una mano e un foglietto di carta nell’altra. Lui è Glen, che mesi prima di stare in quel bar, di ritorno da un matrimonio in una notte buia e tempestosa, ha bucato due gomme in un colpo solo davanti alla casa di Art e Cyndi, marito e moglie, lui molto più avanti con gli anni di lei. Art lo invita a entrare e persino a passare la notte lì, ma basta poco perché dalla gentilezza si passi a quel senso di stranezza, di inquietudine, di disagio che è tipico dei fumetti di Stechschulte e che trasuda dalla pagina fino a entrare nel tessuto nervoso del lettore. Ecco appunto che la notte entra nella stanza, diventa aria e dà il via a una strana situazione tra i tre personaggi che culmina in una delle scene di sesso più realistiche mai viste in un fumetto, 13 tavole su una griglia fissa di otto vignette, sfondo sporcato di blu, tanti primi piani con i volti dei protagonisti presi dalla paura e dall’imbarazzo più che dall’eccitazione. Gli sguardi, le espressioni, le inquadrature riescono a esprimere alla perfezione quel senso di desiderio misto a imbarazzo che si trovava già in Glancing, una storia muta in cui i rapporti tra i tre protagonisti, intenti a fare un bagno di notte, erano raccontati semplicemente attraverso i loro occhi.
In Generous Bosom #1 Stechschulte sfrutta appieno le potenzialità della stampa in risograph, alternando pagine su sfondo bianco, in cui il disegno è di solito in blu e a volte anche in marrone, ad altre tratteggiate e riempite di un intenso blu a matita, in cui la rappresentazione della pioggia e del vento è sorprendentemente simile agli scenari di Flowering Harbour di Seiichi Hayashi, uscito sempre per Breakdown. Soltanto il flashback delle due pagine centrali è in verde, che invece sarà il colore dominante del numero successivo (per un resconto dettagliato sulla realizzazione di Generous Bosom date un’occhiata a questo post sul Tumblr della Breakdown Press).
Generous Bosom #2 esce nel novembre del 2015 ed è ancora stampato in risograph. Ambientato mesi dopo il primo episodio, ne segue i diretti e inquietanti sviluppi, che sembrano tutto fuorché coincidenze. D’altronde già alla fine del numero precedente Glen aveva sentito Art e Cyndi parlare di un “piano” e anche il lettore aveva avuto gli strumenti per capire, sin dalle primissime pagine, che la sosta del protagonista a casa della coppia non era dettata dal caso. Adesso però si va oltre, perché se inizialmente Glen deve misurarsi con le conseguenze di quanto accaduto nel primo episodio, il finale ribalta ogni nostra possibile convinzione, introducendo nuovamente il tema del controllo che era centrale in The Dormitory. E torna anche quel senso di voyeurismo costante che aleggia nei fumetti di Stechschulte, con il lettore che si trova a guardare personaggi che guardano altri personaggi, come nella scena del VHS mostrato da Art a Glen, con qualche difficoltà tecnica (dove trovare un videoregistratore, oggi?) che spezza con il solito humor nero le atmosfere lynchiane del racconto (soprattutto Lost Highways mi sembra qui una chiara fonte di ispirazione, ma anche il cinema di Brian De Palma è senz’altro un’influenza). Il confine tra “realtà”, “piano” e “messa in scena” è sempre più labile e l’identificazione del lettore con Glen – spaesato, confuso ma a tratti anche eccitato – è totale.
Mentre buona parte dei dialoghi si svolgono come nel numero precedente su sfondo bianco, le soluzioni grafiche e di stampa più raffinate sono riservate ai flashback, in cui Stechschulte riesce a dimostrare la sua tendenza a raccontare con le immagini ancor più che con i testi. L’autore si concentra in questo secondo episodio sul passato di Art e Cyndi, in una serie di scene dominate da un tratteggio verde per lo più diagonale e dai toni del blu, creando un effetto onirico, che alla scena principale sovrappone corpi e volti, come se fossero fantasmi. E quando vengono descritti i primi incontri tra i due, l’uomo è appunto un fantasma, dato che il suo volto – di solito tondeggiante, delineato di volta in volta da un sorrisetto sardonico, dalla bocca spalancata e da marcate espressioni facciali – diventa indefinito, cancellato dai raggi del sole e forse anche dal desiderio, da parte della moglie, di dimenticare il passato. Quando non c’è Cyndi riusciamo invece a vedere Art in un flashback cronologicamente più vicino agli eventi narrati, in cui si scoprono le sue abilità di ipnotista, con tutta probabilità rilevanti nel prosieguo della storia. Se Generous Bosom #1 è compatto, strutturato, denso come già erano i precedenti fumetti di Stechschulte, il seguito esce da questi schemi perfetti e controllati aggiungendo divagazioni, fughe, assoli e trasformando così quella che finora era una riuscitissima canzone in una suite polifonica e sperimentale. Con Generous Bosom #2 l’autore alza l’asticella e sfida se stesso a creare qualcosa di più complesso. E soltanto le prossime uscite – la vicenda dovrebbe svilupparsi almeno per un paio di altri albi – potranno dirci se il tentativo è riuscito.
Mi capita spesso di chiedermi cos’è che rende certi fumetti migliori rispetto ad altri e la risposta è ovviamente di volta in volta diversa, a seconda delle cose lette di recente, del momento, dell’umore. Ma una delle risposte che mi do più di frequente è che, quando si parla di fumetti che vogliono raccontare una storia (e non è detto che i fumetti debbano sempre farlo), hanno una marcia in più quelle opere in cui ogni mezzo (testi, disegni, stampa, ecc.) contribuisce con la stessa dignità alla creazione di un unicum compatto e indivisibile. E Generous Bosom appartiene senz’altro a questa categoria.
Just Indie Comics Buyers Club, pt. 2
Lo scorso mese di dicembre ho lanciato un abbonamento meglio noto come Just Indie Comics Buyers Club, ovviamente collegato ai fumetti di cui si parla su questo sito e a quelli disponibili nel negozio on line di Just Indie Comics. Non si è trattato di un successo strepitoso, ma i dieci coraggiosi che si sono abbonati hanno consentito di mandare avanti senza troppa fatica la distribuzione di fumetti che ho inaugurato nel settembre scorso e per questo avranno la mia eterna (memoria permettendo) gratitudine.
Gli ignari possono rileggersi il post in cui parlavo del Buyers Club, perché qui mi limiterò semplicemente a dire che è in partenza la seconda tornata di fumetti. Se la prima spedizione è stata caratterizzata per tutti gli abbonati dalla presenza di Frontier #10 di Michael DeForge, la seconda avrà come comune denominatore The Social Discipline Reader di Ian Sundahl, di cui ho parlato recentemente in un’apposita recensione. Ho scelto questo titolo per poter dare a tutti la possibilità di affrontare un fumetto diverso, ruvido o propriamente “raw” come dicono gli americani, ampliando in questo modo i confini solitamente definiti dall’editoria, a volte anche da quella “alternativa” o che dir si voglia.
Per chi ha scelto la versione Small del Buyers Club insieme a The Social Discipline Reader ci sarà una piccola sorpresa, mentre gli abbonati formato Large avranno un secondo fumetto, che varierà a seconda dei casi. Giusto per dare un’idea a chi non è entrato nella legione di Just Indie Comics, tra i titoli che hanno fatto e faranno parte delle prime due tornate di questo esclusivissimo club ci sono, in ordine sparso, Pope Hats #4 di Ethan Rilly, Blammo #8 1/2 di Noah Van Sciver, Fedor di Patt Kelley, Immovable Objects di James Hindle, Rough Age di Max de Radiguès, Ganges #5 di Kevin Huizenga, Windowpane #3 di Joe Kessler.
Se qualcuno di voi desiderava ardentemente uno di questi fumetti e non l’ha ricevuto, basterà scrivermi e cercherò di includerlo nella spedizione di luglio. Per i non abbonati, alcuni di questi titoli sono disponibili nello shop, quindi date un’occhiata lì se siete interessati. L’iniziativa è comunque stata positiva e conto di ripeterla il prossimo anno, con la speranza di estenderla anche a tutta Europa invece che alla sola Italia. Intanto buona lettura.