Un pomeriggio con Steven Gilbert

Steven Gilbert è un cartoonist canadese autore di Colville, graphic novel appena pubblicato in Italia da Coconino Press.
La carriera di Gilbert come autore di fumetti iniziò negli anni ’90, quando fece uscire sei numeri di I Had a Dream, più altri due albi, Gardenback e The Cult of Gardenback, dove sviluppò i personaggi e le situazioni della serie precedente. Tra i due fumetti di Gardenback pubblicò Colville, un comic book di 64 pagine che ricevette alcune critiche positive al tempo. Ma dopo il 1998 il mondo dei fumetti perse le tracce di Gilbert, tanto che era praticamente impossibile trovare informazioni su di lui fino a qualche anno fa. La fonte più rilevante, se possiamo chiamarla in questo modo, è un post del 2011 sul sito Comics Comics in cui Frank Santoro incluse “il tizio che a metà degli anni ’90 fece un fumetto chiamato Colville“ in una lista intitolata Good Cartoonists Gone. Lo stesso Gilbert contribuì alla discussione scrivendo: “Wow, è bello che qualcuno si ricordi di me… Sono io il tizio che fece Colville. Mi fa piacere che ti sia piaciuto Frank. Ero un espositore alla SPX del ’98 e lì riuscii a vendere un po’ di copie di quell’albo. Disegno ancora fumetti quando riesco a trovarne il tempo, infatti ho completato tutto il secondo capitolo di Colville (circa 48 pagine) e 25 pagine del terzo sono disegnate e letterate. Un giorno o l’altro lo finirò e prenderò un tavolo al TCAF o qualcosa del genere. Dal 1999 sono stato impegnato a gestire il mio negozio di fumetti qui a Newmarket, Ontario, che ho chiamato Fourth Dimension. E questo occupa la gran parte della mia giornata. Purtroppo ho dovuto mettere il tavolo da disegno in secondo piano. E probabilmente mi riesce meglio vendere i fumetti degli altri piuttosto che fare i miei!”. Ma Gilbert tornò al fumetto nel 2013 con un libro di 128 pagine, The Journal of the Main Street Secret Lodge, che vinse un Dough Wright Award per il Best Spotlight Work l’anno successivo. E finalmente nel 2015 riuscì ad autoprodursi, dopo quasi due decadi di lavorazione, il volume di Colville, con le 64 pagine del fumetto originale e oltre 100 pagine di nuovo materiale che concludeva la storia.
Avevo scoperto l’esistenza di Colville su internet ed ero da tempo curioso di leggerlo, così quando il mio amico Francesco in arte Ratigher mi disse che aveva scritto una e-mail a Steven Gilbert per ordinare i suoi libri, io feci lo stesso e gli chiesi anche se potevo vendere qualche copia di Colville nel mio webshop. Ratigher scrisse una recensione di Colville qui su Just Indie Comics e da quel momento un sacco di gente ordinò il libro o mi chiese informazioni a proposito. Fu davvero strano vedere tanti lettori italiani interessati a un lavoro così oscuro, che era difficile da trovare anche in Nord America (a oggi Gilbert non ha un sito internet e i suoi libri non hanno distribuzione). Cominciai a scambiarmi qualche mail con Gilbert nei mesi successivi e prima di partire per il Canada per il Toronto Comic Arts Festival del 2016 gli chiesi se potevo intervistarlo e con l’occasione andarlo a trovare a Newmarket, una cittadina vicino Toronto dove vive e gestisce il negozio Fourth Dimension, al numero 237 della Main Street South. L’intervista ha avuto luogo lunedì 9 maggio 2016 alla presenza del mio amico Michele Nitri della Hollow Press e di Stacey, la fidanzata di Gilbert.
Dopo averla messa on line soltanto in inglese, mi sono finalmente deciso a tradurre l’intervista in italiano in occasione della pubblicazione nel nostro paese di Colville, uscito lo scorso 30 novembre grazie alla volontà dello stesso Ratigher, diventato nel frattempo direttore editoriale di Coconino. L’uscita del volume segna anche il debutto nel mondo dell’editoria vera e propria di Steven Gilbert, i cui fumetti mai erano stati pubblicati da una casa editrice ma sempre autoprodotti. Se non conoscete ancora il libro potete comunque leggere l’intervista, almeno fino al punto in cui trovate la frase “Ok, parliamo del libro di Colville adesso“. Da quel momento viene svelato qualche particolare della trama e se volete evitare fastidiose anticipazioni vi consiglio di fermarvi lì e magari tornarci una volta letto il fumetto. Dato che è stata realizzata più di un anno fa, l’intervista accenna soltanto a The Journal of the Main Street Secret Lodge vol. 2 (al tempo ancora in lavorazione) e trascura del tutto i lavori successivi come Port Stanley, in cui l’autore riprende lo stile dei suoi primissimi fumetti. Di entrambi trovate ancora alcune copie nel webshop. Nel frattempo buona lettura.
Partiamo dall’inizio. Sei nato qui a Newmarket?
Non sono nato a Newmarket ma ho sempre vissuto qui, i miei genitori vivono a Newmarket e io non mi sono mai spostato.
E quando hai iniziato a leggere fumetti?
Ero molto giovane. Il mio primo ricordo che riguarda i fumetti risale a quando ero dal barbiere e vidi una pila di fumetti Archie e Disney con le cover strappate. Ma allora non mi attraevano granché. Da bambino mi piacevano i cartoni animati, guardavo sempre Bugs Bunny. Fino a una certa età forse ero più interessato all’animazione, poi a 9 anni sono stato operato alle tonsille e mentre ero in ospedale mia madre mi comprò un numero di Spider-Man. Credo che da lì mi sia venuto un vero interesse per i fumetti.
Beh, anche io leggo i fumetti da quando sono molto piccolo ma la vera fissazione mi è venuta leggendo una storia di Spider-Man, era un numero con il Doctor Octopus nel periodo di Bill Mantlo-Al Milgrom.
Certo certo, Al Milgrom… Il mio era un Marvel Team-Up con Spider-Man e il Doctor Strange.
Ok, e invece quando hai iniziato a disegnare?
Da bambino disegnavo parecchio, anche prima di appassionarmi ai fumetti. Mi piacevano i cartoni animati, così scarabocchiavo continuamente. Mio padre portava spesso della carta dall’ufficio, c’era l’intestazione da un lato così io utilizzavo la parte dietro del foglio. In quel periodo ero fissato con i ninja, mi piacevano i film di mostri e mi ricordo di essere stato ossessionato dai lupi mannari per parecchio tempo. Facevo tantissimi disegni di lupi mannari e mostri e roba del genere.
E questo sempre prima dei fumetti?
Sì, e quando ho scoperto i fumetti cercavo di riprodurne le copertine per provare a capire come funzionava quello stile lì. Poi verso i dodici o forse anche tredici-quattordici anni ho iniziato a fare i fumetti, o almeno a provarci. E’ stato al liceo che ho cominciato a disegnare dei comic book. Una volta mio fratello scrisse un soggetto per un sequel di The Dark Knight Returns di Frank Miller, era per un progetto scolastico. Quando ho capito che sarebbero state circa 30 pagine gli ho detto “Non disegnerò 30 pagine gratis”, così gli ho chiesto 200 dollari (ride). Penso che furono i miei genitori a dargli i soldi per pagarmi, quindi tecnicamente il progetto è stato finanziato da loro.
Ti ricordi ancora la trama?
No no, è stato tanto tempo fa, al liceo. Mi ricordo solo che cercavo di inchiostrare come John Totleben in Swamp Thing. Non sembrava un lavoro di Frank Miller, sembrava John Totleben. Dovrei ancora avere le tavole da qualche parte a casa ma non le ho più riguardate e non ho molta voglia di farlo. L’insegnante mi fece fare una dozzina di fotocopie e il pensiero che qualcuno possa averne ancora una mi terrorizza. Era veramente orrendo. Poi ricordo di aver fatto un fumetto utilizzando il personaggio di Travis Bickle interpretato da Robert De Niro in Taxi Driver e anche una storia con Grendel. Il mio sogno nel cassetto al tempo era che Matt Wagner mi ingaggiasse per disegnare Grendel.
Eri un fan di Matt Wagner?
Beh, leggevo Grendel quando avevo quattordici-quindici anni, ed era la prima lettura che si allontanava dai fumetti totalmente mainstream, perché in sostanza era un fumetto supereroistico ma per ragazzi più grandi. La cosa interessante è che Matt Wagner, che era un artista molto dotato, permetteva ad altri cartoonist di disegnare il suo personaggio e così io pensai “Può essere la mia grande chance”. Pensai anche di spedire i miei disegni a Matt Wagner ma non l’ho mai fatto. Il mio fumetto era una sorta di remake del film Die Hard ma con Grendel (ride). Sono abbastanza sicuro che il fumetto finisse con il personaggio che volava dalla cima di un edificio ed era totalmente ripreso dal finale di Die Hard, lo avevo visto circa un mese prima e mi era rimasto in testa.
E ti piaceva anche Sandman Mystery Theatre di Matt Wagner? Era uno dei miei fumetti preferiti negli anni ’90…
In realtà ne ho letto soltanto qualche pagina, sapevo che in quel periodo ci stava lavorando perché facevo il commesso in un negozio di fumetti ma non l’ho mai seguito veramente. E’ uscito in un periodo della mia vita in cui non leggevo la roba Vertigo perché ero preso dai fumetti alternativi.
Tornando al disegno, hai imparato da solo, giusto? Non hai frequentato una scuola d’arte o preso lezioni.
Al liceo avevo un professore d’arte che era molto aperto nei confronti del fumetto e mi incoraggiava a lavorarci. Infatti l’ho messo in Colville, dove ho disegnato una scena in cui ci sono il mio professore e il mio liceo. Beh, proprio due settimane fa me lo sono ritrovato qui nel negozio, qualcuno gli aveva mostrato il fumetto e lui è venuto da me per dirmi “Non mettermi più nei tuoi fumetti”. Secondo me era tranquillo fino a che non è arrivato alle ultime 40 pagine… Comunque sono stato fortunato a ricevere dei simili incoraggiamenti al liceo, anche se non ho mai avuto istruzioni specifiche, mi limitavo ad ispirarmi a più fumetti possibili, copiando e cercando di capire come mettere i diversi elementi sulla pagina.
E cosa è successo fino all’uscita di I Had a Dream #1? Lo hai pubblicato con la tua etichetta King Ing Empire nel giugno del 1995 ma tu facevi fumetti già da un po’ credo… Mi piacerebbe sapere che cosa c’è stato prima di quel comic book.
Ho cercato di mettere insieme un fumetto diverse volte. Avrò avuto circa 25 anni quando ho finito il primo numero di I Had a Dream, quindi era parecchio tempo dopo il liceo. Nel frattempo lavoravo a un negozio di fumetti e disegnavo qualche storia.
Ma solo per te…
Sì, è stato il mio campo di addestramento, ho disegnato centinaia di pagine di fumetti e illustrazioni ma non le ho mai mostrate a nessuno, forse solo a qualche amico. Lavorai a un paio di crime comic, delle specie di gialli che cercavo di capire come sviluppare, poi a un certo punto sono successi i fatti di cronaca che hanno ispirato Colville e ho pensato immediatamente “E’ questa la storia che voglio raccontare”.
E questo sempre prima di I Had a Dream.
Sì, era molto prima di I Had a Dream e già avevo disegnato una copertina per quella storia, anche se era una cover diversa sia da quella del comic book che da quella del volume di Colville, ma più simile alla seconda che alla prima. Al tempo pensavo che il fumetto si dovesse chiamare Warning Shot ma poi a un certo punto capii che non ero ancora in grado di realizzare ciò che avevo in mente, perché all’epoca non avevo mai provato a disegnare un fumetto più lungo di 25 pagine. Dovevo capire come funzionava una storia a fumetti. Ma poi un giorno un mio amico, uno che conoscevo da anni ma che non sapevo disegnasse fumetti, venne in negozio…
Come si chiamava?
Jason Williams.
Ah ok, immaginavo fosse lui, dato che il suo nome ricorre nei tuoi primi comic book.
Sì, così entrò in negozio e mi mostrò una storia di Spider-Man che aveva disegnato, e probabilmente era il peggior fumetto che avessi mai visto. Mi mostrò anche una lettera di rifiuto dalla Marvel. Dopo quel fumetto si dedicò a una serie chiamata Underterra e voleva pubblicarla anche se in realtà non era ancora pronto per un passo del genere. Mi diede le pagine del primo numero e mi chiese di correggerle. Quando le lessi mi resi conto che erano piene di errori, così scrissi un sacco di osservazioni e a un certo punto gli chiesi di farmelo disegnare da capo, proponendomi per riscriverlo insieme a lui e per inchiostrarlo. Ma alla fine pubblicò Underterra così com’era, con tutti gli errori. E ne stampò cinquemila copie a numero, distribuendo tutti e sei i comic book con la Diamond. Ma penso che alla fine riuscì a venderne una novantina di copie ad albo.
Quindi tutto ciò ti è servito da ispirazione? (ride)
Beh, ciò che ho preso da lui è stato fondamentalmente… il nome della tipografia (ride). Mi ha dato questa informazione e così ho pensato “Se questo tizio può fare un fumetto, è meglio che muova il culo per farne uno anch’io”. Avevo già una prima bozza dei primi tre comic book di I Had a Dream ma avevo disegnato ogni storia in un giorno. E così li ho completamente rifatti. Se ci ripenso, adesso non sono per niente soddisfatto del risultato e probabilmente non avrei dovuto pubblicarli, ma al tempo mi aiutarono a imparare a fare fumetti. Comunque penso che ci sia un bel salto nel quarto, quinto e sesto numero, in cui sono riuscito a mettere davvero le mie idee sulla pagina, e a disegnare meglio. Dopo questi sei numeri capii di aver finito con quel materiale, e pensai di essere pronto per lavorare a Colville. Ma poi feci un grosso poster per un mio amico, come regalo di compleanno, ed era un fumetto gigante con tipo 40 vignette. E divenne il primo Gardenback, che alla fine pubblicai prima di Colville.
Se guardiamo i primi tre numeri di I Had a Dream, si nota che seguono gli stessi schemi delle newspaper strip, perché ci sono questi “tizi” che si confrontano in un’altra dimensione, con una serie di situazioni che possono ricordare Krazy Kat, o anche qualche cartone animato.
Sono sicuro che Krazy Kat non ebbe alcuna influenza su di me al tempo, ma come ho detto prima adoravo i cartoni della Warner e i Looney Tunes in particolare, con la loro violenza assurda, gli oggetti che vanno a sbattere tra loro, i muri che vengono abbattuti e così via… Sicuramente mi hanno influenzato. Vedi, i primi I Had a Dream erano molto nonsense, ero un grande fan di Chester Brown e mi ricordo di aver letto un’intervista in cui parlava del suo processo creativo e diceva di disegnare vignetta dopo vignetta, senza avere un’idea generale…
Sì, come in Ed The Happy Clown…
Esatto, e così volevo lavorare anch’io in quel modo.
Poi con I Had a Dream #4 hai iniziato Slipstream, una storyline in due parti molto diversa dai lavori precedenti, che univa Roswell, i russi, le sperimentazioni sulla mente e le teorie della cospirazione. Lo avevi programmato sin dall’inizio?
Assolutamente no. Probabilmente stavo guardando troppi episodi di X-Files e leggendo libri sull’omicidio di Kennedy, ho letto 40-50 libri sull’argomento. Quando avevo 20 anni ero ossessionato dalle teorie della cospirazione, quei temi prendevano gran parte della mia attenzione allora e in qualche modo sono stati i fumetti a farmi interessare ad altro. Dopo aver fatto quei fumetti non me ne è importato più nulla, come se in qualche modo fosse finito un periodo della mia vita.
Tra Gardenback e The Cult of Gardenback hai pubblicato l’albo di Colville, giusto? Se non sbaglio dovrebbe essere del 1997.
Sì, all’inizio doveva essere molto più breve, circa 25 pagine, e doveva concentrarsi solamente sull’episodio ambientato nel cortile della scuola. Era vagamente basato su un vero episodio di cronaca nera, avevo ritagliato l’articolo sul giornale quando era successo perché mi ricordo di averlo letto e di aver pensato “Potrebbe essere un bel fumetto”. Ma quella era solamente l’ossatura, la storia infatti cominciò a crescere intorno all’episodio della sparatoria nel cortile. A quel punto pensai di fare un fumetto di 64 pagine e in breve tempo ebbi già un’idea approssimativa sia della storia che di come disegnarla. Andai a Keswick, una cittadina a 20 minuti da Newmarket dove quei fatti erano realmente accaduti. Il mio amico Jason Williams aveva vissuto lì, quindi conosceva bene la zona e così facemmo un po’ di foto da usare come riferimenti per il fumetto.
Usi parecchi riferimenti fotografici, vero?
Sì, fanno parte del mio metodo, perché non scrivo sceneggiature…
Mai?
Ci ho provato ma sempre senza successo, quando finisco e poi rileggo una sceneggiatura tradizionale con la descrizione delle vignette, i dialoghi e così via, di solito le idee mi sembrano stupide e non riesco più a usarle. L’unico modo in cui riesco a fare fumetti è mettermi seduto a disegnare. Il mio processo di scrittura è la creazione del fumetto.
Le 64 pagine del comic book di Colville del 1997 sono esattamente le prime pagine del volume del 2015 o hai cambiato qualcosa?
Sì, le 64 pagine del graphic novel sono le stesse del comic book, tranne che per una o due piccole revisioni dei disegni.
Quel fumetto era molto diverso da I Had a Dream. Dentro si sentiva qualcosa di nuovo, come se l’ispirazione venisse più da alcuni film che da altri fumetti o dalle teorie della cospirazione. Mi sembra di ritrovarci l’atmosfera di alcuni film americani degli anni ’70 o dei primi ’80, penso a registi come Brian De Palma, Martin Scorsese o anche il David Lynch di Blue Velvet.
Di solito nego di essere influenzato da cose specifiche e non penso che per i fumettisti sia una buona idea guardare al cinema, perché i fumetti sono una cosa a sé. Ma, detto questo, al tempo ero un grande fan di David Lynch e in particolare di Blue Velvet, che in fondo era una crime story perversa ambietata in una piccola città. Ero anche un grande appassionato di Twin Peaks e posso raccontarti un piccolo aneddoto a questo proposito. Ho deciso per il titolo Colville per l’artista canadese Alex Colville, anche se in realtà non c’è una diretta correlazione visiva con il fumetto, è più una cosa legata all’atmosfera. Ma c’è una scena in Twin Peaks, quando stanno parlando di dove si trova Twin Peaks – è un bel po’ da quando l’ho visto l’ultima volta ma il dialogo dovrebbe dire più o meno “All’angolo nord-est dello stato di Washington, al confine con il Montana e proprio sotto il confine canadese”. Non so bene perché ma un giorno mi sono messo a guardare su una mappa cosa c’era lì e ho scoperto che c’è una città che si chiama Colville. Puoi guardare sulla mappa, non è uno scherzo. Allora avevo già disegnato il comic book di Colville e così ho pensato “Beh, le forze dell’universo stanno lavorando insieme…” (ride). Questo a proposito dell’influenza di Lynch, per quanto riguarda Brian De Palma beh, ho dedicato il graphic novel a Brian De Palma e Nick Cave, il primo soprattutto per l’uso della carrellata nei suoi film. Sono un po’ fissato con le carrellate quando guardo i film… Il secondo capitolo del libro inizia con il personaggio che registra con la telecamera, quindi puoi leggere l’intero capitolo come una lunga carrellata, come se la telecamera non se ne andasse mai.
Ok, torneremo su Colville più tardi, quando arriveremo ai giorni nostri. Ora vorrei parlare della tua lunga pausa creativa, se per te non è un problema. In meno di tre anni, dal giugno 1995 all’aprile 1998, hai pubblicato sei numeri di I Had a Dream, Gardenback, il comic book di Colville e The Cult of Gardenback. Poi tra l’aprile del 1998 e il 2013…
Niente!
Sì, esatto (ride). Niente fino a The Journal of the Main Street Secret Lodge, che è appunto uscito nel 2013. Quindici anni sono una lunga pausa.
Quando finii le 64 pagine del comic book di Colville, mi resi conto che c’era ancora spazio per sviluppare quei temi. Inizialmente consideravo Colville come una storia autoconclusiva di 64 pagine e basta, ma poi quando ero a due terzi della lavorazione cominciai a pensare che fosse il primo capitolo di qualcosa di più lungo. Ma volevo anche sviluppare i fumetti di Gardenback e così pensai di alternare i due progetti, pubblicando ogni anno un albo dell’uno o dell’altro. Quando realizzai The Cult of Gardenback nel 1998, riuscii a disegnarlo, pubblicarlo e poi venderlo attraverso la Diamond abbastanza in fretta…
Hai utilizzato la Diamond sin dal primo numero di I Had a Dream, giusto? E anche la Capital City Comics al tempo.
Sì, all’inizio i miei fumetti venivano distribuiti anche attraverso Capital City ma poi la Diamond ha inglobato tutto. Comunque, dopo la pubblicazione di The Cult of Gardenback iniziai a lavorare al secondo capitolo di Colville. Nei miei piani il mio prossimo fumetto doveva essere Colville #2. Nel frattempo lavoravo a un negozio di fumetti, The Comic Wizard qui a Newmarket, proprio dall’altra parte della strada rispetto a dove siamo noi adesso. Sì, tutta la mia vita è in questo angolo di strada praticamente (ride)… Mentre ero lì, il negozio cambiò proprietà ma io continuai a lavorarci. Il nuovo manager entrò nel dicembre 1996 ma era un periodo difficile per gli affari e il negozio non andava affatto bene. Tenne il negozio per un paio d’anni cercando di mantenerlo in vita. A un certo punto pensai di comprare il negozio ma poi dovetti rendermi conto che non ce la potevo fare. Quindi stavo per rimanere senza lavoro e non avevo assolutamente le capacità per lavorare nel mondo reale. L’unica cosa che avevo fatto fino a quel momento era vendere fumetti, così decisi di aprire il mio negozio di fumetti.
Quindi hai aperto Fourth Dimension dopo la chiusura di The Comic Wizard?
Sì, quasi contemporaneamente. A un certo punto divenne chiaro che il negozio stava per chiudere nel giro di un paio di settimane, così affittai subito il locale, chiamai i distributori e tutto il resto. Ma il proprietario di The Comic Wizard tentò di mandare avanti le cose e ci fu un periodo molto strano in cui io avevo già aperto il mio negozio ma anche lui era ancora aperto.
Quindi c’erano due negozi? (ride)
Sì, nello stesso isolato, nella stessa strada. Ma uno stava chiudendo e l’altro aveva appena aperto… Dunque ciò che successe con i fumetti, beh, non avevo mai lavorato così duramente in vita mia, iniziare da capo un’attività imprenditoriale era da pazzi, soprattutto perché lo stavo facendo da solo. Il mio programma era mettere da parte i fumetti per sei mesi e poi dedicarmici di nuovo. Ma mandare avanti il negozio era davvero difficile, alla fine della giornata ero esausto e quando tornavo a casa non riuscivo a mettermi a disegnare. Quel periodo di sei mesi divenne di due anni e poi di tre, quattro, cinque… Mi ricordo di aver tirato fuori le tavole con l’intenzione di finirle diverse volte ma poi le guardavo per venti minuti con la matita in mano senza disegnare nemmeno una riga. E così le rimettevo al loro posto. A volte passava un anno prima che le tirassi fuori di nuovo. Successe nel 1999, nel 2000, nel 2001 e andò avanti nello stesso modo per diversi anni. Facevo ancora qualche disegno e qualche caricatura dei clienti del negozio per il mio divertimento, ma non fumetti.
E i paesaggi? Ci sono parecchi paesaggi in The Journal of the Main Street Secret Lodge, ci hai lavorato in quegli anni?
No, non disegnavo nemmeno paesaggi. Non lo so in realtà, ma facevo più che altro disegni che poi buttavo. A un certo punto mi ricordo di aver capito di non essere più un fumettista, perché era troppo tempo che non facevo un fumetto. Ma poi, dopo qualche anno, mi venne l’idea di fare le fanzine Journal of The Main Street Secret Lodge e ripresi a disegnare seriamente. Sarà stato più o meno il 2003 quando stampai la prima, solo per divertimento, per darla agli amici e ai clienti. Forse ne fotocopiai un altro paio anche prima, erano come dei bollettini dei mercanti. Mi interessava soprattutto l’aspetto storico della Main Street, i palazzi, l’atmosfera. Iniziai a pubblicarle con una certa regolarità, creando piccole storie sul capitano Woodrow Gilbert e sulle sue avventure. Seguivo grosso modo la stessa formula, con dei tizi cattivi che venivano a Newmarket per derubare la banca e con Woodrow che arrivava per fermarli e ucciderli. Lo facevo esclusivamente per il mio divertimento. Poi cominciarono a diventare sempre più ambiziose, cambiai formato, ne pubblicai alcune più grandi, alcune arrivarono ad avere 24 pagine, altre 36, 48 e così via…
Quante di queste fanzine pensi di aver pubblicato in totale?
Penso di averne fatte altre cinque o sei dopo la prima del 2003. L’ultima era ancora fotocopiata ma era di 84 pagine, ci misi circa un anno per finirla. Aveva tantissime illustrazioni e un racconto interamente letterato a mano. Era una pazzia fare una cosa del genere e fotocopiarla e basta. Un giorno uno dei miei clienti, che faceva anche lui fumetti negli anni ’80, venne in negozio e mi diede una lettera di tre pagine in cui fondamentalmente diceva “Sei un idiota a non fare fumetti perché questa roba che stai facendo è grandiosa ma non è ciò che dovresti fare” (ride). E io risi e basta, perché quelle fanzine erano solo per me stesso, non mi interessava che la gente le leggesse, le facevo solo per la mia soddisfazione personale, per fare qualcosa di creativo. Ma fu in quel momento che ebbi l’idea per The Journal of the Main Street Secret Lodge. In realtà era un’idea che avevo in mente da quando stavo lavorando a Colville, già avevo pensato a questa rapina in banca da raccontare come se fosse un western, utilizzando Newmarket come sfondo. E rimase nella mia testa per anni. Poi scoprii di quell’articolo sul sito Comics Comics, probabilmente trovando il link su un altro sito che stavo guardando, perché a quel tempo non usavo granché internet, non avevo nemmeno mai cercato niente su Google credo (ride).
Quindi già conoscevi il sito Comics Comics?
No, non avevo mai visto quel sito prima. L’unica cosa che sapevo è che Comics Comics era una rivista, fecero un paio di numeri che avevo avuto in negozio ma che finirono ancor prima che li leggessi. Non sapevo che Frank Santoro fosse coinvolto ma lo conoscevo per i suoi fumetti, come Storeyville, di cui ero un grande fan. Comunque penso di averlo visto sul sito di Heidi MacDonald, The Comics Beat, c’era questo link che diceva qualcosa come “Su Comics Comics Frank Santoro ha scritto un articolo sui cartoonist degli anni ’90 di cui non si hanno più notizie”. Mi ricordo che mossi il cursore sul link pensando “Se il mio nome è in quella lista me la farò sotto”. Poi cliccai e lessi “Il tizio che ha fatto Colville“. E allora pensai “Cazzo, se sono in questa lista significa che qualcuno si ricorda dei miei fumetti”. E così capii, fu come un interruttore che si accese nella mia testa dicendomi “Devi fare un altro fumetto”. E a quel punto iniziai a lavorare seriamente a The Journal of the Main Street Secret Lodge.
Era il 2011, giusto?
Penso di sì, non sono così bravo a catalogare le cose nella mia testa. Comunque iniziai a disegnare con l’idea di fare un’altra fanzine fotocopiata. La precedente era fatta di 21 fogli messi insieme, spillati e poi ripiegati per formare 84 pagine, più la copertina. Dovetti spillare alcune fanzine tre volte e fu veramente una rottura. Così pensai che 84 pagine erano il limite massimo e mentre ci lavoravo stavo molto attento a quanto disegnavo. Ma poi arrivai a 70 pagine, quindi a 75, 80 e così via e iniziai a preoccuparmi. Alla fine vennero fuori 130 pagine e quando le mostrai al mio amico Eddie mi disse “Questa roba deve diventare un libro, non può essere soltanto una stronzata fotocopiata che metti vicino alla cassa regalandola alle persone che entrano in negozio”.
Hai mai considerato l’idea di proporlo a un editore o te lo sei voluto autoprodurre sin dall’inizio?
Non ho mai pensato seriamente di mandarlo a qualcuno, l’autoproduzione era la mia sola opzione. Pensai a qualcosa tipo print on demand o a una tiratura molto bassa, perché in precedenza avevo venduto un centinaio di fanzine fotocopiate, così mi sembrava sensato fare 100 copie anche questa volta. Feci un sacco di ricerche sul print on demand ma quando ne parlai con qualcuno ai festival sembravano tutti insoddisfatti del risultato, mi parlavano di problemi con la rilegatura, la colla e via dicendo. Mentre facevo queste ricerche, trovai da qualche parte il nome della tipografia con cui avevo lavorato 15 anni prima e pensai per la prima volta di fare una vera e propria stampa in offset. Contattai lo stesso tipo con cui avevo parlato in passato ma avevo una vecchia e-mail perché a un certo punto aveva cambiato tipografia, ma ogni tanto controllava anche quel vecchio indirizzo e dopo un po’ mi rispose. Mmm, non so dove sto andando a parare con questa risposta…
Beh, penso che siamo arrivati al punto in cui hai deciso di stampare in offset.
Giusto! (ride). Beh, un fattore importante era il prezzo, perché stampare in offset significa fare almeno 1000 copie, quindi è un po’ un investimento piuttosto che fare un centinaio di copie con il print on demand. Ma poi scoprii che i costi del print on demand erano molto alti, il libro sarebbe venuto 9 dollari a copia, più 2 dollari per spedire in Canada perché la tipografia era negli Stati Uniti, così dovevo pagare 11 dollari a copia più il cambio, mentre 1000 copie in offset sarebbero costate 2200 dollari canadesi. Era davvero un buon affare. Così a quel punto pensai “Ok ho deciso, lo stamperò sul serio”.
Quel libro vinse il Dough Wright Award per Best Spotlight Work, giusto?
Sì, fu tutto un po’ strano, perché inizialmente lo vendevo soltanto qui nel negozio, vicino alla cassa. Avevo già pensato di andare al Toronto Comic Arts Festival l’anno seguente ma non pensavo proprio di proporre il libro per i Dough Wright Awards. Poi un mio amico, che vive a Winnipeg e che aveva già una copia del Journal, mi disse che ci sarebbe stato un firmacopie di Chester Brown da quelle parti nel giro di un paio di giorni e io gli dissi “Maledizione, mi piacerebbe dare una copia a Chester ma non riuscirò mai a spedirtene una in tempo”. Lui allora mi propose di dargli la sua copia, tanto io potevo mandargliene un’altra con calma, così gliela consegnò. E Chester fu molto contento di scoprire che avevo fatto un nuovo fumetto.
Già avevi incontrato Chester Brown prima di allora?
Sì, lo conoscevo ma in maniera molto formale, lo avevo incontrato a delle sessioni di autografi e gli avevo parlato. Lui conosceva già i miei fumetti degli anni ’90. Non so quanti giorni passarono ma dopo un po’ ricevetti questa telefonata al negozio ed era Chester che si voleva complimentare con me per il fumetto. Inoltre mi disse che era nella giuria che assegnava le nomination per i Dough Wright Awards e che se volevo potevo spedire cinque copie del Journal ai membri del comitato. Mi raccontò anche che aveva cercato di comprarne qualche copia a The Beguiling a Toronto ma non ce l’avevano e non sapevano come procurarselo. E allora io gli dissi “Lo so io come trovarne delle copie, ne ho centinaia negli scatoloni” (ride).
Quindi fino a quel momento non avevi nemmeno portato delle copie a The Beguiling.
No, in realtà chiamai Peter di The Beguiling proprio dopo quella telefonata con Chester per chiedergli se ne volesse delle copie e lui mi disse di sì. Poi, quando uscirono le nomination dei Dough Wright Awards 2014, il mio nome era sulla lista insieme a quello di altri cartoonist decisamente bravi. E fu molto strano per me, quasi non ci credevo che il mio nome fosse accanto a quello degli altri autori. I tipi dei Dough Wright Awards mi invitarono al party al TCAF perché ero stato nominato e a quel punto pensai “Beh, sembrerebbe brutto non andarci quando sei nominato e sei anche un espositore del festival”. E ti riservano dei posti nelle prime file in una specie di area VIP, ma io volevo sedermi in fondo perché pensavo sarebbe stata una facile via d’uscita dopo la premiazione. Alla fine quando andammo là con Stacey ci sedemmo a metà della sala ma comunque non nell’area VIP, per qualche motivo non mi sembrava opportuno…
Hai trovato un compromesso…
Sì sì, tra la metà e il fondo a dire il vero… Poi fu abbastanza surreale ciò che successe. Nella categoria in cui ero stato nominato c’erano altri quattro cartoonist che trovo eccezionali, c’erano Dakota McFadzean, Connor Willumsen e… Oddio, non mi ricordo…
Ma la categoria Best Spotlight Work è per i cartoonist giovani, giusto? (ride)
Sì, era per autori emergenti, e la cosa sembrava un po’ una barzelletta, era divertente in qualche modo. Ma se guardi la pagina dei premi, non c’è nessun requisito di età, quindi la categoria è per cartoonist emergenti ma non devono essere giovani. Non ero nervoso per la nomination finché non arrivai lì, dopo fu veramente terribile. Qualche giorno prima della premiazione, Stacey mi guardò e mi disse “Vincerai” ma a me sembrava del tutto impossibile. Ma si vede che lo sapeva.
Il premio però non ha cambiato il tuo stile, perché dopo hai continuato a lavorare, hai anche finito Colville ma non hai comunque pensato di proporlo a qualche editore.
Beh, non per divagare, ma quando uscì il comic book di Colville nel 1997, spedii delle copie a Seth e Chester Brown, e Seth mi rispose con una cartolina su cui scrisse “Dovresti mandarlo a Chris Oliveros della Drawn & Quarterly, penso che gli piacerebbe dargli un’occhiata”. Così mandai una copia a Chris Oliveros e lui mi rispose dicendomi che pensava che ci fossero delle cose valide nel mio fumetto, chiedendomi di tenerlo informato sui miei progetti futuri. Ovviamente subito dopo smisi di fare fumetti per diversi anni. Ma probabilmente la Drawn & Quarterly è il mio editore di fumetti preferito e mi sentivo come se le mie cose non fossero al loro livello. Una parte di me sente che i miei fumetti non sono abbastanza validi per essere pubblicati dagli editori che mi piacciono…
Dai, ma lo pensi veramente?
Forse sì, sai, mi piace la Drawn & Quarterly, mi piace la Fantagraphics, mi piace Conundrum, mi piace la Koyama Press e forse tra qualche giorno al TCAF darò a tutti loro delle copie dei miei libri, non so… So che alcuni di loro sanno chi sono ma non mi sono mai fatto avanti. Forse potrei provarci con il prossimo Journal, perché in fondo mi piacerebbe avere una distribuzione più ampia per i miei fumetti. Ho anch’io un po’ di ego e mi piacerebbe che la gente potesse avere accesso ai miei libri in maniera più facile rispetto a trovare la mia e-mail in fondo a una recensione. Ma mi piace anche l’autoproduzione perché è in tutto e per tutto una mia creazione, non devo cambiare niente che non abbia voglia di cambiare, ogni riga può essere qualsiasi riga che io voglio che sia. Mi fa anche piacere che sia Colville che The Journal abbiano raggiunto il pareggio, hanno venduto abbastanza copie in negozio, al TCAF e a una manciata di altri posti per coprire i costi di stampa. E in fondo era questo il mio obiettivo, quando feci The Journal pensai “Se un giorno o l’altro recupererò i costi di stampa, posso considerarlo un successo commerciale”.
Hai delle ambizioni tutt’altro che sfrenate…
Non so, non ho nemmeno proposto i miei nuovi libri alla Diamond, forse per paura di un possibile rifiuto, per timore che la Diamond mi risponda “I tuoi fumetti non sono così validi da essere distribuiti…”.
Beh, ma in ogni caso non dovresti preoccuparti dell’opinione della Diamond!
Ma la Diamond rappresenta una strada importante nelle fumetterie del Nord America e di tutto il mondo, ogni negozio di fumetti in lingua inglese ordina dalla Diamond. Cioè, a me non interessa un giudizio estetico da parte della Diamond… Ok, troverò il tempo per farlo, ho le informazioni per contattarli, quindi penso che prima o poi lo farò.
A proposito dei contenuti di The Journal of the Main Street Secret Lodge, il protagonista è il Capitano Woodrow Gilbert. E’ basato su una persona realmente esistita?
Ormai esiste davvero nella mia testa. A dirla tutta, il personaggio è completamente rubato da Lonesome Dove, una miniserie tv con Tommy Lee Jones e Robert Duvall. E’ un western, ed è probabilmente il miglior western che io abbia mai visto. E’ basato su un romanzo con lo stesso titolo di Larry McMurtry. In Lonesome Dove il protagonista è un cowboy, un ex Texas Ranger che si chiama Captain Woodrow F. Call. I personaggi vanno dal Messico al Montana per mettere su un ranch e la storia racconta questa lunghissima transumanza. Dopo aver visto la serie scherzavo sempre con il mio amico che ora è a Winnipeg, James, dicendo che avrei chiuso il negozio per andare in Messico a comprare cinquemila bovini da portare fino in Montana. I due personaggi di Lonesome Dove sono Woodrow e il suo amico Augustus e a quel tempo mi ero convinto che se non attuavo questo piano era solo perché non sapevo se fossi Woodrow o Augustus. Poi un giorno James mi guardò, come se stesse valutando sul serio la domanda, e mi disse “Tu sei Woodrow”. Così mi venne la bizzarra idea di questo mio lontano parente che era un ex Texas Ranger e che aveva fatto questa lunga transumanza, per poi spostarsi in età matura dal Montana a Newmarket, facendo del Northern American Hotel sulla Main Street il suo quartier generale. E alla fine divenne il personaggio del mio libro. L’idea del personaggio è dunque ripresa totalmente da Lonesome Dove anche se mi sembra di aver raggiunto un risultato diverso alla fine.
Il volume raccoglie la storia principale con Woodrow protagonista ma anche paesaggi, un testo scritto a mano che parla di rapine in hotel, dei ritratti di donne a firma William Bobo…
Beh, cerco di soddisfare qualsiasi interesse…
Sì, c’è un po’ di tutto. Ma pensi che la vera protagonista sia Newmarket?
Sì, penso di sì, e più il tempo passa e più mi rendo conto che il motivo principale per cui mi piaceva lavorare a The Journal era perché così potevo disegnare la città. E c’è ancora più enfasi su questo aspetto nel secondo volume, su cui sto lavorando in questo periodo, sarà un vero diario di viaggio, una rappresentazione visiva della città ma anche di molto altro. E’ un volume di 250 pagine e circa 150 rappresentano una sorta di tour del paese, la gran parte degli sfondi vengono da riferimenti reali di posti che si trovano qui a Newmarket.
Hai cercato dei riferimenti fotografici o iconografici per descrivere la Newmarket del passato?
Ho tantissimo materiale sulla storia della città e un sacco di riferimenti visivi. Vivo qui da sempre e quindi è stato davvero facile capire come sarebbe stato questo viaggio attraverso la città. Potrei sedermi, chiudere gli occhi e riconoscere esattamente ogni angolo, ogni posto. Non è difficile trovare le diverse location, vivo qui e quindi posso uscire e andare a fare delle foto se mi serve qualcosa.
Ok, parliamo del libro di Colville adesso. Credo che la storia sia molto più forte letta tutta insieme perché la reiterazione della scena chiave è molto importante e dà forza all’intero lavoro. Quest’idea non era già nel primo comic book, giusto?
Quando mi venne l’idea di lavorare al seguito del primo comic book, non avevo nessuna soluzione visiva per dare unità alla storia. In quelle prime 64 pagine a un certo punto feci comparire Paul Bernardo, che fu una cosa molto spiacevole, perché era una persona reale, un vero serial killer e stupratore seriale dell’area di Toronto nei primi anni ’90. Il suo giocattolo preferito era la telecamera, e quando decisi che Bernardo avrebbe avuto più spazio nel secondo e nel terzo capitolo, mi venne l’idea di ripetere la scena del crimine, per cui utilizzare questo tizio tra i cespugli che registrava sembrò la cosa giusta da fare. Lui faceva veramente cose del genere, seguiva la gente, li riprendeva e così via. Colville è una storia in tre parti ma in origine stavo lavorando su un’altra parte, un capitolo in cui venivano mostrati i poliziotti che investigavano. Disegnai circa 25 pagine e poi le scartai perché si allontanavano troppo dalla ripetizione visiva del crimine. Quando le disegnai la seconda volta divennero simili al film Rashomon, dove viene mostrato lo stesso crimine da quattro prospettive diverse. E fu molto utile per sviluppare la trama coinvolgendo al tempo stesso gli altri personaggi.
Sì, è interessante perché questa soluzione crea un legame tra le diverse vicende, e questo mi fa pensare di nuovo alla città come vera protagonista della storia.
Mi sforzo parecchio per rendere l’ambientazione una parte del racconto, mi piacciono le storie che parlano di zone specifiche, in cui lo spettatore segue le vicende dei personaggi ma ha anche la possibilità di guardare i paesaggi, scoprire la geografia del posto e così via.
E la storia non parla soltanto della città ma anche dell’organizzazione criminale della città, come dice il titolo del libro spedito da Tracy insieme all’adattamento di Twilight of Superheroes, un fumetto inedito di Alan Moore…
Sì, lo chiamo il finale alla Watchmen…
Infatti è molto simile, e ti volevo proprio chiedere qualcosa a questo proposito. Volevi che fosse soltanto una citazione o hai volutamente riscritto la sequenza finale di Watchmen?
Non ho consapevolmente pensato a un riferimento diretto. C’era un periodo anni fa, negli anni ’90, quando mi piaceva fantasticare di tanto in tanto sul finale della storia e immaginavo una scena in cui Tracy mandava le tavole all’autore del vero libro, cioè a me. Infatti sin dall’inizio il ragazzo doveva disegnare questo fumetto sulle attività criminali della città, ma poi a un certo punto pensai di lasciar perdere perché volevo ambientare la scena in cui Tracy spediva il fumetto in un ufficio postale e avrei avuto bisogno di scattare delle foto per poterlo disegnare, e mi sembrava complicato mettermi a fare delle foto alle poste…
E quindi hai usato la cassetta delle lettere…
Sì, ho capito che potevo farlo senza dover disegnare un ufficio postale. Il titolo del libro, Nomenclature of a Small Town Criminal Organization, è un piccolo tributo al mio periodo JFK, c’era questo libro autoprodotto che avevo comprato – era un libretto fotocopiato che si poteva ordinare solo per posta – si chiamava Nomenclature of an Assassination Cabal e io ho sempre pensato “Che cazzo di titolo fantastico”. E così questa semplice idea di Nomenclature of a Small Town Criminal Organization era un piccolo dettaglio che mi è rimasto in mente per 10 o forse 15 anni. Ma poi quando lo stavo disegnando ho pensato “E’ molto simile al finale di Watchmen“.
E questa nomenclatura è in fondo il libro stesso, pagina dopo pagina il lettore incontra criminali sempre più malvagi, all’inizio abbiamo David, poi Van, quindi Alan Gold e infine Paul, il più inquietante di tutti… Hai pianificato dall’inizio questa sorta di crescendo?
Non avevo l’idea di creare un’escalation, no… Ma forse una delle ragioni per cui non sono riuscito a lavorare al libro per così tanto tempo è che il finale che avevo deciso mi metteva davvero a disagio. Inizialmente avevo già pianificato di dedicare dieci pagine a Paul Bernardo nel seminterrato con la ragazza ma mi sembrava di non essere in grado di disegnare delle scene così tremende, così è come se mi fossi rifiutato di finire il libro per tutto questo tempo. E’ un argomento orribile.
Ma avevi deciso che questo argomento dovesse essere nel tuo libro.
E’ strano perché avrei potuto cambiare la storia e fare qualcosa di diverso, ma anni fa avevo deciso che il finale sarebbe stato quello, quindi per me non c’era realmente la possibilità di fare delle modifiche.
Potrebbe essere un altro motivo per cui avevi smesso di fare fumetti…
Sai, aprire il negozio è stato probabilmente il motivo principale ma mi sembrava anche di non avere ciò che mi serviva, qualunque cosa fosse, per disegnare quelle pagine, era materiale terribile per me. Avevo letto dei libri su Paul Bernardo e quindi sapevo quanto fossero tremendi quei crimini, così quando iniziai a utilizzare quel materiale nella storia di fantasia del fumetto, facendo diventare il personaggio della ragazza una vittima di Bernardo, capii che non sarebbe stato piacevole da disegnare. Non volevo che fosse eccitante, volevo che fosse orribile. E mi sentii orribile a disegnarlo, e ho parlato con persone che hanno trovato orribile leggerlo, quindi suppongo di aver raggiunto l’obiettivo se è possibile dire una cosa del genere.
Quindi finire il libro è stata una sorta di liberazione?
Sono felice di averlo finito e non ho alcun interesse a fare di nuovo quel genere di storia lì. Le storie di The Journal of The Main Street Secret Lodge hanno dei momenti violenti e piuttosto cruenti ma al tempo stesso c’è anche una componente di divertimento e di gioco, non vanno prese sul serio per la gran parte.
Sì, e anche i disegni sono molto diversi, Colville è più realistico.
Beh, a mio parere Colville è la cosa migliore che io abbia mai disegnato. Mi piacciono molto anche alcune pagine del prossimo Journal ma non penso che lavorerò così tanto a un altro fumetto come ho lavorato a Colville.
Immagino che le pagine di Colville abbiano richiesto una lavorazione più complessa rispetto a quelle del Journal, il tratteggio è molto dettagliato, soprattutto nella seconda e nella terza parte. E il tratteggio è una sorta di marchio di fabbrica per te.
Le tavole di Colville sono state disegnate per la gran parte in formato più grande e sì, ci ho messo una vita per farle. Per quanto riguarda il tratteggio, beh, non lo consiglierei a nessuno. Alcune volte i fumettisti mettono un sacco di linee sulla pagina per mascherare il fatto che non sanno disegnare. Ma nei miei fumetti i disegni brutti sono sotto gli occhi di tutti. Non c’è l’intenzione di nascondere i disegni mal riusciti, ho scelto di usare il tratteggio per creare una sorta di atmosfera. Forse nei miei primi fumetti il disegno era più stilizzato, poi è diventato più realistico e ora sto tornando a qualcosa di più stilizzato nel prossimo lavoro. Lo stamperò nei toni del grigio, disegnando in strati separati bianchi e neri, un processo diverso da quanto ho fatto in passato. Spero che sia un cambiamento positivo, anche se sono sicuro che il libro che farò dopo il nuovo Journal avrà un sacco di tratteggio, probabilmente più di tutti gli altri.
In pratica stai andando avanti e indietro…
Sì, penso proprio di sì. (ride).
Un’intervista a Conor Stechschulte

In occasione della prossima imminente edizione di BilBOlbul, dal 24 al 26 novembre a Bologna, Conor Stechschulte sarà protagonista di una mostra intitolata Il peso dell’acqua, che inaugurerà presso la galleria Spazio & il 24/11 alla presenza dell’autore, per poi prolungarsi fino al 20 dicembre. Negli stessi giorni troverà pubblicazione in Italia per 001 Edizioni I dilettanti, traduzione di The Amateurs, graphic novel edito nel 2014 da Fantagraphics dopo una prima versione autoprodotta. E a breve è prevista inoltre l’uscita del terzo capitolo di Generous Bosom, la serie che il cartoonist americano sta realizzando per gli inglesi di Breakdown Press.
Per presentare Conor al pubblico italiano gli abbiamo rivolto qualche domanda sulla sua formazione, le sue opere e il suo processo creativo. L’intervista è stata realizzata via e-mail tra settembre e ottobre 2017 da Alessio Trabacchini e Gabriele Di Fazio, cui si è aggiunta in seguito Elisabetta Mongardi. La traduzione in italiano è di Mauro Meneghelli. Buona lettura.
The Amateurs mostra la tua capacità di far scorrere il mistero nel quotidiano, sembra che attraverso i vari personaggi (nella storia principale e nella cornice) la storia illustri diverse modalità di rapportarsi all’elemento misterioso e non razionale dell’esistenza. Non sappiamo se sei d’accordo con questa lettura ma vorremmo cominciare proprio dal tuo rapporto con questo elemento e da come pensi che possa essere trasmesso, mostrato o evocato attraverso l’arte.
Le storie di fantasia possono aiutare a guardare da altri punti di vista ciò che viviamo. Questo è un grande dono che ho ricevuto dell’arte, e che cerco di trasmettere. Inoltre mi piace molto quando sogno qualcosa di veramente banale – come aver spostato un oggetto nel mio appartamento o aver ritrovato qualcosa in macchina – e poiché si adatta perfettamente alla realtà è come una strana ma noiosa bomba a orologeria che esplode all’improvviso. Rende il resto della mia giornata un po’ irreale. Mi è successo anche di recente, ho sognato di aver inviato alcune foto sul mio cellulare a un estraneo, che ha risposto semplicemente “Ah!”. Qualche giorno dopo il sogno, ho avuto un momento di assoluto panico al pensiero che questa cosa leggermente imbarazzante fosse successa davvero.
Quindi, se sognare oggetti comuni è importante per la tua arte, è anche vero che l’incipit di The Amateurs mostra il processo contrario, dato che qualcosa di insolito si materializza nella vita di tutti i giorni. La testa ritrovata nel fiume innesca infatti una serie di eventi straordinari, come succede con l’orecchio tagliato trovato nel campo all’inizio di Velluto blu di Lynch. Se i tuoi fumetti svelano la permeabilità tra il mondo reale e quello onirico, puoi raccontarci meglio come l’esperienza del sogno influenza il tuo lavoro? Inoltre, ci sono autori che ami particolarmente tra coloro che hanno percorso questa strada?
Mi piacerebbe parecchio fare dei sogni lucidi, ma finora non ci sono riuscito se non in quei momenti, la mattina presto, in cui posticipo continuamente la sveglia. Ho trovato molte soluzioni a problemi di sceneggiatura o di disegno in questo “spazio” (mi ricordo per esempio l’immagine finale di The Dormitory con il ragazzo che fuma alla finestra del seminterrato).
Un autore che mi viene subito in mente a questo proposito è Jesse Ball. Ho avuto il privilegio di averlo come tutor durante il mio semestre alla School of the Art Institute di Chicago la scorsa primavera e ho appena letto Sleep, Death’s Brother, il suo libro sul sogno lucido. Le sue idee sui sogni sono molto più interessanti delle mie e mi piace particolarmente la sua concezione dello spazio onirico come un territorio dove allenare la volontà; il suo libro è infatti destinato ai bambini e ai detenuti per l’esercizio della forza di volontà in circostanze particolari.
La gran parte dei miei autori e artisti preferiti ha “percorso questa strada”. Uno dei più importanti per me è Kobo Abe, e per Generous Bosom mi sto ispirando molto al suo libro Secret Rendezvous. Nei suoi quaderni Werner Herzog non fa distinzione tra avvenimenti quotidiani e immaginario onirico (sebbene affermi di non sognare la notte). L’idea seminale per The Amateurs è scaturita da una scena che ho letto nei suoi diari in cui descrive dei macellai incapaci sulle sponde di un fiume a Iquitos. Nell’ambito del fumetto penso che Olivier Schrauwen sia un maestro delle situazioni sognanti/fantasiose/soggettive e nel giocare con il loro scarto umoristico rispetto alla realtà circostante. Altri libri/autori/artisti per me importanti in questo filone sono L’allegra compagnia del sogno di J.G. Ballard, Solaris di Stanislaw Lem, Il pellegrinaggio in Oriente di Hermann Hesse, L’uccello che girava le viti del mondo di Haruki Murakami, chiaramente Borges, Philip K. Dick, Apichatpong Weerasethakul, Tarkovsky, sicuramente Lynch… E molti altri che sto dimenticando.
L’edizione Fantagraphics di The Amateurs presenta alcune differenze dalla prima versione che ti sei autoprodotto nel 2011. La più significativa è la sostituzione dell’introduzione scritta a mano con una storia completamente nuova di due studentesse che trovano la testa di un uomo nel fiume, lo stesso fiume dove faranno un rito per celebrare la promozione insieme alle compagne di scuola. Perché hai deciso di modificare l’originale e come hai creato questa nuova storyline?
Ero semplicemente insoddisfatto della lettera da un punto di vista estetico. Era una delle ultime cose che avevo aggiunto al fumetto e più la guardavo meno mi convinceva. Un paio di mesi dopo aver pubblicato l’albo ho avuto l’idea di questa seconda storyline e ho pensato: “Se mai avrò modo di ristamparlo l’aggiungerò”. Così quando Fantagraphics me ne ha dato l’opportunità è stata una delle prime cose che ho fatto.
Gli animali hanno un ruolo chiave in The Amateurs, sembrano forti e consapevoli, mentre Jim e Winston, i due macellai protagonisti della storia, sono deboli e confusi. Inoltre la violenza brutale di alcune sequenze in cui gli animali sono considerati semplicemente come cibo sembra condannare la scelta di mangiare carne animale. Volevi comunicare una sorta di “messaggio” con questa storia? O l’interpretazione è più metaforica?
Ho deciso che Jim e Winston dovessero essere dei macellai perché volevo facessero un lavoro intimamente correlato con la morte. Volevo raccontare come le persone, invece di fare i conti con la morte, la considerano una cosa che non li riguarda e finiscono per collocarla nel corpo altrui. E questo porta sempre a un danno per se stessi e per gli altri.
Detto questo, quando ho realizzato il libro ero vegetariano da dodici anni. Ma poi ho ricominciato a mangiare carne. Ahah, non so se questo spiega qualcosa della storia… Se qualcuno decidesse di diventare vegetariano dopo aver letto il libro sarebbe fantastico.
Leggendo The Amateurs, l’impressione è che il genere dei tuoi personaggi non sia casuale. Oltre ad alcuni indizi evidenti (la scuola femminile, le due clienti), tutti gli animali che ad un certo punto si ribellano contro gli umani sono femmine (la scrofa, la giumenta, la mucca) mentre i maschi sono più sottomessi (il maiale va nel mattatoio di sua iniziativa, la tartaruga viene torturata nel bosco). Sembra anche che il potere minaccioso del fiume, quale che sia, non colpisca le donne: lo usano per fare il bagno, lavare i panni, fare dei riti senza che gli succeda nulla. Quando, invece, Winston e Jim entrano nell’acqua vengono letteralmente fatti a pezzi. C’è anche una scena in cui Winston, subito dopo essersi macinato le dita, urla alle due clienti che non tollererebbe mai che una donna criticasse il suo lavoro. Per non parlare del fatto che gli torna in mente che quando erano bambini le due clienti lo avevano vestito da femmina. Ci sembra dunque che il tuo libro sia pieno di sottili riferimenti alle relazioni tra uomini e donne (o alla concezione generale di mascolinità e femminilità). Tutto ciò è intenzionale o lo stiamo sovrainterpretando? E il fiume c’entra qualcosa con la rappresentazione della femminilità nel libro?
Grazie per questa lettura così accurata. È assolutamente vero che, almeno nelle mie intenzioni, il genere era un aspetto fondamentale che volevo affrontare.
Anche a rischio di spiegare troppo o escludere interpretazioni migliori e più interessanti, direi che The Amateurs è un tentativo di prendere in giro, ridicolizzare e fare a pezzi (letteralmente, ahah) la concezione di una mascolinità autosufficiente, non-relazionale, quella dell’uomo che ha tutte le risposte. È questo ciò che Jim e Winston tentano di rappresentare per i personaggi femminili del fumetto.
Di grande ispirazione per The Amateurs è stato il libro di Kaja Silverman Flesh of my Flesh, che propone di sostituire il mito di Edipo con quello di Orfeo per quanto riguarda il genere – una storia basata sulla mortalità invece che sulla castrazione. Afferma che la nostra mortalità ci permette di relazionarci gli uni con gli altri per analogia, attraverso le nostre somiglianze, piuttosto che metaforicamente, cosa che presuppone sempre una gerarchia. Ho utilizzato molte di queste idee e ho preso in prestito l’immaginario del mito di Orfeo (ad esempio la testa trascinata sulla riva).
Grazie per aver evidenziato l’aspetto del genere a proposito degli animali ma non penso di averlo fatto intenzionalmente. Credo che un modello simile emerga anche in Generous Bosom, dove il protagonista e “eroe” della storia è in realtà molto passivo.
Quanto all’acqua, credo sia rappresentativa di uno stato estatico/trascendente/indefinito e non riferita al concetto di genere.
L’acqua è un elemento ricorrente nei tuoi fumetti, e talvolta ha un ruolo fondamentale. Può essere il fiume rituale in The Amateurs, la pioggia da cui prende forma Generous Bosom, il lago delle tensioni acute ma impalpabili di Glancing, il mare che accoglie i giochi di Water Phase e il flusso narrativo di Christmas in Prison. Se la consideriamo come un simbolo, l’acqua è necessariamente sfaccettata, fluida, e sembra collegata al desiderio, al cambiamento, all’epifania. È dove succedono le cose, dove si raccontano le storie e si svelano i segreti. Perché l’acqua è così importante per te?
Grazie per aver rintracciato in maniera così completa questa immagine nei miei lavori! Avete delineato così bene il modo in cui ho utilizzato l’acqua che non so se posso aggiungere altro…
Dei significati simbolici che avete elencato mi identifico maggiormente con l’idea di cambiamento. L’acqua è dove i confini si infrangono, le cose si dissolvono, le definizioni si spostano.
Per quanto si debba essere chiari ed esplicativi nel raccontare una storia, soprattutto con i fumetti (ecco un tizio, ed eccolo di nuovo, vedi? Porta le stesse scarpe e lo stesso cappello, a parte il fatto che gli è caduto l’ombrello, ed eccolo, è di nuovo lui che si sta chinando per raccoglierlo), l’acqua concede uno spazio necessario alla vaghezza.
È un luogo che permette di sospendere l’interruzione tra le varie vignette (o forse è un modo di rappresentare quel non-spazio tra loro). Puoi raffigurare un personaggio con tratti puliti e decisi per la maggior parte della tua storia ma, se pensi allo stesso personaggio in una vasca piena d’acqua, le linee diventano tutte ondulate. E possono essere diverse, dunque.
Questo conferma la tua tendenza a cercare modalità sempre nuove per raccontare una storia. Per esempio anche il tuo ultimo lavoro, Tintering, è innovativo, perché invece di disegnare i personaggi racconti la storia di cinque artisti autodidatti attraverso diversi oggetti rotti e usando vignette molto simili tra loro, mentre il contenuto è veicolato soprattutto attraverso il testo. Come sei arrivato a questo e perché è importante per te puntare l’attenzione sugli oggetti?
L’ispirazione per il soggetto del fumetto è stata una lezione di storia dell’arte di Lisa Stone, che è un’insegnante incredibile, generosa e acuta sul tema degli artisti autodidatti e vernacolari. Il modo in cui questi artisti si rapportavano agli oggetti era diverso da come noi abitualmente facciamo (o dobbiamo fare) nella quotidianità. Kea Tawana, per esempio, smontava con meticolosità e attenzione quei vecchi edifici di Newark. Aveva un’enorme sensibilità per l’artigianato e non poteva sopportare che dei materiali utili andassero sprecati. Buona parte del lavoro di questi artisti autodidatti è una risposta alla produzione massiva di oggetti tipica della nostra cultura, e all’incuria e spreco successivi.
Inizialmente pensavo che il fumetto dovesse essere come quelle sezioni di Christmas in Prison in cui il personaggio fa una sorta di monologo rivolto al lettore. Allora ho disegnato un tipo dietro un albero e poi ho pensato che avrebbe allungato una mano e spezzato un ramo. A quel punto mi è sembrato più corretto che fosse il ramo a parlare. La maggior parte delle storie di questi artisti iniziano e finiscono tragicamente – subiscono una perdita, creano qualcosa di bello che viene distrutto. Mi è sembrato giusto che fosse qualcosa di rotto a raccontare queste storie e che parlasse dalla parte della ferita.
In Generous Bosom esplori in maniera approfondita un tema per te ricorrente. Potremmo chiamarlo “voyeurismo” ma sarebbe semplicistico, è piuttosto la questione continua di “chi guarda” e delle dinamiche del guardare. Questo tema è presente in molte delle tue opere ed è fondamentale nel tuo albo autoprodotto The Dormitory. Ma chi è il vero voyeur, l’autore o il lettore? O qualcun altro?
Difficile rispondere brevemente a questa domanda, soprattutto perché la considero una questione aperta, su cui sto ancora lavorando… Non credo che qualcuno possa semplicemente guardare qualcosa senza, consapevolmente o meno, partecipare o alterare ciò che sta guardando. Non penso di poter dire chi sia il “vero” voyeur.
Forse i fumetti si basano proprio sul fatto che l’atto di osservare influenza ciò che si guarda. Ci puoi parlare della tua esperienza di lettore? Come ti piace leggere/guardare i fumetti?
Sì, credo che questa sia una giusta considerazione. In un fumetto non si sfugge al fatto che qualsiasi cosa si trovi sulla pagina è stata messa lì da qualcuno e nel disegnare non c’è differenza tra ciò che si vede e come lo si vede.
Detto questo, come lettore mi piace molto considerare il fumetto come un medium in cui mettere del tuo. Non è la stessa cosa di guardare un film, qui è il pubblico/lettore ad animare l’azione. Per rispondere alla domanda, penso che Generous Bosom indaghi la dinamica della lettura dei fumetti – puoi pensare di osservare qualcosa che succede sia come lettore che come autore ma in realtà sei tu a far succedere quella cosa.
Mi piace leggere più volte i fumetti. E mi piace il fumetto perché è un mezzo che incoraggia questo processo; è sempre facile ritrovare una scena preferita, è a portata di mano. E inoltre leggendo i fumetti si può passare velocemente dall’oggetto della storia al mezzo con cui è raccontata. La densità e la profondità di un fumetto davvero bello sono immediatamente accessibili.
I tuoi fumetti bilanciano flusso e struttura in una maniera unica e originale e in genere è molto difficile capire se sei partito dalla trama o dai disegni. Glancing, un’opera basata sull’accostamento di acquerelli senza testo, potrebbe essere un ottimo esempio. Qual è la tua concezione di fumetto e narrazione?
Grazie! Sulla mia concezione di fumetto e narrazione penso si possa tornare a ciò che ci siamo detti sull’acqua e sulla comparsa del misterioso e dell’irrazionale nel quotidiano. Struttura=Vita quotidiana=Narrazione principale di un fumetto/Disegni lineari/Chiarezza, mentre Flusso=Mistero=Acqua/Cambiamento/Irrazionalità.
Nei miei fumetti tento di mettere tutti i pezzi in fila, di raccontare una storia, e per farlo bisogna stabilire delle regole che il lettore possa seguire e su cui possa fare affidamento (credo che questo sia ciò che intendete con “struttura”). Queste regole si accumulano e possono presto diventare ostacoli alla libertà e alle potenzialità proprie del mondo che ho creato, che sono la fonte di energia per il seguito della storia. Per me a questo punto è il momento di cambiare le regole, o di lavorare a un altro progetto con regole diverse o ancora imprecise.
Lavorare a Glancing è stato in questo senso molto divertente e dinamico, perché facevo tre o quattro disegni e poi potevo inserirne altri nel mezzo, o dopo, o prima. Potevo osservare tutto il lavoro disposto sul pavimento e farmene un’idea complessiva. Voglio lavorare ad altri fumetti in questo modo.
Un altro aspetto interessante del tuo lavoro è che in genere eviti l’opposizione tra fumetti narrativi e non-narrativi – e tra “fiction” e “poetry comics” – alternando le due modalità o dimostrando la loro sostanziale identità nel campo del fumetto. Concordi con questo punto di vista?
Grazie di nuovo! Sì, ritengo che anche questo aspetto sia collegato alla domanda di prima. Aggiungerei che le decisioni sulla struttura, se qualcosa debba essere “poetico” o “narrativo” e così via, sono prese seguendo l’entusiasmo per ciò su cui sto lavorando. Spesso inserisco qualcosa di misterioso/poetico/irrazionale/non-narrativo perché mi sto per annoiare di una fase della storia o perché voglio evitare una scena che non mi sembra interessante da realizzare o da leggere.
Il tuo lavoro guarda sia ai fumetti letterari degli anni ‘90 sia alla sperimentazione formale che si distingue dagli standard del graphic novel, come Fort Thunder e gli art comics in genere. Ma qual è il tuo background? Anche al di fuori dei fumetti, ovviamente.
La mia più grande influenza sono gli amici che ho trovato al Maryland Institute College of Art, le persone che facevano parte del gruppo Closed Caption Comics. Da giovani abbiamo imparato tutti insieme a fare fumetti. Era il periodo in cui stava nascendo PictureBox e molte delle cose di Fort Thunder stavano emergendo ed era perfetto – sembrava che l’immediatezza di quei lavori e la loro forza visuale si rivolgessero proprio a noi. Kramers Ergot 4 e 5, il vecchio sito di Fort Thunder e conoscere CF e Brian Chippendale alla Small Press Expo ci fece capire che quello era il mondo dell’arte in cui potevamo trovare il nostro spazio. Direi che per un bel po’ quella è stata la dimensione che mi interessava: la mia cerchia di amici e quel paio di spiriti guida là fuori.
Oltre a questo, crescere nella Pennsylvania rurale ha avuto una grande influenza sui mondi immaginari dei miei libri. Ho letto anche molta letteratura. Ho appena terminato un master alla School of the Art Institute di Chicago. Non so se però siete più interessati alla mia formazione e alle mie influenze o alla mia biografia…
Soprattutto alle tue influenze, ma anche all’aspetto biografico nella misura in cui ha influenzato il tuo lavoro…
Oltre a Closed Caption Comics, ho partecipato ad altri progetti artistici che hanno avuto un grande impatto sulla mia vita. Appena finita la scuola, ho dato una mano alla creazione della galleria Open Space a Baltimora. Abbiamo curato degli spettacoli, ospitato performance, creato una biblioteca di fanzine e abbiamo messo in piedi la Publications and Multiples Fair. Sto anche aiutando a organizzare la prima Chicago Art Book Fair.
Per sette anni sono stato anche in una band chiamata Witch Hat che ho fondato con Noel Freibert e Lane Milburn. Dopo tre anni Lane ha lasciato la band e si è unito a noi Chris Day. Chris e io ora siamo in una nuova band che si chiama Lilac, con Anya Davidson e Kenny Rasmussen, qui a Chicago (io e Chris ci siamo trasferiti nello stesso periodo). Quando sono entrato nella scena underground dei fumetti c’erano molti punti di contatto con la scena musicale underground. Ho incontrato molti musicisti grazie ai fumetti e molti fumettisti grazie alla musica.
Pensi che la tua arte o il tuo approccio all’arte siano cambiati da quando non sei più a Baltimora? A Chicago c’è una scena fumettistica importante e una lunga tradizione di arte contemporanea che sicuramente ti avranno stimolato, ci viene da pensare agli Hairy Who ma ci sono probabilmente molte cose che in Europa sono poco conosciute.
La mia arte e il mio approccio sono sicuramente cambiati molto da quando ho lasciato Baltimora. Ho frequentato una nuova scuola negli ultimi due anni e l’essere in contatto con tantissime nuove opere, persone e idee è stato incredibilmente rinvigorente e travolgente. Penso che per digerire tutto ciò mi ci vorranno degli anni.
Quanto allo stile di vita, trasferirmi qui e frequentare la scuola mi ha permesso di evitare i lavori non artistici (almeno per ora). È una grande opportunità che prima non pensavo di potermi permettere. Ora sono più concentrato sull’idea di fare arte a tempo pieno, o almeno di farla e insegnarla.
Chicago è una città fantastica per i fumettisti. C’è una comunità splendida, di grande supporto, e realtà come la serie di reading Zine Not Dead gestita da Matt Davis e Brad Rohloff, che porta avanti la tradizione delle letture performative di fumetti avviata da Lyra Hill con Brain Frame. E poi a soli cinque isolati da casa mia vivono tutti insieme Anya Davidson, Lane Milburn, Margot Ferrick e Andy Burkholder (anche Edie Fake viveva lì, nella mansarda). A due isolati di distanza ma in un’altra direzione vivono i miei cari amici Molly O’Connell e Chris Day – i quali fanno entrambi cose molto belle, nell’ambito dei fumetti e non solo.
Abbiamo già parlato di Conor Stechschulte qui:
Qualche fumetto dalla Small Press Expo (Mountain Comic & Generous Impression)
Best Comics of 2014: The List (The Amateurs, Generous Bosom, Glancing)
L’underground al Borda!Fest

Un viaggio nell’underground di una volta a un festival che è underground, ancor prima che nei contenuti, nel luogo e nei tempi, dato che prende vita sotto le mura di Lucca, al Baluardo San Martino, e perché ha la faccia tosta di programmarsi ogni anno in concomitanza con il Festival dei Fumetti in Italia, ossia Lucca Comics. Per il primo anno Just Indie Comics sarà al Borda!Fest e lo farà con una selezione delle solite pubblicazioni vecchie, nuove, italiane e straniere che più o meno già conoscete se seguite questo sito e se date ogni tanto un’occhiata allo shop on line, ma non solo… In esclusiva per il Borda! ho infatti pensato di portare in Italia qualche chicca dell’underground statunitense degli anni andati, riviste e comic-book che rappresentano in qualche modo la storia di un genere, anche se è davvero riduttivo definirlo tale. Per lo più si tratta di spillati che propongono con orgoglio l’ormai poco commerciale format dell’antologia, che invece tanto piace agli appassionati, mentre in un paio di casi siamo di fronte a recuperi d’epoca di mostri sacri del fumetto a stelle e strisce. Ma prima di vedere di cosa si tratta una COMUNICAZIONE DI SERVIZIO: il Borda! si terrà dal 2 al 5 novembre ma io potrò esserci soltanto venerdì 3 e sabato 4 dalle 14 alle 20, quindi se vi interessa trovare il materiale di Just Indie Comics fatevi vedere in quei giorni, a quell’ora e soprattutto in quel posto… Per i dettagli sulla manifestazione vi rimando invece alla pagina Facebook e al sito dell’edizione 2017. E ora possiamo cominciare…
Zap Comix #7 – Non si tratta della prima edizione, ovviamente diventata oggetto da collezione, ma di una ristampa di Zap Comix, la rivista lanciata da Robert Crumb nel 1968 e diventata il motore della rivoluzione underground. Questa settima uscita risale al 1974 e mette insieme lavori di S. Clay Wilson, Spain Rodriguez, Gilbert Shelton, Rick Griffin e Victor Moscoso, oltre allo stesso Crumb che partecipa con Mr. Natural meets “The Kid” e l’autoironica R. Crumb presents R. Crumb.
Wimmen’s Comix #7 – Se Zap sconfiggeva i luoghi comuni sul fumetto proponendo contenuti diversi da quelli a cui era abituato il pubblico mainstream, con Wimmen’s Comix si andava anche oltre, superando le usuali convenzioni di genere. Zap era infatti innovativo, trasgressivo, rivoluzionario ma i suoi autori erano tutti… uomini. C’era dunque bisogno di fumetti che rappresentassero com’erano le donne degli anni ’70 e che non avessero paura di mettere in primo piano la loro sessualità. Tra le collaboratrici di questo numero 7, datato 1976, troviamo Joyce Farmer, Terry Richards, Dot Bucher, la Roberta Gregory nota per la serie anni ’90 Naughty Bits e Melinda Gebbie, poi diventata collaboratrice (Lost Girls, Cobweb) nonché moglie di Alan Moore.
Hup #1 – Qui siamo davanti a una rarità, perché questo non è un albo facilissimo da trovare in giro. Si tratta della prima edizione di Hup di Robert Crumb, spillato edito da Last Gasp nel 1987 e che raccoglie alcune storie del Nostro al meglio delle sue capacità artistiche, con uno stile che negli anni si è fatto ricco, dettagliato, elegante. Dentro ci trovate i Rough-Tuff Cream-Puffs, Mr. Natural e i ben noti “troubles with women”. Insomma, un pezzo di storia del fumetto nella sua forma originale.
Weirdo #20 – Weirdo è stata tra gli anni ’80 e i primi ’90 la sorella di Zap Comix, alternando come editor lo stesso Crumb, Peter Bagge e Aline Kominsky-Crumb ma proponendo, accanto ai soliti noti, autori promettenti che sarebbero diventati famosi di lì a breve. Questa ventesima uscita, datata nuovamente 1987, presenta un ricco cast composto tra gli altri da Dori Seda, Mary Fleener, Mark Zingarelli, la stessa Aline Kominsky-Crumb e ovviamente suo marito, autore della copertina e del cult Footsy, incentrato sulla sua passione per i piedi femminili.
Young Lust #8 – Facciamo un salto negli anni ’90 per arrivare all’ultimo numero di un’altra storica antologia, dedita alla rilettura in chiave underground dei temi dei romance comics. Questa ottava uscita, datata 1993, è l’ultima della serie e nasconde dietro una bella cover di un giovane Daniel Clowes contributi dell’editor Jay Kinney, Bill Griffith, Spain e di un certo Charles Burns, autore di una pagina dal titolo Love Diary che parte dalla sua passione per le storie d’amore anni ’50 per anticipare le trovate dei lavori futuri.
Mr. A #2 – E ora un passo indietro nel tempo con un albo che poco c’entra con i precedenti. Outsider del fumetto per eccellenza, dopo aver rotto con la Marvel Steve Ditko si dedicò alla collaborazione con case editrici come Charlton, Warren e Dc Comics. Nel frattempo creò anche il personaggio di Mr. A, territorio per sviluppare le sue idee filosofiche, che riprendevano la teoria dell’oggettivismo di Ayn Rand. Qui il secondo numero datato 1976, pieno di vignette densissime di testo e caratterizzate dal tratto inconfondibile di Ditko.
10 fumetti da sfogliare a Lucca Comics

In extremis, come già hanno fatto tutti i i più prestigiosi siti d’informazione, propongo anche io la mia breve e sintetica lista dei fumetti da sfogliare a Lucca Comics. Dico “da sfogliare” e non “da comprare” perché, se c’è una cosa che ho imparato nella vita, è che SFOGLIARE E’ GRATIS COMPRARE COSTA. I titoli sono ordinati in rigoroso ordine alfabetico e sono tutte novità dell’ultima ora tranne un paio di volumi già usciti da qualche settimana ma su cui mi è sembrato il caso di soffermarsi. Buona lettura.
133 – One Dirty Tree (Oblomov Edizioni) – Un nuovo fumetto di Noah Van Sciver visto solo su Patreon e pubblicato in esclusiva da Oblomov, grande colpo per la nuova casa editrice di Igort, che arriva a Lucca con una quantità impressionante di novità. L’autore di Blammo e Fante Bukowski guarda alla sua gioventù, alla storia della sua famiglia e a una relazione finita in quello che si annuncia come un romanzo di formazione a fumetti. Da non perdere anche perché su carta è un inedito assoluto, senza ancora alcun piano di pubblicazione negli Stati Uniti.
676 apparizioni di Killoffer (Coconino Press) – Una recensione che lessi non mi ricordo bene dove definiva questo libro “come se Tarantino avesse scritto L’apprendista stregone di Walt Disney”. Difficile trovare parole migliori per raccontare a grandi linee questo fumetto, primo di Patrice Killoffer ad arrivare in Italia. Unico nel suo genere, è un viaggio dentro la paranoia, la misoginia e le ossessioni del protagonista rappresentato con un susseguirsi di trovate grafiche geniali.
American Flagg vol. 1 (Editoriale Cosmo) – Arriva quello che dovrebbe essere il primo volume della ristampa integrale dell’American Flagg di Howard Chaykin, un’iniziativa editoriale che se rispettasse le sue promesse sarebbe a dir poco lodevole, dato che una riedizione completa di questa serie distopica anni ’80 non esiste nemmeno negli Stati Uniti. Da verificare prima dell’acquisto la qualità dell’edizione, perché la carta e la stampa scelte da Editoriale Cosmo non sempre hanno convinto.
Collezione Crumb Vol. 4 – Mr. Natural (Comicon Edizioni) – Quasi trecento pagine tutte dedicate a Mr. Natural nel quarto volume della Collezione Crumb, che debuttò proprio a Lucca tre anni fa alla presenza dell’autore. Da allora le uscite procedono a rilento ma procedono, e dopotutto è questo che importa. Tuffatevi nel pazzo mondo hippy del mistico filosofo fricchettone cialtrone più undeground di tutti i tempi.
Drinking at the Movies (Eris Edizioni) – Dopo i libri di Michael DeForge e Jesse Jacobs, continua la collaborazione di Eris con la casa editrice canadese Koyama Press. Ad arrivare in Italia è stavolta Drinking at the Movies di Julia Wertz, autrice che rappresenta una delle voci più interessanti dell’autobiografia a fumetti contemporanea, oltreché abilissima illustratrice della New York meno convenzionale, come testimonia la recente raccolta Tenements, Towers & Trash. E New York è protagonista anche di questo volumetto, che racconta il trasferimento dalla familiare San Francisco alle strade sconosciute della Grande Mela, tra lavori sfigati, appartamenti luridi, sbronze e via dicendo. Insomma, il solito pacchetto ma fatto bene.
The End of the Fucking World (001 Edizioni) – Qualche copia si era vista in sordina già al Treviso Comic Book Festival, ma Lucca dà di nuovo modo di sottolineare la coraggiosa operazione di 001, che porta in Italia l’opera di esordio di Charles Forsman. Uscito prima sotto forma di mini-comics autoprodotti e poi raccolto in volume da Fantagraphics, TEOTFW è un romanzo di formazione del tutto maturo sul piano della forma quanto spiazzante per i contenuti, in cui il passaggio dall’intimismo all’anaffettività fino alla violenza brutale avviene in un batter di ciglia.
Paesaggio dopo la battaglia (Coconino Press) – Capisco più di X-Men che di fumetto belga, ma questo volume targato Fremok che ha vinto il Fauve d’Or ad Angoulême 2017 si preannuncia visivamente affascinante quanto formalmente interessante. Vale la pena sicuramente darci un’occhiata, anche perché il disegnatore Éric Lambé (autore dell’opera insieme allo sceneggiatore Philippe de Pierpont) sarà ospite con una mostra al prossimo BilBOlbul.
Psycho (Eris Edizioni) – Dopo la mostra vista a Carrara, Roma e Macerata, torna anche in libreria l’arte del Prof. Bad Trip. Psycho è il primo di una serie di volumi annunciati da Eris e presenta, oltre al fumetto omonimo, la storia breve Kathodic Karma e un testo critico di Vittore Baroni. Il volume è disponibile anche in un’edizione limitata di 250 copie con copertina serigrafata da Stranedizioni.
Quimby The Mouse (Oblomov Edizioni) – In attesa di vedere Building Stories, da tempo annunciato per Bao, ci pensa Oblomov a pubblicare finalmente in Italia un’altra opera di Chris Ware. Quello dedicato al topo Quimby è un volume oversize che raccoglie materiale dei primi anni ’90 tratto da Acme Novelty Library e da altre pubblicazioni, in cui Ware riprende lo stile delle strip alla Krazy Kat rendendolo dettagliatissimo. Esistenzialismo e perfezionismo vanno a braccetto in un dualismo talmente riuscito da risultare – almeno per me – inquietante.
The Rust Kingdom (Hollow Press) – Il nuovo libro di Spugna, secondo lavoro sulla lunga distanza dopo Una brutta storia del 2014, ha debuttato già al Treviso Comic Book Festival con tanto di mostra di tavole originali ma qui è il caso di tornarci perché in Italia trovare un fumetto così è raro. E per “così” intendo un fumetto che rifiuta ogni forma di realismo per chiudersi nel suo mondo fatto di carne macellata, in cui tra un taglio d’ascia e uno di spada si insinua un plot che smorza con spirito nichilista le suggestioni fantasy. E l’autore si conferma anche maestro dei finali a sorpresa, cosa non certo da tutti.
“The Best American Comics 2017”

Saltata la recensione del volume dello scorso anno, torno a occuparmi su queste pagine di The Best American Comics, la serie edita da Houghton Mifflin Harcourt di cui ho già parlato in questo post a proposito dell’edizione 2015. Se non sapete di cosa si tratta, vi rimando appunto all’articolo di due anni fa per una spiegazione dettagliata del progetto. Qui mi limito a dirvi brevemente che la collana è sempre coordinata da Bill Kartalopoulos, che l’editor di quest’anno è Ben Katchor e che questo sostanzioso hardcover di quasi 400 pagine riunisce, secondo la visione dei curatori, i migliori fumetti di cartoonist americani che hanno visto la luce – in forme e modi differenti – tra il primo settembre 2015 e il 31 agosto 2016. Sì, perché non si tratta solo di fumetti cartacei, dato che The Best American Comics guarda anche al mondo del web e, soprattutto, a quello dell’arte, sviluppando ancor più che in passato – a quanto sembra per precisa volontà di Katchor – quel filone dei paracomics di cui fanno parte opere con la sembianza di fumetti ma destinate ad altro tipo di fruizione. Se aggiungiamo che i lavori selezionati snobbano in toto le major dell’editoria (non c’è nemmeno una pagina di un prodotto Marvel, Dc, Image ecc.) e sono spesso tratti da riviste, mini di difficile reperibilità o fanzine autoprodotte, viene fuori che il volume non è solo l’occasione per fare i conti con lo stato del fumetto americano oggi, ma anche un modo per conoscere nuovo materiale per chi quel tipo di fumetto lì lo segue abitualmente. Ed è apprezzabile che un prodotto del genere arrivi in pompa magna sugli scaffali delle librerie generaliste, portando agli occhi del grande pubblico contenuti particolari, sperimentali, bizzarri che diventano nella loro alterità un inno alla libertà di espressione e di pensiero, come ricordano l’introduzione di Kartalopoulos e l’amaramente post-orwelliana copertina di Matthew Thurber.
Tra i nomi di questo The Best American Comics 2017 ci sono mostri sacri del fumetto americano (Gary Panter, Kim Deitch, Joe Sacco, Bill Griffith), autori più giovani dei precedenti ma ormai ben noti al grande pubblico (Ed Piskor, Michael DeForge, Gabrielle Bell, Patrick Kyle, Matthew Thurber), fumettisti di nicchia ma con una storia editoriale già alle spalle (Sam Alden, Conor Stechschulte, Josh Bayer), cartoonist che vengono dal mondo dell’autoproduzione (Mike Taylor, Lale Westvind, John Hankiewicz), nuove promesse (Sienna Cittadino, Sami Alwani, Laura Pallmall), artisti che hanno esposto in gallerie o spazi culturali (Gerone Spruill, Oscar Azmitia, William Tyler). Difficili citarli tutti, perché i nomi coinvolti sono veramente tanti, così mi limito a fare una veloce rassegna dei miei lavori preferiti tra quelli pubblicati.
Gary Panter, The Future of Art 25 Years Hence – Un fumetto di Gary Panter che sarà sfuggito ai più, otto pagine a colori tratte dal #181 dell’antologia frieze. Una riflessione sull’arte, il reale, il virtuale, l’analogico, il digitale e molto altro ancora, resa sotto forma di dialogo tra tre personaggi “storti”.
Deb Sokolow, Willem de Kooning. – Ispirata da una serie di aneddoti su De Kooning, quest’opera pubblicata dall’artista chicagoana in un’edizione limitata di sole tre copie unisce didascalie e diagrammi dando vita a un interessante esempio di fumetto astratto.
Lale Westvind, The Kanibul Ball – Pur non rappresentando la migliore uscita della serie, Kramers Ergot #9 conteneva materiale di ottima fattura ed è qui presente con ben tre estratti. Tra questi è doveroso segnalare The Kanibul Ball, un rituale rappresentato da Lale Westvind con colori caldi e sequenze psichedeliche.
Oscar Azmitia, Good Haven High – Azmitia ha la sindrome di Asperger, è cresciuto in un contesto fortemente religioso e realizza questi gustosi quadri naif con episodi tratti dalla vita scolastica.
Mike Taylor, Ranchero – Da anni autore della fanzine Late Era Clash, Mike Taylor disegna con le sue linee generose ed elaborate le vicissitudini di due ragazze adolescenti in una piccola cittadina della Florida, tra magliette dei Metallica, centri commerciali, le attenzioni dei ragazzi più grandi e quelle – non richieste – dei genitori.
Matthew Thurber, Kill Thurber – Altra storia dall’ultimo Kramers Ergot. Thurber divide la pagina alternando due diversi piani temporali ma solo alla fine si capisce ciò che sta succedendo… Geniale, prende spunto dall’omonimia tra l’autore di 1-800-MICE e James Grover Thurber.
Sam Alden, Test of Loyalty – Da prolificissimo autore di fumetti on line e cartacei, Alden ha negli ultimi anni centellinato le sue produzioni a causa dell’esperienza ad Adventure Time. Vista sul sito Hazlitt ma con le matite – stavolta colorate – sempre al loro posto, Test of Loyalty è una storia futuristica ma non troppo su un’operatrice cinematografica rimasta senza permesso di soggiorno.
Conor Stechschulte, Generous Bosom #2 (Excerpt) – In ogni volume di The Best American Comics è immancabile qualche estratto da opere lunghe, soluzione che poco lascia al lettore ma che è a conti fatti inevitabile. Questo brano di Stechschulte, un flashback tratto dal secondo (e al momento ancora ultimo) numero della sua serie Breakdown Press, fa il suo effetto anche fuori dal contesto originale.
Sami Alwani, The Dead Father – Tredici pagine in cui uno stile da illustrazione per bambini diventa inquietante fino a sintonizzarsi con un testo denso, complesso e sfaccettato, capace di raccontare un rapporto padre-figlio e una vita intera. Un “grande romanzo americano” da leggere e rileggere.
Laura Pallmall, Picaresque – Realizzato per la Comics Workbook Composition Competition 2015, Picaresque mette in scena le squallide vicissitudini di un balordo qualsiasi in un sobborgo come tanti altri. La rigida griglia di nove vignette per pagina non riesce a contenere né la grezza spontaneità delle matite né il male di vivere dei personaggi.
JICBC PT. 4 – “MINI KUŠ!” #55-58

Quattro fumetti per la quarta e ultima spedizione del Just Indie Comics Buyers Club 2017. Tra qualche giorno gli abbonati troveranno infatti nella loro cassetta delle lettere non un solo albo ma tutti e quattro gli ultimi mini kuš!, ossia gli spillati formato A6 che nascono come spin-off della rivista lettone š! e che contengono storie brevi e autoconclusive di autori internazionali. Di kuš! ho parlato più e più volte su queste pagine e anche altrove, dunque non vi sto nuovamente a raccontare la storia e il progetto di questo editore lettone che è ormai ben noto al pubblico italiano, dato che negli ultimi tempi è stato ospite di diverse manifestazioni nostrane, tra cui l’ultimo Treviso Comic Book Festival.
A inaugurare l’ultima tornata di mini kuš! è l’uscita #55, Valley dell’artista canadese GG, di cui avevo parlato brevemente qui in occasione della pubblicazione on line del suo A Mysterious Process. Da allora ne è passata di acqua sotto i ponti, il tratto di GG si è ingentilito (anche troppo per i miei gusti) e le tematiche sono diventate più intimiste, come testimonia il suo I’m Not Here edito di recente da Koyama Press. Valley prosegue questo nuovo tracciato raccontando le vicissitudini di una ragazza che va a cercare un gruppo di amici disperso tra le montagne. E una volta lì ci mette poco a perdersi a sua volta, in mezzo alla natura ma anche dentro se stessa.
Nell’albo di GG c’è un elemento misterioso, quasi da realismo magico, che scoprirete leggendo e che dona al tutto un’aura di mistero. Lo stesso discorso vale anche per gli altri mini del lotto, dove c’è sempre qualcosa di enigmatico, insondabile, difficilmente comprensibile o diversamente interpretabile, una soluzione ideale per espandere nella mente del lettore una storia di sole 24 pagine. A Friend, il mini kuš! #56 a firma Andrés Magán, è esempio calzante di questa tendenza, dato che fa diventare straordinaria una vicenda del tutto ordinaria, ossia quella di un uomo che ha perso il suo cane. A differenza di GG però, qui l’elemento inspiegabile non serve a raccontare il vissuto dei personaggi ma è utilizzato con piglio surrealista per giocare con le regole del fumetto e della rappresentazione in genere.
Ciò che mettono in dubbio i due mini visti finora è lo sguardo del protagonista, che si unisce a quello del narratore rendendo la pagina disegnata quanto meno poco attendibile. E sulle storie, e la loro veridicità, lavora anche Eviction di Evangelos Androutsopoulos. A prima vista poco attraente per il tratto legnoso e i colori severi, il mini kuš! #56 racconta l’occupazione di un fabbricato in riva al mare, mescolando personale e politico, con un approccio che mi ha ricordato per molti versi Avventure sull’isola deserta di Maciej Sieńczyk, visto qualche anno fa in Italia per Canicola. Non c’è niente di modaiolo in queste vignette, ed è davvero meglio così.
L’elemento misterioso di cui si parlava prima diventa persino criptico nel lavoro di Patrick Kyle, senz’altro il nome più noto tra gli autori citati. Anche lui canadese come GG, ha di recente pubblicato ancora per Koyama Press l’antologia personale Everywhere Disappeared, in cui potrebbe essere facilmente inserita questa Night Door. Scordatevi il Kyle narratore dell’eccellente Distance Mover, perché il nostro sviluppa nelle sue storie brevi un approccio sperimentale che fa leva sull’intuito del lettore, invitato a farsi strada tra strutture geometriche in cui si muovono figure sinuose tra l’umano e l’animale. Totalmente muto, il mini kuš! #57 è un piccolo oggetto che, come diceva qualcuno, renderà il vostro salotto un grande protagonista del ‘900. E a questo punto buona lettura.
Just Indie Comics al Treviso Comic Book Festival

L’ampia selezione di fumetti internazionali di Just Indie Comics arriva anche quest’anno al Treviso Comic Book Festival, una delle rassegne dedicate al fumetto più interessanti d’Italia e che per il 2017 ha allestito un programma ambizioso ricco di ospiti internazionali, a partire da Jesse Jacobs, protagonista della mostra Cosmogonia e autore della locandina. In occasione della mostra mercato del 23 e 24 settembre troverete al tavolo di Just Indie Comics non solo il materiale già disponibile nel webshop ma anche, in esclusiva per il TCBF e in anteprima italiana, tutte le nuove uscite dell’inglese Breakdown Press, che in concomitanza con il Safari Festival di Londra dello scorso agosto ha pubblicato una lista di fumetti impressionante per quantità e qualità.
Le novità più corpose sono senz’altro Good News Bible di Shaky Kane, volume extra-size che raccoglie tutti i lavori dell’artista britannico per la rivista Deadline, e Showtime, nuovo graphic novel di Antoine Cossé, di cui saranno disponibili anche la raccolta Palace 0 e la ristampa della storia breve Nwai.
Altra importante novità è il lancio di una nuova rivista di fantascienza, Berserker, che debutta con un primo numero che propone un approccio tutt’altro che classico al genere con articoli, interviste, illustrazioni e ovviamente fumetti a firma Anya Davidson, Lando, Lane Milburn, Benjamin Marra, Jon Chandler. Da segnalare tra le altre cose un’intervista di Sammy Harkham all’artista Robert Beatty e un bell’approfondimento di Jamie Sutcliffe sulla space-opera Galactic Nightmare di Alan Jefferson.
Conditioner è invece una raccolta di tre storie di Liam Cobb, che con Breakdown aveva già pubblicato The Fever Closing. Lo stile di Cobb è nel solco di una tendenza contemporanea che al rigore della composizione, quasi architettonico, unisce suggestioni irrazionali.
Altro titolo è il quarto numero di Windowpane di Joe Kessler, ideale seguito del precedente di cui non riprende però esplicitamente personaggi e trama – sempre astratti nei fumetti del britannico – per richiamarne invece scelte stilistiche e tematiche.
E anche il Klaus di Richard Short, visto in Italia su Linus, prosegue la sua marcia con un terzo numero pieno di strisce e di guest star come il nostro Fabio Tonetto, Lando, Anna Haifisch e altri.
Oltre ai titoli di Breakdown troverete al tavolo di Just Indie Comics altre esclusive per il TCBF, come i numeri dal 3 al 6 del Crickets di Sammy Harkham con l’inizio e lo sviluppo della storyline Blood of the Virgin, una selezione di numeri arretrati del King-Cat di John Porcellino e altro ancora.
E non mancheranno ovviamente i fumetti già disponibili sul sito, dalle ultime uscite Retrofit Comics (Iceland di Yuichi Yokoyama, How To Be Alive di Tara Booth, Steam Clean di Laura Ķeniņš, Combed Clap of Thunder di Zach Hazard Vaupen) all’ultima autoproduzione di Conor Stechschulte Tintering, dal volume The Complete Strange Growths 1991-1997 di Jenny Zervakis (ne ho parlato in questo post) ai comic-book di Noah Van Sciver Blammo #9 e My Hot Date.
Chiudo la lista segnalandovi infine i fumetti di Diego Lazzarin e Alessandro Galatola, i due autori protagonisti delle mostre del Just Indie Comics Fest lo scorso giugno. Di Diego Lazzarin ci sarà Aminoacid Boy and the Chaos Order, di Galatola l’albo Dio di me stesso coprodotto da Just Indie Comics e CO-CO.
Se siete a Treviso venite almeno a dire CIAO, e nel frattempo date un’occhiata al pirotecnico programma di mostre, incontri e eventi sul sito ufficiale del festival.
10 fumetti dalla Small Press Expo 2017

La Small Press Expo è il più importante festival statunitense dedicato al mondo del fumetto indipendente e alternativo, dove vengono assegnati anche gli Ignatz Awards agli autori più interessanti e ai libri più riusciti della stagione passata. La prossima edizione si terrà sabato 16 e domenica 17 settembre, sempre nella solita location di Bethesda, vicino Washington. In occasione della SPX gli editori concentrano le più importanti novità dell’anno, dando vita a un’impressionante lista di cosiddetti “debut books”, di cui potete trovare maggiori dettagli in questa lista. In questo post cerco di selezionare, dal mio personale punto di vista, i dieci libri più interessanti tra quelli annunciati, elencandoli in ordine alfabetico. Alcuni ho avuto già la possibilità di leggerli e quindi ne parlo – per quanto possibile – con cognizione di causa, altri invece sono lavori inediti su cui cerco di far valere le mie capacità di indovino. Prendete dunque questo “best of” come un gioco, come d’altra parte lo sono quasi tutte le liste. Buona lettura.
1. Anti-Gone di Connor Willumsen
Tra Sammy Harkham e Lando, per rimanere ai contemporanei, lo stile del canadese Connor Willumsen esplode in tavole di assoluta bellezza in Anti-Gone, visione di una realtà altra che riprende le atmosfere della serie Treasure Island proiettandole in un contesto metropolitano futuribile quanto decadente. Droghe sintetiche, post-consumismo, rivolte di strada e soprattutto un grande assente, cioè internet… Che si sia davvero rotto, infine? Letto in anteprima e solo in PDF per ora, Anti-Gone sintetizza le tensioni di tanto fumetto contemporaneo ed è già uno dei libri dell’anno.
2. Architecture of an Atom di Juliacks
Al Crack! del 2015 a Roma si era vista The Whole Shabang-Arch Atom, video-opera dell’artista multimediale statunitense Juliacks, classe 1986. Ora esce per 2d cloud l’imponente volume Architecture of an Atom, coronamento di un progetto pluriennale – tra proiezioni, performance, mostre in gallerie e musei d’arte contemporanea – che supera con facilità i confini del fumetto per giungere in un territorio sconosciuto quanto affascinante. Definito eccessivo, misterioso, crudo e sognante, Architecture of an Atom è una delle novità più attese di questo 2017.
Ho un debole per i fumettisti che fanno sempre le stessa cosa (come d’altronde per i gruppi che suonano sempre la stessa canzone) e Michiel Budel è uno di questi. Il suo webcomic Slechte Meisjes era già stato adattato in formato comic-book da Secret Acres nei due numeri di Wayward Girls e adesso dallo stesso editore arriva anche un nuovo volume di 80 densissime pagine, Francine. “Teens can be deceiving, and Francine is exceptionally so – recita la cartella stampa – She murders her bully, fakes her own death, steals her best friend’s mother and makes any situation uncomfortably sexual. She’s awful. Everyone loves her. You will, too”. Uno di quei fumetti-mondo in cui non è facile entrare ma da cui è ancor più difficile uscire.
4. Good News Bible di Shaky Kane
Preparatevi a riempirvi gli occhi, perché qui di cose da vedere ce ne sono davvero tante. Dopo il debutto in patria al Safari Festival sbarca negli Stati Uniti Good News Bible, la raccolta in grande ed elegante formato delle strisce e delle illustrazioni che il britannico Shaky Kane realizzava tra fine ’80 e inizio ’90 per la storica rivista Deadline. Per chi se lo ricorda un tuffo nel passato a cui non si può rinunciare, per gli altri un’occasione imperdibile per scoprire un artista che ha riletto in chiave punk la lezione di Jack Kirby.
5. I Am Not Okay With This di Charles Forsman
Charles Forsman torna allo stile da comic strip che lo ha consacrato con The End of the Fucking World, recentemente diventato una serie tv trasmessa nel Regno Unito da Channel 4, per raccontare un’altra storia di adolescenza disagiata. Ma stavolta la giovane Sydney ha anche dei poteri telecinetici… Che questo nuovo I Am Not Okay With This sia la sintesi perfetta tra il primo Forsman e l’autore citazionista visto all’opera di recente in Revenger e Slasher? Lo sapremo leggendo questo volume, raccolta di mini-comics creati dall’autore per i suoi sostenitori su Patreon.
Sperimentali, poetici, sempre alla ricerca della novità formale ma senza perdere di vista le emozioni, i fumetti di Andrew White guardano alle teorie di Frank Santoro e al filone dei comics-as-poetry. L’albo di 46 pagine a colori N, seguito ideale di M del 2015, è definito dallo stesso autore “a comic about storytelling, family, and coming home”, oltre che “three short stories drawn in different styles but actually one long story drawn in the same style”. E non è tutto, perché sempre al festival di Bethesda White darà sfogo anche alla sua attività parallela di critico con la pubblicazione di All There Is, un albetto di disegni, diagrammi e saggi a proposito di Ganges di Kevin Huizenga.
7. Night Business di Benjamin Marra
L’uscita ufficiale è prevista solo a dicembre, ma in occasione della SPX Fantagraphics renderà disponibili in anteprima alcune copie di Night Business di Benjamin Marra, hardcover di 250 pagine che raccoglie i primi quattro numeri autoprodotti dell’omonima serie, rimasta incompiuta dal 2011, e sei nuovi capitoli interamente inediti. Meno paradossale di Terror Assaulter, ma comunque esagerata e ironica, Night Business è un viaggio nella New York del 1983 tra serial killer mascherati, ballerine di night club, uomini d’affari viscidi e spietati, giustizieri senza paura ed eroine motocicliste.
Il debutto di una nuova antologia fa sempre notizia di questi tempi, dato che il classico formato del magazine che assembla periodicamente contributi di diversi autori rappresenta ormai un suicidio commerciale. Ma la Fantagraphics per fortuna non si arrende alle leggi del mercato e concepisce Now, ancora a cura di Eric Reynolds, già editor della compianta Mome. Nel primo numero, che sarà presentato in esclusiva alla SPX, troviamo i contributi di artisti noti e meno noti, americani e internazionali, in un mix micidiale che include Eleanor Davis, Noah Van Sciver, Gabrielle Bell, Dash Shaw, Sammy Harkham, Malachi Ward, J.C. Menu, Conxita Herrerro, Tobias Schalken, Antoine Cossé, Tommi Parrish, Sara Corbett, Daria Tessler, Kaela Graham e Rebecca Morgan (autrice della cover). La speranza è che l’antologia mantenga le promesse di qualità e anche di periodicità, dato che si prefigge di uscire tre volte l’anno.
9. Old Ground di Noel Freibert
Altra casa editrice che ha un programma di tutto rispetto in occasione della SPX è la canadese Koyama Press. Al già citato Anti-Gone è inevitabile aggiungere almeno Everywhere Disappeared, raccolta di storie brevi di Patrick Kyle, e Language Barrier, che mette insieme una serie di zine di Hannah K. Lee. Ma se devo selezionare un altro libro da inserire in questa top ten la mia scelta va senz’altro su Old Ground, graphic novel di Noel Freibert, uno dei fondatori del collettivo Closed Caption Comics nonché editor del fondamentale magazine Weird. Alla prova sulla lunga distanza, Freibert mette in scena con il suo tratto liquido e inimitabile una slapstick comedy che è in realtà un sequel contemporaneo al più tragico dei romanzi gotici.
10. TRUMPTRUMP vol.1 di Warren Craghead III
Sulla pagina trumptrump.tumblr.com, Warren Craghead III condivide ogni giorno ritratti iconoclasti di Donald Trump, accompagnati da citazioni dei suoi discorsi o interviste. L’effetto è parodistico, straniante, spesso orrorifico. Alcuni di questi disegni sono stati raccolti in un voluminoso hardcover di 200 pagine che Retrofit Comics fa uscire per la SPX insieme a Tales from the Hyperverse di William Cardini, How To Be Alive di Tara Booth e Iceland di Yuichi Yokoyama.
The Complete Strange Growths 1991-1997

Tra la pubblicazione dei primi numeri di Eightball, il debutto dell’Hate di Peter Bagge, la nascita della Drawn and Quarterly con il lancio di serie regolari a firma di autori come Seth, Chester Brown e Joe Matt, il periodo a cavallo degli anni ’80 e ’90 ha segnato una notevole rivoluzione per il fumetto nord-americano, trasformando definitivamente il concetto di fumetto “underground” e “indipendente” come era concepito fino a quel momento. Innanzitutto le storie di questi cartoonist si proponevano con un linguaggio nuovo e meno autoreferenziale rispetto al passato a un pubblico più vasto, e in secondo luogo alcuni di questi autori uscivano dagli schemi abituali del fumetto “alternativo” come veicolo di contenuti esclusivamente anticonvenzionali, sarcastici, iconoclasti, provocatori. Se la qualità di quel materiale rimane uno dei vertici raggiunti dal fumetto nei suoi tanti anni di storia (almeno dal limitato punto di vista di uno che quella “roba” ha cominciato a leggerla in piena adolescenza, rimanendone irrimediabilmente colpito), è doveroso dire che gli autori citati in precedenza non erano gli unici a portare nuova linfa nel panorama del fumetto a stelle e strisce. Sotto, nel più profondo dei mondi della micro-editoria di cui in Italia poco si sapeva nell’epoca pre-internet – a meno di non incappare in una pubblicità o addirittura in una recensione su The Comics Journal – si muovevano una serie di autori misconosciuti che consapevoli della rivoluzione del do it yourself applicavano i principi produttivi del punk alle loro esigenze, dando vita alla cosiddetta “zine revolution”. Tra questi una delle prime fu Jenny Zervakis, chicagoana di origini greche che nel 1991 cominciò a autoprodursi la fanzine Strange Growths, “strana” come il titolo suggerisce per il modo in cui mette in pagina senza mediazioni racconti autobiografici, aneddoti raccolti sull’autobus, poesie scritte a macchina, ritratti degli abitanti del quartiere, dettagliate descrizioni di sogni, diari di viaggio, riflessioni, saggi in forma di fumetto, disegni di animali, piante, giardini. Il tutto rappresentato con uno stile che definire scarno è poco, dato che la bozza, l’approssimazione, la semplicità erano conseguenze dirette dell’urgenza espressiva, e la ricerca della perfezione formale o della bellezza semplicemente non interessava.
Dei primi 13 numeri di Strange Growths è uscita da poco una raccolta assemblata da John Porcellino e pubblicata dalla sua Spit and a Half, prima opera di un altro autore che esce per l’etichetta (e distribuzione) dell’autore di King-Cat Comics. La scelta non è casuale, perché la Zervakis è stata una fonte di ispirazione per Porcellino e per tutto il movimento dei comics as poetry. “I suoi fumetti sembravano come una trasmissione da un altro pianeta – scrive l’editore nella sua introduzione al volume – un mondo di ironica compostezza, suggestione poetica, raffinata capacità di osservazione, a volte caldi e altre freddi, oppure tutte e due le cose insieme. Forse non c’è bisogno di dirlo, ma per chi non conosce i fumetti che venivano pubblicati in quegli anni, non c’era niente di simile. Mentre la gran parte dei fumetti “alternativi” dell’epoca erano chiassosi e sarcastici, quelli di Jenny erano calorosi, emozionanti, sinceri e sorprendentemente complessi”. “Jenny Zervakis – aggiunge Rob Clough nell’intervista all’autrice che chiude la raccolta – è nata nel 1967 nel West Side di Chicago, e fa parte di una generazione di artisti che reagì alla prima ondata di cartoonist alternativi dell’inizio degli anni ’80, oltre che di una cultura legata al punk, alle fanzine e al do it yourself che è esplosa con la nascita del desktop publishing. Le sue attente riflessioni e la propensione a rappresentare l’immobilità sulla pagina furono tra i primi esempi di comics-as-poetry”.
Come accennato, nel volume troviamo tutto il ventaglio dell’offerta della Zervakis, che alla molteplicità degli argomenti e dei toni unisce varietà nella composizione della pagina e nella costruzione dei diversi pezzi. Le storie non sono mai banali né ripetitive, anzi esprimono voglia di sperimentare e curiosità nelle mille possibilità del medium. I testi ricchi di passaggi poetici e di consapevolezza letteraria fanno capire chiaramente che la Zervakis è più scrittrice che disegnatrice, ma sua è anche una notevole capacità di mettere in scena inquadrature e soluzioni stilistiche “sorprendentemente complesse”, come scriveva Porcellino nell’introduzione, oltreché di regalarci alcune tavole più dettagliate e intense delle altre, soprattutto quando la natura diventa la vera protagonista della rappresentazione. I risultati migliori sono raggiunti quando il particolare, apparentemente insignificante, diventa occasione di riflettere sull’universale, catturando la poesia e anche la complessità delle piccole cose con una scrittura lirica, pregnante, emozionante: Passing Time è il ritratto di una donna anziana intenta a lavorare a maglia (She sits knitting as if she is done living her life and instead pours herself out, stitch by stitch, into some future generation / She has grown her hair, plaited on her head, past any usefulness, past admiration of its beauty to the sheer oddity of persistence), in Silent Passenger una coppia torna a casa di notte mentre la donna (con tutta probabilità la Zervakis stessa) viene colta contemporaneamente da meraviglia e insicurezza (Coming home it was 2 AM beautiful / Someone’s singing / It’s only humans that make music for the sheer joy, the need of it, maybe so / I wish I could seduce you, all over again), Chuparrosa guarda al mondo animale per riflettere sulla vita umana (Sometimes I feel there is a world beyond our petty concerns / While I sit, consumed with my thoughts and worries, birds fly overhead through the rows of backyards). The Complete Strange Growths non è soltanto un pezzo di storia del fumetto autoprodotto statunitense ma anche una lettura appassionante, uno sguardo su un mondo intimo e personale capace di trascende la cronaca del quotidiano per emozionare ancora, a distanza di oltre vent’anni.
Misunderstanding Comics #9

Iniziamo questa nuova puntata dell’usuale ma aperiodica rubrica di segnalazioni varie con Steam Clean, un volumetto brossurato di 84 pagine a firma Laura Ķeniņš, cartoonist metà lettone e metà canadese di cui avevo già segnalato l’ottimo mini-kuš! #42 Alien Beings. Con questa nuova uscita, stavolta targata Retrofit Comics, la Ķeniņš conferma quanto di buono fatto vedere in precedenza, trasformando una situazione apparentemente ordinaria come una sauna tra donne in una meditazione sull’identità di genere, la sessualità, i rapporti interpersonali, il conflitto tra tradizione e modernità.
La rappresentazione tutta colori pastello dell’ambiente nordico e la regolarità quasi schematica delle vignette restituiscono un’atmosfera rilassata, in cui sembra di percepire con le nostre orecchie il silenzio di sottofondo. E neanche i dialoghi fitti rompono questa sensazione di pace, inalterata persino quando si esplicitano tensioni nascoste ed emerge un’aura di sovrannaturale mistero, con un’apparizione divina e spiriti dai contorni naif che aleggiano tra i fumi del vapore. La Ķeniņš propone ancora una volta un cartooning consapevole, rigoroso e maturo, capace come pochi di raccontare personaggi in una fase di transizione. E anche di farci sentire lassù, in quella sauna tra i boschi.
Se il volumetto della Ķeniņš sembra ricordare i film del norvegese Bent Hamer, il secondo numero dell’antologia-libro Mirror Mirror edita da 2d Cloud guarda a tutt’altro immaginario cinematografico, come la presenza di alcuni contributi a firma Clive Barker lascia intuire. Sotto la cura congiunta di Sean T. Collins e Julia Gfrorer, il volume mette in fila 230 pagine di fumetti e illustrazioni incentrate su un’idea di orrore legata al quotidiano, al corpo e infine alla pornografia. Eccellenti premesse dunque anche se l’antologia è appunto… un’antologia, con i suoi alti e i suoi bassi, e una buona metà dei lavori che risultano piuttosto ordinari, per niente disturbanti né trasgressivi come lascerebbe intendere il progetto, nel complesso troppo pretenzioso rispetto a quanto proposto. Nonostante ciò, di cose buone qui dentro ce ne sono eccome, per esempio il solito subdolo horror delle meschinità umane a firma Josh Simmons – particolarmente a suo agio con i campi lunghi, quasi a sottolineare anche graficamente l’abituale distanza emotiva – oppure Black Flame, un racconto in cui ritroviamo la Megg di Simon Hanselmann alle prese con il suo “lato oscuro” e che è l’occasione per vedere l’autore australiano confrontarsi al tempo stesso con testi altrui (Sean T. Collins) e con un bianco e nero massimalista fatto di pennellate ben più corpose del solito. Al Columbia (con i suoi Pim & Francie), Uno Moralez, Noel Freibert e Dame Darcy danno a loro volta un notevole contributo, pur attingendo ispirazione al loro rispettivo e usuale canone.
E veniamo a una nostra vecchia conoscenza, cioè Noah Van Sciver, che è tornato di recente al suo personaggio Fante Bukowski pubblicando per Fantagraphics il secondo capitolo delle sue avventure, séguito del debutto del 2015 tradotto in Italia da Coconino. Come lascia intendere lo pseudonimo che si è scelto, il protagonista è uno “scrittore” che vive nelle camere di hotel e usa ancora la matita o al massimo la macchina da scrivere, va con le prostitute e beve solo per darsi un tono. Fante non ha nessuna voglia di scrivere e soprattutto non ha talento: la sua missione è raggiungere lo status di artista, essere amato e invidiato dagli altri come lui invidia i “colleghi” che ce l’hanno fatta. Se la prima uscita originale ricalcava il formato romanzo tascabile, la seconda amplia i centimetri e sceglie una grafica retrò in odore di anni ’60, mutuata dall’edizione Black Sparrow Press di Factotum.
Ma soprattutto se nella prima parte si sorrideva, in questa si ride di gusto, e a me è sembrato di non divertirmi così tanto dai tempi dell’Hate di Peter Bagge, pietra miliare dei comics anni ’90 uscita sempre per Fantagraphics. Vi anticipo solo qualche gag iniziale per non rovinarvi troppo la lettura, come quella in cui Fante rompe una matita in due perché è “troppo gialla” e non riesce a concentrarsi sulla scrittura. E il capitolo in cui decide di pubblicarsi una fanzine di poesia (“Sì, sarò l’editor! Sarò il boss! Accetterò tutte le mie proposte!”) è esilarante. Il trasferimento del protagonista da Denver a Columbus sembra anche autobiografico, ma poi a un certo punto ecco spuntare l’autore in carne e ossa, vittima di una divertentissima auto-parodia, nonché rivale in amore di Fante. Sullo sfondo, e neanche troppo, si muovono riflessioni sulla scrittura, il successo, l’ambizione e la vanità che non lasciano affatto il tempo che trovano, rendendo questo Fante Bukowski Two una delle migliori prove a firma Van Sciver.
Quando viveva a Denver, Van Sciver lavorava da Kilgore Books, negozio di libri e fumetti che è anche una small press dedita alla stampa di mini-comics e non solo. Prodotto di punta è il Kilgore Quarterly, antologia tutt’altro che quadrimestrale uscita di recente con un settimo numero molto più ricco del solito, nascosto dietro a una bella copertina di Jason (rilettura di Le Mal du Pays di Magritte) e come sempre a cura del padrone di casa Dan Stafford.
Il volumetto, che propone in parte storie già pubblicate altrove o di prossima pubblicazione, si apre con Dappled Light di Summer Pierre, una storia di 5 pagine leggera e al tempo stesso malinconica, ritratto autobiografico di una bambina che grazie al fumetto può finalmente rifugiarsi, in senso letterale, nel mondo dei vecchi telefilm. Si prosegue con la solita intervista scritta a mano (vezzo di Stafford da sempre, come testimonia la raccolta I Hope This Finds You Well con interviste a Crumb, Tomine, Bagge ma anche a Ian MacKaye, Doug Martsch, Dan Fante e altri) al cover artist Jason e si raggiunge l’apice con Steve McQueen Has Vanished, storia “vera” della sparizione dell’attore raccontata con il solito dettagliatissimo stile da Tim Lane, anticipazione del prossimo lavoro dell’autore di Happy Hour in America e The Lonesome Go. Dopo una inaspettata quanto sintetica chiacchierata con Grace Slick, si passa a un più canonico ma validissimo pezzo underground di Joseph Remnant, tra sfighe quotidiane e ricerca dell’amor perduto, dunque ecco Sam Spina con quattro divertentissime pagine metanarrative che vedono il suo alter-ego pesce alle prese con app e sesso occasionale, e infine la riproposizione di un fumetto di Leslie Stein, The Desk, già uscito in formato mini per Oily Comics e forse il contributo meno significativo del lotto. La terza di copertina è dedicata a qualche nota autobiografica nel solco della più piacevole tradizione del self-publishing a stelle e strisce, a ricordarci che di antologie così curate e con un feeling do it yourself ne vorremmo ancora e ancora.