Just Indie Comics Fest 2 a Roma
Torna a Roma dal 19 al 21 ottobre il Just Indie Comics Fest, rassegna di fumetto underground e non solo, che quest’anno vedrà protagonista Spugna con una mostra di illustrazioni e tavole originali tratte da Una brutta storia, The Rust Kingdom e Rubens. Il luogo è lo stesso della passata edizione, lo Studio Co-Co in via Ruggero d’Altavilla 10, dove per tre giorni ci saranno anche il bookshop di Just Indie Comics, presentazioni, musica e altro ancora.
La scelta di dedicare una personale a Spugna, già ospite di Just Indie Comics all’Arf, è stata facile e quasi scontata: il suo The Rust Kingdom è finito nel mio Best Of 2017 e il suo stile affilato e già maturo è un tesoro prezioso nel panorama fumettistico italiano. L’autore presenterà per la prima volta a Roma il nuovo Gnomicide, fatto uscire da Hollow Press in occasione del Treviso Comic Book Festival a settembre.
A fare compagnia a Spugna nell’incontro con i lettori, sabato 20 ottobre alle 19, ci sarà un ospite d’eccezione come Marco Corona, che sempre per Hollow ha di recente pubblicato Benemerenze di Satana, adattamento a fumetti del misconosciuto diario in cui il “graforroico pazzo” Domenico Vaiti discetta senza freni inibitori di ermafroditismo, religione e fantasie sessuali.
Ancora sabato pomeriggio, in apertura di giornata alle ore 18, Vitt Moretta presenterà Il tramonto del Sea Breeze, il suo corposo graphic novel d’esordio edito da Coconino Press e appena uscito in libreria, tra il fumetto d’avventura classico e i migliori cartoonist americani di oggi.
La domenica vedrà invece ospiti Valerio Bindi e Bambi Kramer, che porteranno al festival le ultime uscite Fortepressa, con uno sguardo ai paesi fuori dalle tradizionali geografie del fumetto. Si parlerà in particolare dell’antologia africana This Life del Kollektivo Illuminoso Fresco e di Cosmografie, debutto in lingua italiana di uno dei più brillanti autori europei contemporanei, il finlandese Tommi Musturi. Il volume, di cui anticipiamo la cover qui sotto, sarà disponibile al festival in anteprima italiana. E sempre per guardare oltre i soliti confini verrà dato spazio a tutto il catalogo O Panda Gordo, etichetta portoghese con base a Glasgow di cui ho già scritto in questo post.
L’immancabile spazio dedicato al fumetto statunitense dedicherà un approfondimento ai fumetti di Josh Simmons, in particolare Black River edito da 001 Edizioni e Flayed Corpse and Other Stories, volume pubblicato da Fantagraphics denso di racconti orrorifici e geniali, tra cui il bootleg di Batman Twilight of the Bat (ne avevo parlato qui).
Al Just Indie Comics Fest ci saranno i Cristoforo Coglione con uno scoppiettante live set, il bookshop con tutto il catalogo Hollow Press e tanti fumetti internazionali, le stampe firmate di Spugna e altro ancora. Sarà inoltre possibile acquistare alcune tavole originali di The Rust Kingdom.
Il festival è organizzato da Just Indie Comics, dallo Studio Co-Co e dall’Associazione Culturale Empty Fridge, di cui Just Indie Comics fa parte ormai da qualche mese. Se siete scettici e prima di venire volete farvi un’idea di come sarà il festival, potete dare un’occhiata a questo reportage della passata edizione. Di seguito il programma, in costante aggiornamento sull’evento Facebook, che vi invito a seguire per rimanere sul pezzo. E, ovviamente, vi aspettiamo il prossimo weekend.
⇨ Venerdì 19 ottobre
• ore 18.30 apertura bookshop e inaugurazione mostra di Spugna con aperitivo e DJ set
⇨ Sabato 20 ottobre
• ore 16 apertura mostra e bookshop
• ore 18 incontro con Vitt Moretta per la presentazione de Il tramonto del Sea Breeze edito da Coconino Press
• ore 19 incontro con Spugna e Marco Corona
Presentazione di Gnomicide – A Rust Kingdom Tale di Spugna e di Benemerenze di Satana di Marco Corona pubblicati da Hollow Press, con uno sguardo a tutta la produzione della casa editrice
• a seguire: Cristoforo Coglione live
(Giacomo Orondini & Stefano Di Trapani)
⇨ Domenica 21 ottobre
• ore 16 apertura mostra e bookshop
• ore 18.30 Just Indie Comics presenta:
Black River e Flayed Corpse and Other Stories di Josh Simmons, i fumetti di O Panda Gordo
• ore 19 incontro con Valerio Bindi e Bambi Kramer per la presentazione di This Life del Kollektivo Illuminoso Fresco e di Cosmografie di Tommi Musturi editi da Fortepressa
JICBC pt. 4: “Cobra II” di Teddy Goldenberg
La prassi di rielaborare tendenze stilistiche e temi degli anni ’80 è ormai diffusissima nel fumetto statunitense, basti pensare all’operazione All Time Comics coordinata da Josh Bayer, a fumetti come Night Business di Benjamin Marra, alla rilettura storica di Ed Piskor in Hip Hop Family Tree e X-Men Grand Design. E gli esempi non finiscono qui, anche perché il discorso potrebbe benissimo ampliarsi ai ’90 di Image-memoria. Non stupisce dunque che questa moda, se così vogliamo chiamarla, sia arrivata anche in paesi fuori dalle geografie abituali del fumetto. Parliamo in questo caso di Israele, da dove proviene Cobra II, una nuova autoproduzione che è riuscita, grazie ai potenti mezzi della rete, ad arrivare fino ai nostri italici occhi, diventando così la quarta e conclusiva protagonista del Just Indie Comics Buyers Club 2018.
A realizzare questo albetto brossurato di 36 pagine a colori è Teddy Goldenberg, autore che vanta una bibliografia piuttosto ampia anche se per lo più in lingua ebraica. Cobra II è invece in inglese ed è, come alcuni di voi avranno già immaginato dalla copertina, il seguito del film con Sylvester Stallone datato 1986. In una Los Angeles violenta, dove stupri e omicidi sono all’ordine del giorno, il tenente Marion “Cobra” Cobretti se la deve vedere con una creatura che uccide a colpi di artigli e con lo scetticismo dei suoi superiori. Ma le difficoltà riscontrate a causa dei suoi metodi poco ortodossi non gli impediscono di farsi strada tra gangster e malviventi balordi per iniziare una vera e propria caccia al mostro… Di più non vi anticipo per non rovinarvi il piacere della lettura, anche perché la storia non si conclude in queste pagine ma proseguirà nel secondo atto.
Gli abbonati Small riceveranno via posta nei prossimi giorni Cobra II, mentre chi ha scelto l’abbonamento Large troverà insieme al fumetto di Goldenberg anche un altro albo, sempre in lingua inglese e sempre di piccole realtà editoriali indipendenti internazionali. Cobra II chiude l’edizione 2018 del Buyers Club, che ha proposto finora come albi “uguali per tutti” il primo numero dell’antologia Now della Fantagraphics, Book of Daze di E.A. Bethea e Roopert di August Lipp. Il Buyers Club ritornerà come da tradizione nel 2019, con le prime sottoscrizioni già disponibili prima di Natale.
La fine dei Cocktails
Ok, niente panico: il titolo non si riferisce alla fine dei cocktail in quanto tali, magari per qualche bizzarra iniziativa di uno dei nostri baldi parlamentari, ma alla conclusione della tetralogia a fumetti curata dai romani di Studio Pilar. Iniziata nel 2014 con Pre-Dinner, proseguita con After-Dinner e Anytime, la serie di albi antologici arriva adesso ai Long Drink, con quella che è inevitabilmente l’uscita più “lunga” del lotto, ben 128 pagine in italiano e inglese con la partecipazione di artisti internazionali. Un libro che si preannuncia ricchissimo di idee, colori e sensazioni e che mette in dubbio la teoria (mia) che un cocktail meno ingredienti ha e più buono è. In queste pagine di ingredienti ce ne sono tantissimi ma non si ha mai l’idea di dover ingurgitare un intruglio a causa di un’ordinazione azzardata.
Tra classici come un Gin Tonic, un Cuba Libre e l’intramontabile Americano e drink più sperimentali come l’Hurricane e il Blue Lagoon, si muovono i quattro illustratori di Studio Pilar (Giulio Castagnaro, Andrea Chronopoulos, Andrea Mongia, Giulia Tomai) e una schiera di altri artisti che vale la pena di citare uno a uno, in ordine di apparizione: Óscar Raña, Gio Pastori, Zane Zlemeša, Matteo Berton, Karl-Joel Larsson, Raúl Soria, Anne-Margot Ramstein, Andrés Magán, Zebu, Elisa Macellari, Viola Niccolai, Ariel Davis, Alice Wietzel e Tommi Musturi. La copertina è di Jing Wei, mentre l’introduzione di Valerio Coletta e Marco D’Ottavi fa il punto con piglio scientifico sulle cose che si possono fare mentre si beve un long drink, come assistere alla registrazione della partita di tennis tra John Isner e Nicolas Mahut (finita 70/68 al quinto set dopo 11 ore e 5 minuti) o guardare il film Satantango del regista ungherese Béla Tarr (435 minuti).
Al di là di questi ben più ingombranti impegni, per il momento ci possiamo leggere l’antologia, che sarà disponibile in anteprima al prossimo Treviso Comic Book Festival (29-30 settembre). Per il momento, bevetevi queste immagini in anteprima.
Le sette storie di O Panda Gordo
Cosa hanno in comune il Portogallo e la Scozia? Sì, di sicuro le scogliere e magari anche il clima ventoso di alcune parti esposte alle intemperie dell’oceano. E forse anche molto altro ancora, ma dopotutto io che ne so, questo non è mica Turisti per Caso. Se però devo dirvi cosa accomuna questi due paesi nel modesto ambito del fumetto, la prima cosa che mi viene in mente è O Panda Gordo. Nato nel 2011 in Portogallo, il progetto ideato e curato da João Sobral si è spostato in quel di Glasgow dal 2014. Le sue attività si dividono più o meno equamente tra pubblicazioni di artisti emergenti, collaborazioni editoriali, la cura dell’antologia Seven Stories e una distribuzione di fumetti che ha più di qualche similitudine con il webshop di Just Indie Comics.
Era dunque scontato che prima o poi nascesse un asse Italia-Scozia e infatti da qualche mese alcuni titoli O Panda Gordo sono disponibili anche da noi attraverso la distribuzione collegata a questo sito. Mi è sembrato così doveroso, pur con i soliti tempi sudamericani più che scozzesi, riportare la notizia e al tempo stesso presentare brevemente alcuni degli albi – sette, guarda caso – tra quelli che mi ha inviato João.
Seven Stories #1 e #2 – E sette sono infatti le storie dell’antologia manifesto di O Panda Gordo, in cui Sobral si riserva il ruolo di editor. Non si tratta di una rivista come tante altre, perché come suggerisce il titolo gli albi in questione si dedicano a sviluppare i conflitti che secondo lo scrittore Arthur Quiller-Couch sono alla base di ogni possibile storia: Uomo contro Uomo, Uomo contro Natura, Uomo contro Se Stesso, Uomo contro Dio, Uomo contro Società, Uomo preso nel mezzo, Uomo e Donna. L’idea di base, più che un pretesto o un gioco, è un modo per affrontare temi primari e scegliere di conseguenza fumettisti dotati di uno stile essenziale e crudo, stimolandoli ulteriormente a guardare oltre il figurativismo, tanto da raggiungere spesso l’astrazione. Le uniche eccezioni sono quelle di Teresa Ferreiro e, in parte, di Marie Weber, che firmano i contributi più tradizionali. Per il resto ciò che si cerca qui è un “bad drawing” che possa essere espressione di istinti ed emozioni profonde, come spiega lo stesso Sobral nell’introduzione al secondo numero dell’antologia, manifesto editoriale e anche di vita. Venendo ai contenuti, i due numeri presentato una notevole coerenza interna ma anche la tipica alternanza delle antologie autoprodotte tra contributi riusciti e altri più involuti, con la notevole partecipazione di Amanda Baeza nella prima occasione e un bel risultato complessivo nella seconda, dove si distinguono il primitivismo di Bruno Borges, l’outsider art di Nick Norman, le figure femminili corpose e scomposte di Giana Ganassin. Ma a giustificare il prezzo del biglietto sono soprattutto la coesione e la profondità del progetto, accompagnati per altro da una cura editoriale e da un confezionamento davvero notevoli.
Living Room di Chris Kohler – Il mio fumetto preferito tra quelli fatti uscire finora da O Panda Gordo viene da Glasgow ed è a firma di Chris Kohler. Living Room si è aggiudicato il secondo posto nella Comics Workbook Composition Competition del 2017, un concorso che invita i partecipanti a realizzare un racconto di 14 pagine utilizzando una griglia fissa strutturata su tre linee orizzontali, la prima e la terza suddivise in due vignette e quella centrale che invece può averne una o due. Kohler sfrutta queste regole al meglio, utilizzando le costrizioni formali per riproporre a distanza di qualche pagina frasi e situazioni apparentemente identiche ma in realtà inserite in un’ottica tutta nuova, facendo diventare la ripetizione in un nuovo contesto espressione di cambiamento. Una coppia lavora da anni in un grande magazzino stile Ikea ma a un certo punto gli affari cominciano ad andare male, tanto che dai vertici dell’azienda non arrivano nemmeno più le indicazioni su come montare i mobili e allestire gli ambienti. Il capo però è ostinatissimo e inizia a disegnare le istruzioni a mano, continuando l’attività anche nel momento del tracollo. E alla fine mostrerà un’umanità non certo comune nei confronti dei suoi ormai ex dipendenti… Non vi anticipo altro per non rovinarvi gli sviluppi di una piccola storia che con lievità riesce a toccare temi importanti come le relazioni umane e il passare del tempo, inserendo il tutto in un contesto di crisi economica che sarà familiare a più di qualcuno. Caratterizzato da una narrazione limpida e una linea pulita, Living Room è l’albo più convenzionale tra quelli del lotto, ma è talmente ben fatto da risultare un piccolo gioiello.
No Mouth’s The Hum di Gore Krout – Questo promette di essere il primo numero di una serie a firma Gore Krout, misterioso autore qui al debutto. Ma dal canto mio sarebbe bello se tutto finisse così e sinceramente ho anche il presentimento che la narrazione seriale promessa nella descrizione di questo albetto di 20 pagine uscito nell’ottobre 2017 sia in realtà una boutade. No Mouth’s The Hum è infatti uno di quei fumetti che hanno la loro forza nell’essenzialità dell’idea che ne sta alla base e nella lucidità con cui essa viene portata a termine. Un tizio vestito di nero cammina in un deserto bianchissimo mettendo subito in chiaro che sì, lo chiamano “senza bocca” ma a lui non sembra giusto essere definito per qualcosa che non ha. E infatti lui preferisce farsi chiamare “naso a due occhi”. Poi alla fine arriva pure il “brusio” del titolo e il fumetto finisce. Perfetto, sintetico, nichilista, forse demenziale ma d’altronde non si può certo dire che l’albo non mantenga le promesse. La composizione è tutt’altra cosa rispetto al precedente Living Room, se là c’era una struttura predefinita qui Krout lavora con libertà estrema e sempre a tutta pagina, con un approccio da albo illustrato più che da fumetto classico. I disegni sono a dir poco scarni, esaltandosi nella rappresentazione dell’edificio razionalista a cui il protagonista arriva nel finale.
Spare Me di Disa Wallander – Altro esempio di cartooning coeso e autoconsapevole è quello di Disa Wallander, che in questo albo di grande (anzi direi lungo) formato uscito nell’agosto 2017 continua il suo percorso creativo. L’alternanza tra foto ritoccate dall’autrice e disegno a matita stilizzato ai limiti dello schizzo caratterizzava già il precedente Help Yourself, pubblicato da Perfectly Acceptable Press di Chicago nel 2016, ma qui il ping pong stilistico avviene all’interno della stessa pagina. Le tavole sono infatti divise in due sezioni: la prima, ben più ampia per dimensioni (più o meno 1/5 del totale), è occupata per lo più da foto ritoccate in digitale, cui si aggiungono di volta in volta testi e illustrazioni, mentre la seconda è un semplice disegno a matita su sfondo bianco accompagnato da una breve frase. All’alternanza stilistica corrisponde una dicotomia concettuale tra natura e uomo, con le immagini di piante e paesaggi della parte superiore che si oppongono ai personaggi in fuga della striscia inferiore, impegnati a correre per sfuggire ai loro demoni interiori o, più prosaicamente, per non farsi raggiungere dalle e-mail. E anche la parte più visivamente suggestiva ha spesso un elemento decadente, tanto da comunicare una visione negativa dell’esistenza umana contemporanea, capace di andare quasi sempre contro la natura, rovinandone la bellezza. Pagina dopo pagina non può che venire un certo senso di angoscia, anche se nel finale un raggio di sole lascia un po’ di speranza.
Money Worries #1 e Graite Stuff #1 di João Sobral – Concludiamo questa rassegna con lo stesso Sobral, a sua volta autore di fumetti che non mirano a sviluppare delle storie, preferendo lavorare sui concetti. I due titoli in questione presentano in realtà scelte diametralmente opposte. Money Worries è infatti un saggio sull’ossessione per il denaro raccontato con stile geometrico e una suddivisione della pagina estremamente schematica. La copertina, in gran parte occupata dal testo, definisce subito i toni del discorso: “Il denaro è qualcosa che puoi scambiare per le cose che vuoi o di cui hai bisogno, come cibo, libri o giocattoli. Per guadagnarlo, devi trovare qualcosa da fare (lavoro). Ma deve essere qualcosa di abbastanza utile e importante per essere chiamato un lavoro. Le persone che hanno il potere di decidere se qualcosa è utile o no sono quelle veramente ricche, che vogliono diventare ancora più ricche. E quindi le cose considerate utili sono quelle che possono rendere i ricchi ancora più ricchi”. A partire da queste premesse marxiste si seguono i movimenti di un personaggio che pensa sempre al denaro, prima di andare a letto, appena sveglio e anche nei sogni, fino a sviluppare un’etica del lavoro di certo non facile da seguire ai giorni nostri. Per niente peregrino, Money Worries è un’altra conferma che i fumetti di O Panda Gordo, pur con un approccio il più delle volte sperimentale, riescono di tanto in tanto a guardare dritta in faccia la realtà quotidiana e a indagare le scelte – artistiche, etiche e politiche – che ci troviamo a fare.
Graite Stuff fa invece interagire due personaggi – uno fin troppo entusiasta, l’altro ben più pragmatico – in un contesto totalmente astratto e utilizza una maggiore libertà stilistica. Un tizio che si guadagna da vivere assemblando collane fa cadere delle pietre in terra. L’altro si sveglia a causa del rumore, saluta i lettori, augura buon anno a tutti e tenta di fare amicizia con l’imprenditore (così si definisce) che però non se lo fila. In mezzo, due pagine su sfondo nero che fungono da commento alla storia, come un coro greco. L’ironia la fa qui da padrona, come d’altronde l’amore per un fumetto non convenzionale capace sempre di essere ricerca, stimolando il lettore con scelte formali di volta in volta diverse. Particolarmente da apprezzare sono le prime tre pagine, in cui il corpo dei due personaggi viene tagliato e scomposto con spirito cubista dalla suddivisione tra le vignette. Nel complesso si tratta di due albi brevi (rispettivamente 18 e 16 pagine) ma che colpiscono per la loro semplicità estetica e di intenti.
“Sabrina” di Nick Drnaso
E’ estate, fa caldo e le recensioni ultimamente mi sembrano solo parole. Quindi salto ogni preambolo e dico subito che Sabrina di Nick Drnaso, uscito da un paio di mesi per Drawn & Quarterly e di prossima pubblicazione in Italia per Coconino Press, non solo non delude le aspettative ma riesce addirittura a superare il precedente Beverly, per me una delle migliori raccolte di racconti brevi a fumetti di sempre. E visto che ci sto evito anche di dilungarmi su Beverly, tanto ne avevo già parlato qua.
Veniamo così alla trama, incentrata sulla sparizione della Sabrina del titolo, che vediamo soltanto nelle prime dieci pagine, prima di uscire misteriosamente di scena. Il suo ragazzo, Teddy, lascia Chicago per trovare ospitalità e conforto in un vecchio compagno di scuola, Calvin, militare in carriera in una base del Colorado. Tra i due nasce un rapporto algido e imbarazzato come solo certe amicizie maschili sanno essere. Se Teddy ha perso Sabrina, Calvin ha perso la moglie, che lo ha mollato per trasferirsi in Florida insieme alla figlioletta. Lo scenario sembra proprio quello di Beverly ed è lecito aspettarsi un’altra galleria di goffaggini, meschinità e indifferenza, scandita da pagine schematiche e da un disegno piatto, volutamente monocorde. Tutto ciò in effetti lo troviamo anche in Sabrina ma a un certo punto il libro si spinge oltre, passando dal privato al pubblico quando la sparizione della ragazza diventa un fatto di cronaca oggetto di servizi televisivi, programmi radiofonici cospirazionisti, discussioni sui forum. Drnaso non si limita a scavare nel vuoto interiore dei suoi personaggi, che ormai è già palese agli occhi dei lettore, e inizia a descrivere la sua nazione, tagliata a fette dall’odio, dalla paura dell’altro, dallo scetticismo a ogni costo.
Sabrina diventa così un’indagine in forma di fiction non tanto sull’era Trump – il libro conta ben 200 pagine ed era in gestazione da tempo – ma su tutti gli Stati Uniti post 11 settembre, con una particolare attenzione al mondo delle fake news e alle teorie del complotto, qui portate all’eccesso al punto da diventare retorica reazionaria, ossessione e soprattutto paranoia, una sensazione che cresce sottilmente ma inesorabilmente pagina dopo pagina. E non è un modo di dire, perché Drnaso riesce a coinvolgere come pochi, a trasmettere al lettore un’angoscia capace di penetrare nel suo tessuto nervoso e di rimanerci per un bel po’. La sua penna non cerca più come in precedenza il sorriso sardonico e la derisione che avevano fatto accostare i suoi fumetti al cinema di Todd Solondz, ma delinea un’umanità arrendevole e apatica con un’intensità finora inedita e quasi stupefacente se pensiamo alla freddezza dello stile e della composizione. Una freddezza che tuttavia comunica, con vignette e pagine costruite come un quadro di Hopper e dei personaggi che non sono semplici larve chiuse in se stesse ma che sembrano reali al punto da lasciare anche qualche speranza di redenzione. Infatti, pur nella negatività del quadro complessivo, a volte qualcuno fa addirittura una buona azione, mentre noi stiamo lì ad aspettarci – ormai paranoici, appunto – una violenza sessuale, un’efferatezza o almeno un goffo tentativo di far male. A tal proposito ci sono un paio di sequenze che varrebbe la pena prendere da esempio, ma di più non dico per non rovinarvi una lettura che vale assolutamente la pena di fare.
Nick Drnaso è nato nel 1989 a Palos Hills, nell’Illinois, e ora vive a Chicago con la moglie e tre gatti. A nemmeno 30 anni ha già smesso di essere una promessa del fumetto americano e ne è diventato una realtà, al livello dei suoi più blasonati colleghi.
JICBC pt. 3: “Roopert” di August Lipp
Dopo il primo numero dell’antologia Now della Fantagraphics e Book of Daze di E.A. Bethea edito da Domino Books, il terzo fumetto “uguale per tutti” del Just Indie Comics Buyers Club è Roopert di August Lipp, pubblicato da Revival House Press. Avevo inserito questo corposo spillato di 56 pagine già nel mio Best Of 2017 ma solo recentemente sono riuscito a procurarmene una quantità più massiccia e a renderlo così disponibile a tutti gli abbonati. Roopert è innanzitutto un fumetto divertentissimo ma ancor di più è un fumetto intelligente, apparentemente bizzarro e fuori di testa ma in realtà geniale nel modo in cui stravolge situazioni e convenzioni per stupire e far sorridere il lettore.
La storia, disegnata con tratti blu e cartoon su sfondo giallo, vede protagonisti buffi animali antropomorfi che tornano a scuola dopo le vacanze. C’è Roopert appunto, un orso insolente e leader carismatico del gruppo, il tasso Clyve segretamente innamorato di un suo compagno di classe, la volpe Hannah fissata con le mele giganti coltivate dal padre e così via. E soprattutto c’è la nuova insegnante del gruppo, l’unica umana di questa classe-zoo: si chiama Miss Julienne, parla un linguaggio forbito e usa toni zelanti ma non ne azzecca una, offendendo già nelle prime pagine la rana Timothy e la scimmia Anthony. Da lì i due studenti si “innervosiscono” e partono una serie di situazioni paradossali, con l’apparizione di altri personaggi fuori di testa come la svampitissima professoressa d’arte Miss Calomine, il preside T-F che ogni tanto sente il bisogno di abbaiare (è un cane, d’altronde), il coccodrillo Clarissa che ha mangiato una gamba a un compagno… Dietro tutto ciò si nasconde un sottotesto profondo che deride gli adulti mostrandoli sempre disattenti nei confronti dei bambini, stigmatizza il razzismo e l’autoritarismo e innalza un inno gioioso di libertà e diversità. Non vi dico altro per non togliervi il divertimento, anche perché presto chi è abbonato al Buyers Club potrà leggere l’albo nella sua interezza. Gli altri trovano invece qui sotto le prime pagine del fumetto, che si può anche ordinare nello shop on line di Just Indie Comics.
“La mia cosa preferita sono i mostri” vol. 1
di Emil Ferris, Bao Publishing, aprile 2018, brossurato, 416 pagine a colori, 20.5 x 25.7 cm, euro 29
Karen Reyes è una bambina di 10 anni che vive con la madre e il fratello più grande nella Chicago dei tardi anni ’60. Appassionata di film fantasy e horror, è affascinata dall’immaginario dei b-movie e delle riviste a tal punto da rappresentarsi nel suo diario illustrato come un lupo mannaro. Un giorno la bella vicina di casa Anka Silverberg viene trovata morta nell’appartamento al piano di sopra. La polizia parla di suicidio ma Karen non è per niente convinta. Inizia così un’indagine che la porterà ad esplorare il passato della donna, fino a scoprirne le sofferenze patite nella Germania pre-nazista, tra povertà, prostituzione minorile e deportazione in un campo di concentramento. Nel frattempo la mamma di Karen si ammala, il fratello va dietro a ogni donna che incontra, la stessa ragazzina comincia a comprendere la propria sessualità. E, nel finale di questo primo volume, viene ucciso Martin Luther King.
E’ questa a sommi capi la trama di La mia cosa preferita sono i mostri, il finto diario di Karen Reyes raccontato da Emil Ferris, autrice classe 1962 che ha debuttato con la prima opera lunga proprio con questo fumetto. Pubblicato dalla Fantagraphics Books di Seattle alla fine del 2016, il libro è rimasto bloccato per diverse settimane a causa di problemi legati alla spedizione delle copie dalla Corea, dove si trovava la tipografia. Uscito di fatto nel 2017, è stato il fumetto più citato nelle classifiche di fine anno scorso negli USA, oltreché un caso editoriale che ha portato Fantagraphics a ristampare più volte la prima tiratura. Ma di My Favorite Thing Is Monsters si è parlato anche per la tormentata storia della sua autrice, capace di realizzare una titanica opera di 400 pagine (in attesa del seguito, per giunta) dopo essere rimasta paralizzata a 40 anni in seguito a un pizzico di zanzara con cui ha contratto il virus del West Nile. Ma non vi tedierò ulteriormente con questa storia, che alcuni di voi già conosceranno (gli altri la possono leggere in questo fumetto realizzato dalla stessa Ferris).
Ho pensato più e più volte a come considerare La mia cosa preferita sono i mostri, sin dalla sua uscita negli USA. Ci ho pensato anche quando ho stilato il mio Best Of del 2017, in cui alla fine non ho inserito il libro di Emil Ferris perché la prima lettura mi aveva lasciato interdetto. Così quando, all’inizio di aprile, Bao Publishing lo ha pubblicato in Italia in un’edizione identica all’originale, mi è sembrata l’occasione giusta per rileggerlo e rivedere eventualmente il mio giudizio. E invece sono rimasto nuovamente interdetto, perché ai suoi innegabili pregi l’opera unisce più di qualche difetto.
In parte forse è un mio problema. Problema con quei fumetti che pur servendosi delle soluzione tipiche del medium – come le nuvolette, i dialoghi, le vignette – tendono a utilizzare le immagini più per accompagnare il testo che per raccontare. Da anni imperversa ormai il termine graphic novel, che i più utilizzano per dare maggiore dignità al fumetto, spesso per prodotti che di “novel” hanno ben poco. Qui per una volta si potrebbe utilizzare il termine a proposito perché siamo di fronte a un vero romanzo grafico, un’opera al cui centro c’è un fiume di parole e in cui le immagini sono al servizio di queste. Un romanzo di formazione che sembra rimandare più alla narrativa americana contemporanea che ad altri fumetti, anche se un riferimento diretto potrebbe essere Fun Home di Alison Bechdel, non a caso chiamata a dire la sua in quarta di copertina.
Ma anche provando a mettere da parte questa mia idiosincrasia per la narrativa a fumetti nel senso più stretto del termine – ed è una cosa del tutto personale, perché il fumetto può ovviamente essere anche questo – La mia cosa preferita sono i mostri non funziona sotto diversi punti di vista. E’ soprattutto il lungo flashback nella Germania pre e poi nazista a lasciare perplessi, tanto è pieno di luoghi comuni e di personaggi artificiosi. Il parallelismo tra la protagonista e la giovane Anka, suggerito dall’autrice, non regge. Tanto è ben delineata e interessante la prima, tanto risulta macchiettistica la seconda. E, pur volendo sospendere l’incredulità sull’io narrante nelle diverse fasi della storia, sembra difficile accettare che il punto di vista di Karen risulti in molte parti più maturo di quello di Anka, che racconta su nastro le traumatiche esperienze d’infanzia con il punto di vista di un’adulta, poco prima della sua morte. E’ forse lì che il racconto cede il passo, si appesantisce, smette di appassionare, come se l’autrice si trovasse a suo agio con il suo mondo – la Chicago dei tardi anni ’60 in cui è cresciuta – ma non con qualcosa a lei estraneo come la storyline sul passato di Anka, intrisa di atmosfere alla Dickens ma al tempo stesso di manierismo. Anche il disegno, che nella parte moderna unisce immaginario da b-movie, richiami a maestri dell’illustrazione come Sendak e splendido realismo nella rappresentazione dei volti umani, si concede momenti sin troppo ordinari nelle pagine ambientate in Germania, a volte naif nel senso peggiore del termine. E in realtà è tutto il libro che alterna a livello grafico momenti alti e bassi, tra tavole stupefacenti ed altre funzionali al racconto ma sin troppo abbozzate per risultare finite. Tra l’altro le più riuscite si trovano per lo più nella prima parte, come se a un certo punto per portare a termine la titanica impresa la Ferris sia stata costretta ad accelerare il passo e semplificare il disegno.
Detta così, La mia cosa preferita sono i mostri sembrerebbe uno di quei libri belli soltanto da sfogliare. Di sicuro la mole, l’iconografia e l’indiscutibile fascino di alcune tavole hanno influenzato la maggior parte di critici e lettori, che hanno gridato al capolavoro ancor prima di leggerlo. Eppure non è tutto qua, perché di cose positive il libro ne ha eccome. C’è innanzitutto il mondo visto dagli occhi di una bambina che in alcuni passaggi restituisce atmosfere di romanzi come Il Giovane Holden o Molto forte, incredibilmente vicino, con la riflessione finale su chi sono i veri mostri che solo una bambina può fare con tanta lucidità. C’è la riuscitissima sequenza onirica iniziale, con la protagonista che sogna di essere un lupo mannaro e una folla inferocita che la bracca per ucciderla. Ci sono i turbamenti sessuali di Karen, il suo difficile rapporto con il proprio corpo e le difficoltà relazionali che ogni ragazzo ha avuto in un momento o nell’altro della crescita. C’è l’atmosfera della Chicago anni ’60, le sue strade, i quartieri e la metropolitana, così vividamente realistici. C’è la riproduzione delle copertine di fumetti e riviste di genere, materiale con cui la Ferris è tremendamente a suo agio. Com’è a suo agio quando fa percorrere a Karen i corridoi dell’Art Institute, non limitandosi a ricreare brillantemente con penne e matite colorate alcuni classici della pittura, da Seurat a Delacroix, ma entrandoci dentro in modo da restituirne la magia al lettore. Tutte cose che valgono senz’altro il prezzo del biglietto ma che al tempo stesso lasciano anche un po’ di amaro in bocca. Come il sapore di un’occasione sprecata.
JICBC pt. 2: “Book of Daze” di E.A. Bethea
Seconda spedizione dell’anno per il Just Indie Comics Buyers Club, l’abbonamento che dà modo di ricevere con cadenza trimestrale fumetti per lo più americani ma a volte anche europei di difficile reperibilità in Italia. Dopo il primo numero dell’antologia Now della Fantagraphics, inviato a gennaio, ad aprile toccherà a Book of Daze di E.A. Bethea, antologia monografica pubblicata alla fine dello scorso anno dalla Domino Books di Brooklyn. I più affezionati lettori di Just Indie Comics dovrebbero già conoscere il lavoro della Bethea, a cui ho dedicato ai tempi del blog, e precisamente nel luglio 2014, un articolo nella gloriosa (ben due puntate) rubrica Comics People. Allora si dava conto soprattutto del materiale apparso nella corposa raccolta Bethea’s Illustrated uscita nel 2009 per la Sad Kimono Books e nel primo numero della rivista a fumetti formato tabloid Tusen Hjärtan Stark, targata ancora Domino. Da allora la Bethea ha contribuito al secondo numero di Tusen e a svariate antologie, non solo a fumetti. Mancava però da tanto una pubblicazione interamente a suo nome e adesso è finalmente arrivata grazie alla volontà di Austin English, mente e braccio dietro Domino ed estimatore del lavoro dell’artista di Brooklyn (ma originaria di New Orleans).
Non credo ci siano tanti altri casi come questo in cui possiamo definire “unica” l’opera di una fumettista. Anzi, in questo caso non è nemmeno giusto definire E.A. Bethea semplice “fumettista”, dato che la sua scrittura al tempo stesso secca e musicale è più vicina alla letteratura e alla poesia, mentre la sua linea affilata e via via sempre meno grezza guarda al cinema e alla fotografia, con continui close-up su piccoli pezzi di mondo apparentemente insignificanti ma riempiti di volta in volta di malinconia, rabbia, meraviglia, ironia. Eppure testo e immagine dialogano, si arricchiscono l’un l’altro come accade proprio nei migliori fumetti.
In Book of Daze, che oltre a nuove opere per lo più datate 2017 raccoglie qualche pagina già vista in precedenza, non troverete storie nel senso più classico del termine, ma riflessioni, ricordi, biografie, polaroid, descrizioni, poesia beat, riferimenti letterari e cinematografici, il tutto fuso con pari dignità e spesso anche nella stessa pagina in uno stile e un registro unico, quello di E.A. Bethea. Un registro che sembra provenire dal passato, come una cartolina da un’altra America fatta di strade polverose, bar malandati, vecchie sale cinematografiche, libri tascabili, pacchetti di sigarette accartocciati e poca pochissima tecnologia. Non si tratta di materiale semplicissimo da proporre né da affrontare, non ha l’appeal scintillante di tanto fumetto a cui siamo abituati oggi, ma vi assicuro che sa affascinare. Buona lettura.
Misunderstanding Comics #10
Nuova puntata di Misunderstanding Comics, rubrica che si occupa di letture varie senza necessariamente parlarne con dovizia di particolari. Dato che siamo stanchi di novità, colgo l’occasione per recuperare qualche fumetto non proprio recentissimo.
I Never Promised You a Rose Garden è una serie a firma Annie Murphy di cui al momento sono stati pubblicati due soli numeri. La Murphy, classe 1978, è attivista queer, diplomata del Center for Cartoon Studies, autrice di una biografia di Achsa Sprague, curatrice dell’antologia Gay Genius e molto altro ancora. A vederli on line gli altri suoi fumetti sembrano più ordinari rispetto a questo, una cronaca politica e culturale incentrata sulla sua città, Portland. E anzi, I Never Promised non è nemmeno un fumetto nel senso più tradizionale del termine, dato che si tratta in realtà di un saggio illustrato, un quaderno in cui immagini sporche di inchiostro e dalle linee tremolanti si uniscono a lunghi testi trascritti a mano nella più idiosincratica tradizione del do-it-yourself.
Il primo numero, intitolato My Own Private Portland, si apre con la morte di River Phoenix e si sofferma inizialmente sulla carriera dell’attore, per arrivare ben presto alla genesi e all’analisi di My Own Private Idaho, ricca di interessanti retroscena. La Murphy descrive con abilità il clima culturale di quegli anni, la fine degli ’80, le storie di ragazzi di strada, prostituti, tossicomani che in alcuni casi avevano frequentato lo stesso liceo dell’autrice e da cui Van Sant rimase affascinato al punto da mescolarsi a loro nel quotidiano. L’eroina ha una parte importante in queste pagine, ed è solo uno dei tanti aspetti che ci fanno capire, come suggerisce il titolo, che almeno all’epoca la cosiddetta “City of the Roses” non era quella terra promessa che noi europei siamo soliti immaginare. Il primo numero si conclude con un parallelismo tra Phoenix e Kurt Cobain, ripreso senza soluzione di continuità nel secondo, in cui viene approfondita la biografia personale dell’attore e in particolare la sua educazione nella setta Children of God, dove gli abusi sessuali sui minori erano all’ordine del giorno. Murphy non risparmia nessuno, sviscera temi, fa domande, mettendo in dubbio anche l’operato di Van Sant, tacciato di “hispter racism”. Da lì si passa alla parte più politica del racconto, una rappresentazione critica del Pacific Northwest che si sofferma stavolta sui rigurgiti razzisti di una zona per tradizione tutt’altro che multietnica, come testimonia l’assassinio di Mulugeta Serraw, membro della comunità etiope di Portland ucciso nel 1988 da tre skinhead. Tra questi Kenneth “Ken Death” Mieske, personaggio noto nell’underground di strada della città dell’Oregon e fonte di ispirazione per Drugstore Cowboy. L’eco di quel fatto portò anche al processo contro Tom Metzger, militante razzista fondatore della White Aryan Resistance, documentato nell’ultima parte dello spillato.
Avrete capito a questo punto la densità dei fatti raccontati dall’autrice con scrittura piena, consapevole, dettagliata, appassionante ma mai eccessiva. La messa in scena trasuda spontaneità e ben si adatta a disegni che descrivono e a volte commentano con tono sardonico, come cartoline di un artista di strada disegnate sul momento, senza ripensamenti o rifiniture di troppo. Purtroppo non si hanno notizie se mai si vedrà un terzo numero, dato che l’ultimo risale al 2016 e che il blog dell’autrice è fermo allo stesso anno. Magari se mi decido a mandarle una mail scoprirò se questo piccolo gioiello nascosto avrà prima o poi un seguito.
Cambiamo totalmente mondo e passiamo a un autore che ha fatto del disegno – e che disegno – la sua peculiarità, dando forma a fumetti che difficilmente possono essere tradotti in soggetto, trama o semplicemente parole. Sto parlando di Walker Tate, cartoonist di Los Angeles abile nello scomporre pagine e vignette, a tracciare inusuali prospettive, ad accanirsi sui corpi con piglio cubista seppur con una linea pulita e tondeggiante. C’è qualcosa nelle sue creazioni, finora tutti comic-book autoprodotti autoconclusivi e di poche pagine, che ricorda Ruppert & Mulot, anche se non saprei dire se si tratta di un’influenza o di affinità elettiva. Del 2015 sono Waiting Room, rappresentazione di una sala d’attesa e degli oggetti che la abitano, ed Extract, storia paradossale di un uomo che decide di dividere il suo appartamento in tante porzioni diverse in modo da poterle affittare. Channel, del 2016, seguiva invece le evoluzioni di una pallina da golf. In tutti e tre i casi la trama – se così vogliamo chiamarla – era una scusa per dar vita a virtuosismi stilistici di ogni tipo, come le prospettive in movimento di Waiting Room e le scomposizioni di Extract, che interessavano prima l’appartamento (e di conseguenza la pagina) e poi il corpo del protagonista.
Ma è il più recente Procedural, uscito lo scorso anno, a cambiare le carte in tavola. I dialoghi stavolta hanno una parte importante nello sviluppo del racconto, le vignette sono regolari, il paradosso che prima ero per lo più visivo viene sviluppato in chiave narrativa. Un idraulico viene chiamato a fermare una perdita d’acqua proveniente dal soffitto, che ha costretto il proprietario di casa a portare il suo divano in un deposito. Lasciato a lavorare da solo, l’idraulico si accanisce contro la perdita senza successo, mentre il suo cliente non riesce più a trovare il divano, spostato di luogo in luogo per motivi sempre più assurdi. Nel frattempo un corriere deve consegnare delle confezioni di trota sott’olio… Lo so che detto così sembra puro nonsense, o un film di Alain Resnais, ma vi assicuro che Procedural funziona e lascia la curiosità di vedere che cosa si inventerà Tate la prossima volta.
Altra autrice che prosegue indefessa la sua ricerca stilistica è Lale Westvind, di cui avevo parlato brevemente qui in occasione del suo Hax uscito per Breakdown Press. I suoi fumetti meriterebbero ben altra attenzione di quella che gli sto dedicando io su Just Indie Comics e prima o poi sono convinto che riuscirò a parlarne meglio, magari insieme a lei. Qui mi limito a segnalare l’uscita del quarto numero di Hot Dog Beach, che trovo particolarmente interessante per una serie di motivi. Se infatti negli albi autoconclusivi e nelle storie per le antologie la Westvind adotta uno stile letterario denso e complesso, in cui il testo è spesso avvicinato all’immagine come descrizione, delirio, puro lirismo, in questa serie aperiodica autoprodotta troviamo invece uno stile più cartoon e dei dialoghi che spesso scelgono le vie della commedia.
Sia chiaro che le tematiche ricorrenti della Westvind – velocità, dinamismo, interazioni tra uomo e macchina, visioni lisergiche – rimangono costanti ma questa volta più che dalle parti di un futurismo cyberpunk siamo in un mondo alla Mad Max, con personaggi che si rincorrono senza ben sapere il perché verso la spiaggia del titolo. Ma la cosa che a me più interessa in questi quattro numeri qui è il modo in cui sono realizzati, ossia con un approccio spontaneo che non ha alle spalle una precisa pianificazione, una trama liquida che si può prendere da qualsiasi punto senza aver necessariamente letto il resto, i disegni che cambiano di volta in volta stile (e non potrebbe essere altrimenti, dato che il primo numero è datato 2010 e l’ultimo è dell’anno scorso). Anche la storia si evolve, inizia in un modo e prosegue in un altro, accelera, rallenta, riparte, prende deviazioni, tanto che probabilmente potrebbe durare all’infinito, soprattutto se l’autrice continuerà a costellarla di momenti visionari come le due spettacolari sequenze onirico-psichedeliche di questa quarta uscita. Hot Dog Beach ci riporta ai tempi in cui i fumetti non erano una cosa così seria e si poteva anche decidere di pubblicare qualcosa a puntate senza preoccuparsi della futura raccolta in volume. Ed è per questo una vera boccata di ossigeno.
Concludiamo con un’altra donna, se così si può dire, dato che Laura Pallmall è in realtà lo pseudonimo di Jason Lee, cartoonist (e non solo) trasferitosi di recente da Los Angeles – che rimane comunque lo scenario di riferimento dei suoi fumetti – a Pittsburgh. Lee pubblica da qualche tempo la serie di fanzine Nothing Left to Learn, caratterizzate dall’approccio do-it-yourself e dalla libertà con cui vengono messi insieme saggi, fiction, illustrazioni, poesie e ovviamente fumetti, come testimonia l’omonimo Tumblr. Nell’ambito del progetto ha trovato spazio anche una sotto-serie chiamata Sporgo e attribuita a tale Laura Pallmall, di cui sono usciti due numeri “rilegati” con l’elastico e caratterizzati da un tratto crudo, a volte sin troppo elementare nella sua semplicità, e da una divisione della tavola regolare.
Sporgo #1 si apre con Picaresque, realizzato per la Comics Workbook Composition Competition del 2015 e scelto tra i migliori fumetti dell’anno nell’ultima edizione di The Best American Comics, 16 pagine che rappresentano al momento il vertice dell’ancora limitata produzione dell’autore/autrice. L’apertura è un sogno dai contorni horror, che ci cala subito in un’atmosfera plumbea, oppressiva, angosciante. A pagina 2 un uomo viene svegliato dal suono del campanello, è un suo amico che è andato a trovarlo. Dal dialogo tra i due capiamo che il protagonista riempie le sue giornate di nulla, impegnato più che altro a comprare il cibo e a preparare i pasti per i vicini, che hanno deciso di passare la luna di miele chiusi in casa per smettere di fumare. Fuori le strade sono deserte, c’è solo un opossum sdraiato sul marciapiede che si dà per morto, oppure che è morto davvero. Doveva piovere quel giorno ma il sole continua a splendere. Forse prima o poi succederà qualcosa ma intanto si sta buttati sul divano o in strada, mentre si avvicina la notte. Non vi racconto tutto tutto anche perché c’è poco da raccontare ma il nulla di cui è fatta questa piccola riuscitissima storia risuona nella mente del lettore e lo avvolge in una spirale di inchiostro sempre più nera fino al suo notturno finale. E un’ombra nera, stavolta in senso non metaforico, è protagonista di From Eden to Hill, secondo racconto dell’albo, una ghost story meno efficace della precedente e che per trasmettere inquietudine sceglie strade non così originali. Eppure l’assonanza di temi e situazioni dà unità al tutto creando un corpus unico. Sporgo #2, pubblicato nel 2017 a due anni di distanza dal precedente, non si allontana molto da queste coordinate e segna l’inizio di una storia lunga intitolata Pyramid Inch, incentrata su un giovane filmmaker impegnato a scrivere sceneggiature puntualmente lasciate a metà. Anche qui mare, palme e grattacieli costituiscono lo sfondo di una vicenda che dal reale scivola nell’onirico, con sequenze simili a quelle già viste in From Eden to Hill. In più qui troviamo riflessioni sull’industria culturale che nei dialoghi finali dell’albo assumono quasi i contorni del saggio. Pur con qualche approssimazione nel disegno, Pyramid Inch si fa leggere con curiosità e lascia un senso di inquietudine e paranoia che è vera cifra stilistica.
Just Indie Comics Day a Roma
Dopo il festival dello scorso giugno, continua la collaborazione tra Just Indie Comics e lo studio Co-Co con una giornata dedicata al fumetto underground. Il nuovo evento, che si terrà sabato 24 febbraio a Roma dalle 16 alle 21 in via Ruggero d’Altavilla 10 (zona Pigneto), si chiama Just Indie Comics Day ed è organizzato insieme al Crack! festival, con Valerio Bindi che alle 19 presenterà Daniel Benitez, fumettista messicano classe 1990 oltreché editore di WorstSeller Ediciones. L’incontro si incentrerà in particolare sull’ultima fatica di Daniel, l’albetto Puto el ce lo lea, pubblicato in spagnolo con traduzione inglese allegata e firmato con lo pseudonimo di Dr. Intransferible. Inoltre saranno disponibili per la prima volta una serie di novità della distribuzione di Just Indie Comics, da Twilight of the Bat di Josh Simmons e Patrick Keck ai fumetti di Lale Westvind, dagli albi autoprodotti di Laura Pallmall alle ultime novità targate kuš!.
Anche se vede come protagonista il fratello dell’autore, Puto el ce lo lea racconta in realtà una storia corale, che guarda non solo alla famiglia di Daniel ma all’intero sobborgo di Città del Messico dove è ambientata. Non c’è una trama nel senso più tradizionale del termine ma piuttosto una serie di personaggi che passano da una situazione all’altra, tra scherzi, risse, feste in giardino, concerti punk. Temi come la violenza di strada e la famiglia disfunzionale sono rappresentati con un tratto leggero e cartoon, i colori sono irreali nei toni del blu e del fucsia, l’approccio ironico tiene lontano ogni dramma. Anche l’inserto El Chorri, spillato all’interno dell’albo, rafforza la dimensione corale del fumetto con la descrizione del personaggio omonimo, in sostanza un tossico del posto fissato con la forma fisica e, come ci informa l’autore nelle note, appassionato di colla (da sniffare).
Oltre che dei fumetti di Daniel si parlerà anche delle altre produzioni WorstSeller, una piattaforma creata da Daniel insieme a Anahi Hernández Galaviz e dedita non solo alla pubblicazione di fanzine e fumetti, ma anche all’organizzazione di workshop, festival e altri eventi legati al mondo del fumetto e dell’arte. L’uscita finora più importante è stata Zine Censura: Fanzine Makers from Mexico, un catalogo del primo festival di WorstSeller del 2015, in cui vengono presentate le opere di oltre 50 artisti della scena alternativa messicana sul tema della censura. Il libro è stato anche protagonista di una mostra alla DobraVaga, una galleria d’arte di Lubiana, in Slovenia.
Anche le altre produzioni WorstSeller saranno ovviamente disponibili per l’acquisto, oltre ai libri editi da Crack! e Fortepressa, come La Caïda e Coyota di Juliette Bensimon Marchina, e le pubblicazioni di Studio Co-Co con Dio di me stesso di Alessandro Galatola (edito insieme a Just Indie Comics in occasione del festival dell’anno scorso) e fumetti e stampe di Serena Schinaia.
Ma vediamo adesso nel dettaglio i titoli della distribuzione che saranno disponibili in anteprima per l’evento, con il bookshop che sarà aperto dalle 16 fino alle 21. Iniziamo da un bel carico di novità dalla Lettonia, con le ultimissime uscite di kuš!, ossia il #31 dell’antologia š! intitolato Visitors e i nuovi mini a firma Abraham Diaz (altro fumettista messicano, di cui avevo già parlato qui in occasione del suo Suicida), Pedro Franz, Francisco Sousa Lobo e Roman Muradov. E con l’occasione potrete anche trovare le altre recenti pubblicazioni di kuš!, ossia il #30 di š! tutto dedicato ai fumettisti di Brooklyn, i volumi Fearless Colors di Samplerman e Fenix di Zane Zlemeša, gli altri quattro mini di Paula Bulling/Nina Hoffmann, Noah Van Sciver, Tomasz Niewiadomski, Aidan Koch.
Dagli USA e precisamente da Seattle arrivano invece le produzioni Cold Cube Press, a partire dall’antologia di fumetto, illustrazione e poesia Cold Cube 003, tutta stampata in risograph e ricca di contenuti di grande impatto visivo. Sempre da Cold Cube è edito Twilight of the Bat, ossia il bel bootleg di Batman scritto da Josh Simmons e disegnato da Patrick Keck di cui ho già parlato in questa recensione.
Dall’ovest degli States passiamo a est con due autori che mi piacciono molto e che da tempo volevo portare in Italia, almeno con i loro fumetti. Di Lale Westvind avevo già distribuito (e recensito in questa puntata di Misunderstanding Comics) il suo Hax pubblicato da Breakdown Press. Adesso sono finalmente disponibili alcuni dei suoi fumetti autoprodotti, ossia l’albo in edizione limitata di 300 copie Mary e i numeri dal 2 al 4 di Hot Dog Beach. Se non conoscete ancora lo stile unico, denso, visionario, cyberpunk e ballardiano della Westvind magari è l’occasione giusta per farlo, dato che i suoi fumetti si distinguono con facilità da quasi tutto ciò che siamo abituati a vedere oggi.
E chiudiamo dunque con Laura Pallmall, cartoonist statunitense al momento poco conosciuta ma da tenere d’occhio. La fanzine Sporgo, di cui saranno disponibili i due numeri usciti finora, mette insieme rigorosità e sporcizia, come più o meno scrivevo parlando della sua storia breve Picaresque, selezionata per l’antologia The Best American Comics 2017. Proprio Picaresque è il piatto forte di Sporgo #1, mentre il secondo numero segna l’inizio della storia lunga Pyramid Inch, ambientata a Los Angeles e con protagonista un giovane filmmaker.
E con questo è tutto, non vi resta che venirci a trovare al Just Indie Comics Day e magari ingannare l’attesa dando un’occhiata alla pagina Facebook dell’evento, dove trovate altre immagini e notizie.