Cos’è successo al Just Indie Comics Fest

Alcuni di voi avranno già visto le foto sui social o meglio ancora avranno partecipato all’evento, ma mi sembra comunque doveroso pubblicare su queste pagine un sintetico reportage dal festival nato come diretta emanazione di questo sito e che ho organizzato insieme a Serena Schinaia e Donato Loforese dello studio di progettazione grafica Co-Co e con la collaborazione di Serena Dovì. Proprio la sede di Co-Co al Pigneto a Roma è stato il luogo in cui si è svolto il Just Indie Comics Fest dal 2 al 4 giugno scorsi. Per la genesi del progetto vi rimando alla presentazione che ho pubblicato tempo fa, mentre qui mi limito a farvi la cronaca di quanto successo. E prima di iniziare colgo l’occasione per ringraziare tutti coloro che hanno collaborato e che ci sono venuti a trovare.

Venerdì 2 giugno

Il programma del primo giorno era incentrato sull’inaugurazione delle personali di Diego Lazzarin e Alessandro Galatola, entrambi ospiti del festival in carne e ossa. In breve, le mostre. Quella di Lazzarin, autore del volume Aminoacid Boy and the Chaos Order autoprodotto nel 2015 con una campagna di crowdfunding, si incentrava su alcuni originali tratti dal libro e su stampe appositamente realizzate per l’occasione, anticipazioni del prossimo lavoro Protector of the Kennel, tuttora in lavorazione. In più trovavano spazio quattro sculture in argilla che raffiguravano i personaggi dei lavori di Lazzarin, mostri, alieni ed esseri deformi che in realtà nascondono la visione del mondo del loro demiurgo e persino autobiografia.

La mostra di Diego Lazzarin

Nelle pareti dedicate a Galatola spiccavano invece le tavole originali tratte dall’albo Dio di me stesso, coprodotto da Just Indie Comics e Co-Co in occasione del festival, con il loro bianco e nero netto e dettagliato. In più una selezione di stampe a colori, che davano conto delle recenti sperimentazioni del nostro con brevi narrazioni di quattro vignette. E in un paio di casi era possibile vedere gli originali in bianco e nero di tavole poi trattate con la colorazione digitale.

Gli originali di Alessandro Galatola

Il pubblico, che non è mancato nonostante il giorno festivo, si è potuto godere anche il dj set di “musica sbagliata” a firma MICA e MICS, che alternava Thurston Moore al trio Morandi-Tozzi-Ruggeri, i Blonde Redhead a Partiti adesso di Giusy Ferreri.

Sabato 3 giugno

Sabato è stata sicuramente la giornata migliore per affluenza di pubblico, tra l’altro curioso e preparato. Le mostre e il bookshop di Just Indie Comics sono rimasti aperti dalle 16 fino a tarda sera, mentre nel corso del pomeriggio si è tenuta una presentazione condotta da me e Alessio Trabacchini su alcuni fumetti statunitensi che ben rappresentano i temi di Just Indie Comics. Si è passati quindi da Puke Force di Brian Chippendale ai fumetti di Conor Stechschulte finendo con le pubblicazioni della Domino Books di Austin English.

Alessio Trabacchini su Puke Force: “E’ un libro che ti sorprende continuamente, perché riesce ad essere super-profondo e super-scemo nello stesso momento, alternando per esempio un lunghissimo flashback sulla formazione di un terrorista della destra fondamentalista americana alla descrizione dettagliata di una partita a solitario. Con la costruzione bustrofedica della pagina e i suoi salti avanti e indietro nel tempo, Puke Force è leggibile all’infinito, come tutti i fumetti belli d’altronde”.

Alessio Trabacchini parla di “Puke Force”

Subito dopo ho fatto un po’ di domande a Diego Lazzarin e Alessandro Galatola sul loro lavoro e sulle opere in mostra al festival. Ho già pubblicato la trascrizione di questa intervista informale in un altro post, quindi non mi dilungo ulteriormente.

Da sinistra Galatola, Lazzarin, Di Fazio, Trabacchini

Di seguito vino, birra, chiacchiere varie, un po’ di acquisti dei fumetti di cui si era appena parlato e che erano tutti disponibili per l’occasione, e soprattutto il live di Marco Bonini in arte uBiK con la sua chitarra e i suoi effetti, le sperimentazioni noise che finiscono per formare avvolgenti melodie.

uBiK

Domenica 4 giugno

E’ un’assolata domenica di giugno ma gli avventori sono sempre attenti e interessati. Chi non aveva visto le mostre ne ha approfittato, altri ancora sono venuti per assistere all’ultimo incontro della serie, con Serena Schinaia che giocava in casa per parlare della sua nuova storia breve Souvenir e i ragazzi di Studio Pilar per la prima presentazione “ufficiale” della loro ultima fatica, l’Atlante illustrato delle nuove Costellazioni, al debutto soltanto una settimana prima all’Arf!.

Da sinistra Schinaia, Tomai, Castagnaro, Chronopoulos, Di Fazio

Con Serena si è parlato di storie mentali, sintesi narrativa, comics as poetry, storytelling fotografico e Frank Miller, e se un giorno leggerete Souvenir (presto disponibile on line nel webshop) capirete perché.

Serena Schinaia sul suo metodo di lavoro: “Preferisco raccontare storie che non si compiono o che probabilmente non sono neanche storie. L’utilizzo di un testo sintetico crea ritmo all’interno della pagina e dà vita a un’energia silenziosa. Quando inizio ho un testo leggermente più lungo ma poi tendo ad eliminarlo passo dopo passo, perché mi piace arrivare al nocciolo delle cose. Le mie storie non hanno un personaggio definito, il protagonista non ha un nome, non ha un volto, è un universale e quindi una voce così sintetica è più adatta a un racconto universale che a uno particolare“.

Con Giulia Tomai, Andrea Chronopoulos e Giulio Castagnaro (mancava Andrea Mongia, in trasferta all’Inchiostro Festival di Alessandria) siamo invece entrati nei dettagli del nuovo progetto di Studio Pilar, che ha visto 62 illustratori internazionali confrontarsi con la creazione di una nuova immaginaria costellazione realizzando poi un disegno ispirato alle sue forme. Ne è venuto fuori un libro affascinante, molto vario nei contenuti ma fortemente coeso nel suo insieme, grazie soprattutto alla decisione di utilizzare il bianco e nero.

Dopo l’incontro ancora qualche ora per tenere aperte le mostre, poi serrande abbassate e arrivederci – magari, chissà – al 2018.

Quattro chiacchiere con Lazzarin e Galatola

Sabato 3 giugno durante il Just Indie Comics Fest ho fatto qualche domanda a Diego Lazzarin e Alessandro Galatola a proposito delle mostre allestite in quell’occasione e del loro lavoro, soffermandomi in modo particolare su Aminoacid Boy and the Chaos Order e Dio di me stesso. Ne è venuta fuori una chiacchierata che mi è sembrata interessante e che ho dunque trascritto ed editato con la collaborazione dello stesso Galatola. Non vi dico di più perché probabilmente, se seguite questo sito, già sapete di cosa si sta parlando. Per ulteriori dettagli vi rimando a un prossimo reportage dal festival. Buona lettura.

Gabriele Di Fazio: Allora, partiamo da te Diego per ordine di età, dato che sei sicuramente più anziano di lui.

Diego Lazzarin: Sì, sono il papà…

GDF: Beh, non fino a questo punto… Diego è autore di Aminoacid Boy and the Chaos Order, un libro di cui in Italia non si è parlato tanto quanto avrebbe meritato, forse perché nel nostro mondo del fumetto cosiddetto “indipendente” ci sono tante persone, tanti collettivi che si conoscono tra loro e che ricevono più attenzioni perché sono nella “scena”, mentre Diego è un outsider che non conosce nessuno e non legge neanche tanti fumetti, quasi per niente anzi…

DL: No, qualcosa… Chippendale!

GDF: Ok, allora mi correggo… Dunque, Diego si è autoprodotto dal nulla questo libro ormai nel 2015 e ha fatto una campagna di crowdfunding su Indiegogo. Si era proposto di arrivare a 6500 euro e ne ha raccolti 9000, il libro è stato pubblicato direttamente in inglese e questo gli ha permesso di andare benissimo anche all’estero, dove è riuscito a vendere anche parecchie tavole originali. Al di là del risultato commerciale per me la cosa stupefacente, soprattutto perché questo è il tuo primo fumetto, è la capacità con cui ti sei confrontato sul formato lungo, perché Aminoacid Boy è una sorta di graphic novel se vogliamo chiamarlo così, ed è riuscito perché rispetta i tempi narrativi, c’è una storia, c’è un’inizio e una fine. Volevo capire come hai lavorato per realizzare questo libro, perché vedendo gli originali che sono in mostra qui in occasione del festival la cosa che salta agli occhi è che non ci sono le pagine finite ma soltanto immagini singole, tutte di formato diverso, che poi ritroviamo all’interno della narrazione. Sei partito dalla pittura, dall’aspetto visivo, o comunque avevi già in testa la storia?

DL: In realtà quando ho iniziato a lavorare al libro avevo in mente la storia da un sacco di tempo, da veramente tanti anni, ma io venivo dall’animazione, quindi ero abituato a un processo completamente diverso e in questo caso mi sono dovuto confrontare con il linguaggio della narrazione. Per me lavorare sulle illustrazioni è stata proprio una scuola. Le illustrazioni sono singole perché non ero in grado di fare una pagina intera, e soprattutto durante la lavorazione del primo capitolo le ho fatte e rifatte decine di volte. Soltanto dopo almeno tre capitoli ho cominciato a ragionare sul formato pagina e quindi sulla composizione. Successivamente mi sono stancato della composizione della pagina e anche un po’ della storia, della narrazione, così ho cambiato nuovamente metodo e ho voluto divertirmi con delle pagine piene di sola illustrazione.

GDF: Infatti il penultimo capitolo è composto interamente da splash page o addirittura da pagine doppie che però non sono fini a se stesse, dato che rappresentano anche quello che sta succedendo nella storia.

DL: Il cambiamento avviene in parallelo all’evolversi della storia, perché succedono delle cose caotiche non più legate al personaggio, ma all’ambientazione.

GDF: A questo punto mi sembra inevitabile riassumere qual è la trama del libro per chi non la conosce.

DL: Vai, provaci!

GDF: Allora, c’è questo mondo alieno o comunque una realtà diversa dalla nostra, in cui un dio fatto di carne e metallo invia Aminoacid Boy sulla Terra per capire come funziona il mistero della vita umana, cioè perché gli uomini fanno quello che fanno, perché sono dotati di volontà, di desiderio, insomma come fanno ad avere delle pulsioni che gli consentono di avere un obiettivo, di superare il caos naturale dell’esistenza…

DL: O anche di non superare…

GDF: Esatto… Insomma, il dio manda Amino sulla Terra con il compito di scoprire questo mistero e di comunicare le informazioni che raccoglie attraverso internet, solo che per un errore spazio-temporale il protagonista arriva sul nostro mondo tanti anni fa, così che la sua prima esperienza è l’incontro con il Pequod impegnato a dare la caccia a Moby Dick. Già questi primi sviluppi fanno anche un po’ ridere e infatti il libro, nonostante sia pieno di mostri ed esseri deformi, è raccontato con uno spirito naif, ironico. Poi nel corso del tempo Amino passa attraverso varie fasi, fino ad arrivare ai giorni nostri… Dico bene?

DL: Sì, passa attraverso varie fasi e di volta in volta muta cambiando il suo DNA, perché lui assorbe il DNA degli esseri che si trova vicino, come gli animali e infine l’uomo…

GDF: In una delle sue evoluzioni diventa cantante di un gruppo punk e dopo, in vecchiaia, un rispettabile padre di famiglia che guarda la tv sul divano. Il tutto si svolge con il personaggio principale che guarda la realtà sempre con gli occhi dell’alieno, in modo disincantato, facendo sembrare ridicoli o vani certi nostri costumi. Questo sembra contenere una critica sociale da parte tua, e mi chiedo se ti sia venuta così oppure se c’era intenzionalmente dal principio.

DL: In effetti nel libro c’è proprio la mia visione del mondo, la mia percezione della realtà, soprattutto quando verso la fine arriva il Caos sulla Terra. La visione del personaggio è invece la mia visione personale, è proprio un cammino di crescita, infatti vi sono rappresentate le varie fasi della vita e Amino è costantemente alla ricerca del motivo, della ragione del volere, ma non riesce mai a capirlo, solo a un certo punto guardandosi indietro si accorge che in una fase della sua vita stava provando la gioia dell’interesse nelle cose, ma poi perde di nuovo i punti di riferimento e la realtà lo confonde di nuovo.

GDF: Quindi c’è una vera e propria ricerca personale nel racconto, tanto che, pur se apparentemente fantastico, Aminoacid Boy è in realtà un libro autobiografico…

DL: Fanta-autobiografico!

GDF: Ok, a questo punto passiamo ad Alessandro. Anche con te vorrei iniziare un po’ su come lavori, perché leggendo le tue storie contenute in Dio di me stesso, l’albo che abbiamo pubblicato in occasione di questo festival, ci si rende conto che non sono storie vere e proprie, sono più che altro delle digressioni, quindi c’è un argomento, o piuttosto una situazione – non so, un uomo chiuso in una stanza – e da lì tu cominci a immaginare tutta una serie di cose che succedono. E poi è molto letterario, c’è un testo forte, ci sono delle visioni molto potenti a livello grafico, con tutti questi pattern, anche degli inserti del mondo dei cartoon, dei videogiochi e via dicendo. Quindi volevo sapere se tu di solito parti da un’idea o da una storia e se fai uno storyboard, perché in realtà sembra che questi fumetti siano realizzati seguendo una sorta di flusso di coscienza.

Alessandro Galatola: Sì, in effetti lavoro in maniera quasi del tutto casuale, magari parto da un’idea o da un’immagine che ho avuto, o da delle sensazioni che voglio descrivere, e quindi cerco di trovare le immagini giuste che possano rappresentarle. Tra le varie idee secondo me quelle che rendono meglio sono quelle mi girano in testa per un sacco di tempo: a volte mi rendo conto che in qualsiasi situazione mi trovo, qualsiasi problema mi trovo ad affrontare mi viene quell’immagine in testa, quindi quando ho una fissazione la metto lì e cerco di capire cosa ci può girare intorno, cosa può succedere. In particolare la storia che è ambientata tutta in una stanza chiusa e parla appunto di un tipo che è ingabbiato lì dentro…

GDF: Crocefisso su un letto di rose.

AG: Sì, la seconda storia dell’albo… Lì volevo fare una storia d’amore e quindi volevo divertirmi raccontandola, e non so perché quando non ho assolutamente nessuna idea su cosa fare, su cosa disegnare, mi vengono in mente le stanze chiuse perché le trovo molto confortevoli. E quindi mi sono detto ok, immaginiamo che ti trovi in una gabbia dentro una stanza chiusa, che diavolo può succedere in una situazione così estrema, che non puoi fare niente e non c’è nessuno insieme a te? E quindi da lì ho cercato di trovare tutte le possibili soluzioni a questo problema. Per quanto riguarda il metodo, questa era l’idea iniziale e avevo un senso generale della struttura e delle sensazioni che doveva trasmettere la storia, però fondamentalmente ho proceduto vignetta per vignetta ma aiutandomi comunque con uno schema di partenza, perché se non l’avessi avuto non sarei finito da nessuna parte. Dovevo avere per forza un qualche tipo di struttura che mi aiutasse a scrivere mentre disegnavo e quindi ho fatto semplicemente una griglia quadratissima, sono tutti quadrati e sono tutti uguali, e ho proceduto a riempire gli spazi volta per volta. Come? Dipende, dipende da quello che mi succedeva in quel periodo, quindi se mi girava un pensiero in testa o se avevo appena vissuto qualcosa, non so, con una ragazza o in qualsiasi altro modo che mi facesse venire un’idea che si potesse ricollegare a quel mondo, a quelle sensazioni, lo inserivo e poi cercavo di far quadrare tutto quanto. Quindi magari c’era qualcosa che veniva prima, qualcosa che veniva dopo, e io cercavo di cucire tutto insieme cercando di mantenere comunque un flusso costante e dinamico. Sicuramente ci sono delle parti un po’ più chiare, un po’ più leggere, un po’ più divertenti e delle parti che sono esattamente l’opposto. Comunque l’obiettivo era in qualche modo far divertire molto ed emozionare molto i lettori.

GDF: Infatti succedono tutte e due le cose. Prendi quest’uomo chiuso in una stanza, che è una situazione, un argomento, un tema, fai delle digressioni su quest’argomento, lo guardi da tutte le possibili sfaccettature fino a portarlo al paradosso più totale, all’esagerazione e a creare sia divertimento che emozione. Secondo te, che poi è molto difficile rispondere a una domanda del genere, c’è più dramma o più ironia nei tuoi lavori?

AG: Ehm… C’è… C’è molto paradosso.

GDF: Non si capisce se si deve ridere o piangere.

AG: Non lo so, o meglio, è questo il punto. Mi piace raggiungere quel punto nelle cose in cui i due aspetti coincidono completamente e quindi raggiungi un livello di saturazione emotiva e ti scarichi completamente e sei pulito e stai bene. Per questo mi piaceva fare questa specie di saliscendi tra le varie emozioni, in modo che tu avessi esplorato tutto e arrivassi alla fine in qualche modo completamente depurato e con la mente libera e felice e contenta.

GDF: Io avevo già visto un’altra cosa che hai fatto prima di questa, l’antologia che ti eri autoprodotto nel 2015, che si chiamava SAFE SPACE, e lì c’erano dei fumetti secondo me molto diversi rispetto a Dio di me stesso, sia stilisticamente sia soprattutto per i contenuti, perché erano più legati alla grafica, più giocosi rispetto a questi che invece sono più scritti e densi. C’è una bella differenza fra l’uno e l’altro, anche perché sono passati circa due anni da quel primo albo e i nuovi sono senz’altro più recenti…

AG: Sì, li ho cominciati a fare nel 2015 e li ho finite a Natale scorso.

GDF: Però secondo me c’è un grosso stacco fra quello che facevi prima e quello che fai adesso, sembra come se tu avessi letto o visto qualcosa di importante, come se fosse successo qualcosa che ti ha fatto cambiare. Secondo te a cosa è dovuta questa evoluzione?

AG: Sicuramente prima ero più piccolo, quindi cercavo di esplorare varie strade, cercavo di divertirmi e basta, fare delle cose che mi piacessero, senza particolari ambizioni. E poi in generale vedevo ancora un sacco di altri autori e di artisti, quindi continuavo ad assorbire tante cose diverse, fin quando questa cosa mi ha rotto le palle e mi sono detto voglio fare una cosa mia, punto e basta, perché se continuo a guardare troppo al mondo esterno non riuscirò più a trovare una soluzione mia, comincerò a non sapere più chi sono, e quindi ho deciso di chiudermi completamente e di cercare di far quadrare tutti i riferimenti che avevo fino a quel momento.

GDF: Quindi hai cercato di raccontare qualcosa di tuo.

AG: Sì, l’unica cosa che mi concedevo era vedere cose dal passato, guardando ad artisti che non avrei mai avuto la possibilità di conoscere se non avessi avuto internet, o cose del genere, quindi scaricavo un sacco di fumetti, me li leggevo, leggevo articoli eccetera e cercavo di selezionare le cose che sentivo come mie, che in qualche modo mi facessero sentire a casa provando semplicemente a mischiare tutto insieme. Questo dipende anche dal fatto che stavo finendo l’università però non mi andava per niente, quindi cercavo qualsiasi modo che mi tenesse lontano dallo studio e più incollato alla pagina, più dentro il mio mondo, perché in quel momento la trovavo la cosa più appagante.

GDF: Infatti nel tuo lavoro ci sono tanti riferimenti a cose più vecchie, io avevo citato quando c’eravamo visti tempo fa Mark Beyer, che magari tu anagraficamente non potevi conoscere. Sembra che questo fumetto sia l’opera di un autore molto più grande di te, che viene da una scena diversa…

AG: Volevo crescere, volevo darmi un po’ di forza, volevo capire chi fossi, quindi ho cercato di basarmi su tutto quello che mi apparteneva a un livello più profondo. Per quanto riguarda i fumetti mi sono sempre piaciute le cose più stilizzate, più vicine ai graffiti o anche più primitive. Poi mi piacevano i videogiochi, soprattutto quelli a cui giocavo da piccolo, tipo Zelda o i Pokemon mi piacevano un casino, anche perché mi facevano sentire a casa. Ci vedo una specie di coerenza estetica in tutto questo, quindi mischiavo i due piani, quello dei fumetti e quello dei videogiochi, perché se questi due mondi si incontrano sento che la cosa mi appartiene.

GDF: Allora, per concludere, parliamo delle altre cose che vediamo qui esposte, partendo di nuovo da Diego. La tua mostra ha infatti una parte incentrata sugli originali di Aminoacid Boy e un altra è invece tratta da un libro a cui stai ancora lavorando, che si chiamerà Protector of the Kennel. C’è un netto distacco fra i due, perché i materiali di Aminoacid Boy sono pittura, acrilico, le altre invece sono stampe, perché gli originali sono stati modificati in digitale a livello di colorazione.

DL: Per questo lavoro qui sono partito da alcune textures che ho fatto sempre in acrilico però poi ho acquisito in digitale per spingerle con il colore in Photoshop. E’ un lavoro in cui sto cercando di tirare fuori queste tinte sparate utilizzando filtri ed effetti. Passo parecchie ore a lavorare al computer, però parto sempre dal lavoro in acrilico.

GDF: Come mai hai deciso di cambiare metodo di lavoro?

DL: Perché mi annoio se, quando divento troppo consapevole di cosa sto facendo, non mi sorprendo più. E quindi ho cambiato.

GDF: Più o meno di cosa parlerà il libro nuovo?

DL: Non lo so ancora ma a grandi linee è la storia di una separazione dopo una lunga relazione.

GDF: Però con i mostri.

DL: Sì, c’è questo essere che stava facendo un percorso con la sua compagna per finire il suo ciclo vitale e quindi riprodursi, però doveva andare molto lontano dal posto in cui vive. A un certo punto la sua compagna muore e lui rimane senza endorfine perché avevano un legame simbiotico, e vive in questo mondo in cui non c’è tecnologia ma tutto si ripara biologicamente. Solo che mentre lui torna sono arrivati degli altri alieni che hanno portato la tecnologia, quindi sta cambiando tutta la situazione… Ma non so ancora che cosa succederà dopo.

GDF: Ok, speriamo di scoprirlo presto. Invece Alessandro oltre agli originali tratti dal libro ha in mostra quelle stampe in fondo che abbiamo fatto per l’occasione, si tratta di materiale in bianco e nero colorato in digitale. Tranne un paio di illustrazioni, sono tutti fumetti di quattro vignette e a colori, quindi mi chiedevo perché avevi iniziato a lavorare così e se parallelamente stai portando avanti anche storie più lunghe…

AG: Cose lunghe zero.

GDF: Ormai stai andando sulle quattro vignette.

AG: Ho delle idee in testa però non è ancora il momento di lavorarci, ci vorrebbe troppo tempo quindi le lascio un po’ maturare, nel frattempo faccio questi piccoli fumetti in cui in uno spazio così ridotto posso permettermi di esprimere qualcosa e allo stesso tempo fare degli esperimenti grafici, trovare delle soluzioni che mi interessano. Ho scelto il colore perché dopo aver lavorato tanto in bianco e nero ho bisogno di fare le cose in maniera un po’ più dinamica, un po’ più leggera e mi sembrava che, senza rinunciare a una certa dose di potenza ed energia, il colore fosse perfetto per questo genere di cose, perché sono anche più veloci da realizzare, da leggere, sono come delle piccole poesie in un certo senso.

Anteprima di “Dio di me stesso”

Dio di me stesso di Alessandro Galatola è la prima produzione targata Just Indie Comics, pubblicata in collaborazione con lo studio Co-Co in occasione del Just Indie Comics Fest. Per chi segue queste pagine è facile capire perché ho deciso di pubblicare il lavoro di Alessandro, che seguo sin dagli esordi, quando l’ho notato su Facebook e  sul suo Tumblr. Al Crack! di Roma del 2015 l’ho poi conosciuto di persona e ho avuto la possibilità di vederne il lavoro su carta grazie a Safe Space #1, il fumetto che si era autoprodotto in quel periodo. Ne avevo parlato qui, elogiandone lo spirito indipendente e “out” rispetto a quanto siamo abituati a vedere dalle nostre parti, e ne avevo poi distribuito qualche copia ai vari festival e nel webshop.

Quel primo albetto mi aveva già fatto presagire notevoli sviluppi, che sono puntualmente arrivati in Safe Space #2, il fumetto che in realtà non esiste. Galatola lo aveva infatti pubblicato soltanto in una manciata di prototipi per farlo girare tra gli addetti ai lavori, con l’idea di cercarsi un editore senza dover nuovamente ricorrere all’autoproduzione. Quando me l’ha consegnato di persona nel dicembre scorso a Martina Franca durante il festival Manuscripta, sono rimasto sbalordito per i passi avanti fatti dal nostro e per l’originalità della sua proposta, che mediava le nuove tendenze del fumetto con una scrittura mentale, a volte malata altre ironica, più spesso tutte e due le cose insieme ma comunque potente, coraggiosa, consapevole. Ho dunque inserito “il fumetto che non c’è” nel mio Best of 2016 e ho pubblicato la storia Dio di me stesso su questo sito. Va da sé che quando Serena Schinaia e Donato Loforese di Co-Co mi hanno proposto di organizzare un festival di Just Indie Comics a Roma, la scelta di coinvolgere Alessandro Galatola è stata quasi scontata. Abbiamo dunque scelto tre sue storie inedite lette sul prototipo di Safe Space #2 che ci sembravano dense di contenuto, interessanti graficamente nonché omogenee tra loro per metterle insieme in un albo spillato di 32 pagine in bianco e nero intitolato appunto Dio di me stesso. Oltre alla storia che dà il nome alla raccolta, vi trovate gli altri due racconti brevi Crocefisso su un letto di rose e Il club del vomito. Di più non dico, perché entrare nei dettagli di un albo che ho co-pubblicato mi farebbe raggiungere ulteriori livelli di ridondanza. Vi lascio dunque alla descrizione di Dio di me stesso e ad alcune immagini in anteprima. L’albo è ovviamente disponibile nel webshop di Just Indie Comics. Buona visione e – spero – buona lettura.

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Corpi cadenti e lesionati, volti sudati, pattern in bianco e nero, disturbi di frequenza, riferimenti al mondo dell’animazione e dei videogiochi, disinteresse per ogni forma di figurativismo. Nata sulla scia di cartoonist contemporanei come i canadesi Michael DeForge e Jesse Jacobs, l’arte di Alessandro Galatola ha saputo smarcarsi dai modelli iniziali per creare qualcosa di unico nell’attuale panorama del fumetto italiano. Per andare avanti il giovane fumettista pugliese ha dovuto guardarsi indietro, integrando nel suo immaginario l’estetica cyber anni ’80, il lato sporco della beat generation di William Burroughs, l’underground malato e a volte ironico di Mike Diana e Mark Beyer. All’aspetto estetico si accompagna una dimensione testuale densa di contenuto, capace di rappresentare alterità, disagio, alienazione ma anche di rivolgere un sorriso beffardo alle consuetudini sociali. 

“Dio di me stesso” è un albo di 32 pagine in bianco e nero pubblicato da Just Indie Comics e Co-Co in occasione del Just Indie Comics Fest e contenente oltre alla storia omonima gli altri due fumetti brevi “Crocefisso su un letto di rose” e “Il club del vomito”. 

Alessandro Galatola è nato a Bari nel 1993 e frequenta l’ISIA di Urbino. Ha pubblicato su riviste indipendenti come Snuff Comix, Fumé, Gestopo Propaganda, Carousel e online su Verticalismi, 4Panel, Curzio. Nel 2015 fa uscire l’albo autoprodotto “Safe Space” #1, che porta al Crack! Festival di Roma. Si dedica ai graffiti per divertimento.

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Arriva il Just Indie Comics Fest

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Debutta a Roma il festival di Just Indie Comics, un evento nato dalla collaborazione con lo studio di progettazione grafica CO-CO, che sarà anche il luogo dove si svolgerà l’evento, in via Ruggero d’Altavilla 10 al Pigneto. Dal 2 al 4 giugno si susseguiranno in maniera moderatamente vorticosa una serie di appuntamenti dedicati al fumetto underground e non solo, con presentazioni, chiacchierate, bookshop, DJ set, musica dal vivo e soprattutto con le mostre di Diego Lazzarin e Alessandro Galatola, che saranno i due ospiti d’onore.

L’idea non nasce tanto da me quanto da Serena Schinaia e Donato Loforese, ossia le due menti dietro CO-CO, che mi hanno proposto di mettere in piedi un festival di fumetto nel loro studio romano, dove in passato hanno già ospitato mostre legate al mondo dell’arte. E’ questa la prima volta che CO-CO dedica i suoi spazi a un evento così articolato e di ampio respiro. A dire il vero inizialmente il festival doveva essere di più modesta portata ma con il passare delle settimane la cosa ci ha preso la mano e alle prime idee se ne sono aggiunte altre, portandoci a stilare un programma che speriamo possa accontentare se non tutti almeno i migliori gusti.

La scelta di incentrare le mostre su Diego Lazzarin e Alessandro Galatola è venuta da sé per la forte volontà di far vedere qualcosa di nuovo, dando spazio a due voci che si discostano con decisione da ciò che propone l’estetica prevalente dei fumetti indipendenti e autoprodotti in Italia. Di Lazzarin sarà possibile ammirare gli originali tratti dal volume Aminoacid Boy and the Chaos Order, che ho distribuito con ottimi risultati nel webshop, e delle stampe che anticipano il prossimo lavoro Protector of the Kennel. Stesso approccio per la mostra di Galatola, con alcune stampe a colori e soprattutto con le tavole di Dio di me stesso, un albo di 32 pagine contenente tre storie brevi e pubblicato proprio in occasione del festival da CO-CO e Just Indie Comics. Potete leggere il fumetto che dà il titolo all’albo qui.

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“Aminoacid Boy and the Chaos Order” di Diego Lazzarin

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“Dio di me stesso” di Alessandro Galatola

L’inaugurazione delle mostre è fissata per venerdì 2 giugno, mentre i due autori incontreranno il pubblico sabato alle 19. Prima di questa chiacchierata ci sarà la presentazione di un libro, di un autore e di un editore che rappresentano al meglio di cosa si parla quando si parla di Just Indie Comics. Spazio dunque a un dialogo tra il sottoscritto e Alessio Trabacchini a proposito di Puke Force di Brian Chippendale (da me inserito tra i migliori fumetti del 2016 e ultima fatica di un artista che ha segnato la storia del fumetto underground statunitense da Fort Thunder in poi), dei fumetti di Conor Stechschulte (cartoonist di cui si è parlato più e più volte su questo sito e autore di The Amateurs, Generous BosomChristmas in Prison) e della Domino Books di Austin English (casa editrice che ha applicato la filosofia dell’art brut al fumetto, come testimonia tra gli altri The Social Discipline Reader di Ian Sundahl). I fumetti appena citati saranno disponibili per l’acquisto nel bookshop.

"Puke Force" di Brian Chipppendale

“Puke Force” di Brian Chipppendale

"Christmas in Prison" di Conor Stechschulte

“Christmas in Prison” di Conor Stechschulte

"Face Man" di Clara Bessijelle edito da Domino Books

“Face Man” di Clara Bessijelle edito da Domino Books

E gli appuntamenti non sono finiti qui. Domenica 4 giugno saranno presentate due novità editoriali: Atlante illustrato delle nuove costellazioni a cura di Studio Pilar, con la partecipazione degli illustratori del collettivo romano, e Souvenir, nuovo albo autoprodotto di Serena Schinaia, di cui ho parlato più volte pubblicando anche un paio delle sue storie brevi. Nel corso dei tre giorni ci saranno inoltre il DJ set di MICA e MICS, il live set di uBiK, il bookshop con tanti fumetti del negozio on line di Just Indie Comics, le stampe in tiratura limitata di Lazzarin e Galatola e i poster di Flag Press.

Di seguito il programma completo, in costante aggiornamento sull’evento Facebook Just Indie Comics Fest. E per chiarezza ribadisco che il festival si terrà da venerdì 2 a domenica 4 giugno presso CO-CO, in via Ruggero d’Altavilla 10 a Roma, dal pomeriggio fino a tarda sera o forse tarda notte, dipende da come ci gira. Se potete venite a trovarci perché sembra proprio una bella manifestazione.

Venerdì 2 giugno 

• ore 18.30 apertura bookshop e inaugurazione mostre di Diego Lazzarin e Alessandro Galatola con aperitivo e DJ set di musica sbagliata di MICA e MICS

Sabato 3 giugno

• ore 16 apertura mostre e bookshop

• ore 17.30 Just Indie Comics presenta:
Puke Force di Brian Chippendale
– i fumetti di Conor Stechschulte
– Domino Books
con la partecipazione di Alessio Trabacchini

• ore 19 incontro con Diego Lazzarin e Alessandro Galatola
Presentazione dell’albo Dio di me stesso di Alessandro Galatola edito da CO-CO e Just Indie Comics
a seguire: live set di uBiK

Domenica 4 giugno

• ore 16 apertura mostre e bookshop

• ore 19 presentazione dell’Atlante illustrato delle nuove Costellazioni a cura di Studio Pilar e di Souvenir di Serena Schinaia

Le foto del Ratatà 2017

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Al Ratatà di quest’anno sono rimasto per lo più bloccato al banchetto di Just Indie Comics e dunque non ho ben capito cos’è successo di preciso. Ciò non mi impedisce di dire che il Ratatà è il mio festival preferito tra quelli che ho frequentato negli ultimi anni, unico per la sua capacità di far convivere un’offerta artistica di altissima qualità al coinvolgimento di autori, autoproduzioni e piccole realtà editoriali nella struttura stessa dell’evento. Non c’è barriera tra organizzatori e resto del mondo, tutto è spontaneo e diretto e si respira un’aria di comunione e partecipazione come da poche altre parti, che si unisce al piacere di avere a che fare con un pubblico interessato e preparato. Proprio la costante affluenza di pubblico mi ha impedito di allontanarmi dal tavolo per andare a vedere con maggiore attenzione le mostre, gli incontri e i vari eventi del ricco programma. Insomma, in realtà ci ho capito ben poco, e mi risulta impossibile scrivere un resoconto dettagliato di quanto accaduto a Macerata dal 20 al 23 aprile. Le poche mostre che ho potuto vedere – come quella delle serigrafie di Jesse Jacobs, la personale del Professor Bad Trip già incrociata a Roma, la bellissima installazione e le illustrazioni di Anke Feuchtenberger – sono riuscito a visitarle la domenica mattina, quando l’area dedicata alla vendita apriva soltanto alle 15. Peccato che in quella fascia oraria non solo i negozi ma anche alcune gallerie fossero chiuse. Ma è forse questa l’unica cosa da migliorare per un festival che cresce di anno in anno, rinnovandosi di continuo e senza perdere lo spirito giusto.

Di seguito un po’ di foto scattate tra il Mercato delle Erbe, sede della mostra mercato che ha permesso grazie alle sue nicchie di allestire anche un buon numero di esposizioni, e i diversi luoghi del festival. Immagino che così come sono, messe un po’ a caso e senza didascalie, queste immagini possano servire più come curiosità per i presenti che come testimonianza per gli assenti, ma spero che riescano almeno a dare un’idea di cosa è stato Ratatà 2017. Buona visione.

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Foto di Serena Dovì

Misunderstanding Comics #8

In questo nuovo appuntamento con la solita rubrica di segnalazioni varie recupero un po’ di albi usciti tra fine 2016 e inizio 2017 di cui non sono riuscito ancora a parlare.

NOTA: Alcuni di questi fumetti potrebbero essere in vendita nel negozio on line di Just Indie Comics. In questo caso il link sul titolo vi porterà direttamente alla relativa pagina del negozio. I miei giudizi cercheranno di essere comunque obiettivi, ammesso che ciò sia possibile. Buona lettura. 

Parto a razzo con la prima uscita della linea All Time Comics della Fantagraphics, in cui cartoonist contemporanei come Josh Bayer (curatore del progetto), Benjamin Marra e Noah Van Sciver si uniscono a colonne della Marvel anni ’70-’80 come il compianto HCrime Destroyererb Trimpe e Al Milgrom per creare una serie di albi ambientati in un fantomatico universo fumettistico. Qui avevo già detto qualcosa a proposito. Nel frattempo mi è finalmente arrivato questo Crime Destroyer, un albo storico se si pensa che è l’ultimo fumetto realizzato da Trimpe (inchiostrato da Marra) prima della sua scomparsa. La storia, a firma Josh Bayer, racconta di un reduce di guerra che decide di combattere il crimine mettendosi un costume con due pugni giganti sulle spalle e che beve tè mentre si informa sul rapimento di una giovane ragazza da parte di deformi abitanti dei tunnel della metropolitana. Tutte facezie che erano all’ordine del giorno nei fumetti Marvel di quarant’anni fa e che ritroviamo in quello che vuole deliberatamente essere un qualsiasi numero di una qualsiasi serie di supereroi dell’epoca. L’aderenza al modello è totale e se vi aspettavate trasgressione o un po’ di violenza in più perché siamo nel 2017 e pubblica Fantagraphics no, non c’è neanche quella. Persino la carta, i colori e il lettering (a opera dello storico letterista Marvel Rick Parker) riprendono lo stile degli anni che furono. Vi piacerà o no? Dipende se siete o siete stati fan del genere. Io ovviamente sì e per me è una goduria assoluta avere tra le mani la riproduzione esatta dei fumetti che mi hanno fatto veramente innamorare di questa forma d’arte. Per il resto la storia di Crime Destroyer è piuttosto esile e pretestuosa ma magari dalle prossime uscite (in programma più o meno mensilmente) si vedrà anche qualcosa di più. E il sottotesto politico, a sua volta in tono con certe produzioni supereroistiche anni ’70, lascia ben sperare.

Proseguiamo questa rassegna con un paio di albi targati Retrofit Comics, a partire da Our Mother di Luke Howard, per me una delle più belle sorprese degli ultimi tempi, una storia su una madre con disturbi our mother luke howardd’ansia e attacchi di panico declinata in modo metaforico e tutt’altro che diretto. Non c’è un vero e proprio dramma in queste pagine né dettagli autobiografici ma piuttosto una serie di storie che raccontano, si interrompono e riprendono, a volte omettendo passaggi ed episodi. Si inizia con due genitori che assoldano un losco figuro dandogli l’incarico di procurare qualche tipo di disordine alla figlia in nome di un’oscura tradizione di famiglia e si prosegue con sconosciuti che si materializzano nel salotto di casa, avventure fantasy, robot, lovers in the garden anya davidsonanimali da laboratorio e altro ancora. Howard, già visto all’opera con Talk Dirty to Me pubblicato da Adhouse Books, si conferma come una delle migliori voci uscite dal Center for Cartoon Studies e non solo, consegnandoci un albo perfetto per narrazione e anche ricerca stilistica, molto vario nel segno e nell’utilizzo delle tecniche narrative. Peccato averlo letto soltanto a 2017 iniziato da un pezzo perché sarebbe entrato di diritto nella mia lista dei migliori fumetti del 2016. Ma tanto chissenefrega delle maledette liste. Sempre da Retrofit arriva la più recente fatica di Anya Davidson, cartoonist chicagoana già nota per School Spirit uscito per PictureBox e per il più recente Band for Life pubblicato da Fantagraphics. Albetto brossurato di dimensioni anche importanti (64 pagine), Lovers in the Garden è ambientato a New York nel 1975 e sviluppa a ritmo incalzante una trama che potrebbe essere uscita da un film di quegli anni o anche di Tarantino, Jackie Brown in primis. Traffici di droga, reduci del Vietnam, giornalisti, doppi giochi e sparatorie sono gli ingredienti di quella che potrebbe sembrare una classica gangster story e che invece è innanzitutto il racconto dell’amicizia tra due uomini. Lo stile della Davidson fa il resto e unendo l’uso delle matite colorate a una linea rigida e legnosa rende alla perfezione il passaggio dalla psichedelia al punk che stava avvenendo in quegli anni.

Pubblicato da un’altra casa editrice statunitense, la Hic & HocFoggy Notions è un albo di 36 pagine in bianco e nero in cui l’autrice November Garcia utilizza una linea scarna, pagine costruite in modo banale e un lettering goffo e ingombrante per raccontare vicende poco significative e neanche troppo divertenti, tra lavori sfigati, vita di quartiere, malintesi con le forze dell’ordine.foggy notions november garcia Insomma, Foggy Notions è un fumetto fantastico, di quelli che leggerei e rileggerei senza mai stancarmi, soprattutto grazie alla capacità dell’autrice di raccontare con scorrevolezza, acume e disincanto il suo quotidiano. Ciò che lo differenzia da produzioni simili ma meno riuscite è la capacità di creare uno stile proprio e ben definito, in cui tutto è al proprio posto, e di portarlo avanti fino alla fine con la convinzione che solo i testardi sono in grado di avere. E poi la faccia sempre perplessa e disorientata della protagonista, con quegli occhi grandi e la bocca segnata dalle smorfie, valgono da soli il prezzo del biglietto. Altra recente uscita di Hic & Hoc è Dad’s Weekend di Pete Toms, cartoonist californiano che unisce la sua linea pulita e dad's weekend pete tomsordinata a colori piatti e tenui. Ne viene fuori uno stile algido, perfetto accompagnamento per il clima di costante paranoia che si respira nei suoi fumetti. Whitney è un’adolescente che deve passare un fine settimana con il padre, fissato con le sette e le teorie della cospirazione. Quando un suo amico scompare misteriosamente, l’uomo coinvolge la figlia in una ricerca che ben presto diventa un viaggio nella sua malattia mentale, in un’escalation di disagio e imbarazzo. O forse ci sono davvero di mezzo Venusiani e Rettiliani? Coeso e lucido come capita di vedere poche volte, Dad’s Weekend fa categoria a parte in un mondo dei fumetti in cui spesso storie di questo genere si risolvono con una strizzata d’occhio e un sorrisetto furbo al lettore. Lo sguardo di Toms è invece serio e deciso, fino al punto da risultare drammatico. Peccato per i troppi e inflazionati riferimenti al mondo dei social network, ma forse il problema è mio che mi piacciono le cose in cui si vedono ancora i telefoni a disco.

Realizzato per il corso Comics, Emotional Directness and Self-Doubt tenutosi nella primavera del 2016 presso la School of the Art Institute of Chicago, The Fence è l’ultimo mini-comic di Conor Stechschulte, autore di The Amateurs, Generous Bosom e Christmas in Prison, di cui gli affezionati lettori di Just Indithe fence conor stechschultee Comics dovrebbero sapere abbastanza. Si tratta di sole 8 pagine realizzate con l’acquerello che non si discostano da quanto visto finora, sia per contenuti (ancora il controllo, un futuro indefinito, la natura e l’acqua) che per scelte stilistiche (e in questo senso l’opera più vicina è senz’altro Glancing, di cui avevo detto brevemente in questo Best of 2014). Ma non c’è da stupirsi, perché ogni opera di Stechschulte richiama le altre, in un gioco di riferimenti e autocitazioni che non è mai noioso ma va a costruire un mondo e una poetica. Non vi rivelo altro perché la storia è brevissima e se vi capiterà di leggerla è bene che lo facciate senza avere preconcetti, per cui mi limito a dirvi che ci sono degli uomini costretti a lavorare tutto il giorno, paesaggi incontaminati, un recinto che è impossibile superare e… apparizioni. Stechschulte continua a parlare un linguaggio misterioso, irrazionale e intuitivo, in cui non tutto è perfettamente intellegibile ma in cui niente è fine a se stesso.

Chiudo segnalandovi due nuove uscite di Steven Gilbert, cartoonist canadese a cui ho dedicato quasi un anno fa una lunga intervista e che ora dopo anni di autoproduzione sotterranea sta per pubblicare il suo primo fumetto ufficiale con l’edizione italiana di Colville, in uscita per Coconino. E proprio a Colville guarda Riverdale, mini di sole otto pagine in cui Gilbert rilegge la sua opera principale come se fosse un fumetto della Archie Comics, cambiandone ambientazione e personaggi. Ne viene fuori una divertente auto-parodia che decostruisce le vicende del modello originale con sintesi a dir poco estrema. Port Stanley segna invece il ritorno del nostro allo stile e ai personaggi dei suoi primi rarissimi fuport stanleymetti come I Had a Dream e Gardenback. Mini-comic di 40 pagine in bianco e nero quasi completamente muto (c’è un solo balloon con la domanda “Up?”), segue gli spostamenti nello spazio di una figura spesso indefinita, intenta a saltare, correre, guardarsi intorno. Sembra un fumetto sperimentale degli anni Zero ma in realtà Gilbert queste cose le faceva già da prima, infischiandosene di trama, coerenza narrativa, contenuto. Ed è bello vederlo tornare a quelle atmosfere e farci così assistere a un ritorno a casa del suo protagonista, come se fosse finalmente l’ora della liberazione dopo anni di vagabondaggi, di torture e infine di limbo dovuto alla lunga inattività del suo demiurgo. Che ci sia tra le righe qualche riferimento autobiografico, vista la lunga pausa di Gilbert e il suo ritorno in pianta stabile alla produzione fumettistica? Difficile rispondere, ma a confermare il nuovo slancio creativo del cartoonist canadese c’è anche l’uscita del secondo volume di The Journal of Main Street Secret Lodge, che unisce illustrazioni, testi e storie a fumetti a tema Newmarket, la cittadina dell’Ontario in cui Gilbert vive e gestisce il suo comic shop. Niente male per uno che sembrava aver messo definitivamente la matita nel cassetto.

Anteprima di “Tales from the Hyperverse”

(English text)

Una strega di cristallo alla ricerca di energia magica combatte contro rino-rospi in un mondo fantasy-futuristico dominato da una ragno-regina. E’ più o meno questa la trama di Fuel Quest, il racconto che costituisce uno dei pezzi forti di Tales from the Hyperverse di William Cardini. L’antologia fa parte della nuova campagna Kickstarter dell’etichetta statunitense Retrofit Comics e contiene nelle sue 40 pagine storie brevi ambientate nell’Hyperverse, il mondo già utilizzato da Cardini per il suo Vortex, di cui ho parlato ormai parecchio tempo fa sul vecchio sito di Just Indie Comics.

In Tales from the Hyperverse trovano spazio fumetti usciti su antologie come Smoke Signal e Secret Prison, alcune storie già viste on line e 14 pagine inedite. Tutti i contenuti originariamente in bianco e nero sono stati ricolorati per l’occasione dallo stesso Cardini, con la collaborazione di Josh Burggraf su cinque tavole.

Ma non è questo l’unico albo interessante del Kickstarter della Retrofit, casa editrice guidata dal cartoonist Box Brown e da Jared Smith che uscita dopo uscita sta alzando sempre più il livello qualitativo delle sue pubblicazioni. Della stessa campagna fanno parte titoli come Iceland di Yuichi Yokoyama e How To Be Alive di Tara Booth, insieme a Combed Clap of Thunder di Zach Hazard Vaupen, Steam Clean di Laura Ķeniņš e TRUMPTRUMP vol. 1: nomination to inauguration di Warren Craghead III.  Per tutti i dettagli vi rimando alla pagina dedicata. Intanto, buona lettura con Fuel Quest.

 

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“Fumetti, sesso, guerra…” di Jorge Carruana Bances

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Beni di consumo come simboli di benessere e potenza, personaggi dell’animazione e del fumetto, riferimenti espliciti al mondo del cinema e della politica, aerei militari pronti a colpire, corpi nudi spesso ripresi nel mezzo dell’atto sessuale. E’ questo il mondo di Jorge Carruana Bances, artista cubano scomparso nel 1997 e adesso in mostra dopo un lungo oblio nei locali dell’Accademia di Spagna a Roma. La curatrice Suset Sánchez ha messo insieme con la collaborazione degli eredi un buon numero di dipinti di questo artista ingiustamente poco conosciuto, tra l’altro legato strettamente all’Italia, dato che – dopo aver dovuto abbandonare Cuba per motivi politici – visse a Roma dal 1970 fino alla morte.

Quello di Fumetti, sesso, guerra… è un mondo colorato che a prima vista si potrebbe catalogare nel filone della pop art americana. Eppure sarebbe ingiusto farlo, perché se gran parte della pop art si proponeva come rappresentazione mimetica della cultura di massa l’artista cubano esprime un’estetica sperimentale nella forma e dichiaratamente critica nei contenuti. Lo spazio è raramente lineare, anzi è spesso frammentato e attraversato da linee o curve, così che in un’unica opera vengono giustapposti contenuti diversi che, messi in relazione tra loro, lasciano trasparire una convinta e gioiosa opposizione al pensiero dominante senza risultare didascalici. Il corpo è l’assoluto protagonista dei lavori di Carruana Bances e l’erotismo, l’evasione, il viaggio sono gli strumenti capaci di ricomporne i pezzi, rendendolo territorio di liberazione invece che la principale vittima di insuperabili dinamiche politiche, economiche e sociali.

La mostra rimarrà aperta fino al prossimo 7 maggio. Qui sotto un po’ di foto scattate in occasione dell’inaugurazione del 6 aprile scorso. Come sempre, buona visione.

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Foto di Serena Dovì

Just Indie Comics su Instagram

Forse non tutti sanno che ultimamente ho deciso di non badare a spese e dotarmi anche di un profilo Instagram. Con la collaborazione di Serena Dovì pubblichiamo contenuti visivi legati al mondo del fumetto indipendente, underground e d’autore, con qualche puntata nei meandri del mainstream e persino dell’arte. La gran parte delle immagini fotografano direttamente la mia collezione di fumetti, soffermandosi non solo sulle copertine ma anche su singole pagine e vignette, tra novità, classici, rarità e chicche del passato recente. Di tanto in tanto il profilo serve a promuovere o a rendicontare mostre, eventi e incontri degni di nota. Da tutto ciò viene fuori che la pagina Instagram di Just Indie Comics è ben più aggiornata del sito stesso, che riesco a portare avanti con estrema difficoltà. Ordunque mettete da parte ogni indugio e schiacciate il tasto SEGUI su www.instagram.com/justindiecomics. E se ancora non siete convinti ecco una selezione delle immagini pubblicate fino a oggi. Buona visione.

 

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Chris Cilla from Kramers Ergot #7, Buenaventura Press, 2008

 

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Brian Chippendale, Puke Force, Drawn & Quarterly, 2016

 

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Lale Westvind from Gouffre, Lagon Revue, 2017

 

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Lauren Weinstein from The Ganzfeld #6, PictureBox, 2008

 

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Uno Moralez, Frontier #1, Youth In Decline, 2013

 

Schermata 2017-04-08 alle 22.00.30

Kevin Huizenga, Supermonster #10, 1999

 

Just Indie Comics @ Varchi Comics

Just Indie Comics @ Varchi Comics

 

Art Spiegelman, Day at the Circuits, from Breakdowns, Pantheon Books, 2008

Art Spiegelman, Day at the Circuits, from Breakdowns, Pantheon Books, 2008

 

Art Green from The Collected Hairy Who Publications 1966-1969, Matthew Marks Gallery, 2015

Art Green from The Collected Hairy Who Publications 1966-1969, Matthew Marks Gallery, 2015

 

Prima serata di #ColorAnti al #monkroma con @alessandrobaronciani e @dottorpira, @tinalsong e #fumettidalfuturo

Prima serata di #ColorAnti al #monkroma con @alessandrobaronciani e @dottorpira, @tinalsong e #fumettidalfuturo

 

Adrian Tomine, Optic Nerve #1, 1991

Adrian Tomine, Optic Nerve #1, 1991

JICBC pt. 2: “Get Out Your Hankies” di Gabrielle Bell

Seconda serie di spedizioni per il Just Indie Comics Buyers Club, l’abbonamento arrivato alla seconda edizione che permette di ricevere, per chi si è iscritto entro il 10 gennaio scorso, fumetti per lo più americani e a volte anche europei di difficile reperibilità in Italia. Se state leggendo queste righe e non sapete di cosa si tratta, vi rimando all’articolo di presentazione dell’edizione 2017. Qui mi limito a dirvi che tutti gli abbonati riceveranno con l’invio di aprile Get Out Your Hankies di Gabrielle Bell, che ho voluto scegliere come fumetto “uguale per tutti” dopo Blammo #9 di Noah Van Sciver selezionato a gennaio. Di questo albo di 32 pagine edito da Uncivilized Books avevo già parlato brevemente in occasione del mio Best of 2016, quando ne avevo letto soltanto la versione digitale, dato che quella cartacea è uscita negli Stati Uniti soltanto a dicembre. Nell’albo trovate infatti, con qualche intervento di editing, proprio il materiale che l’autrice di Lucky e The Voyeurs ha pubblicato quotidianamente lo scorso luglio sul suo sito, secondo una tradizione che sta portando avanti da qualche estate. Con la solita forma diaristica e l’usuale fluidità di scrittura, la Bell ci racconta i fatti e le sensazioni più disparate, da come scegliere un cocomero alla reazione alla strage di Nizza, dal suo lavoro in una libreria dell’usato ai bagni nell’Hudson River. In mezzo la galleria di indecisioni, paranoie ed elucubrazioni che rappresentano la cifra stilistica dell’autrice, messe in scena con un testo ancora più ingombrante del solito, che tende a riempire la pagina fino a farla diventare barocca, complice anche un segno che negli anni si è fatto più sporco e al tempo stesso intenso. Il tutto in attesa di Everything is Flammable, nuovo lavoro sulla lunga distanza in uscita in questi giorni ancora per Uncivilized.

Per chi non è abbonato al Buyers Club alcune copie di Get Out Your Hankies sono disponibili nello shop. Intanto ecco le prime quattro pagine dell’albo, che pubblico grazie alla collaborazione dell’editore. Buona lettura.

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