“La mia cosa preferita sono i mostri” vol. 1

di Emil Ferris, Bao Publishing, aprile 2018, brossurato, 416 pagine a colori, 20.5 x 25.7 cm, euro 29

Karen Reyes è una bambina di 10 anni che vive con la madre e il fratello più grande nella Chicago dei tardi anni ’60. Appassionata di film fantasy e horror, è affascinata dall’immaginario dei b-movie e delle riviste a tal punto da rappresentarsi nel suo diario illustrato come un lupo mannaro. Un giorno la bella vicina di casa Anka Silverberg viene trovata morta nell’appartamento al piano di sopra. La polizia parla di suicidio ma Karen non è per niente convinta. Inizia così un’indagine che la porterà ad esplorare il passato della donna, fino a scoprirne le sofferenze patite nella Germania pre-nazista, tra povertà, prostituzione minorile e deportazione in un campo di concentramento. Nel frattempo la mamma di Karen si ammala, il fratello va dietro a ogni donna che incontra, la stessa ragazzina comincia a comprendere la propria sessualità. E, nel finale di questo primo volume, viene ucciso Martin Luther King.

E’ questa a sommi capi la trama di La mia cosa preferita sono i mostri, il finto diario di Karen Reyes raccontato da Emil Ferris, autrice classe 1962 che ha debuttato con la prima opera lunga proprio con questo fumetto. Pubblicato dalla Fantagraphics Books di Seattle alla fine del 2016, il libro è rimasto bloccato per diverse settimane a causa di problemi legati alla spedizione delle copie dalla Corea, dove si trovava la tipografia. Uscito di fatto nel 2017, è stato il fumetto più citato nelle classifiche di fine anno scorso negli USA, oltreché un caso editoriale che ha portato Fantagraphics a ristampare più volte la prima tiratura. Ma di My Favorite Thing Is Monsters si è parlato anche per la tormentata storia della sua autrice, capace di realizzare una titanica opera di 400 pagine (in attesa del seguito, per giunta) dopo essere rimasta paralizzata a 40 anni in seguito a un pizzico di zanzara con cui ha contratto il virus del West Nile. Ma non vi tedierò ulteriormente con questa storia, che alcuni di voi già conosceranno (gli altri la possono leggere in questo fumetto realizzato dalla stessa Ferris).

Ho pensato più e più volte a come considerare La mia cosa preferita sono i mostri, sin dalla sua uscita negli USA. Ci ho pensato anche quando ho stilato il mio Best Of del 2017, in cui alla fine non ho inserito il libro di Emil Ferris perché la prima lettura mi aveva lasciato interdetto. Così quando, all’inizio di aprile, Bao Publishing lo ha pubblicato in Italia in un’edizione identica all’originale, mi è sembrata l’occasione giusta per rileggerlo e rivedere eventualmente il mio giudizio. E invece sono rimasto nuovamente interdetto, perché ai suoi innegabili pregi l’opera unisce più di qualche difetto.

In parte forse è un mio problema. Problema con quei fumetti che pur servendosi delle soluzione tipiche del medium – come le nuvolette, i dialoghi, le vignette – tendono a utilizzare le immagini più per accompagnare il testo che per raccontare. Da anni imperversa ormai il termine graphic novel, che i più utilizzano per dare maggiore dignità al fumetto, spesso per prodotti che di “novel” hanno ben poco. Qui per una volta si potrebbe utilizzare il termine a proposito perché siamo di fronte a un vero romanzo grafico, un’opera al cui centro c’è un fiume di parole e in cui le immagini sono al servizio di queste. Un romanzo di formazione che sembra rimandare più alla narrativa americana contemporanea che ad altri fumetti, anche se un riferimento diretto potrebbe essere Fun Home di Alison Bechdel, non a caso chiamata a dire la sua in quarta di copertina.

Ma anche provando a mettere da parte questa mia idiosincrasia per la narrativa a fumetti nel senso più stretto del termine – ed è una cosa del tutto personale, perché il fumetto può ovviamente essere anche questo – La mia cosa preferita sono i mostri non funziona sotto diversi punti di vista. E’ soprattutto il lungo flashback nella Germania pre e poi nazista a lasciare perplessi, tanto è pieno di luoghi comuni e di personaggi artificiosi. Il parallelismo tra la protagonista e la giovane Anka, suggerito dall’autrice, non regge. Tanto è ben delineata e interessante la prima, tanto risulta macchiettistica la seconda. E, pur volendo sospendere l’incredulità sull’io narrante nelle diverse fasi della storia, sembra difficile accettare che il punto di vista di Karen risulti in molte parti più maturo di quello di Anka, che racconta su nastro le traumatiche esperienze d’infanzia con il punto di vista di un’adulta, poco prima della sua morte. E’ forse lì che il racconto cede il passo, si appesantisce, smette di appassionare, come se l’autrice si trovasse a suo agio con il suo mondo – la Chicago dei tardi anni ’60 in cui è cresciuta – ma non con qualcosa a lei estraneo come la storyline sul passato di Anka, intrisa di atmosfere alla Dickens ma al tempo stesso di manierismo. Anche il disegno, che nella parte moderna unisce immaginario da b-movie, richiami a maestri dell’illustrazione come Sendak e splendido realismo nella rappresentazione dei volti umani, si concede momenti sin troppo ordinari nelle pagine ambientate in Germania, a volte naif nel senso peggiore del termine. E in realtà è tutto il libro che alterna a livello grafico momenti alti e bassi, tra tavole stupefacenti ed altre funzionali al racconto ma sin troppo abbozzate per risultare finite. Tra l’altro le più riuscite si trovano per lo più nella prima parte, come se a un certo punto per portare a termine la titanica impresa la Ferris sia stata costretta ad accelerare il passo e semplificare il disegno.

Detta così, La mia cosa preferita sono i mostri sembrerebbe uno di quei libri belli soltanto da sfogliare. Di sicuro la mole, l’iconografia e l’indiscutibile fascino di alcune tavole hanno influenzato la maggior parte di critici e lettori, che hanno gridato al capolavoro ancor prima di leggerlo. Eppure non è tutto qua, perché di cose positive il libro ne ha eccome. C’è innanzitutto il mondo visto dagli occhi di una bambina che in alcuni passaggi restituisce atmosfere di romanzi come Il Giovane Holden o Molto forte, incredibilmente vicino, con la riflessione finale su chi sono i veri mostri che solo una bambina può fare con tanta lucidità. C’è la riuscitissima sequenza onirica iniziale, con la protagonista che sogna di essere un lupo mannaro e una folla inferocita che la bracca per ucciderla. Ci sono i turbamenti sessuali di Karen, il suo difficile rapporto con il proprio corpo e le difficoltà relazionali che ogni ragazzo ha avuto in un momento o nell’altro della crescita. C’è l’atmosfera della Chicago anni ’60, le sue strade, i quartieri e la metropolitana, così vividamente realistici. C’è la riproduzione delle copertine di fumetti e riviste di genere, materiale con cui la Ferris è tremendamente a suo agio. Com’è a suo agio quando fa percorrere a Karen i corridoi dell’Art Institute, non limitandosi a ricreare brillantemente con penne e matite colorate alcuni classici della pittura, da Seurat a Delacroix, ma entrandoci dentro in modo da restituirne la magia al lettore. Tutte cose che valgono senz’altro il prezzo del biglietto ma che al tempo stesso lasciano anche un po’ di amaro in bocca. Come il sapore di un’occasione sprecata.

JICBC pt. 2: “Book of Daze” di E.A. Bethea

Seconda spedizione dell’anno per il Just Indie Comics Buyers Club, l’abbonamento che dà modo di ricevere con cadenza trimestrale fumetti per lo più americani ma a volte anche europei di difficile reperibilità in Italia. Dopo il primo numero dell’antologia Now della Fantagraphics, inviato a gennaio, ad aprile toccherà a Book of Daze di E.A. Bethea, antologia monografica pubblicata alla fine dello scorso anno dalla Domino Books di Brooklyn. I più affezionati lettori di Just Indie Comics dovrebbero già conoscere il lavoro della Bethea, a cui ho dedicato ai tempi del blog, e precisamente nel luglio 2014, un articolo nella gloriosa (ben due puntate) rubrica Comics People. Allora si dava conto soprattutto del materiale apparso nella corposa raccolta Bethea’s Illustrated uscita nel 2009 per la Sad Kimono Books e nel primo numero della rivista a fumetti formato tabloid Tusen Hjärtan Stark, targata ancora Domino. Da allora la Bethea ha contribuito al secondo numero di Tusen e a svariate antologie, non solo a fumetti. Mancava però da tanto una pubblicazione interamente a suo nome e adesso è finalmente arrivata grazie alla volontà di Austin English, mente e braccio dietro Domino ed estimatore del lavoro dell’artista di Brooklyn (ma originaria di New Orleans).

Non credo ci siano tanti altri casi come questo in cui possiamo definire “unica” l’opera di una fumettista. Anzi, in questo caso non è nemmeno giusto definire E.A. Bethea semplice “fumettista”, dato che la sua scrittura al tempo stesso secca e musicale è più vicina alla letteratura e alla poesia, mentre la sua linea affilata e via via sempre meno grezza guarda al cinema e alla fotografia, con continui close-up su piccoli pezzi di mondo apparentemente insignificanti ma riempiti di volta in volta di malinconia, rabbia, meraviglia, ironia. Eppure testo e immagine dialogano, si arricchiscono l’un l’altro come accade proprio nei migliori fumetti.

In Book of Daze, che oltre a nuove opere per lo più datate 2017 raccoglie qualche pagina già vista in precedenza, non troverete storie nel senso più classico del termine, ma riflessioni, ricordi, biografie, polaroid, descrizioni, poesia beat, riferimenti letterari e cinematografici, il tutto fuso con pari dignità e spesso anche nella stessa pagina in uno stile e un registro unico, quello di E.A. Bethea. Un registro che sembra provenire dal passato, come una cartolina da un’altra America fatta di strade polverose, bar malandati, vecchie sale cinematografiche, libri tascabili, pacchetti di sigarette accartocciati e poca pochissima tecnologia. Non si tratta di materiale semplicissimo da proporre né da affrontare, non ha l’appeal scintillante di tanto fumetto a cui siamo abituati oggi, ma vi assicuro che sa affascinare. Buona lettura.

Misunderstanding Comics #10

Nuova puntata di Misunderstanding Comics, rubrica che si occupa di letture varie senza necessariamente parlarne con dovizia di particolari. Dato che siamo stanchi di novità, colgo l’occasione per recuperare qualche fumetto non proprio recentissimo.

I Never Promised You a Rose Garden è una serie a firma Annie Murphy di cui al momento sono stati pubblicati due soli numeri. La Murphy, classe 1978, è attivista queer, diplomata del Center for Cartoon Studies, autrice di una biografia di Achsa Sprague, curatrice dell’antologia Gay Genius e molto altro ancora. A vederli on line gli altri suoi fumetti sembrano più ordinari rispetto a questo, una cronaca politica e culturale incentrata sulla sua città, Portland. E anzi, I Never Promised non è nemmeno un fumetto nel senso più tradizionale del termine, dato che si tratta in realtà di un saggio illustrato, un quaderno in cui immagini sporche di inchiostro e dalle linee tremolanti si uniscono a lunghi testi trascritti a mano nella più idiosincratica tradizione del do-it-yourself.

Il primo numero, intitolato My Own Private Portland, si apre con la morte di River Phoenix e si sofferma inizialmente sulla carriera dell’attore, per arrivare ben presto alla genesi e all’analisi di My Own Private Idaho, ricca di interessanti retroscena. La Murphy descrive con abilità il clima culturale di quegli anni, la fine degli ’80, le storie di ragazzi di strada, prostituti, tossicomani che in alcuni casi avevano frequentato lo stesso liceo dell’autrice e da cui Van Sant rimase affascinato al punto da mescolarsi a loro nel quotidiano. L’eroina ha una parte importante in queste pagine, ed è solo uno dei tanti aspetti che ci fanno capire, come suggerisce il titolo, che almeno all’epoca la cosiddetta “City of the Roses” non era quella terra promessa che noi europei siamo soliti immaginare. Il primo numero si conclude con un parallelismo tra Phoenix e Kurt Cobain, ripreso senza soluzione di continuità nel secondo, in cui viene approfondita la biografia personale dell’attore e in particolare la sua educazione nella setta Children of God, dove gli abusi sessuali sui minori erano all’ordine del giorno. Murphy non risparmia nessuno, sviscera temi, fa domande, mettendo in dubbio anche l’operato di Van Sant, tacciato di “hispter racism”. Da lì si passa alla parte più politica del racconto, una rappresentazione critica del Pacific Northwest che si sofferma stavolta sui rigurgiti razzisti di una zona per tradizione tutt’altro che multietnica, come testimonia l’assassinio di Mulugeta Serraw, membro della comunità etiope di Portland ucciso nel 1988 da tre skinhead. Tra questi Kenneth “Ken Death” Mieske, personaggio noto nell’underground di strada della città dell’Oregon e fonte di ispirazione per Drugstore Cowboy. L’eco di quel fatto portò anche al processo contro Tom Metzger, militante razzista fondatore della White Aryan Resistance, documentato nell’ultima parte dello spillato.

Avrete capito a questo punto la densità dei fatti raccontati dall’autrice con scrittura piena, consapevole, dettagliata, appassionante ma mai eccessiva. La messa in scena trasuda spontaneità e ben si adatta a disegni che descrivono e a volte commentano con tono sardonico, come cartoline di un artista di strada disegnate sul momento, senza ripensamenti o rifiniture di troppo. Purtroppo non si hanno notizie se mai si vedrà un terzo numero, dato che l’ultimo risale al 2016 e che il blog dell’autrice è fermo allo stesso anno. Magari se mi decido a mandarle una mail scoprirò se questo piccolo gioiello nascosto avrà prima o poi un seguito.

Cambiamo totalmente mondo e passiamo a un autore che ha fatto del disegno – e che disegno – la sua peculiarità, dando forma a fumetti che difficilmente possono essere tradotti in soggetto, trama o semplicemente parole. Sto parlando di Walker Tate, cartoonist di Los Angeles abile nello scomporre pagine e vignette, a tracciare inusuali prospettive, ad accanirsi sui corpi con piglio cubista seppur con una linea pulita e tondeggiante. C’è qualcosa nelle sue creazioni, finora tutti comic-book autoprodotti autoconclusivi e di poche pagine, che ricorda Ruppert & Mulot, anche se non saprei dire se si tratta di un’influenza o di affinità elettiva. Del 2015 sono Waiting Room, rappresentazione di una sala d’attesa e degli oggetti che la abitano, ed Extract, storia paradossale di un uomo che decide di dividere il suo appartamento in tante porzioni diverse in modo da poterle affittare. Channel, del 2016, seguiva invece le evoluzioni di una pallina da golf. In tutti e tre i casi la trama – se così vogliamo chiamarla – era una scusa per dar vita a virtuosismi stilistici di ogni tipo, come le prospettive in movimento di Waiting Room e le scomposizioni di Extract, che interessavano prima l’appartamento (e di conseguenza la pagina) e poi il corpo del protagonista.

Ma è il più recente Procedural, uscito lo scorso anno, a cambiare le carte in tavola. I dialoghi stavolta hanno una parte importante nello sviluppo del racconto, le vignette sono regolari, il paradosso che prima ero per lo più visivo viene sviluppato in chiave narrativa. Un idraulico viene chiamato a fermare una perdita d’acqua proveniente dal soffitto, che ha costretto il proprietario di casa a portare il suo divano in un deposito. Lasciato a lavorare da solo, l’idraulico si accanisce contro la perdita senza successo, mentre il suo cliente non riesce più a trovare il divano, spostato di luogo in luogo per motivi sempre più assurdi. Nel frattempo un corriere deve consegnare delle confezioni di trota sott’olio… Lo so che detto così sembra puro nonsense, o un film di Alain Resnais, ma vi assicuro che Procedural funziona e lascia la curiosità di vedere che cosa si inventerà Tate la prossima volta.

Altra autrice che prosegue indefessa la sua ricerca stilistica è Lale Westvind, di cui avevo parlato brevemente qui in occasione del suo Hax uscito per Breakdown Press. I suoi fumetti meriterebbero ben altra attenzione di quella che gli sto dedicando io su Just Indie Comics e prima o poi sono convinto che riuscirò a parlarne meglio, magari insieme a lei. Qui mi limito a segnalare l’uscita del quarto numero di Hot Dog Beach, che trovo particolarmente interessante per una serie di motivi. Se infatti negli albi autoconclusivi e nelle storie per le antologie la Westvind adotta uno stile letterario denso e complesso, in cui il testo è spesso avvicinato all’immagine come descrizione, delirio, puro lirismo, in questa serie aperiodica autoprodotta troviamo invece uno stile più cartoon e dei dialoghi che spesso scelgono le vie della commedia.

Sia chiaro che le tematiche ricorrenti della Westvind – velocità, dinamismo, interazioni tra uomo e macchina, visioni lisergiche – rimangono costanti ma questa volta più che dalle parti di un futurismo cyberpunk siamo in un mondo alla Mad Max, con personaggi che si rincorrono senza ben sapere il perché verso la spiaggia del titolo. Ma la cosa che a me più interessa in questi quattro numeri qui è il modo in cui sono realizzati, ossia con un approccio spontaneo che non ha alle spalle una precisa pianificazione, una trama liquida che si può prendere da qualsiasi punto senza aver necessariamente letto il resto, i disegni che cambiano di volta in volta stile (e non potrebbe essere altrimenti, dato che il primo numero è datato 2010 e l’ultimo è dell’anno scorso). Anche la storia si evolve, inizia in un modo e prosegue in un altro, accelera, rallenta, riparte, prende deviazioni, tanto che probabilmente potrebbe durare all’infinito, soprattutto se l’autrice continuerà a costellarla di momenti visionari come le due spettacolari sequenze onirico-psichedeliche di questa quarta uscita. Hot Dog Beach ci riporta ai tempi in cui i fumetti non erano una cosa così seria e si poteva anche decidere di pubblicare qualcosa a puntate senza preoccuparsi della futura raccolta in volume. Ed è per questo una vera boccata di ossigeno.

Concludiamo con un’altra donna, se così si può dire, dato che Laura Pallmall è in realtà lo pseudonimo di Jason Lee, cartoonist (e non solo) trasferitosi di recente da Los Angeles – che rimane comunque lo scenario di riferimento dei suoi fumetti – a Pittsburgh. Lee pubblica da qualche tempo la serie di fanzine Nothing Left to Learn, caratterizzate dall’approccio do-it-yourself e dalla libertà con cui vengono messi insieme saggi, fiction, illustrazioni, poesie e ovviamente fumetti, come testimonia l’omonimo Tumblr. Nell’ambito del progetto ha trovato spazio anche una sotto-serie chiamata Sporgo e attribuita a tale Laura Pallmall, di cui sono usciti due numeri “rilegati” con l’elastico e caratterizzati da un tratto crudo, a volte sin troppo elementare nella sua semplicità, e da una divisione della tavola regolare.

Sporgo #1 si apre con Picaresque, realizzato per la Comics Workbook Composition Competition del 2015 e scelto tra i migliori fumetti dell’anno nell’ultima edizione di The Best American Comics, 16 pagine che rappresentano al momento il vertice dell’ancora limitata produzione dell’autore/autrice. L’apertura è un sogno dai contorni horror, che ci cala subito in un’atmosfera plumbea, oppressiva, angosciante. A pagina 2 un uomo viene svegliato dal suono del campanello, è un suo amico che è andato a trovarlo. Dal dialogo tra i due capiamo che il protagonista riempie le sue giornate di nulla, impegnato più che altro a comprare il cibo e a preparare i pasti per i vicini, che hanno deciso di passare la luna di miele chiusi in casa per smettere di fumare. Fuori le strade sono deserte, c’è solo un opossum sdraiato sul marciapiede che si dà per morto, oppure che è morto davvero. Doveva piovere quel giorno ma il sole continua a splendere. Forse prima o poi succederà qualcosa ma intanto si sta buttati sul divano o in strada, mentre si avvicina la notte. Non vi racconto tutto tutto anche perché c’è poco da raccontare ma il nulla di cui è fatta questa piccola riuscitissima storia risuona nella mente del lettore e lo avvolge in una spirale di inchiostro sempre più nera fino al suo notturno finale. E un’ombra nera, stavolta in senso non metaforico, è protagonista di From Eden to Hill, secondo racconto dell’albo, una ghost story meno efficace della precedente e che per trasmettere inquietudine sceglie strade non così originali. Eppure l’assonanza di temi e situazioni dà unità al tutto creando un corpus unico. Sporgo #2, pubblicato nel 2017 a due anni di distanza dal precedente, non si allontana molto da queste coordinate e segna l’inizio di una storia lunga intitolata Pyramid Inch, incentrata su un giovane filmmaker impegnato a scrivere sceneggiature puntualmente lasciate a metà. Anche qui mare, palme e grattacieli costituiscono lo sfondo di una vicenda che dal reale scivola nell’onirico, con sequenze simili a quelle già viste in From Eden to Hill. In più qui troviamo riflessioni sull’industria culturale che nei dialoghi finali dell’albo assumono quasi i contorni del saggio. Pur con qualche approssimazione nel disegno, Pyramid Inch si fa leggere con curiosità e lascia un senso di inquietudine e paranoia che è vera cifra stilistica.

Just Indie Comics Day a Roma

Dopo il festival dello scorso giugno, continua la collaborazione tra Just Indie Comics e lo studio Co-Co con una giornata dedicata al fumetto underground. Il nuovo evento, che si terrà sabato 24 febbraio a Roma dalle 16 alle 21 in via Ruggero d’Altavilla 10 (zona Pigneto), si chiama Just Indie Comics Day ed è organizzato insieme al Crack! festival, con Valerio Bindi che alle 19 presenterà Daniel Benitez, fumettista messicano classe 1990 oltreché editore di WorstSeller Ediciones. L’incontro si incentrerà in particolare sull’ultima fatica di Daniel, l’albetto Puto el ce lo lea, pubblicato in spagnolo con traduzione inglese allegata e firmato con lo pseudonimo di Dr. Intransferible. Inoltre saranno disponibili per la prima volta una serie di novità della distribuzione di Just Indie Comics, da Twilight of the Bat di Josh Simmons e Patrick Keck ai fumetti di Lale Westvind, dagli albi autoprodotti di Laura Pallmall alle ultime novità targate kuš!.

Anche se vede come protagonista il fratello dell’autore, Puto el ce lo lea racconta in realtà una storia corale, che guarda non solo alla famiglia di Daniel ma all’intero sobborgo di Città del Messico dove è ambientata. Non c’è una trama nel senso più tradizionale del termine ma piuttosto una serie di personaggi che passano da una situazione all’altra, tra scherzi, risse, feste in giardino, concerti punk. Temi come la violenza di strada e la famiglia disfunzionale sono rappresentati con un tratto leggero e cartoon, i colori sono irreali nei toni del blu e del fucsia, l’approccio ironico tiene lontano ogni dramma. Anche l’inserto El Chorri, spillato all’interno dell’albo, rafforza la dimensione corale del fumetto con la descrizione del personaggio omonimo, in sostanza un tossico del posto fissato con la forma fisica e, come ci informa l’autore nelle note, appassionato di colla (da sniffare).

Oltre che dei fumetti di Daniel si parlerà anche delle altre produzioni WorstSeller, una piattaforma creata da Daniel insieme a Anahi Hernández Galaviz e dedita non solo alla pubblicazione di fanzine e fumetti, ma anche all’organizzazione di workshop, festival e altri eventi legati al mondo del fumetto e dell’arte. L’uscita finora più importante è stata Zine Censura: Fanzine Makers from Mexico, un catalogo del primo festival di WorstSeller del 2015, in cui vengono presentate le opere di oltre 50 artisti della scena alternativa messicana sul tema della censura. Il libro è stato anche protagonista di una mostra alla DobraVaga, una galleria d’arte di Lubiana, in Slovenia.

Anche le altre produzioni WorstSeller saranno ovviamente disponibili per l’acquisto, oltre ai libri editi da Crack! e Fortepressa, come La Caïda e Coyota di Juliette Bensimon Marchina, e le pubblicazioni di Studio Co-Co con Dio di me stesso di Alessandro Galatola (edito insieme a Just Indie Comics in occasione del festival dell’anno scorso) e fumetti e stampe di Serena Schinaia.

Ma vediamo adesso nel dettaglio i titoli della distribuzione che saranno disponibili in anteprima per l’evento, con il bookshop che sarà aperto dalle 16 fino alle 21. Iniziamo da un bel carico di novità dalla Lettonia, con le ultimissime uscite di kuš!, ossia il #31 dell’antologia š! intitolato Visitors e i nuovi mini a firma Abraham Diaz (altro fumettista messicano, di cui avevo già parlato qui in occasione del suo Suicida), Pedro Franz, Francisco Sousa Lobo e Roman Muradov. E con l’occasione potrete anche trovare le altre recenti pubblicazioni di kuš!, ossia il #30 di š! tutto dedicato ai fumettisti di Brooklyn, i volumi Fearless Colors di Samplerman e Fenix di Zane Zlemeša, gli altri quattro mini di Paula Bulling/Nina Hoffmann, Noah Van Sciver, Tomasz Niewiadomski, Aidan Koch.

Dagli USA e precisamente da Seattle arrivano invece le produzioni Cold Cube Press, a partire dall’antologia di fumetto, illustrazione e poesia Cold Cube 003, tutta stampata in risograph e ricca di contenuti di grande impatto visivo. Sempre da Cold Cube è edito Twilight of the Bat, ossia il bel bootleg di Batman scritto da Josh Simmons e disegnato da Patrick Keck di cui ho già parlato in questa recensione.

Dall’ovest degli States passiamo a est con due autori che mi piacciono molto e che da tempo volevo portare in Italia, almeno con i loro fumetti. Di Lale Westvind avevo già distribuito (e recensito in questa puntata di Misunderstanding Comics) il suo Hax pubblicato da Breakdown Press. Adesso sono finalmente disponibili alcuni dei suoi fumetti autoprodotti, ossia l’albo in edizione limitata di 300 copie Mary e i numeri dal 2 al 4 di Hot Dog Beach. Se non conoscete ancora lo stile unico, denso, visionario, cyberpunk e ballardiano della Westvind magari è l’occasione giusta per farlo, dato che i suoi fumetti si distinguono con facilità da quasi tutto ciò che siamo abituati a vedere oggi.

E chiudiamo dunque con Laura Pallmall, cartoonist statunitense al momento poco conosciuta ma da tenere d’occhio. La fanzine Sporgo, di cui saranno disponibili i due numeri usciti finora, mette insieme rigorosità e sporcizia, come più o meno scrivevo parlando della sua storia breve Picaresque, selezionata per l’antologia The Best American Comics 2017. Proprio Picaresque è il piatto forte di Sporgo #1, mentre il secondo numero segna l’inizio della storia lunga Pyramid Inch, ambientata a Los Angeles e con protagonista un giovane filmmaker.

E con questo è tutto, non vi resta che venirci a trovare al Just Indie Comics Day e magari ingannare l’attesa dando un’occhiata alla pagina Facebook dell’evento, dove trovate altre immagini e notizie.

“Twilight of the Bat” di Simmons & Keck

La rilettura del fumetto di supereroi in chiave underground e spesso satirica è un filone che ha sempre trovato spazio nella scena alternativa statunitense, cosa piuttosto scontata vista la rilevanza culturale, simbolica ed economica delle produzioni Marvel e Dc Comics oltreoceano. Al tempo stesso, soprattutto dalla metà degli anni ’80, si è sviluppata la tendenza a rielaborare con un approccio problematico e spesso sin troppo drammatico la figura del supereroe, a partire da due pietre miliari che ovviamente non vi devo ricordare io ma che cito giusto per chi è capitato su questo sito mentre cercava informazioni sui comici indiani, ossia The Dark Knight Returns di Frank Miller e il Watchmen di Alan Moore e Dave Gibbons. Proprio all’incrocio di queste due tendenze, una satirica l’altra iperrealistica, si pone Twilight of the Bat, un albetto di 20 pagine realizzato dal Josh Simmons di Black River, che qui pensa alla storia, e da Patrick Keck, autore invece dei disegni, e pubblicato alla fine dello scorso anno dalla casa editrice e tipografia di Seattle Cold Cube Press. E che ho ingiustamente omesso dalla mia classifica di fine anno, ma solo perché mi è arrivato troppo tardi, quando il 2017 era già bello che finito.

Per essere più specifici Twilight of the Bat si posiziona esattamente all’incrocio tra esperimenti come Coober Skeber #2, albo del 1997 targato Highwater Books in cui autori come Mat Brinkman, Brian Chippendale e Ron Regè Jr. rileggevano in un bianco e nero lontanissimo dai colori sparati dei comic-book i supereroi (Marvel in quel caso), e l’approccio problematico alla figura dell’uomo pipistrello che è stato ben sviscerato nel già citato Dark Knight di Miller, in The Killing Joke di Moore e Bolland e nell’Arkham Asylum di Grant Morrison e Dave McKean. Proprio questo sincretismo è la forza dell’albo, in sostanza un Elseworld non autorizzato capace in 20 pagine di suggestionare il lettore come capita davvero raramente, soprattutto se si tratta di un lettore come me, cresciuto con i fumetti di supereroi classici per poi passare a quelli più maturi e quindi spostarsi progressivamente verso territori completamente diversi. In un albo come Twilight of the Bat c’è tutto quello che mi è sempre piaciuto di più e soprattutto ciò che mi piace trovare oggi nei fumetti di genere, ossia un approccio alla materia consapevole, maturo, che pone delle domande ma che è anche divertente, satirico, dissacratorio e mai troppo serioso o drammatico.

Ma veniamo all’albo vero e proprio, partendo innanzitutto dal titolo, che sembra rimandare vagamente a Twilight of the Superheroes, la sceneggiatura di Alan Moore mai realizzata, e più direttamente allo stesso Mark of the Bat, un altro bootleg di Simmons (lì sia ai testi che ai disegni) sulla figura dell’uomo pipistrello. L’ambientazione è post-apocalittica, quasi un’autocitazione dell’autore al suo Black River, con un Batman ancor più vecchio di quello di The Dark Knight, ridotto a un barbone che passa le notti al freddo senza sapere cosa fare della sua vita. Suo solo compagno è il nemico per eccellenza, qui ribattezzato Joke Man, forse l’unica altra persona rimasta viva sulla terra. Batman gli dice di aver girato per mesi dopo le non meglio definite esplosioni che hanno ridotto G—— City e dintorni (o il mondo intero?) a brandelli e di non aver incontrato nessuno, e a un certo punto realizza “Everyone’s dead… Everyone except you and me”, con il Joker che gli mette una mano sulla guancia e lo bacia chiosando “We’re the luckiest boys in the world”. Ma il vecchio Bruce non si arrende e cerca disperatamente altri segni di vita, soprattutto quando una mattina trova vicino al suo giaciglio dei cupcake lasciati da non si sa bene chi, evento che accoglie con un entusiasmo persino eccessivo. Da lì in poi si sviluppano una serie di situazioni paradossali tra i due protagonisti, che includono sarcasmo, balletti, botte, amputazioni e merda. Ovviamente non vi anticipo il finale, perché vale la pena leggerlo, come vale la pena godersi i disegni di Keck, in un bianco e nero denso e a tratti suggestivo nella rappresentazione della Gotham apocalittica, mentre la padronanza delle espressioni facciali aggiunge verve satirica e assicura grosse risate. E tuttavia alla fine rimane una sensazione di amarezza, forse perché, pur nell’irrealtà dei personaggi, dei luoghi e delle situazioni, non è poi così difficile identificarsi con la disperazione esistenziale di quel Batman lì.

“M” e “N” di Andrew White

Andrew White è un cartoonist statunitense che da qualche anno continua a pubblicare con costanza e dedizione i suoi fumetti in autonomia o per piccole case editrici. Allievo della scuola di Frank Santoro nonché uno delle firme “critiche” dietro il magazine Comics Workbook, il giovane fumettista classe ’90 lavora spesso dietro costrizioni formali mai fini a se stesse ma utili per fare emergere i temi preferiti, creando una poetica intimista e riflessiva che guarda alla teoria della “griglia” fissa di Santoro e ai comics-as-poetry. Tra i suoi progetti ricordiamo per esempio While a Soft Fog Wanders, fumetto totalmente muto che lavora per associazioni di idee tra immagini di indiscutibile suggestione, il duetto letterario For Lives e Read and Erase incentrato sulla vita di Gertrude Stein, il recente All There Is ossia una fanzine che con testi, diagrammi e disegni esamina il Ganges di Kevin Huizenga. Diverse cose le trovate anche online sul suo sito internet, sul suo Tumblr e sulla piattaforma zco.mx, dove si può leggere per esempio il recente Reflections, ulteriore conferma di quanto White si interroghi come pochi altri su cosa significa fare fumetti.

Tra il 2016 e il 2017 White si è autoprodotto il dittico M e N, che ho trovato interessante tanto da decidere di portarlo in Italia distribuendolo attraverso il webshop di Just Indie Comics. Iniziamo dal primo albo del 2016, uno spillato di 44 pagine che contiene tre racconti brevi. Il primo è Clogged Drains, Forgotten Words, una storia della breve relazione tra due uomini, M appunto e Leo, i cui punti di vista vengono proposti a pagine alterne, seguendo una griglia di 12 vignette che lascia spazio ad alcune aperture rompendosi completamente nel finale. L’autore è qui bravissimo nel giustapporre le due prospettive, lasciando libero il lettore di identificarsi con la freddezza di M o con i sentimenti di Leo, prendendosi poi la responsabilità di non lasciare il finale aperto ma scegliendo nelle due tavole conclusive il punto di vista del personaggio più debole. Tutto funziona in questo breve ma intenso fumetto, a partire dai colori tenui pastello, che contribuiscono a rendere indefiniti i contorni di una vicenda ormai lontana nel tempo, fino al testo che spesso riempie intere vignette e che è denso delle suggestioni poetiche tipiche dei fumetti di White, dotato di una prosa secca e senza fronzoli capace di trasmettere emozioni.

La successiva Timeline cambia registro raccontando la vita di un uomo “che galleggia attraverso gli anni, evitando le emozioni per alleggerire il suo peso” in sole 15 tavole caratterizzate da un approccio stilistico del tutto diverso, la pagina utilizzata per disporvi liberamente finestre colorate e linee bianche, una scelta formale ancora mirata ma stavolta lontana da regole troppo stringenti.

Terzo racconto, A Long List of Good Reasons Why Not, e nuovo diverso approccio, una tendenza al caos e a volte allo scarabocchio che non ci si preoccupa di tenere a bada, utile per esprimere sentimenti contrastanti e soprattutto la difficoltà e la goffaggine nell’affrontare situazioni reali come ambientarsi in un nuovo contesto, cambiare lavoro, far accettare la propria omosessualità ai familiari. Nonostante le diverse scelte grafiche e stilistiche alla fine M è un lavoro coeso, anche grazie ai collegamenti tra i diversi episodi, con Leo che sembra quantomeno assomigliare al protagonista del secondo racconto e lo stesso M al centro del terzo insieme al collega e poi compagno Bernard.

La coppia M-Bernard è protagonista assoluta delle prime tre storie di N, gemello dell’albo precedente per pagine e formato. Difficile analizzare separatamente questo trittico, che approfondisce i temi del ritorno a casa, della famiglia, di quanto sia difficile rapportarsi e raccontarsi agli altri, a volte in maniera più metaforica – come nell’iniziale Nowhere – altre in modo più diretto, come accade in Not For Long, in cui l’incompiuto protagonista raggiunge finalmente una sorta di maturazione. Il cuore è ancor di più l’incapacità di parlare della propria omosessualità ai familiari, il tono è sempre sommesso, mai drammatico. La centrale Nightly è invece un intermezzo domestico che poco aggiunge al resto. Lo stile di queste tre storie è del tutto omogeneo, con vignette dallo sfondo monocolore che alternano verde, blu scuro e arancio con qualche variazione di tonalità.

La conclusiva Nine Billion Grains of Sand si discosta invece dal resto dell’albo utilizzando di nuovo colori pastello, linee sfocate e una griglia fissa di 2 x 3 vignette, proponendosi come gemella della prima storia di M anche nella tematica del confronto fra due personaggi e chiudendo dunque il cerchio. White sceglie di chiosare sui temi più che sulla semplice narrazione, facendoci assistere a un tentativo di ideale riscatto del personaggio deluso di Clogged Drains, Forgotten Words ma in uno scenario post-bellico, quasi astratto.

Nel complesso meno riuscito dell’albo precedente, anche per qualche passaggio a vuoto nella rappresentazione della figura umana (al momento un punto debole dell’autore, soprattutto quando decide di utilizzare un tratto più definito), N conferma comunque White come una delle voci più interessanti della scena nordamericana contemporanea, sia per contenuti che per la tenace volontà di perseguire la propria poetica al di fuori di ogni corrente e moda.

Il meglio del 2017 (forse)

Si sa che le liste di fine anno sono un esercizio stupido e i motivi sono molteplici e talmente scontati che non vale nemmeno la pena elencarli. Quest’anno avevo giurato di risparmiarmi questa simpatica tradizione ma, complice la febbre che mi ha preso a cavallo tra Natale e Capodanno, alla fine ho deciso che no, non potevo farne proprio a meno. Il mio principale rammarico è di non essere riuscito a leggere veramente tutto quello che avrei potuto e quindi ho probabilmente in libreria (o negli scatoloni, o nei cassetti della biancheria ma vabbè, questa è un’altra storia) albi o volumi ancora intonsi che avrebbero meritato di entrare in questa lista. Ma alla fine la vita va anche vissuta, non solo letta.

Dopo questa pillola di saggezza, e dopo aver ribadito come sempre che ogni lista di questo genere è innanzitutto condizionata dai pregiudizi di chi la fa (e nel mio caso dal fatto che l’86% dei fumetti che leggo sono americani), rompo il ghiaccio con due titoli decisamente fuori dal comune di due mostri sacri dei comics (e non solo), entrambi pubblicati da Fantagraphics Books. Gary Panter ha dato fine alla sua trilogia dantesca con un libro sul Paradiso che non vede però più protagonista Jimbo ma un hillbilly di nome Songy. Songy of Paradise è come i precedenti Jimbo’s Inferno e Jimbo in Purgatory un volume di grande formato ma poche pagine (si tratta di sole 32 tavole) che con illustrazioni ariose e quasi pulite per lo standard dell’autore coverizza il poema di John Milton Paradiso riconquistato. Un fumetto pazzo, apparentemente esile ma fortemente politico, che fa piazza pulita di ogni distinzione tra arte alta e bassa e dentro cui ci si perde con estrema facilità.

Altro libro che guarda oltre i confini del medium è Whatsa Paintoonist di Jerry Moriarty, sin dal titolo una fusione tra “painter” e “cartoonist”, come conferma l’alternanza tra pagine con grezzi disegni a inchiostro e splendidi dipinti a colori nella tradizione di Hopper e del realismo americano. Il volume è una sorta di testamento artistico e spirituale in cui il quasi 80enne Moriarty guarda ancora una volta alla sua storia personale e all’evento che più di tutti l’ha segnata, la morte del padre avvenuta quando il Nostro aveva soltanto 13 anni. Riletto insieme al volume del 2009 The Complete Jack Survives (raccolta delle strisce ironiche e al tempo stesso amare pubblicate su Raw negli anni ’80, purtroppo di difficile reperibilità), Whatsa Paintoonist risulta ancor più potente e fondamentale.

In un anno in cui le classifiche d’oltreoceano sono dominate da My Favorite Thing is Monsters di Emil Ferris, che personalmente mi ha lasciato più di qualche perplessità, scelgo piuttosto un’altra fumettista tra i primissimi nomi di questa lista: Everything is Flammable di Gabrielle Bell (Uncivilized Books) è uno dei suoi lavori migliori di sempre e racconta, con una maturità e una consapevolezza mai viste prima, il recente periodo in cui la protagonista-autrice si è dovuta relazionare costantemente alla madre. Una gradita conferma è Fante Bukowski Two di Noah Van Sciver (ancora Fantagraphics), molto più divertente del primo, a tratti esilarante, a volte anche profondo (ne avevo parlato brevemente qui).

Tra i tanti bei libri pubblicati da Koyama Press, ne spiccano a mio parere due: Anti-Gone di Connor Willumsen e Old Ground di Noel Freibert, che avevo letto in anteprima in pdf e di cui già vi dicevo qualcosa parlando dei 10 fumetti della Small Press Expo 2017. Se vi siete stufati di leggere sempre la stessa roba e cercate un po’ di cartooning originale qui lo troverete, con il primo dei due che in particolare riesce a sintetizzare le tendenze di tanto fumetto post-fantascientifico contemporaneo (quello, per capirci, di antologie come Mould Map #3, Dôme, Berserker o di etichette come Decadence Comics).

Oppure potreste rivolgervi all’olandese Michiel Budel e al suo Francine, di cui parlavo sempre in occasione della SPX. La raccolta delle sue “franzine” data alle stampe dall’americana Secret Acres è già un cult con la sua monella protagonista e le altrettanto dinoccolate amiche, intente a riempire le serratissime vignette di scherzi al di sopra ogni decenza, trovate assurde, stramberie metanarrative. Qualcosa di simile fa anche August Lipp nel suo Roopert, albetto uscito verso la fine dell’anno per Revival House Press, uno di quei fumetti pazzi che piacciono tanto a me, con personaggi cartoon apparentemente innocui che ne combinano di tutti i colori finendo per allagare la scuola in un fiume (letteralmente) di merda.

Altra novità di fine anno è Sunday #1, il nuovo comic-book di Olivier Schrauwen, primo capitolo del nuovo progetto del fumettista belga, che si propone questa volta di raccontare l’intera giornata del fantomatico cugino Thibault Schrauwen. Qui leggiamo soltanto cosa succede dalle 8.15 alle 10.15 quindi la strada è ancora lunga, ma già il livello è altissimo, con la solita incredibile abilità nel mettere in pagina i ghirigori mentali dei personaggi.

Mi rendo conto dalle mie scelte che preferisco sempre più i fumetti con una logica tutta loro, autoreferenziali, chiusi in se stessi. E allora come posso non citare Iceland di Yuichi Yokoyama, che Retrofit Comics ha meritevolmente proposto al pubblico americano? L’enigmatica storia ambientata tra i ghiacci crea suspense, costruisce mistero e regala un paio di sequenze cinematiche da ascrivere agli annali. Ah, per chiudere, dopo un giapponese, ecco un messicano, ossia Abraham Diaz, che quest’anno ha fatto anche una puntata in Italia. Tempo fa avevo parlato del suo Suicida, ora alcuni di quei fumetti, insieme ad altro materiale, sono stati pubblicati dalla spagnola Ediciones Valientes in Tonto, un volume bilingue pirotecnico per scelte grafiche e tipografiche, che rende giustizia agli sberleffi underground e alle linee impazzite dell’autore.

Veniamo adesso alle antologie. La migliore dell’anno viene ancora dai francesi di Lagon, che se all’inizio del 2016 ci avevano deliziato con Dôme, nel gennaio scorso hanno fatto uscire Gouffre, 300 pagine di roba talmente bella che fate prima a vederla qui. Il 2017 ha segnato anche il debutto della nuova antologia della Fantagraphics, Now, il cui #1 ha mantenuto le promesse grazie a nomi noti e meno noti (per la cronaca i due lavori più significativi all’interno mi sembrano quelli di J.C. Menu e Noah Van Sciver). E speriamo che il livello qualitativo continui a crescere nei prossimi numeri, dato che nel 2018 dovremmo vederne ben tre.

Non so se possa essere considerato giusto mettere una raccolta di materiale pubblicato tra il 2015 e il 2016 in questa lista, ma The Best American Comics 2017 è per larghi tratti una vera bomba e il perché l’ho spiegato in questo post. A proposito di raccolte di materiale già pubblicato, la citazione è d’obbligo per l’operazione da vero archeologo del self-publishing messa in piedi da John Porcellino, che ha ristampato gli oscuri e ormai introvabili primi numeri della fanzine di Jenny Zervakis nel volume The Complete Strange Growths 1991-1997. Anche di questo avevo già parlato in un’apposita recensione. Archeologia transcontinentale è invece quella della New York Review Comics che ha recuperato i fumetti risalenti agli anni ’70 della francese Nicole Claveloux dandogli meritata pubblicazione oltreoceano. The Green Hand and Other Stories, con grafica e introduzione di Daniel Clowes, è particolarmente rilevante per la storia che gli dà il titolo, scritta dalla fumettista insieme a Edith Zha e pietra miliare del fumetto onirico/psichedelico/introspettivo.

Infine, come non citare Monograph di Chris Ware? Il volume formato gigante (ma davvero gigante, dato che pesa più di 3 kg ed è alto quasi 50 cm) è più un libro sui fumetti che un’antologia vera e propria ma va da sé che non può mancare nella collezione di qualsiasi appassionato di Ware con i suoi dietro le quinte, le riflessioni, gli inediti, gli sketch, le foto, gli estratti e addirittura gli inserti in formato mini-comic.

Siamo dunque arrivati a 17 fumetti e qui mi fermo, perchè 17 per il 2017 è perfetto per me che sono un amante della simmetria. Ma non è finita qui, perché il dovere mi impone di dare un’occhiata anche a quanto successo in Italia. Non sono un patriota né l’esperto numero uno dell’editoria nostrana quindi se dimentico qualcosa, cari amici in ascolto, abbiate pietà. E se c’è un’altra cosa di cui non sono esperto è il fumetto giapponese, ma su internet ognuno può dire la sua e quindi ne approfitto per dichiarare che l’evento editoriale dell’anno è stata la pubblicazione da parte di Canicola de L’uomo senza talento di Yoshiharu Tsuge, semplicemente un capolavoro del fumetto di sempre. Punto. Altre due operazioni editoriali degne di nota sono state poi le traduzioni di due fumetti che erano nei miei Best Of degli anni passati (rispettivamente 2014 e 2015) e a cui ho dedicato più di qualche riflessione da queste parti, ossia I dilettanti di Conor Stechschulte portato in Italia da 001 Edizioni e Colville di Steven Gilbert pubblicato da Coconino Press. Già dovreste sapere tutto ma ai più disattenti segnalo l’intervista a Stechschulte pubblicata in occasione della sua mostra al BilBOlbul di quest’anno, la recensione di Colville scritta a suo tempo da Ratigher su queste pagine e l’intervista a Gilbert che di recente ho tradotto in italiano. Se non li avete ancora letti, prima pentitevi e poi correte in edicola. E a proposito di BilBOlbul, a Bologna quest’anno c’era anche una ricchissima mostra dedicata al belga Eric Lambé, autore insieme a Philippe de Pierpont di Paesaggio dopo la battaglia, libro che sembra nelle premesse eccessivamente melodrammatico (cosa che spesso mi tiene a debita distanza) ma che invece traduce la tensione in un paesaggio interiore di indiscutibile bellezza, profondità e simbolico mistero, risultando tutt’altro che scontato e consolatorio. Da non perdere, sperando che sia il primo di tanti libri Frémok ad arrivare qui da noi, perché se c’è un editore che ha spinto il fumetto europeo oltre i suoi limiti è senz’altro questo (va detto a onor di cronaca che Paysage era una coproduzione con Actes Sud).

Sempre Coconino, che difficilmente poteva iniziare meglio il suo nuovo corso editoriale, ha dato luogo a un paio di operazioni di recupero davvero notevoli, prima ristampando, con l’aggiunta di inediti mai visti in Italia, le Storie di David Mazzucchelli risalenti ai tempi di Rubber Blanket (e una raccolta del genere non ce l’hanno nemmeno negli USA), poi portando finalmente da noi Patrice Killoffer con 676 apparizioni di Killoffer, che qui definivo “un viaggio dentro la paranoia, la misoginia e le ossessioni del protagonista rappresentato con un susseguirsi di trovate grafiche geniali”.

Visto che siamo in tema di recuperi, come non citare anche il primo volume dell’American Flagg! di Howard Chaykin, che torna in Italia dopo la prima pubblicazione sulla storica All American Comics della Comic Art? Se pensate che Frank Miller con The Dark Knight Returns si sia inventato tutto ma proprio tutto tutto, guardate e leggete questa roba qui e poi ne riparliamo. Ah, certo, la carta scelta da Editoriale Cosmo per l’edizione non è il massimo e il volume dopo un po’ sembra il mare della California ma vabbè, devo dire che si è visto di peggio. E’ invece un’edizione identica all’originale quella di Oblomov per Quimby The Mouse di Chris Ware, che raccoglie materiale dei primi anni ’90 tratto da Acme Novelty Library e da altre pubblicazioni in cui l’autore unisce la solita passione per introduzioni magniloquenti, colophon interminabili e false pubblicità con memorie di infanzia e riletture di genere, utilizzando uno stile ripreso per lo più dalle strip alla Krazy Kat ed elevato a pura ingegneria a fumetti. Peccato per qualche refuso di troppo, che non compromette la lettura ma che comunque sarebbe stato meglio evitare in un’edizione di tale pregio.

Ok, mi rendo conto di non aver scelto nemmeno un titolo di autori italiani ma non è stato a mio parere un grande anno per le opere made in Italy, o forse sono io che in quasi tutte quelle che ho letto ho trovato motivi di insoddisfazione. Due per me sono nettamente una spanna sopra le altre, e si distinguono per aver scelto modi altri per raccontare una storia, al di fuori di ogni tentazione di linearità (e a volte banalità). The Rust Kingdom di Spugna, edito da Hollow Press e già segnalato tra i 10 fumetti di Lucca Comics, è una potente mazzata in stile cartoon underground in cui l’autore si fa strada tra pezzi di carne maciullata per costruire un’avvincente trama post-fantasy con tanto di colpo di scena finale.

Cry Me a River di Alice Socal, edito da Coconino, è a sua volta un libro chiuso in se stesso, che si concentra però non sui corpi ma sulle emozioni dei protagonisti, una coppia colta nel momento della fine dell’amore. La sofferenza e le lacrime si trasformano in splendidi e visionari disegni, in un’opera che ci ricorda quello che si può fare con il fumetto. E a questo punto è tutto, buon 2018 e saluti a casa.

Torna il Buyers Club con “Now” #1

La terza edizione del Just Indie Comics Buyers Club si apre con il primo numero di Now, l’antologia pubblicata da Fantagraphics che al suo debutto mette insieme il meglio del fumetto americano e non solo, con sostanziosi contributi di autori come Eleanor Davis, Dash Shaw, J.C. Menu, Noah Van Sciver, Tommi Parrish, Daria Tessler, Malachi Ward & Matt Sheean, Antoine Cossé e fugaci apparizioni di fuoriclasse come Sammy Harkham e Gabrielle Bell. “Voglio realizzare un’antologia che sembri invitante per un lettore occasionale di fumetti ma che al tempo stesso lo sfidi man mano che va più a fondo – scrive l’editor Eric Reynolds nell’introduzione – Voglio promuovere un revival della storia breve nell’era dei graphic novel. Voglio dare spazio a una raccolta di cartoonist e di fumetti più eterogenea possibile, una che fornisca un ampio spettro di ciò che il medium è in grado di offrire”. Una missione, questa, che è facilmente assimilabile a quella del Buyers Club, ossia dare diffusione a segni, storie, stili e generi che si vedono poco in Italia, favorendo il buon vecchio comic book, o anche l’antologia appunto, rispetto al più inflazionato formato del graphic novel.

Per chi ancora non lo sapesse, il Just Indie Comics Buyers Club è un abbonamento che ho lanciato nel 2016 per sostenere il negozio on line in cui distribuisco materiale americano difficilmente reperibile in Europa, oltre che vari prodotti italiani ed europei di case editrici e micro-realtà a me affini. La formula è la stessa degli anni passati e dunque mi limito a ribadire quanto già detto. Chi aderirà entro il prossimo 10 gennaio riceverà uno o due fumetti ogni tre mesi, a seconda della tipologia di abbonamento scelto, e avrà inoltre diritto a uno sconto del 10% su tutto il materiale ordinato dal sito nel corso del 2018 tramite un apposito codice promozionale che verrà comunicato via mail. La prima spedizione sarà a gennaio, le successive ad aprile, luglio e ottobre. I fumetti saranno per lo più americani, a volte europei, ma sempre e comunque in lingua inglese. Come accennato, esistono due soluzioni per aderire al Just Indie Comics Buyers Club. La prima, quella più economica, viene 40 euro e dà diritto a ricevere un albo a trimestre, spese di spedizione tramite piego di libri ordinario incluse. La seconda, che invece è la versione estesa dell’abbonamento, consentirà di avere in ogni invio due fumetti, per un totale di otto albi annui, e costa 70 euro, con la spedizione sempre inclusa. Se invece della spedizione ordinaria preferite quella tracciata tramite raccomandata, basta segnalarlo al momento del checkout dell’ordine, anche se chiaramente ci sarà un surplus da pagare.

Come lo scorso anno, i fumetti della formula Small saranno uguali per tutti e verranno annunciati e presentati sul sito. I sottoscrittori Large avranno lo stesso fumetto degli Small più un altro che potrà variare da abbonato ad abbonato. Potrete trovare degli spillati di piccolo o grande formato, volumi, volumetti, antologie, tabloid e così via, pubblicati da piccole case editrici indipendenti o autoprodotti. E ovviamente sono aperto a vostri suggerimenti, richieste e idee di ogni tipo o quasi.

Per farvi capire qual è il materiale che vi aspetta se decidete di entrare nel club, ecco il dettaglio dei fumetti inviati durante questo 2017. Blammo #9 di Noah Van Sciver, Get Out Your Hankies di Gabrielle Bell, Our Mother di Luke Howard e i mini kuš! #55-58 a firma GG, Andrés Magán, Evangelos Androutsopoulos e Patrick Kyle sono stati gli albi spediti a tutti. Quelli variabili per gli abbonati formato Large sono stati invece Harold di Antoine Cossé, Hellbound Lifestyle di Alabaster Pizzo e Kaeleigh Forsyth, King-Cat #77 di John Porcellino, l’antologia The Black Hood, Lovers in the Garden di Anya Davidson, Dark Tomato di Sakura Maku, Space Basket di Jonathan Petersen, Tintering di Conor Stechschulte, World in the Forcefield di Alexander Tucker, Freddy Stories di Melissa Mendes, Libby’s Dad di Eleanor Davis, Port Stanley di Steven Gilbert, Face Man di Clara Bessijelle.

Qui sotto trovate i link per abbonarvi. Ripeto, se vi interessa affrettatevi perché sarà possibile aderire SOLTANTO FINO AL 10/01/2018. L’offerta con queste modalità è valida per i soli residenti in Italia, se invece siete residenti all’estero e siete interessati potete contattarmi a justindiecomics [at] gmail [dot] com e vedrò cosa si può fare.

JUST INDIE COMICS BUYERS CLUB LARGE

JUST INDIE COMICS BUYERS CLUB SMALL

L’underground al Borda!Fest

Un viaggio nell’underground di una volta a un festival che è underground, ancor prima che nei contenuti, nel luogo e nei tempi, dato che prende vita sotto le mura di Lucca, al Baluardo San Martino, e perché ha la faccia tosta di programmarsi ogni anno in concomitanza con il Festival dei Fumetti in Italia, ossia Lucca Comics. Per il primo anno Just Indie Comics sarà al Borda!Fest e lo farà con una selezione delle solite pubblicazioni vecchie, nuove, italiane e straniere che più o meno già conoscete se seguite questo sito e se date ogni tanto un’occhiata allo shop on line, ma non solo… In esclusiva per il Borda! ho infatti pensato di portare in Italia qualche chicca dell’underground statunitense degli anni andati, riviste e comic-book che rappresentano in qualche modo la storia di un genere, anche se è davvero riduttivo definirlo tale. Per lo più si tratta di spillati che propongono con orgoglio l’ormai poco commerciale format dell’antologia, che invece tanto piace agli appassionati, mentre in un paio di  casi siamo di fronte a recuperi d’epoca di mostri sacri del fumetto a stelle e strisce. Ma prima di vedere di cosa si tratta una COMUNICAZIONE DI SERVIZIO: il Borda! si terrà dal 2 al 5 novembre ma io potrò esserci soltanto venerdì 3 e sabato 4 dalle 14 alle 20, quindi se vi interessa trovare il materiale di Just Indie Comics fatevi vedere in quei giorni, a quell’ora e soprattutto in quel posto… Per i dettagli sulla manifestazione vi rimando invece alla pagina Facebook e al sito dell’edizione 2017. E ora possiamo cominciare…

Zap Comix #7 – Non si tratta della prima edizione, ovviamente diventata oggetto da collezione, ma di una ristampa di Zap Comix, la rivista lanciata da Robert Crumb nel 1968 e diventata il motore della rivoluzione underground. Questa settima uscita risale al 1974 e mette insieme lavori di S. Clay Wilson, Spain Rodriguez, Gilbert Shelton, Rick Griffin e Victor Moscoso, oltre allo stesso Crumb che partecipa con Mr. Natural meets “The Kid” e l’autoironica R. Crumb presents R. Crumb.

Wimmen’s Comix #7 – Se Zap sconfiggeva i luoghi comuni sul fumetto proponendo contenuti diversi da quelli a cui era abituato il pubblico mainstream, con Wimmen’s Comix si andava anche oltre, superando le usuali convenzioni di genere. Zap era infatti innovativo, trasgressivo, rivoluzionario ma i suoi autori erano tutti… uomini. C’era dunque bisogno di fumetti che rappresentassero com’erano le donne degli anni ’70 e che non avessero paura di mettere in primo piano la loro sessualità. Tra le collaboratrici di questo numero 7, datato 1976, troviamo Joyce Farmer, Terry Richards, Dot Bucher, la Roberta Gregory nota per la serie anni ’90 Naughty Bits e  Melinda Gebbie, poi diventata collaboratrice (Lost Girls, Cobweb) nonché moglie di Alan Moore.

Hup #1 – Qui siamo davanti a una rarità, perché questo non è un albo facilissimo da trovare in giro. Si tratta della prima edizione di Hup di Robert Crumb, spillato edito da Last Gasp nel 1987 e che raccoglie alcune storie del Nostro al meglio delle sue capacità artistiche, con uno stile che negli anni si è fatto ricco, dettagliato, elegante. Dentro ci trovate i Rough-Tuff Cream-Puffs, Mr. Natural e i ben noti “troubles with women”. Insomma, un pezzo di storia del fumetto nella sua forma originale.

Weirdo #20Weirdo è stata tra gli anni ’80 e i primi ’90 la sorella di Zap Comix, alternando come editor lo stesso Crumb, Peter Bagge e Aline Kominsky-Crumb ma proponendo, accanto ai soliti noti, autori promettenti che sarebbero diventati famosi di lì a breve. Questa ventesima uscita, datata nuovamente 1987, presenta un ricco cast composto tra gli altri da Dori Seda, Mary Fleener, Mark Zingarelli, la stessa Aline Kominsky-Crumb e ovviamente suo marito, autore della copertina e del cult Footsy, incentrato sulla sua passione per i piedi femminili.

Young Lust #8 – Facciamo un salto negli anni ’90 per arrivare all’ultimo numero di un’altra storica antologia, dedita alla rilettura in chiave underground dei temi dei romance comics. Questa ottava uscita, datata 1993, è l’ultima della serie e nasconde dietro una bella cover di un giovane Daniel Clowes contributi dell’editor Jay Kinney, Bill Griffith, Spain e di un certo Charles Burns, autore di una pagina dal titolo Love Diary che parte dalla sua passione per le storie d’amore anni ’50 per anticipare le trovate dei lavori futuri.

 

Mr. A #2 – E ora un passo indietro nel tempo con un albo che poco c’entra con i precedenti. Outsider del fumetto per eccellenza, dopo aver rotto con la Marvel Steve Ditko si dedicò alla collaborazione con case editrici come Charlton, Warren e Dc Comics. Nel frattempo creò anche il personaggio di Mr. A, territorio per sviluppare le sue idee filosofiche, che riprendevano la teoria dell’oggettivismo di Ayn Rand. Qui il secondo numero datato 1976, pieno di vignette densissime di testo e caratterizzate dal tratto inconfondibile di Ditko.

10 fumetti da sfogliare a Lucca Comics

In extremis, come già hanno fatto tutti i i più prestigiosi siti d’informazione, propongo anche io la mia breve e sintetica lista dei fumetti da sfogliare a Lucca Comics. Dico “da sfogliare” e non “da comprare” perché, se c’è una cosa che ho imparato nella vita, è che SFOGLIARE E’ GRATIS COMPRARE COSTA. I titoli sono ordinati in rigoroso ordine alfabetico e sono tutte novità dell’ultima ora tranne un paio di volumi già usciti da qualche settimana ma su cui mi è sembrato il caso di soffermarsi. Buona lettura.

 

133 – One Dirty Tree (Oblomov Edizioni) – Un nuovo fumetto di Noah Van Sciver visto solo su Patreon e pubblicato in esclusiva da Oblomov, grande colpo per la nuova casa editrice di Igort, che arriva a Lucca con una quantità impressionante di novità. L’autore di Blammo e Fante Bukowski guarda alla sua gioventù, alla storia della sua famiglia e a una relazione finita in quello che si annuncia come un romanzo di formazione a fumetti. Da non perdere anche perché su carta è un inedito assoluto, senza ancora alcun piano di pubblicazione negli Stati Uniti.

676 apparizioni di Killoffer (Coconino Press) – Una recensione che lessi non mi ricordo bene dove definiva questo libro “come se Tarantino avesse scritto L’apprendista stregone di Walt Disney”. Difficile trovare parole migliori per raccontare a grandi linee questo fumetto, primo di Patrice Killoffer ad arrivare in Italia. Unico nel suo genere, è un viaggio dentro la paranoia, la misoginia e le ossessioni del protagonista rappresentato con un susseguirsi di trovate grafiche geniali.

American Flagg vol. 1 (Editoriale Cosmo) – Arriva quello che dovrebbe essere il primo volume della ristampa integrale dell’American Flagg di Howard Chaykin, un’iniziativa editoriale che se rispettasse le sue promesse sarebbe a dir poco lodevole, dato che una riedizione completa di questa serie distopica anni ’80 non esiste nemmeno negli Stati Uniti. Da verificare prima dell’acquisto la qualità dell’edizione, perché la carta e la stampa scelte da Editoriale Cosmo non sempre hanno convinto.

Collezione Crumb Vol. 4 – Mr. Natural (Comicon Edizioni) – Quasi trecento pagine tutte dedicate a Mr. Natural nel quarto volume della Collezione Crumb, che debuttò proprio a Lucca tre anni fa alla presenza dell’autore. Da allora le uscite procedono a rilento ma procedono, e dopotutto è questo che importa. Tuffatevi nel pazzo mondo hippy del mistico filosofo fricchettone cialtrone più undeground di tutti i tempi.

Drinking at the Movies (Eris Edizioni) – Dopo i libri di Michael DeForge e Jesse Jacobs, continua la collaborazione di Eris con la casa editrice canadese Koyama Press. Ad arrivare in Italia è stavolta Drinking at the Movies di Julia Wertz, autrice che rappresenta una delle voci più interessanti dell’autobiografia a fumetti contemporanea, oltreché abilissima illustratrice della New York meno convenzionale, come testimonia la recente raccolta Tenements, Towers & Trash. E New York è protagonista anche di questo volumetto, che racconta il trasferimento dalla familiare San Francisco alle strade sconosciute della Grande Mela, tra lavori sfigati, appartamenti luridi, sbronze e via dicendo. Insomma, il solito pacchetto ma fatto bene.

The End of the Fucking World (001 Edizioni) – Qualche copia si era vista in sordina già al Treviso Comic Book Festival, ma Lucca dà di nuovo modo di sottolineare la coraggiosa operazione di 001, che porta in Italia l’opera di esordio di Charles Forsman. Uscito prima sotto forma di mini-comics autoprodotti e poi raccolto in volume da Fantagraphics, TEOTFW è un romanzo di formazione del tutto maturo sul piano della forma quanto spiazzante per i contenuti, in cui il passaggio dall’intimismo all’anaffettività fino alla violenza brutale avviene in un batter di ciglia.

Paesaggio dopo la battaglia (Coconino Press) – Capisco più di X-Men che di fumetto belga, ma questo volume targato Fremok che ha vinto il Fauve d’Or ad Angoulême 2017 si preannuncia visivamente affascinante quanto formalmente interessante. Vale la pena sicuramente darci un’occhiata, anche perché il disegnatore Éric Lambé (autore dell’opera insieme allo sceneggiatore Philippe de Pierpont) sarà ospite con una mostra al prossimo BilBOlbul.

Psycho (Eris Edizioni) – Dopo la mostra vista a Carrara, Roma e Macerata, torna anche in libreria l’arte del Prof. Bad Trip. Psycho è il primo di una serie di volumi annunciati da Eris e presenta, oltre al fumetto omonimo, la storia breve Kathodic Karma e un testo critico di Vittore Baroni. Il volume è disponibile anche in un’edizione limitata di 250 copie con copertina serigrafata da Stranedizioni.

Quimby The Mouse (Oblomov Edizioni) – In attesa di vedere Building Stories, da tempo annunciato per Bao, ci pensa Oblomov a pubblicare finalmente in Italia un’altra opera di Chris Ware. Quello dedicato al topo Quimby è un volume oversize che raccoglie materiale dei primi anni ’90 tratto da Acme Novelty Library e da altre pubblicazioni, in cui Ware riprende lo stile delle strip alla Krazy Kat rendendolo dettagliatissimo. Esistenzialismo e perfezionismo vanno a braccetto in un dualismo talmente riuscito da risultare – almeno per me – inquietante.

The Rust Kingdom (Hollow Press) – Il nuovo libro di Spugna, secondo lavoro sulla lunga distanza dopo Una brutta storia del 2014, ha debuttato già al Treviso Comic Book Festival con tanto di mostra di tavole originali ma qui è il caso di tornarci perché in Italia trovare un fumetto così è raro. E per “così” intendo un fumetto che rifiuta ogni forma di realismo per chiudersi nel suo mondo fatto di carne macellata, in cui tra un taglio d’ascia e uno di spada si insinua un plot che smorza con spirito nichilista le suggestioni fantasy. E l’autore si conferma anche maestro dei finali a sorpresa, cosa non certo da tutti.